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Accertamento amministrativo e penale dell'illecito in materia di Imposte Dirette e di Imposta sul Valore Aggiunto: interferenze procedimentali.

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ACCERTAMENTO AMMINISTRATIVO E PENALE DELL’ILLECITO IN MATERIA DI

IMPOSTE DIRETTE E DI IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO: INTERFERENZE

PROCEDIMENTALI.

INDICE

CAPITOLO PRIMO

EVOLUZIONE DEL SISTEMA DI REPRESSIONE DELL’ILLECITO TRIBUTARIO E DEI RAPPORTI TRA IL PROCEDIMENTO E IL PROCESSO TRIBUTARIO ED IL PROCEDIMENTO ED IL PROCESSO PENALE

1. La Legge 7 gennaio 1929, n. 4 quale norma generale sull’illecito tributario: la sanzione comminata per le violazione delle norme finanziarie è pecuniaria e nasce la pregiudiziale tributaria con riferimento all’accertamento degli illeciti penali in materia di imposte dirette... 4 2. Dalla fine degli anni ’30 alle riforme degli anni ’70: accanto a sanzioni pecuniarie appare la sanzione detentiva, il giudice tributario diviene un giudice speciale e la pregiudiziale tributaria amplia la propria sfera di applicabilità all’accertamento delle violazioni delle norme sull’I.v.a. ... 11 3. La legge 516/1982: nuova concezione del reato tributario e l’abolizione della pregiudiziale tributaria.17 4. Il D.Lgs. n. 472/1997 e la L. n. 74/2000: sanzione unica. ... 21 5. L’ultima riforma del processo tributario e del processo penale e l’art. 20, D.Lgs. n. 74/2000: prime osservazioni sul doppio binario e piano dell’opera... 28

CAPITOLO SECONDO

IL NE BIS IN IDEM TRA SANZIONE AMMINISTRATIVA E SANZIONE PENALE

1. Le violazioni tributarie, amministrative e penali, riferite alla medesima condotta nell’ordinamento interno. ... 32 2. Il ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo: dalla sentenza Engel al caso Grande Stevens... 36 3. La giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea: il caso Aklagaren c. Hans Akeberg Fransson... 40 4. I possibili riflessi della giurisprudenza C.EDU sul sistema repressivo tributario interno... 41

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CAPITOLO TERZO

LE INTERFERENZE TRA PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO E PROCEDIMENTO PENALE NELLA FASE DI ACCERTAMENTO DELLE VIOLAZIONI TRIBUTARIE

1. L’accertamento delle violazioni tributarie. ... 49

2. L’istruttoria amministrativa e le indagini preliminari... 50

3. La giurisprudenza della C. EDU in materia di utilizzo di poteri istruttori... 51

3.1. La giurisprudenza C.EDU in materia di controversie tributarie. ... 52

3.2. Applicabilità della giurisprudenza C.EDU alle controversie tributarie interne. ... 53

3.3. Il rilievo della giurisprudenza C.EDU nel procedimento tributario: parametro di incostituzionalità (o di disapplicazione) della norma interna contraria?... 54

4. Indagine penale ed indagine amministrativa ed il diritto di non autoaccusarsi. ... 58

4.1. Applicabilità del principio del nemo tenetur se detegere nelle verifiche amministrative tributarie nella giurisprudenza C.EDU. ... 59

4.2. Applicabilità del principio del nemo tenetur se detegere nell’ordinamento giuridico interno... 61

4.3. Costituzionalità della normativa procedimentale interna alla luce della sentenza Chambaz... 62

5. L’art. 20, D.Lgs. 74/2000 e le sue deroghe. ... 64

6. Riflessi dell’emersione di indizi di reato nell’indagine amministrativa... 66

6.1 I termini per la notifica dell’avviso di accertamento in caso di denuncia penale ex art. 331 c.p.p. relativa ad uno dei reati di cui al D.Lgs. n. 74/2000. ... 66

6.2. Mancato rispetto del termine di cui all’art. 12, c. 7, L. 212/2000 ... 73

6.3. Circolazione del materiale probatorio dall’indagine penale al procedimento amministrativo di accertamento... 75

6.4. Mancato rispetto delle garanzie del c.p.p. a tutela dell’indagato e l’utilizzabilità delle prove nel procedimento amministrativo. ... 81

7. Ingresso in sede penale degli atti acquisiti o formati nel corso del procedimento tributario. ... 83

7.1. Indagini preliminari... 83

7.2. Il giudizio abbreviato. ... 83

7.3. Il dibattimento. ... 84

8. Circolazione del materiale probatorio dalla verifica amministrativa al processo penale. ... 84

9. Cenni sui rapporti tra processo penale e processo tributario... 87

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9.2 Efficacia dell’accertamento tributario nel processo penale. ... 90

CONCLUSIONI... 92

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CAPITOLO PRIMO

EVOLUZIONE DEL SISTEMA DI REPRESSIONE DELL’ILLECITO TRIBUTARIO E DEI RAPPORTI TRA IL PROCEDIMENTO E IL PROCESSO TRIBUTARIO ED IL PROCEDIMENTO ED IL PROCESSO PENALE

1. La Legge 7 gennaio 1929, n. 4 quale norma generale sull’illecito tributario: la sanzione comminata per le violazione delle norme finanziarie è pecuniaria e nasce la pregiudiziale tributaria con riferimento all’accertamento degli illeciti penali in materia di imposte dirette; - 2. Dalla fine degli anni ’30 alle riforme degli anni ’70: accanto a sanzioni pecuniarie appare la sanzione detentiva, il giudice tributario diviene un giudice speciale e la pregiudiziale tributaria amplia la propria sfera di applicabilità all’accertamento delle violazioni delle norme sull’I.v.a.; - 3. La legge 516/1982: nuova concezione del reato tributario e l’abolizione della pregiudiziale tributaria; - 4. Il D.Lgs. 472/1997 e la L. n. 74/2000: sanzione unica; - 5. L’ultima riforma del processo tributario e del processo penale e l’art. 20, D.Lgs. n. 74/2000: prime osservazioni sul doppio binario e piano dell’opera.

1. La Legge 7 gennaio 1929, n. 4 quale norma generale sull’illecito tributario: la sanzione comminata per le violazione delle norme finanziarie è pecuniaria e nasce la pregiudiziale tributaria con riferimento all’accertamento degli illeciti penali in materia di imposte dirette.

Prima della riforma del ‘29 ogni legge che istituiva un tributo prevedeva, in autonomia, sia le sanzioni volte a reprimere le violazioni delle leggi finanziarie sia il

procedimento di accertamento e applicazione delle stesse1.

1

STELLO, Sanzioni Tributarie (contributo alla teoria generale), Nss. D.I. XVI, 1969, pag. 612. BOBBIO, Sanzione, Nss. D.I., XVI, 1969, pag. 530; E. FERRI, Sulla natura giuridica delle sanzioni fiscali prima della legge 7 gennaio 1929, n. 4, Sociologia del diritto tributario – Le fonti letterarie a cura di D’Amati, vol. III, Procedimento e sanzioni, Bari, 1979, pag. 44 e ss.; G. CARANO DOVITO, Trattato di diritto penale finanziario, vol. 2, Torino, 1904; VIGNOLI, Del così detto reato fiscale, Brescia, 1905; G. FLORA, Profili penali in materia di imposte dirette ed Iva, Padova, 1979; L. VINCIGUERRA, Voce Reato tributario, Nviss. Dig. It., vol. XIV, Torino, 1967; Si veda, altresì, F. DE MATTEIS, Manuale di diritto penale tributario, Torino, 1933.

Le disposizioni sulle violazioni finanziarie, invero, non risultavano di agevole applicazione in quanto si innestavano in un sistema nel quale, in assenza di una chiara opzione legislativa, la differenza tra sanzioni “amministrative” (definite dalle norme quali obbligazioni di carattere civile) e sanzioni penali era lasciata alle esegesi giurisprudenziali (A titolo di esemplificativo, la Suprema Corte specificava che le pene per la trasgressione delle leggi finanziarie hanno diverso carattere “civile o penale”: “le une riflettono in prevalenza l’acquisto delle entrate necessarie ai pubblici servizi mediante il prelevamento di una quota sulla fortuna o sul lavoro lucrativo dei cittadini (imposte dirette), od un

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Con il R.D. 25 marzo 1923, n. 796 ed il relativo D.M. attuativo vi fu un primo tentativo di uniformare i procedimenti di accertamento degli illeciti tributari2 e con la Legge 9 dicembre 1928, n. 28343 vennero disciplinati, per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico, accanto alle sanzioni amministrative, le sanzioni penali (multe e ammende) per coloro che omettevano la denuncia dei redditi, commettevano infedeltà nella stessa, ponevano in essere atti compiuti “in frode alla finanza” o atti finalizzati ad evitare la riscossione delle imposte4.

corrispettivo delle spese generali erogate per vantaggi e benefici privati (tasse civili, bollo insufficiente, ecc …); in generale sono denominate sopratasse e rappresentano la riparazione del danno all’erario, ma come accessorio dell’obbligazione principale. Le altre sono dettate nell’interesse sociale, mirando esse a prevenire e reprimere quelle lesioni di diritti, che l’erario si è riservato per determinate tasse (es. privative, dazii e diritti doganali); si compiono o si presumono compiute con animo di lucro ed in frode all’erario, i quali elementi distinguono l’inadempimento di una obbligazione da un fatto delittuoso: in genere sono denominate multe, ammende, pene pecuniarie, ed hanno perciò il carattere di vera e propria pena, che non perdono anche se comminate come multipli della tassa frodata, perché questo elemento si attiene alla proporzione della penal con la qualità e la quantità, e non si confonde col risarcimento del danno” (Corte Cass., Sez. I penale, Sent. 8 Novembre 1926, in Dir. E Prat. Trib., 1927, pag. 202, n. 225).

A loro volta le interpretazioni giurisprudenziali erano influenzate dal vivace dibattito dottrinale (Per i vari riferimenti sul tema si veda G. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Commento alla Legge 7 gennaio 1929, n. 4, Cedam, Padova, 1933).

Si discuteva, in particolare, della natura delle sanzioni finanziarie anche perché non era chiaro quali fossero gli elementi peculiari della sanzione “amministrativa” rispetto a quella penale.

2 Tale disposizione si applicava anche laddove mancavano le discipline speciali (C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le

sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 11). Essa, in particolare, aveva tentato di uniformare il procedimento di irrogazione delle sanzioni ad opera dell’Intendente di Finanza che, a seguito della segnalazione da parte degli “agenti scopritori”, riconosceva l’esistenza delle trasgressioni alle disposizioni tributarie e stabiliva le “penalità”.

Più precisamente, l’art. 1 stabiliva che per le trasgressione alle norme tributarie “e, in genere, qualsiasi legge o decreto interessanti i tributi dello Stato per le quali sia preveduta la pena pecuniaria fissa, proporzionale o variabile, non avente il carattere di sopratassa civile, accertate con verbale di contravvenzione, compete all’Intendente di finanza, in base al verbale stesso, riconoscere l’esistenza della trasgressione e determinare la pena con suo decreto motivato”. In estrema sintesi, gli agenti scopritori trasmettevano, anche mediante i superiori, i verbali di contravvenzione all’Intendente di finanza il quale emetteva entro 15 giorni successivi il decreto penale di condanna che poteva essere impugnato da parte del presunto trasgressore. In questo caso, l’Intendente trasmetteva gli atti all’Autorità giudiziaria competente a conoscere la trasgressione in base al c.p.p. e questa provvedeva alla citazione direttissima secondo gli artt. 290 e ss. del c.p.p.

A mente dell’art. 7, D.M. attuativo la norma si applicava, per quanto riguarda alle imposte dirette, alla penalità di cui all’art. 7, L. 23 giugno 1873, n. 1444 e all’art. 8, R.D. 31 agosto 1873, n. 1566 “stabilita per i contribuenti alle imposte di ricchezza mobile e sui fabbricati, i quali senza legittima ragione non si presentino, nel termine loro assegnato, all’agente delle imposte o alle Commissioni. Non è applicabile nei casi di sopratasse e negli altri casi di penalità, aventi essi carattere essenzialmente civile”.

I testi normativi dell’epoca si trovano in G. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Commento alla Legge 7 gennaio 1929, n. 4, Cedam, Padova, 1933, pag. 267 e ss.

3

Invero, le sanzioni penali tributarie si affiancarono a quelle amministrative allorquando, al fine di garantire la principale fonte di entrata del Regno d’Italia, la L. 23 giugno 1873, n. 844 le comminò a carico di coloro che violavano le norme doganali (Così A. TRAVERSI, S. GENNAI, I nuovi reati tributari, Giuffrè, Milano 2000, pag. 3).

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L’art. 2, L. 9 dicembre 1928, n. 2834, in www.infoleges.it, disponeva che in caso di omissione della denuncia dei redditi soggetti ad imposte dirette “è soggetto ad una sovraimposta pari ad un terzo dell’imposta dovuta per un anno, ed è punito inoltre con una ammenda da L. 100 a L. 2000”. L’art. 4, invece, disponeva che chi compiva “atti diretti a sottrarre i propri redditi alla imposta (…) è soggetto alla sovrimposta di cui agli artt. 2 e 3, ed è inoltre punito colla multa da L. 500 a L. 5000, salva, quando ne sia il caso, l’applicazione delle maggiori pene comminate dalle leggi penali (…)”. Infine, ai sensi dell’art. 7, c. 2, le multe e le ammende in caso di mancato pagamento sono commutabili nella detenzione e nell’arresto ai sensi degli articoli 19 e 24 del C.P.

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Il legislatore5, durante la preparazione del Codice Rocco (1925-19306), intervenne nuovamente con la Legge 7 gennaio 1929, n. 47 che, entrata in vigore nel luglio 1931, si presentò quale vera e propria legge generale sull’illecito tributario (relativo ai soli tributi statali8) e sul procedimento per accertare le violazioni di norme tributarie9.

Le innovazioni furono parecchie.

In primo luogo, la Legge n. 4/1929, al fine di rafforzare la tutela dell’interesse erariale alla percezione dei tributi, introdusse i principi di fissità10 e di ultrattività della legge sanzionatoria tributaria11.

In secondo luogo, da tale momento, la distinzione tra pene (art. 212) e sanzioni amministrative (artt. 3 e 413) venne ancorata ad un criterio formale14: le prime erano la

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Nel quale vi era anche la necessità di riformare la tassa di scambio introdotta con R.D.30 dicembre 1923, n. 3273 (cosa che poi avvenne con la L. 28 Luglio 1930, n. 1011 (si veda il Titolo XVII), in www.infoleges.it, che introdusse specifiche “penalità” sulla tassa di scambio) nonché del T.U. delle leggi doganali approvato con R.D. 26 gennaio 1896, n. 20.

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I lavori per la redazione del Codice penale iniziarono con la promulgazione della legge 4 dicembre 1925 n. 2260, con la quale il governo venne delegato ad emendare il C.d. Codice Zanardelli e terminarono il 19 ottobre 1930 all’atto della promulgazione.

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Invero, l’iter fu travagliato. Fu presentato un primo progetto di legge durante la sessione 1924-1926 che poi venne ritirato per i rilievi fatti dalla Commissione della Camera dei Deputati. Dopodiché, fu costituita una Commissione interministeriale nominata con Decreto del 5 febbraio 1929 che portò all’approvazione della legge del ‘29.

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La legge n. 4/29 non si riferisce alle sanzioni connesse ai tributi provinciali, comunali e degli altri enti pubblici minori (su tali aspetti si rinvia a C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 7 e spec. nota 13 nella quale indica la dottrina che si è occupata del diritto tributario punitivo degli enti locali).

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Secondo la dottrina, l’interesse tutelato dalle norme di diritto penale tributario, in primis dalla L. n. 4/1929, ha, da un lato, unificato la disciplina dell’illecito tributario (penale e amministrativo) ma, dall’altro lato, ha parzialmente sottratto l’illecito penale alle norme ed ai principi del codice penale. Altrimenti detto, la Legge n. 4/1929 (e poi la L. 516/1982) si presenta quale “micro sistema generale” differente dal codice penale (A. LANZI, P. ALDOVRANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam, Padova, pag. 4).

10 Tale principio contenuto nell’art. 1, c. 2, L. n. 4/1929 prevedeva che le modifiche o l’abrogazione delle proprie norme avvenisse in modo espresso. Si veda F. MOSCHETTI, Validità ed efficacia del principio di fissità della legge generale sulle violazioni finanziarie, in Dir. e Prat. Trib., 1979, I, pag. 105.

11

Il principio di ultrattività previsto nell’art. 20, L. n. 4/1929 consiste nel fatto che le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché tali disposizioni siano state abrogate o modificate al tempo della loro applicazione. Tale norma, che si poneva come eccezione del principio del c.d. favor rei, ha superato il vaglio della Corte Costituzionale (la sentenza n. 164 del 6 giugno 1974 ha ritenuto che la disposizione non contrastasse con l’art. 3 Cost. in quanto espressione dell’art. 53 Cost.: grazie al principio di ultrattività l’interesse alla percezione dei tributi era garantito anche dalla mancata speranza di mutamenti favorevoli della legislazione), ed è stata abrogata dall’art. 24, D.Lgs. 507/1999. Per la dottrina, tale principio si riferisce alle norme creative del reato, alle norme processuali e alle norme relative alle cause estintive del reato (si rinvia a C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 80 e ss.).

La disposizione che ha introdotto tale principio ha, peraltro, passato il vaglio della Corte costituzionale in virtù di un presunto interesse fiscale idoneo a inasprire il sistema sanzionatorio rispetto al principio del favor rei. Più precisamente, per la Consulta, il principio di ultrattività era funzionale a potenziare l’effetto general-preventivo connesso alla minaccia della sanzione mediante la cristallizzazione della sanzione al momento della condotta illecita (Corte Cost., del 16 gennaio 1978, n. 6; per gli altri riferimenti si veda A. LANZI, P. ALDOVRANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam, Padova, pag. 39.

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L’art. 2 disponeva “che costituisce un delitto o contravvenzione la violazione di una norma contenuta nella leggi finanziarie, per le quali è stabilita una delle pene prevedute dal codice penale per i delitti o, rispettivamente, per le

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multa e l’ammenda15 (a loro volta comminate per i delitti e le contravvenzioni) e le

seconde erano la pena pecuniaria o sopratassa16.

Tali figure sanzionatorie, nonostante fossero entrambe qualificate dalla normativa quali obbligazioni di diritto civile, assolvevano a due differenti funzioni: la pena pecuniaria, alla stregua del modello penalistico, era concepita in chiave principalmente afflittiva e dissuasiva; la soprattassa si ispirava all’istituto civilistico della responsabilità aquiliana con vocazione prevalentemente risarcitoria del danno provocato all’erario a seguito della violazione17.

Conseguentemente, pena pecuniaria18 e19 sanzioni penali erano alternative (art. 3)20.

contravvenzioni”. In sostanza, tale norma anticipava la disciplina del codice penale che nell’art. 17 individuava l’illecito penale sulla base della sanzione comminata.

Gli artt. 3 e 4 del R.D. 24 marzo 1931, n. 7473 assegnavano il carattere contravvenzionale agli illeciti puniti con la multa non superiore nel massimo a L. 5.000 o quando sia prevista la pena senza la determinazione dell’ammontare (Per questi riferimenti, si veda A. D’AVIRRO, U. NANNUCCI, I reati nella legislazione tributaria, Cedam, Padova, 1984, pag. 42).

13

L’art. 3 statuiva che “le leggi finanziarie stabiliscono quando dalla violazione delle norme in esse contenute e che non costituisca reato, sorga, per il trasgressore l’obbligazione al pagamento di una somma, a titolo di pena pecuniaria, a favore dello Stato. L’obbligazione ha carattere civile”. L’art. 4, inoltre, disponeva che “la legge stabilisce il limite minimo e massimo entro il quale la pena pecuniaria può essere applicata (…)”.

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Secondo la dottrina, “è merito di tale legge avere ristabilito chiaramente la partizione delle sanzioni fiscali nelle due categorie tradizionali, non solo, ma avere anzi posto per la prima volta un criterio sicuro di distinzione, e di avere determinato in modo preciso ed inequivocabile gli effetti delle sanzioni dell’una e dell’altra categoria”.

Invero, il criterio formale era già presente nel R.D. 25 marzo 1923, n. 796 attuato con il D.M. 20 giugno 1923, n. 12263 (G. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Commento alla Legge 7 gennaio 1929, n. 4, Cedam, Padova, 1933, pag. l7 e 19).

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Pene che poi potevano essere convertite in pene corporali ai sensi degli artt. 135 e 136 c.p. (c.d. codice Rocco). Inoltre, a tale regola generale il R.D. 24 settembre 1931, n. 1473 e il R.D. 28 maggio 1931, n. 601 prevedono delle eccezioni che, in estrema sintesi e con riferimento alle leggi finanziarie in vigore, le multe sono pene pecuniarie se la multa o la ammenda prevista erano inferiori ad una data soglia (per tali aspetti si rinvia a G. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Commento alla Legge 7 gennaio 1929, n. 4, Cedam, Padova, 1933, pag. 46 e 47).

16

La Relazione ministeriale al progetto di legge di riforma delle sanzioni tributarie specificava la ratio del testo legislativo: “si è provveduto innanzitutto a stabilire due principali categorie di sanzioni, quelle che hanno carattere amministrativo e quelle che hanno carattere strettamente penale. Per queste ultime viene usata la stessa nomenclatura della legge penale generale, a tenore della quale, secondo quanto verrà stabilito dal nuovo codice, dovrà considerarsi, per ciò che concerne le pene non restrittive della libertà personale, delitto la infrazione punita con la multa, e contravvenzione quella punita con l’ammenda. Si adoperano così i termini di multa o ammenda quando per le infrazioni previste dalla legislazione finanziaria si stabilisce una sanzione avente carattere penale, mentre si considerano di carattere amministrativo le altre sanzioni, ossia le sovratasse e la pena pecuniaria. In sostanza, le suddette infrazioni alle disposizioni tributarie si ripartiscono in due grandi gruppi: reati e non reati. Nel primo gruppo, in armonia al diritto penale generale, sono comprese le infrazioni punibili con multa o ammenda, nel secondo gruppo, quelle punibili con la pena pecuniaria o sovratassa” (la Relazione al progetto di legge sulla riforma delle sanzioni finanziarie è riportata in G. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Commento alla Legge 7 gennaio 1929, n. 4, Cedam, Padova, 1933, pag. l3).

17 G. MARONGIU, Le sanzioni amministrative tributarie: dall’unità al doppio binario, in Riv. Dir. Trib., 2004, pag. 390. 18

La distinzione tra le due deriva dal fatto che la soprattassa è uguale a tributo oppure ne è un multiplo o una frazione e “rappresenta una specie di risarcimento verso l’Erario per il mancato e ritardato pagamento del tributo e può coesistere con la pena pecuniaria o con la sanzione penale. La pena pecuniaria è anch’essa una sanzione amministrativa che spazia da un minimo ad un massivo ma che a differenza della prima ha “carattere più

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Viceversa, l’art. 5 contemplava la possibilità per il legislatore di prevedere una

sopratassa in concorso sia con la sanzione amministrativa che con quella penale21.

Dopo l’entrata in vigore della L. n. 4/1929, furono emanati il R. D. 19 settembre 1931, n. 160822 e il R.D. 24 settembre 1931, n. 147323 al fine di coordinare la legge generale con la legislazione preesistente e, segnatamente, con la Legge, 9 dicembre 1928, n. 2834.

Tra le altre cose, tali disposizioni ribadivano che le sanzioni penali connesse alle

violazioni di norme impositive allora in vigore si limitavano alla sola multa e ammenda24.

La legge n. 4 del 1929 prevedeva altresì disposizioni procedimentali e processuali. Da un punto di vista procedimentale, la norma superò il succitato R.D. 25 marzo 1923, n. 796.

Tutte le violazioni tributarie, infatti, dovevano essere contestate mediante

redazione di un processo verbale25 e, a seconda della natura dell’illecito contestato, erano

previsti diversi procedimenti applicativi.

La soprattassa veniva applicata dall’organo che aveva determinato il tributo (per es.

Ufficio distrettuale in tema di imposte dirette26) ed era commisurata al suo ammontare27.

propriamente repressivo” anche perché la loro entità è così alta che hanno una vera e propria funzione intimidatrice (G. ZANOBINI, La sistemazione delle sanzioni fiscali, Rivista Diritto Penale, 1929, I, pag. 504 e ss). Entrambe le sanzioni non erano convertibili in pena restrittiva della libertà personale e non sono suscettibili di provvedimenti di grazia (G. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Commento alla Legge 7 gennaio 1929, n. 4, Cedam, Padova, 1933, pag. 78 ivi anche per le varie interpretazioni dell’epoca in materia).

19

Entrambe, pena pecuniaria e sanzione penale, avevano la medesima funzione afflittiva e ciò era evidente anche dalla struttura della previsione e dalla disciplina della continuazione e della commisurazione della pena riferita alla gravità del fatto (A. LANZI, P. ALDOVRANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam, Padova, pag. 81).

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L’art. 3, L. n. 4/1929 escludeva le pene pecuniarie in caso di fatti già qualificati come reati.

21 L’art. 5 stabiliva infatti che per le violazioni di cui agli artt. 2 (delitti e contravvenzioni in materia tributaria) e 3 (sanzioni amministrativa) le leggi finanziarie potevano stabilire, in aggiunta alle relative pene, la soprattassa la cui obbligazione al pagamento aveva “carattere civile”. A tale proposito, la dottrina ha evidenziato come non era ben chiaro il ruolo da assegnare alle sanzioni amministrative “che sembravano talora volte più a procurare un gettito allo Stato che a svolgere la propria connaturale funzione di prevenzione generale e speciale” (Così, A. LANZI, P. ALDOVRANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam, Padova, pag. 40).

22

Testo unico delle disposizioni concernenti le dichiarazioni dei redditi e le sanzioni in materia di imposte dirette. 23 Si può trovare il testo in G. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Commento alla Legge 7 gennaio 1929, n. 4, Cedam, Padova, 1933, pag. 285.

24

Persino la frode fiscale era punita con una multa. Il minor disvalore degli illeciti fiscali che emergeva dalla comminazione di pene esclusivamente pecuniarie derivava dall’idea che la sottrazione della ricchezza collettività non poteva in alcun modo paragonarsi alla sottrazione della ricchezza individuale oggetto dei reati contro il patrimonio (A. LANZI, P. ALDOVRANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam, Padova, pag. 39).

25

Invero, la dottrina riteneva un obbligo con riferimento alle sanzioni amministrative; viceversa, con riferimento alle sanzioni penali trattandosi di reati perseguibili d’ufficio, il processo verbale non si atteggiava a condizione di procedibilità (C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 183 e ss).

26 Competenti a redigere il processo verbale relativo a reati tributari erano gli ufficiali e gli agenti di polizia tributaria e di polizia giudiziaria. Per le violazioni non costituenti reato, erano competenti a redigere il p.v. gli ufficiali e gli agenti della polizia tributaria nonché altri organi indicati da specifiche disposizioni (C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 187). A tale proposito, per le imposte dirette la competenza a redigere il processo verbale era dell’ufficio Distrettuale delle imposte (art. 33, R.D. 17 settembre 1931, n. 1608).

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9

In merito alle violazioni punite con la pena pecuniaria, il processo verbale veniva consegnato all’Intendente di finanza che, a sua volta, notificava al trasgressore il verbale di

accertamento28 invitandolo a presentare, entro 15 giorni, le sue deduzioni difensive29. Se le deduzioni non erano convincenti, questi emetteva l’ordinanza con l’indicazione della somma da pagarsi a titolo di pena pecuniaria avverso la quale era ammesso ricorso al Ministro delle Finanze30. Il decreto ministeriale poteva, comunque, essere oggetto di impugnazione presso l’Autorità giudiziaria31.

Le violazioni costituenti contravvenzioni punite dalle leggi tributarie con l’ammenda (art. 21, c. 1, n. 1, L. n. 4/1929) erano applicate con decreto penale da parte dell’Intendente di Finanza e, solo in caso di opposizione, subentrava l’A.G.O (art. 21, c. 2, L. n. 4/1929).

Quando si tratta di ogni altro reato, il p.v. veniva comunicato direttamente al Tribunale che era competente a giudicare sull’esistenza o meno dell’illecito (art. 21, c. 1, n. 2, L. n. 4/1929).

A queste regole generali facevano eccezione le violazioni delle norme sulle imposte

dirette che, a prescindere dalla natura dell’illecito presumibilmente integrato,

amministrativa o penale, dovevano essere contestati mediante decreto penale dell’Intendente di finanza (art. 60, c.1, L. n. 4/1929).32

La legge del ‘29 prevedeva, altresì, norme di coordinamento tra il giudizio penale ed il giudizio tributario.

A tale ultimo proposito, all’epoca, non si poteva parlare di un vero e proprio giudice tributario in quanto, se da un lato la L. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E aveva assegnato all’autorità giudiziaria ordinaria tutte le controversie tributarie (art. 2), dall’altro lato, a tale regola generale facevano eccezione le controversie relative all’estimo catastale e quelle relative alle imposte dirette sino alla pubblicazione dei ruoli per la cui risoluzione il T.U. per

l’Imposta sui Redditi di Ricchezza Mobile del 24 agosto 1877, n. 402133 aveva introdotto le

Commissioni mandamentali, provinciali e centrale.

27

C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 204.

28 Verbale diverso dal processo verbale di constatazione essendo formato dall’Intendente di Finanza stesso. 29

Con riferimento alle imposte dirette, il contribuente già conosceva l’imputazione in quanto aveva ricevuto dall’Ufficio distrettuale il processo verbale (art. 36, R.D. 17 settembre 1931, n. 1608 poi ripreso nell’art. 262, T.U. 29 gennaio 1958, n. 645).

30

Il Ministero delle finanze decideva, sulla base di motivi di diritto e di fatto senza alcuna limitazione, con decreto motivato (art. 58, L. n. 4/1929).

31

Sull’impugnativa avverso l’ordinanza dell’Intendente di Finanza ovvero il decreto del Ministero si veda C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 220.

32

L’art. 60 della L. n. 4/1929 prevedeva la non applicazione alle violazioni in tema di imposte dirette del capo V del Titolo II (G. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Commento alla Legge 7 gennaio 1929, n. 4, Cedam, Padova, 1933, pag. 216.)

33

(10)

10

Ciò premesso, per effetto della nuova legge generale sull’illecito tributario ispirata

alla ricerca della più rapida soluzione della controversia34 dominava la regola della “unità

della competenza”35: l’art. 22 disponeva infatti che “qualora l’esistenza del reato dipenda

dalla risoluzione di una controversia concernente il tributo, il tribunale, a cui spetta la cognizione del reato, decide altresì della controversia relativa al tributo, osservate le forme stabilite dal codice di procedura penale e con la stessa sentenza con la quale definisce il giudizio penale”36.

Viceversa, per gli illeciti in materia di imposte dirette l’art. 21 disponeva che “l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento dell’imposta e della relativa

sovraimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti la materia”37.

Il sistema era così strutturato: con riferimento ai tributi diretti a causa dell’elevato

contenuto tecnico delle controversie38 l’amministrazione e/o gli organi del contenzioso tributario (commissioni tributarie e giudice civile) avevano il compito di determinare l’eventuale debenza del tributo (an e quantum39) cosicché il giudice penale potesse

34

Tuttavia, secondo la dottrina questa norma funzionava solo laddove non ci fosse stato un giudicato civile o amministrativo sul punto in virtù dell’art. 21 c.p.p. secondo cui, in caso di rimessione della causa al giudice competente per la risoluzione di una questione complessa ex art. 20 c.p.p., la sentenza del giudice civile o amministrativo faceva stato nel giudizio penale (C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 255).

35 Non si applicava, dunque, la (futura) previsione del Codice Rocco che di lì a poco avrebbe disposto all’art. 20 c.p.p. la facoltà per il giudice penale di rimettere la questione al giudice competente se l’accertamento di un reato dipendeva dalla risoluzione di una questione civile o amministrativa.(C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 248).

36

Siccome vigeva la clausola del solve et repete, il secondo comma disponeva che il giudicato penale vincolasse l’Amministrazione in merito alla eventuale richiesta di rimborso rispetto a quanto pagato in adempimento della pretesa tributaria (“nel caso in cui il tribunale giudichi che il tributo non era dovuto ovvero era dovuto in misura inferiore a quella richiesta dall’autorità finanziaria, il contribuente, il quale abbia pagato il tributo, è ammesso a chiederne il rimborso totale o parziale”).

37

Invero, la Corte di Cassazione, pochi anni dopo l’introduzione della legge del ’29, ritenne che quando si inizia il processo penale in merito alle imposte dirette l’accertamento deve essere definitivo, ma, al contempo, l’attribuzione del reddito da parte dell’Amministrazione finanziaria può contestarsi anche in sede penale quale sia stato il giudizio degli organi competenti per l’accertamento del tributo: “in tal caso, il giudicato penale attrae nella sua orbita di assoluzione anche la sanzione della sopratassa” (Corte Cass., 30 marzo 1933, I. Sez., Giust. Pen., 1933, III, pag. 217; la sentenza è citata in G. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Commento alla Legge 7 gennaio 1929, n. 4, Cedam, Padova, 1933, pag. 198; si veda anche C. CARBONE, T. TOMASICCHIO, Le sanzioni fiscali, Torino, Utet, 1959, pag. 252 dove l’autore chiarisce che la sentenza non scardina il principio del rispetto dell’accertamento come definito in sede tributaria. Secondo l’autore, infatti, la Corte ha voluto dire che il giudice penale non può controllare il giudizio degli organi amministrativi relativamente all’accertamento del reddito ed alla sua estimazione; viceversa, il giudice penale può indagare circa il dolo dell’evasione).

38

Si esprime in questo modo E. MUSCO, Processo penale e accertamento tributario, Arch. Nuova proc. Pen., fasc. 6, 2012, pag. 593.

39

Secondo la dottrina la cognizione amministrativa e conteziosa si riferiva sia all’an che al quantum (G. SPINELLI, La repressione delle violazioni delle leggi finanziarie nella scienza e nel diritto, Ed. II., Giuffrè, Milano, 1947, pag. 223 e ss.). Inoltre, secondo lo Spinelli la sospensione dell’azione penale si riferisce anche ai reati connessi quando la sussistenza dipenda dall’accertamento dei fatti il cui esame rientra nel procedimento di accertamento dell’imposta. Invero, la Corte di Cassazione aveva stabilito che l’accertamento fa stato nel giudizio penale il quale non può sindacare il giudizio fiscale, ma può rifare l’indagine di fatto (Corte Cass., 30 marzo 1933, in Riv. Pen, 1937, I, pag. 807; citata da

(11)

11

limitarsi alla verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo ed alla quantificazione della pena40; di contro per le fattispecie di contrabbando in cui l’accertamento dei fatti materiali

prevaleva sulla loro qualificazione giuridica l’accertamento era totalmente demandato al giudice penale41.

Erano due le rationes di tale peculiarità: da un lato, come precisato nella relazione governativa, il legislatore manifestava sfiducia verso la capacità del giudice penale di addentrarsi nel complesso tecnicismo insito negli accertamenti dei tributi diretti42; dall’altro lato, in presenza dell’art. 3 c.p.p.1930 (L. n. 4/1929 e C. Rocco entrarono in vigore pressoché contestualmente), l’art. 21, L. n. 4/1929 evitava al giudice penale una grossa mole di accertamenti pregiudiziali occorrenti a dare corso al procedimento penale non potendo iniziare una istruttoria se non in base a prove o concreti indizi di responsabilità43.

La c.d. pregiudiziale tributaria venne poi riproposta dall’art. 34, R.D. 17 settembre 1931, n. 1608 che, in tema di sanzioni in materia di imposte dirette, statuiva che i provvedimenti dell’autorità finanziaria e le decisioni delle commissioni tributarie non erano in alcun modo pregiudicati dalla decisione del Tribunale sulle contravvenzioni in materia di illeciti delle imposte dirette (art. 15 dello stesso decreto)44.

2. Dalla fine degli anni ’30 alle riforme degli anni ’70: accanto a sanzioni pecuniarie appare la sanzione detentiva, il giudice tributario diviene un giudice speciale e la pregiudiziale tributaria amplia la propria sfera di applicabilità all’accertamento delle violazioni delle norme sull’I.v.a.

Nel dopoguerra, dopo un primo intervento che sembrò inasprire le sanzioni penali tributarie (D.Lgs. Capo provvisorio dello Stato, del 7 novembre 1947, n. 1559)45 ed un

G. SPINELLI, La repressione delle violazioni delle leggi finanziarie nella scienza e nel diritto, Ed. II., Giuffrè, Milano, 1947, pag. 223).

40

N. GALANTINI, La pregiudiziale tributaria, in Lineamenti del processo penale tributario a cura di P. CORSO, Ipsoa, 1986, pag. 58.

41

Si esprime in questo modo E. MUSCO, Processo penale e accertamento tributario, Arch. Nuova proc. Pen., fasc. 6, 2012, pag. 593.

42 N. GALANTINI, La pregiudiziale tributaria, in Lineamenti del processo penale tributario a cura di P. CORSO, Ipsoa, 1986, pag. 49. L’autore osserva che la pregiudiziale tributaria, oltre ad essere giustificata dall’eccessivo tecnicismo, era altresì strumento di attuazione del primato dell’esecutivo. In realtà il giudice penale veniva subordinato ad altra decisione del tribunale civile (dopo quella delle commissioni tributarie), salvo che l’atto di accertamento non fosse divenuto definitivo per mancanza di impugnazione.

43

Così A. TRAVERSI, I nuovi reati tributari in materia di imposte dirette e I.v.a., IPSOA, 1986, pag. 26. 44

Invero, l’art. 35, L. 5 gennaio 1946, n. 1, disponeva che con riferimento ad alcune infrazioni penali in materia di imposte dirette non si applicava l’art. 21, ult. c., L. n. 4/1929. Tuttavia, il T.U. delle imposte dirette, D.P. 645/1958 non riprese questa eccezione.

45 La norma aveva lo scopo di “assicurare la fedeltà al neo costituito ordinamento repubblicano” (D. TERRACINA,

Riflessi penali dell’evasione fiscale, Dike, 2012, pag. 91).

Ciò sarebbe dimostrato dall’inasprimento delle sanzioni con la previsione della reclusione da sei mesi a cinque anni a carico di chi avesse organizzato accordi o intese tra i contribuenti al fine “di ritardare, sospendere o non effettuare il pagamento di imposte dirette o indirette, ordinarie e straordinarie in esazione” o chi pubblicamente istigava i

(12)

12

generale riordino delle norme penali a tutela delle imposte dirette (L. 7 gennaio 1956, n. 1), venne approvato il T.U. sulle imposte dirette (D.P. 29 gennaio 1958, n. 645) che, sostituendo anche l’antecedente disciplina sanzionatoria (R.D. n. 1608/1931 e L. n. 1/1956) ripropose il consueto schema: accanto a preponderanti sanzioni amministrative la norma tributaria prevedeva, alternativamente, sanzioni penali e, in limitatissime ipotesi, per la prima volta, sanzioni detentive che, se paragonate ai delitti contro il patrimonio46, apparivano irrisorie.

I primi anni ‘70 furono forieri di importanti riforme, giacché venne introdotta l’I.V.A. (in sostituzione dell’I.G.E.) e fu modificato il T.U. sulle imposte dirette con la soppressione dell’Imposta sulla Ricchezza Mobile (nel 1974) e l’istituzione dell’I.r.Pe.F./I.r.Pe.G.47. Al contempo, il D.P.R. 600/1973 e il D.P.R. 633/1972, in vigore dal primo gennaio 1974, incisero sulla disciplina procedimentale dell’attuazione dell’obbligazione tributarie e su quella sanzionatoria. A tale ultimo proposito, le norme sulle imposte dirette ed sull’I.v.a. disposero il cumulo tra sanzioni penali e amministrative e, da questo momento, le sanzioni detentive assunsero un ruolo sempre più importante all’interno del diritto punitivo tributario48.

contribuenti a tali comportamenti. Veniva altresì punito da uno a sei anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico ufficio o servizio che avesse rifiutato, omesso o ritardato atti del proprio ufficio o servizio. Infine, chi avesse interrotto o turbato “la regolarità dei servizi di accertamento e riscossione delle imposte” era punto con la reclusione da tre mesi a due anni.

46

A tale proposito, è stato osservato che la truffa a danno dello Stato ex art. 640, c. 2, c.p. prevedeva la reclusione da uno a cinque anni mentre la frode fiscale era punita con la reclusione fino a sei mesi (D. TERRACINA, Riflessi penali dell’evasione fiscale, Dike, 2012, pag. 92)

47

D.P.R. 29 settembre 1973 n. 597 – Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, D.P.R. 29 settembre 1973 n. 598 – Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche, D.P.R. 29 settembre 1973 n. 599 – Istituzione e disciplina dell’imposta locale sui redditi, D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 – Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi.

48

A titolo di esempio, l’art. 56, D.P.R. 600/1973 disponeva che chi ometteva la dichiarazione o la inoltrava all’Amministrazione in modo infedele o incompleto, se l’imposta relativa al reddito accertato superava i cinque milioni è punito, oltre che con la pena pecuniaria prevista nell’art. 46, con l’arresto da tre mesi a tre anni.

In merito alle violazioni dei sostituti di imposta, quando l’ammontare complessivo delle somme non dichiarate è superiore a duecento milioni di lire, si applicava, oltre alla pena pecuniaria di cui allo stesso articolo, la pena dell’arresto da tre mesi ad un anno.

Veniva altresì punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da lire duecentomila a lire due milioni chiunque, essendo a conoscenza che negli inventari, bilanci o rendiconti è stata omessa l’iscrizione di attività o sono state iscritte passività inesistenti ovvero che sono state formate scritture o documenti fittizi o sono state alterate scritture o documenti contabili, sottoscrive la dichiarazione di cui al primo comma senza rettificare i dati conseguenti rilevanti ai fini della determinazione dell’imponibile etc…

Poi la norma prevedeva che, in caso che i fatti di cui al comma 1 comportavano evasioni di imposta per un ammontare complessivo eccedente cinque milioni di lire la multa era applicata in misura pari all’importo di tale ammontare e la reclusione non può essere inferiore a due anni.

I reati in materia di I.v.a. erano disciplinati dall’art. 50, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 che puniva con la reclusione da uno a cinque anni e con una multa che andava dalla metà al doppio dell’imposta chi si sottraeva al pagamento dell’imposta dovuta nel corso di un anno solare per un ammontare superiore a lire cento milioni.

Stessa sanzione per chi nel corso di un anno solare conseguiva un indebito rimborso per un ammontare superiore a lire cinquanta milioni.

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13

Da un punto di vista procedimentale, si prevedeva che in materia di violazione e di

sanzioni49, per quanto non diversamente stabilito dai D.P.R. 600/1973 e D.P.R. 633/197250,

si applicavano le norme del codice penale e del codice di procedura penale, alla legge 7

gennaio 1929, n. 4 e al regio decreto-legge 3 gennaio 1926, n. 89851, e successive integrazioni (art. 70, D.P.R. 600/1973 e art. 75, D.P.R. 633/1972).

Da un punto di vista processuale, la pregiudiziale tributaria rimase in piedi fino al 1982 e si mostrò indifferente all’evoluzione delle commissioni tributarie che, dagli anni ’30 in poi, furono investite da un procedimento di giurisdizionalizzazione e di concentrazione sulla loro giurisdizione di tutte le liti tributarie52.

Partendo da quest’ultimo aspetto, il R.D.L. 7 agosto 1936, n. 1639 riformò le commissioni tributarie le quali, tra l’altro, rimasero competenti a giudicare sulle controversie in materia di imposte dirette con una cognizione che si estendeva a tutte le questioni di fatto e di diritto53. Più precisamente, in materia di imposte dirette, la Commissione distrettuale manteneva veri e propri compiti di amministrazione attiva potendo modificare gli accertamenti eseguiti dagli uffici e di procedere all’accertamento di

Chi emetteva fatture per operazioni inesistenti o indicava nelle fatture i corrispettivi e le relative imposte in misura superiore a quella reale era punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da lire centomila a lire un milione etc...

Vi erano comminate altresì pene accessorie come l’interdizione e l’incapacità previste negli artt. 28 e 30 del codice penale e nell’art. 2641 del codice civile, nonché la cancellazione, per lo stesso periodo, dall’albo nazionale dei costruttori e dagli albi o elenchi dei fornitori delle pubbliche amministrazioni.

49

L’art. 31 d.p.r. 600/1973 prevede la competenza degli uffici a effettuare gli accertamenti; i poteri istruttori sono individuati negli art. 32 e 33 (accessi, ispezioni e verifiche), gli artt. 34 e 35 prevedevano le ipotesi di collaborazione tra l’Amministrazione finanziaria e gli istituti di credito e le ipotesi nelle quali era possibile derogare il segreto bancario; gli artt. 36, 36 bis e ter si riferiscono al controllo formale, e gli artt. 37 è seguenti al controllo sostanziale. Dagli artt. 38 all’art. 43 sono previsti le tipologie di accertamenti effettuati per effetto dell’esercizio dei suddetti poteri istruttori. 50

Le sanzioni amministrative (o meglio la pena pecuniaria) erano disposte dall’art. 46 all’art. 54, d.p.r. 600/1973 ed erano applicate. La pena pecuniaria veniva irrogata dagli uffici delle imposte (art. 55) e per le violazioni degli istituti di credito (art. 52) dal Ministero delle Finanze. L’art. 56, d.p.r. 600/1973 prevedeva le sanzioni penali e l’art. 58 quelle accessorie.

51 La norma, invero, si riferisce al R.D.L. 3 gennaio 1926, n. 63, convertito dalla L. 24 maggio 1926, n. 898 . 52

Su tali aspetti, anche per i riferimenti bibliografici, si rinvia a A. PODDIGHE, Commento dell’art. 102 Cost., in AA.VV. a cura di Gaspare Falsitta, Commentario Breve alle leggi tributarie, Tomo I, Diritto costituzionale tributario e Statuto del contribuente, CEDAM, pag. 359 e ss.

53

Le Commissione erano altresì competenti in tema di controversie relative alle imposte indirette sui trasferimenti della ricchezza. In materia di imposte dirette erano, invece, escluse dalla loro competenza le controversie riguardanti l’imposta sui terreni e sul capitale delle società per azioni (G. GRECO, Il procedimento contenzioso dinnanzi alle giurisdizioni tributarie speciali, Cedam, Padova, 1943, pag. 27).

Gli altri tributi prevedevano percorsi “amministrativo-giurisdizionali” differenti a seconda del tipo di accertamento (a titolo meramente esemplificativo, le controversie relative alle imposte indirette sui trasferimenti della ricchezza (imposta di registro, di successione, di manomorta ed ipotecarie) erano di competenza della Commissione distrettuale la cui cognizione era limitata alle sole questioni relative alla determinazione di valore dei beni trasferiti.

(14)

14

nuovi redditi non accertati54; la Commissione provinciale era giudice di secondo grado e

competente in terzo grado era la Commissione centrale55.

Con l’avvento della Repubblica e l’entrata in vigore della Costituzione, nonostante l’art. 102 Cost. in forza del quale non potevano essere istituiti giudici speciali, in un primo momento, le Commissioni Tributarie riuscirono a transitare nel nuovo ordinamento per via della VI Disposizione Transitoria a mente della quale entro cinque anni dall’entrata in

vigore della Costituzione si doveva procedere alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti.

Successivamente, la loro sorte fu affidata ad un gioco di prestigio della Consulta che con due ordinanze del ‘69, pur di non dichiarare tali organi incostituzionali in quanto nei cinque anni successivi alla entrata in vigore della Costituzione l’impianto normativo non si era adeguato ai principi costituzionali processuali (VI Disp. Trans), ne dichiarò la natura di rimedio amministrativo. Dopodiché, tali pronunce furono sconfessate dallo stesso Giudice delle Leggi allorquando, a seguito dell’entrata in vigore del D.P.R. 636/1972 ne venne riconosciuta la piena natura giurisdizionale56.

54

In dottrina la decisione della commissione distrettuale era considerata come un vero e proprio atto amministrativo G. GRECO, Il procedimento contenzioso dinnanzi alle giurisdizioni tributarie speciali, Cedam, Padova, 1943, pag. 31. 55

Per essere più precisi, le controversie relative alla estimazione complessa dei redditi che si riferiscono alla valutazione di tutti gli elementi di fatto e di diritto sono decise in terzo grado dalla commissione centrale come pure dall’Autorità giudiziaria ordinaria. Le controversie relative alla estimazione semplice erano devolute a dette commissioni ed era possibile adire l’autorità ordinaria (dopo la decisione della commissione di primo grado o di secondo grado) purché la relativa imposta fosse stata iscritta a ruolo.

In merito alla ricostruzione del sistema di “giustizia” tributaria del Regno d’Italia si veda G. GRECO, Il procedimento contenzioso dinnanzi alle giurisdizioni tributarie speciali, Cedam, Padova, 1943. In particolare, sino a pagina 206 viene descritto il procedimento dinnanzi alle Commissioni distrettuali, Commissioni provinciali e Commissione centrale. Da pagina 207 in poi, viene descritti gli altri giudici speciali tributari: commissioni censuarie relative a controversie censuarie, consigli provinciali delle corporazioni relative alle controversie doganali, Ministro delle finanze in caso di controversie sui contributi di miglioria, direttivi degli agenti di cambio in materia di controversie sul valore dei titoli e sull’imposta sul capitale delle società, Commissioni comunali per i tributi comunali, La Giunta provinciale amministrativa per i tributi provinciali etc…

Le sentenze della Commissione provinciale relative alle questioni sulla semplice estimazione dei redditi o di mero fatto (art. 48, T.U. 1877) acquistano definitività, salvo ricorso all’Autorità giudiziaria ordinaria esperibile in determinate ipotesi (grave od evidente errore di apprezzamento ovvero mancanza od insufficienza di calcolo nella determinazione del valore).

56

La Consulta chiamata a decidere sulle sorti delle Commissioni tributarie i cui componenti erano nominati dall’Intendente di Finanza e dal Ministro delle Finanze che, peraltro, aveva anche il potere di scioglierle, con due ordinanze del 1969, sconfessò il proprio precedente orientamento (C. Cost. 57/41, in F. It. 57, I, 529; C. Cost. 63/132, F. it. 57, I, 1600; C. Cost. 64/103, in R. d. Proc. 65, 434) e ritenne che le Commissioni non fossero ammesse a proporre le questioni di costituzionalità in quanto non erano organi giurisdizionali cui é conferito il potere di proporre alla Corte tali questioni “ma (…) organi contenziosi amministrativi” (C. Cost. ord. 69/6, in F. it. 69, I, 562; C. Cost. ord. 69/10, in F. it. 69, I, 561). Fu così che dal 1969 al 1972, le Commissioni tributarie tornarono ad assumere l’originaria natura amministrativa che, però, venne meno alla luce della riforma della legge processual tributaria del 1972 quando la Consulta riconobbe che il legislatore aveva esercitato il potere di revisione conferito dalla VI Disp. Trans. (C. Cost. 74/287, in www.giurcost.org e Corte Cost. 76/215). Si rinvia a A. PODDIGHE, Commento dell’art. 102 Cost., in AA.VV. a cura di Gaspare Falsitta, Commentario Breve alle leggi tributarie, Tomo I, Diritto costituzionale tributario e Statuto del contribuente, CEDAM, pag. 363.

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15

Peraltro, con tale riforma le Commissioni non furono più organi

dell’amministrazione attiva e videro ampliata, al contempo, la giurisdizione alle principali fattispecie impositive (tra cui l’I.v.a.)57. Il rito fu altresì semplificato: in luogo dei precedenti sei gradi di giudizio, dopo la commissione di primo grado era possibile appellare alla commissioni di secondo grado e, a questo punto, il contribuente poteva decidere se impugnare in commissione centrale oppure in corte d’appello. Avverso le sentenze della corte d’Appello e della commissione tributaria centrale era ammesso, alternativamente, ricorso per cassazione, rispettivamente, secondo le norme del c.p.c. ed ex art. 111 Cost.

In questo contesto, come accennato, dopo un tentativo di senso inverso (art. 21, L.

n. 4/1929 nel 195658) la pregiudiziale tributaria venne ribadita in tema di violazioni penali

delle norme sulle imposte dirette e venne estesa anche agli illeciti penali in materia di I.v.a.: l’art. 56, D.P.R. 600/197359 replicava l’art. 21, L. n. 4/1929 in tema di imposte dirette mentre l’art. 58 D.P.R. 633/197260 introdusse una eccezione all’art. 22, L. n. 4/1929 disponendo, in materia di I.v.a., che “l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento

dell’imposta è divenuto definitivo (…)”.

Le due disposizioni presentavano invero una differenza di carattere semantico: l’art. 56 statuiva che l’azione penale non poteva essere “iniziata o proseguita”; viceversa, l’art. 58 disponeva che l’azione penale non poteva aver corso. In altri termini, con riferimento all’I.v.a. sembrava che il legislatore non avesse accolto il principio di obbligatoria

sospensione del processo penale61.

In ogni caso, entrambe le disposizioni, indipendentemente dalla natura della pregiudiziale sulla quale si era tanto discusso (condizione di procedibilità o punibilità?)62,

57

La versione originaria dell’art. 1, D.P.R. 636/1972 disponeva che appartenevano alla competenza delle commissioni tributarie le controversie in materia di: a) imposta sul reddito delle persone fisiche; b) imposta sul reddito delle persone giuridiche; c) imposta locale sui redditi; d) imposta sul valore aggiunto, salvo il disposto dell'art. 70 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, nonché il disposto della nota al n. 1) della parte III della tabella A allegata al decreto stesso nei casi in cui l’imposta sia riscossa unitamente all'imposta sugli spettacoli; e) imposta comunale sull'incremento di valore degli immobili; f) imposta di registro; g) imposta sulle successioni e donazioni; h) imposte ipotecarie; i) imposta sulle assicurazioni.

58

Mi riferisco all’art. 35, ult. c., L. Delega 5 gennaio 1956, n. 1 che elencava alcuni reati (falsa dichiarazione, atti fraudolenti al fine di evadere l’imposta, etc …) per i quale la pregiudiziale non avrebbe dovuto operare. Tale norma, però, non fu riproposta nel T.U. 29 gennaio 1958, n. 645. La questione, peraltro, fu oggetto di giudizio di costituzionalità ai sensi dell’art. 76 Cost. nel quale la Corte cost. rigettò per manifesta infondatezza (Corte Cost., 20 aprile 1968, n. 32 in fisconline).

59

A mente dell’art. 56, d.p.r. 600/1973 “L’azione penale per i reati di cui ai commi precedenti non può essere iniziata o proseguita prima che l’accertamento dell’imposta sia divenuto definitivo. La prescrizione del reato è sospesa fino alla stessa data”.

60

A mente dell’art. 58, d.p.r. 633/1972 “Nelle ipotesi previste nell’art. 50 (Sanzioni penali) l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento dell’imposta è divenuto definitivo e la prescrizione del reato è sospesa fino alla stessa data”.

61 N. GALANTINI, La pregiudiziale tributaria, in Lineamenti del processo penale tributario a cura di P. CORSO, Ipsoa, 1986, pag. 55.

62

Su tali aspetti si veda N. GALANTINI, La pregiudiziale tributaria, in Lineamenti del processo penale tributario a cura di P. CORSO, Ipsoa, 1986, pag. 62 nonché le sentenze della Corte di Cassazione che sposavano tale orientamento e che sono indicate nella nota n. 60.

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avevano il merito di chiarire che la prescrizione del reato era sospesa fino alla definitività dell’atto di accertamento o della decisione del giudice tributario o civile.

Nella realtà, la pregiudiziale tributaria, a fronte di una ratio astrattamente condivisibile in quanto le norme sulle imposte dirette e sull’I.v.a. risultavano di difficile interpretazione e applicazione63, si dimostrò un istituto “criminogeno”64 in quanto la definitività dell’accertamento giurisdizionale del tributo era una chimera per via dei potenziali numerosi gradi di giudizio.

Difatti, se era pur vero che il decorso della prescrizione del reato rimaneva sospeso, i numerosi gradi di giudizio tributario, che quantomeno fino alla riforma entrata in vigore

nel 199665 erano potenzialmente quattro, dilatavano i tempi dell’azione penale con

“conseguente caduta di interesse delle Procure alla persecuzione dei reati tributari”66 e crollo “di efficacia deterrente della sanzione penale” tributaria67.

Per tali motivi, la Corte costituzionale fu numerose volte chiamata a giudicare la legittimità della pregiudiziale tributaria con riferimento all’art. 3 Cost.

In un primo momento, la Consulta giustificò tale istituto che generava un peculiare trattamento dei reati tributari in materia di Imposte dirette e di I.v.a. rispetto agli altri illeciti penali (tributari e non) e ribadì la legittimità costituzionale della norma facendo perno sulla ratio della stessa consistente nella difficoltà per il giudice penale di quantificare l’imposta (Corte Cost., 20 aprile 1968, n. 32) e specificando che si trattava di un istituto di garanzia per il contribuente che, in questo modo, evitava denunce penali prima di un accertamento definitivo dell’imposta (Corte Cost., 20 febbraio 1973, n. 8).

Il sistema di accertamento degli illeciti penali in materia di imposte dirette e di I.v.a. delineato nel 1929 e confermato con le riforme degli anni ’70 iniziò a sgretolarsi

allorquando la Corte di Cassazione (con una ordinanza di rimessione alla Consulta68 e con

una sentenza69) statuì la non operatività della pregiudiziale tributaria nelle ipotesi in cui la condotta criminosa si riduceva alla mera omissione di registrazione di fatture o alla registrazione di fatture per operazioni inesistenti70. In tali ipotesi, infatti, secondo i giudici di legittimità, gli artt. 21, L. n. 4/1929, 56, D.P.R. 600/1973 e 58, D.P.R. 633/1972 non

63

La ratio del sistema era chiara: gli accertamenti relativi alle imposte dirette erano così complessi che sia il giudice civile che il giudice penale dovevano aspettare la pronuncia delle commissioni tributarie oppure la definitività dell’atto impugnato.

64

C. F. GROSSO, Sanzioni penale e sanzioni non penali, in Le evasioni fiscali, Bari, pag. 148. 65

Il D.Lgs. 546/1992 ha previsto tre potenziali gradi di giudizio: Commissione provinciale, Commissione regionale e Corte di cassazione.

66

A. LANZI, P. ALDOVRANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam, Padova, pag. 44.

67 N. GALANTINI, La pregiudiziale tributaria, in Lineamenti del processo penale tributario a cura di P. CORSO, Ipsoa, 1986, pag. 51.

68

Corte Cass., ord. 14 gennaio 1981, in Giur. Cost., 1981, II, pag. 1512. 69

Corte Cass., sent. 27 aprile 1981, in Cass. Pen., 1982, pag. 155, m. 141. 70 Art. 50, quarto comma, D.P.R. 633/1972.

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potevano operare perché l’accertamento dell’illecito penale prescindeva

dall’accertamento dell’evasione tributaria.

Sollecitata sul punto, la Consulta sposò dette argomentazioni (Corte Cost., 12 maggio 1982, n. 89) e nelle suddette ipotesi dichiarò illegittima la pregiudiziale tributaria proprio perché la deroga al principio di obbligatorietà dell’azione penale non appariva ragionevole nel caso in cui l’accertamento dell’imposta evasa non aveva alcun ruolo nell’accertamento del reato o nella definizione della gravità.

Contemporaneamente, la Consulta (Corte Cost., 12 maggio 1982, n. 88) precisò l’incostituzionalità della vincolatività dell’accertamento (amministrativo o processual tributario) nei confronti del giudice penale per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. perché introduceva, rispettivamente, una disparità di trattamento tra imputati di reati tributari per i tributi diretti ed indiretti e coloro cui veniva addebitato un altro illecito, e perché la vincolatività dell’atto di accertamento divenuto definitivo e non impugnato ledeva il diritto dell’imputato a difendersi adeguatamente nel procedimento penale.

Nel mentre di tali pronunce, l’art. 35 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 venne modificato dall’art. 23 del D.P.R. 3 novembre 1981, n. 737 e ciò ebbe l’effetto di escludere dalla prova del processo tributario facendo acquisire al rito tributario la natura di processo documentale71.

3. La legge 516/198272: nuova concezione del reato tributario e l’abolizione della pregiudiziale tributaria.

L’accentuarsi dell’importanza sistematica degli obblighi strumentali

all’adempimento dell’obbligazione tributaria73 fu l’occasione per modificare

profondamente il diritto penale tributario.

Difatti, il D.L. 10 luglio 1982, n. 429 convertito dalla legge 516/198274 (c.d. “manette agli evasori” ben presto ribattezzata “manette al sistema repressivo”75) sganciò l’oggetto del reato tributario dall’accertamento dell’evasione al fine di ancorarlo alla violazione delle

71

Per una panoramica relativa alla natura documentale del processo tributario per via dell’esclusione della prova testimoniale, si veda, tra gli altri, G. MOSCHETTI, Utilizzo di dichiarazioni di terzo e divieto di prova testimoniale nel processo tributario, in Dir. prat. trib, 1999,I, 5; F. TESAURO, Prova (diritto tributario), in Enc. Dir., III, Milano, 1999, 883; F. BATISTONI FERRARA, Appunti sul processo tributario, Padova, 1995, 63; R. SCHIAVOLIN, Le Prove, in Giur. Sist. Coordinata da Tesauro, UTET, pag. 473; P. RUSSO, Problemi della prova nel processo tributario, in Rass. Trib., 2, 2000, 375, pag. 383; ID., Il divieto della prova testimoniale nel processo tributario: un residuato storico che resiste all’usura del tempo, in Rass. Trib., 2,2000, pag. 560.

72 Per semplicità espositiva ci si riferisce alla L. 516/1982 anche se in realtà tale norma ha convertito il decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 che disciplina le singole fattispecie criminali.

73

Si esprime in questi termini G. TREMONTI, La parabola della L. 516/82,……, pag. 26. 74

La L. n. 516/1982 “nasce” dal d.d.l. Reviglio.

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regole formali e procedurali che il contribuente doveva seguire per la determinazione dell’imposta dovuta76.

La tutela penale, dunque, si assestò, essenzialmente, sulla mera funzione di accertamento al punto che la dottrina ritenne che l’oggetto della stessa fosse non tanto la percezione dei tributi quanto la c.d. trasparenza fiscale77, facendo così assumere ai reati tributari la natura di reati di pericolo.

Tale impostazione normativa, particolarmente criticata da chi ravvisava e ravvisa come unico bene (o comunque il principale bene) da tutelare ad opera del diritto punitivo tributario l’interesse dello Stato alla percezione dei tributi, ebbe come risvolto necessitato proprio alla luce dei principi dell’offensività78 e della estrema ratio79, la comminazione di pene modeste: le fattispecie furono costruite quali contravvenzioni punite con pena alternativa e quindi eseguibili mediante l’oblazione c.d. facoltativa80.

76

A. LANZI, P. ALDOVRANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam, Padova, pag. 4.

A titolo esemplificativo, il reato conseguente a violazioni di norme sulle Imposte dirette e sull’I.v.a. si riferiva a: omessa dichiarazione, omessa fatturazione o annotazione di corrispettivi, omessa tenuta o conservazione delle scritture contabili, omessa annotazione di bolle di accompagnamento o di ricevute fiscali, omesso versamento delle ritenute etc….Con riferimento alla puntuale analisi delle fattispecie criminali si rinvia a G. CERQUETTI, Reati tributari (voce), pag. 1041 e ss., in Enc. Giur. Giuffrè, XXXVIII.

77

E. LO MONTE, L’illecito penale tributario tra tecniche di tutela ed esigenze di riforme, Cedam, Padova, 1996, pag. 215 e ss.

78

Offensività valutata alla stregua della tutela della percezione delle entrate pubbliche che, comunque, rappresenta il bene meritevole di tutela. Addirittura, in dottrina vi è chi ha parlato di “fatti inoffensivi” oggetto della tutela della L. 516/82 (P. ALDOVRANDI, I profili evolutivi dell’illecito tributario, Padova, Cedam, 2005, pag. 100). “(…) costruendo fattispecie che prescindono dall’evasione, ne risulta l’incriminazione di condotte di mero pericolo “presunto”, e non solo astratto, rispetto all’interesse alla percezione dei tributi, unico bene cui si può attribuire rilevanza nella prospettiva del principio costituzionale di offensività, e che invece rimane sullo sfondo, incapace di assumere alcuna rilevanza nella prospettiva di ricostruzione esegetica di applicazione delle fattispecie” (A. LANZI, P. ALDOVRANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam, Padova, pag. 54). Tutto ciò correndo il rischio di ricomprendere nell’area della tipicità della fattispecie “anche comportamenti che, in concreto, non esprimono alcun coefficiente di pericolosità, come avviene, ad es., nelcaso di un ritardo solo minimo nella bollatura, che non risulti accompagnato da alcun comportamento prodromico all’evasione (…): il legislatore, quindi, ha costruito la fattispecie sanzionando condotte ritenute dallo stesso pericolose, ma che in concreto possono non risultare tali, senza utilizzare segni linguistici che consentano all’interprete di espungere dall’area del penalmente rilevante i comportamenti concretamente privi di pericolosità” (A. LANZI, P. ALDOVRANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam, Padova, pag. 52). Se ho compreso bene, vi è chi nega tale considerazione giacché nega l’esistenza del rilievo costituzionale del principio di offensività anche perché esso non avrebbe identità penalistica in quanto non sarebbe idoneo ad assumere un significato univoco (E. MUSCO, Reati Tributari, Enc. Giur. Giuffrè, Aggiornamento, pag. 1045).

Conseguentemente, volendo dare una valutazione della costituzionalità delle norme penali tributarie, secondo l’illustre autore, occorrerebbe valutare se sia legittimo il ricorso al modello di reato di pericolo (astratto o presunto) nella costruzione del tipo delittuoso; valutazione che ruota attorno al rapporto di congruità tra “natura, qualità, spessore, importanza del bene giuridico oggetto di protezione penalistica e tecnica di tutela: tanto più elevato l’interesse da proteggere, tanto più alto il rischio da eliminare, tanto più significativo il rango del bene da tutelare, quanto più giustificabile il ricorso a modelli di reati che anticipano il momento della rilevanza penale dei comportamenti punibili”.

79

Si è detto che “la sanzione penale, piuttosto che costituire l’extrema ratio del sistema punitivo, assumeva una chiara funzione preventiva” (D. TERRACINA, Riflessi penali dell’evasione fiscale, Dike, 2012, pag. 95).

80

A tale proposito, è stato osservato che le suddette pene risultavano ancora di minor efficacia general preventiva con l’approvazione del nuovo c.p.p. per il quale anche il patteggiamento ad oggetto la frode fiscale si poteva usufruire

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