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L'atto morale e le virtu cardinali nel "De bono" di Alberto Magno.

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

L

AUREA MAGISTRALE IN

F

ILOSOFIA E

F

ORME DEL

S

APERE

T

ESI DI

L

AUREA

L’atto morale e le virtù cardinali nel De bono

di Alberto Magno

Candidato:

Elena Caroti

Relatore:

Prof. Stefano Perfetti

(2)

Indice

Introduzione p. 1 CAPITOLO PRIMO. Le virtù cardinali e la legge naturale

dall’antichità al XIII secolo p. 8

1. Il problema della virtù p. 13

2. Cicerone e i suoi lettori medievali p. 20

3. Alberto lettore di Cicerone p. 25

4. Canonisti, decretisti e teologi di età scolastica p. 31

CAPITOLO SECONDO. La metafisica del bene, il bene fisico

e il bene morale p. 39

1. La metafisica del bene p. 40

1.1 Tutto ciò che esiste tende al bene primo p. 40

1.2 Essere, vero, bene p. 49

2. Dal bonum naturae al bonum consuetudinis: causa materiale e cause formali di atti moralmente buoni p. 57

2.1 Il bonum naturae p. 57

2.2 Il bonum in genere e l’atto volontario: possibilità di atti

moralmente indifferenti p. 61

2.3 Le circostanze p. 65

Conclusioni p. 72

CAPITOLO TERZO. Cause efficienti e finali della virtù p. 73

1. Materia della virtù p. 73

2. Cause efficienti prossime e remote di virtù p. 77 2.1 Gli atti come cause efficienti prossime della virtù p. 77 2.3 La volontà; volontario e involontario p. 80

(3)

2.3 Scelta e deliberazione p. 85

3. Cause finali di virtù p. 90

Conclusioni p. 93

CAPITOLO QUARTO. La virtù p. 95

1. Il problema delle virtù civili in Alberto Magno: la definizione di virtù, il rapporto tra le virtù cardinali, la denominazione

“cardinali/politiche” p. 95

2. Il coraggio: de fortitudine p. 109

3. La temperanza p. 117

4. La prudenza p. 122

5. Il diritto e la legge naturale p. 134

6. La legge e le sue divisioni, la giustizia generale e speciale p. 146

Conclusioni p. 155

Conclusioni p. 157

(4)

1

Introduzione

Questa tesi vuole rispondere ad alcuni interrogativi fondamentali nell’interpretazione e lettura del pensiero morale di Alberto Magno (1206-1280), mettendo sotto la lente il suo De bono (1242), un’opera della fase parigina della sua produzione. Il bene morale per Alberto ha un radicamento metafisico e lo sviluppo del senso morale avviene a partire dal riconoscimento del trovarsi in un ordo che supera i limiti della nostra vita e della stessa specie umana, un ordine creato da Dio e che a lui riporta. In questo quadro, la virtù nasce da varie componenti: volitive, razionali, attive. Non esiste volontà libera senza ragione, fondamento dell’azione morale. Tra le virtù un posto preminente è riservato alla giustizia, nei cui contenuti si trova la sostanza dell’azione morale in tutte le sue forme.

Alberto sviluppa il discorso sulle virtù in più opere, di cui solo il De

natura boni è antecedente al De bono: si può dire che a partire da questi due

lavori egli sviluppi un vero e proprio eudaimonismo intellettuale, in cui lo scopo ultimo della vita umana terrena è la felicità1. Nel commento Super III Sententiarum l’autore si concentra principalmente sul rapporto tra virtù

cardinali e teologali, proponendo una forte connessione all’interno delle prime2. I commenti all’Etica Nicomachea, successivi di alcuni anni al De bono, propongono soluzioni abbastanza diverse, soprattutto per quanto

riguarda il posto riservato alla felicità, poiché a quel punto Alberto aveva avuto accesso a tutta l’Etica e aveva dovuto tenerne conto nel commentarla3.

Nei commenti biblici Alberto cercherà di collegare lo scopo supremo della filosofia morale a quello della teologia morale, impresa ben diversa dal De

bono4.

1 M.J. Tracey, The Moral Thought of Albert the Great, in I. M. Resnick (ed.), A Companion to Albert the Great: Theology, Philosophy, and the Sciences, Brill, Leiden - Boston 2013, pp. 347-379: 352.

2 Ivi, pp. 366-367. 3 Ivi, pp. 369-372. 4 Ivi, pp. 377-378.

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2

Si può dire che tutta la morale di Alberto, una morale che l’uomo può sviluppare con le sue sole forze e senza l’intervento della grazia, ruoti nel De

bono attorno ad un concetto fondamentale: quello di ius naturae. Per

Alberto, infatti, la legge naturale è assunta a fondamento della morale. Ma la legge naturale non è una lista di regole che chiedono solo una cieca obbedienza o una rassegnata e compunta esecuzione La legge naturale, in realtà, contiene solo i principi primi, poiché la morale ha una struttura epistemologica e deduttiva simile a quella delle scienze descritte da Aristotele negli Analitici. Così, a partire dal principio “non fare del male agli altri”, ad esempio, attraverso una premessa minore messa a fuoco dalla nostra φρόνησις/prudentia, che applica il principio generale al caso particolare, traiamo una conclusione operativa, alla maniera del sillogismo pratico aristotelico5.

Ma la storia dello ius naturae e della lex naturae affonda le sue radici in una lunga tradizione. Abbiamo riferimenti ad essa a partire da Sofocle (V sec. a.C.) nell’Antigone, in Platone (V-IV sec. a.C.) nel Timeo e in molti altri autori classici. Tuttavia nell’antichità non vi è ancora una formulazione ben definita di cosa sia questa legge naturale. Prendo ad esempio Aristotele (384-322 a.C.) nel quale abbiamo, se non una teoria, perlomeno una prima formulazione di legge naturale, consistente in principi generali distinti da quelli particolari propri della legge umana. Ad esempio in Retorica, I, 13, 1373b 1-8:

Distinguiamo tutti gli atti ingiusti e quelli giusti prendendo le mosse di qui. Già abbiamo distinto gli atti giusti e quelli ingiusti relativamente alle leggi e alle persone in due maniere. Intendo per legge sia la legge particolare sia la legge comune: per particolare intendo quella che per ciascun popolo è stata definita in rapporto ad esso, ed essa può essere tanto non scritta quanto scritta; per legge comune invece quella che è secondo natura. Vi è

infatti un giusto e un ingiusto per natura di cui tutti hanno come

5 S. B. Cunningham, Reclaiming Moral Agency: the Moral Philosophy of Albert the Great, The Catholic University of America Press, Washington 2008, pp. 207-222.

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3

un’intuizione e che è a tutti comune, anche se non vi è nessuna comunanza

reciproca e nemmeno un patto6.

Per quanto riguarda il pensiero di Cicerone (I sec. d.C.), la sua idea di

ius gentium e di ius naturae sarà discussa ampiamente nei prossimi

paragrafi dedicati alla sua influenza sul mondo Medievale e alla rilettura che ne fa Alberto.

Fin dalla pagina di apertura del Digesto (la grande sintesi giustinianea del diritto romano, promulgata nel 533), si distingue tra ius

civile (il sistema giuridico di entità politiche particolari, come lo Stato

romano), ius naturale e ius gentium. Circa il ruolo di questi ultimi, però, i pareri riportati sono discordanti: per il giurista romano Ulpiano (170-228 d.C.) c’è una demarcazione tra lo ius naturale, comune a umani e altri animali (relativo all’unione dei sessi, alla procreazione e alle cure parentali), e lo ius gentium, proprio della sola specie umana; invece Gaio (m. dopo il 178), in linea con Cicerone, identifica l’universalità dello ius gentium con la

naturalis ratio universale; questa prospettiva è richiamata anche nella

sintesi delle Institutiones, che identificare naturalis ius e ius gentium, ritenuti immutabili e costituiti dalla divina provvidenza: «naturalia quidem iura, quae apud omnes gentes peraeque servantur, divina quadam providentia constituta semper firma atque immutabilia permanent»7.

Ma cosa ne pensavano i primi autori cristiani? Paolo, riecheggiando Geremia 31, 33 (cfr. Ebr. 10, 16), fa allusioni ad una legge impressa da Dio

6 Aristotele, Retorica, 1373b 1-8, I, 6; tr. it. R. Laurenti, in Opere, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 53-54 (corsivo mio).

7 Digesta, I. 1. 1, 3-4: «Ius naturale est quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud

non humani generis proprium, sed omnium animalium quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque, commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam, iustius iuris peritia censeri. Ius gentium est quo gentes humanae utuntur. Quod a naturali recedere facile intelligere licet, quia illud omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit» (Ulpiano); I. 1. 9 «quod vero naturalis ratio inter omnes nomine constituit, id apud omnes peraeque custoditur vocaturque ius gentium» (Gaio); Inst., I. 2. 11: Corpus Iuris Civilis, ed. T. Mommsen - P. Krueger, I, ed. quarta decima, Weidmann, Berlin 1922.

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nel cuore umano: «Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono»8. I pagani stessi possono

conoscere questa legge naturale tramite la loro coscienza e su questa base vengono giudicati da Dio. Tuttavia l’idea che basti una conoscenza di tale legge e che questa sia di facile accesso non gli appartiene affatto.

Agostino (354-430 d.C.) fa propria e amplifica l’idea dell’ombra gettata dal peccato originale sulla legge naturale: proprio per questo è necessaria una legge scritta e positiva, coercitiva, che obblighi l’uomo a comportarsi giustamente, in uno stato giusto che può essere solo cristiano, perché conforme all’ordine divino9. Tuttavia permane in Agostino l’idea

ciceroniana di una legge naturale impressa in noi da una forza innata, derivata dalla legge divina e da cui deriva il diritto positivo. Non esita ad affermare che noi uomini, essendo ad immagine e somiglianza di Dio, abbiamo impressa in noi una razionalità che è divina e che seguirla significa seguire Dio10.

Altro autore alle spalle di Alberto e influente sul tema della legge naturale fu il platonico cristiano Calcidio (IV sec. d.C.), che commentò parte del Timeo. Consapevole del fatto che il Timeo porta il discorso sulla giustizia oltre il piano politico tratteggiato nella Repubblica, verso la giustizia nell’universo, definisce il cosmo come una repubblica in cui gli dei

8 Rm, 2, 14-15: ὅταν γὰρ ἔθνη τὰ μὴ νόμον ἔχοντα φύσει τὰ τοῦ νόμου ποιῇ, οὗτοι νόμον μὴ ἔχοντες ἑαυτοῖς εἰσι νόμος, οἵτινες ἐνδείκνυνται τὸ ἔργον τοῦ νόμου γραπτὸν ἐν ταῖς καρδίαις αὐτῶν, συμμαρτυρούσης αὐτῶν τῆς συνειδήσεως καὶ μεταξὺ ἀλλήλων τῶν λογισμῶν κατηγορούντων ἢ καὶ ἀπολογουμένων.

9 Ivi, p. 227. Cfr. Agostino, De civitate Dei, Libri I-X, ed. B. Dombart – A. Kalb, Brepols, Turnhout 1955, XIX, 21, 1.

10 R. Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2000, p. 237, 240, 247. Cfr. Agostino, De sermone Domini in monte libros duos, ed. A. Mutzenbecher, Brepols, Turnhout 1967, XXII, 27: «In hac enim ratione et imago Dei est, qua per fidem ad speciem reformamur. Actio itaque rationalis contemplationi rationali debet oboedire».

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impiegano vicendevolmente la giustizia: è da essa che fa derivare il diritto positivo, che è quindi subordinato a quello naturale11.

Risulta così evidente che l’intento principale di quest’opera non sia quello di procedere ad un’analisi della giustizia e dell’equità positiva, ma di quella naturale che, incarnandosi in qualche modo nelle leggi e nelle norme che di volta in volta vengono stabilite e definite, attribuisce loro la sostanza di norme di giustizia, derivata dal loro naturale equilibrio. Nello stesso modo dunque in cui Socrate, trattando della giustizia che regola i rapporti degli uomini, ha introdotto il quadro dell’organizzazione statale, Timeo di Locri, conformemente all’insegnamento di Pitagora e in quanto perfetto conoscitore anche della scienza astronomica, ha voluto analizzare quella giustizia di cui la divinità si serve nei propri confronti nella città o nello stato, se così lo vogliamo chiamare, questo nostro mondo sensibile.

Un autore importante, che sarà trattato nel primo capitolo, è Graziano, giurista del XII sec., fondatore del diritto canonico, autore del

Decretum, che sistematizza e risolve problematiche vecchie di vari secoli12.

Il dibattito successivo a Graziano differisce da quello a lui precedente: si discuteva principalmente della superiorità o meno del diritto naturale rispetto a quello scritto e mentre i canonisti si schierano nettamente a favore della sua superiorità, altri giuristi la negano conferendola al diritto positivo. Nella prima schiera troviamo ad esempio Martino di Braga (XII sec.)13 e

Rufino (XII sec.), che sostiene che il diritto naturale sia superiore al diritto scritto ed alla consuetudine per la sua dignità, per la sua ampiezza (che comprende tutto il genere umano) e per la sua origine creazionistica14 (Dio

avrebbe messo secondo questa concezione i principi della legge naturale nel cuore umano al momento della creazione). Un nome notevole appartenente a quei decretisti che sostengono la superiorità del diritto positivo è invece

11 Calcidio, Commentario al Timeo di Platone, tr. it. C. Moreschini, Bompiani, Milano 2003, p. 119, VI.

12 Ne parleremo al cap. 1, 4.

13 Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, cit., p. 300. 14 Ivi, p. 306.

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quello di Accursio (XIII sec.), che nega che il diritto naturale possa porre limiti al diritto positivo, essendogli inferiore15.

Per quanto riguarda le classificazioni della legge e del diritto, ritengo inopportuno riportarle tutte, visto che sono perlopiù riproposizioni della classificazione di Graziano; basti ricordare che in alcune classificazioni rientra anche la concezione ulpianea del diritto naturale, come in Rogerio (XII sec.)16, Stefano di Tournai (XII sec.)17, la Summa Monacensis18,

Siccardo da Cremona (XII sec.)19, Giovanni il Teutonico (XIII sec.)20 ed altri,

mentre Rufino la rifiuta nettamente21. Infine è da ricordare Simone da

Bisignano (XII sec.) che per la prima volta connette il diritto naturale alla

synderesis, che corrisponde nell’anima alla legge naturale e che può essere

oscurata dal peccato ma mai eliminata22.

Il retroterra di Alberto si compone così di autori classici, filosofi, decretisti e teologi. Nel primo capitolo sarà chiaro come egli attinga a tutte queste fonti per far suo il concetto di ius naturae e svilupparlo in modo coerente con la sua dottrina morale.

Il primo capitolo sarà dunque dedicato al concetto di virtù e ai suoi sviluppi e categorizzazioni nell’età medievale, e principalmente a due autori che, benché lontanissimi nel tempo, hanno l’influenza in assoluto maggiore sul De bono di Alberto: Cicerone, che Alberto utilizzerà principalmente per quanto riguarda lo ius naturae e le circostanze dell’azione, e lo scolastico Filippo il Cancelliere, autore della Summa più vicina ad Alberto e con cui egli si rapporta sempre, pur non nominandolo mai esplicitamente.

Il secondo capitolo di questa tesi si addentra invece nel testo albertino, occupandosi della definizione metafisica del bene e delle cause

15 Ivi, p. 327. 16 Ivi, p. 302. 17 Ivi, pp. 307-308. 18 Ivi, p. 312. 19 Ivi, p. 320. 20 Ivi, p. 324. 21 Ivi, pp. 304-306. 22 Ivi, pp. 313-314.

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materiali e formali dell’azione morale (rispettivamente il bonum in genere e le circostanze o singularia).

Il terzo capitolo è dedicato alla definizione delle cause efficienti e finali della virtù: saranno analizzati il concetto di volontarietà e di razionalità nell’azione morale, così come il ruolo della felicità terrena in Alberto.

Il quarto e ben più lungo capitolo si occupa del concetto di virtù cardinale o politica e delle denominazioni di essa, una volta viste le sue cause, concetto che prende le mosse dalla definizione aristotelica di virtù per poi svilupparsi grazie alle influenze dei molti autori cristiani. Inoltre sarà dedicato un paragrafo ad ogni virtù cardinale, fortezza, temperantia,

prudentia e iustitia: per quanto riguarda le ultime due virtù vi saranno delle

particolarità da rilevare, come il ruolo determinante della prudentia nel cercare il medio delle altre virtù, o il posto speciale che spetta alla iustitia. È qui che si trova il succo della moralità, il diritto naturale, che definisce i principi da seguire nell’azione.

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Capitolo primo

Le virtù cardinali e la legge naturale dall’antichità al

XIII secolo

Nel De bono Alberto Magno indaga la natura delle quattro virtù cardinali. Si data quest’opera, incompleta, tra il 1240 ed il 12471. Il trattato

è strutturato come un’estesa quaestio disputata, fatta di più articoli, ciascuno dei quali esamina un tema a partire da definizioni autorevoli e successive obiezioni; alla solutio magistrale di Alberto seguono le risposte alle obiezioni iniziali. Il De bono rientra nel genere della Summa, uno dei quattro generi letterari delle università XIII secolo, che ha diversi antecedenti, tra cui Guglielmo di Auxerre con la Summa aurea e Filippo il Cancelliere con la Summa de bono, uno dei punti di riferimento principali di Alberto.

In particolar modo la struttura dell’opera è composta di cinque trattati, uno introduttivo e poi uno per ogni virtù, suddivisi in quaestiones.

1. De bono in genere.

- Q. I. De bono secundum communem intentionem boni. - Q. II. De divisione boni.

- Q. III. De bono ex circumstantia. - Q. IV. De bono virtutis politicae.

- Q. V. Quid sit virtus secundum substantiam et diffinitionem.

2. De fortitudine.

- Q. I. De fortitudine in genere. - Q. III. De partibus fortitudinis.

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9 3. De temperantia.

- Q. I. De temperantia in se. - Q. II. De continentia. - Q. III. De castitate.

- Q. IV. De clementia et modestia. - Q. V. De passionibus.

4. De prudentia.

- Q. I. De prudentia in se. - Q. II. De partibus prudentiae. 5. De iustitia.

- Q. I. De iure et lege naturali. - Q. II. De legibus.

- Q. III. De iustitia.

- Q. IV (addita). De iustitia speciali.

Come già detto, il tema principale è lo sviluppo delle virtù cardinali. Il primo trattato riguarda la definizione di bonum in genere: esso si apre infatti con una lunga quaestio di argomento metafisico, i cui principali temi sono la natura del bene, il rapporto tra bene creato ed increato e la sua convertibilità con il vero e l’essere2. Dopo aver stabilito gli indispensabili

termini metafisici del concetto di bene, Alberto passa a distinguerne vari tipi: il bene fisico, traccia della trinità divina, ed il bene morale, vero punto centrale di tutta la Summa3. Il bene morale si suddivide a sua volta in bonum in genere, un tipo di bene non ancora determinato e concretizzato

in azione, bonum ex circumstantia, intendendo con circumstantia quel contesto che rende unica un’azione, ed infine bonum virtutis politicae, il bene più alto e più determinato, che raccoglie sotto di sé tutti i generi

2 Albertus Magnus, De bono, in Opera omnia, vol. 28, ed. H. Kühle, C. Feckes, B. Geyer e W. Kübel, Aschendorff, Münster 1951, tr. I, q. I.

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precedenti4. Alberto distingue varie cause del bonum virtutis: il bene in

generale è la materia da cui esso si forma, determinata dalla forma che è data dalle circostanze5; le stesse azioni virtuose sono causa efficiente più

prossima della virtù6; la causa finale è costituita sia dalla virtù stessa, che in

quanto bonum è fine a se stessa, sia dal raggiungimento della felicità terrena. Alberto distingue quindi per negazione il concetto di volontario dall’involontario, che si suddivide in per violentiam e per ignorantiam7

come d’altra parte già in Aristotele8. Si dedica poi a distinguere le parti

dell’azione volontaria (l’unica imputabile di responsabilità e colpa) in scelta e deliberazione, da ricondursi alla stessa facoltà della ragion pratica9. Infine,

il trattato I si chiude con vari interrogativi dedicati alla virtù civile vera e propria, come il problema del numero delle virtù e del nome, “cardinale” o “politica”10.

Alberto prosegue quindi dedicando a ciascuna virtù un trattato completo: di ogni virtù egli si chiede quale sia la definizione, quale il suo atto proprio ed in quali parti si divida. Particolarmente interessante è l’ultimo trattato, dedicato alla giustizia, che si apre con una quaestio sulla legge ed il diritto naturale, in cui Alberto riprende le posizioni dell’epoca per discuterle e sistematizzarle11. Uno dei problemi che si ritrova a fronteggiare è quello

del rapporto tra il numero delle virtù, quattro, e le facoltà dell’anima da esse perfezionate, che sono tre come nel pensiero aristotelico: ragione, parte irascibile e parte concupiscibile. Alberto risolverà il problema ascrivendo alla facoltà razionale sia la prudentia che la iustitia12.

4 Ivi, tr. I, q. II, artt. 4-8.

5 Ivi, tr. I, q. III. 6 Ivi, tr. I, q. IV, art. 2. 7 Ivi, tr. I, q. IV, artt. 3-5.

8 Aristotele, Etica Nicomachea, II, 2-3, 1110 b 18-1111 b 3. 9 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, artt. 6-8.

10 Ivi, tr. I, q. VI, artt.1-2. 11 Ivi, tr. V, q. I.

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Alberto fa uso di una fitta selva di auctores, prendendo indifferentemente spunto da autori sia antichi che cristiani che islamici. Bisogna a questo proposito ribadire la natura di questa Summa: per quanto sia opera di un teologo e miri alla formazione teologica, la teologia è presente solo come sottotesto nella sezione metafisica e non costituisce il tema centrale del discorso. Per questo motivo la presenza, ad esempio, delle Sacre Scritture è, se non trascurabile, quanto meno occasionale. Ben più importanti sono fonti classiche, come Cicerone, sicuramente il più citato (anche perché auctor delle tradizioni giuridiche), Aristotele, sul cui modello si sviluppa buona parte del primo trattato, Avicenna, Averroè, al-Ghazali. Non mancano autori cristiani, come Agostino, importantissimo per le obiezioni che vengono mosse, Severino Boezio, Abelardo, Pietro Lombardo, Filippo il Cancelliere, mai citato esplicitamente ma ben presente attraverso riferimenti ‘cifrati’ nel testo, e molti altri.

Ritengo a questo proposito opportuno occuparmi in primo luogo di una trattazione delle opinioni più rilevanti a proposito di virtù cardinali e del concetto di legge naturale; seguirà il pensiero di Cicerone e la sua influenza su Alberto e sul Medioevo, quindi il rapporto con Filippo il Cancelliere.

Non sarà necessario, invece, dedicare una sezione ad Aristotele: lo Stagirita, beninteso, è citato e ha una sua influenza su quest’opera di Alberto, ma non ci troviamo ancora di fronte ad un vero e proprio commento al testo di Aristotele, che seguirà a breve, tra 1248 e 125213 (il De bono è

datato verso il 1240-124714). Il successivo tentativo di Alberto di presentare

l’Aristotele morale in accordo con il cristianesimo15 qui non ha ancora avuto

luogo.

13 R. Lambertini, Felicità, virtù e “ragion pratica”: aspetti della discussione sull’etica, in La filosofia nelle università, secoli XIII-XIV, a c. di L. Bianchi, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 309.

14 Cunningham, Reclaiming Moral Agency, cit., p. 36.

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Tuttavia è già presente come sfondo al De bono un’idea che sarà rivoluzionaria: nell’Etica Nicomachea Aristotele traccia un percorso di felicità pienamente realizzabile con mezzi puramente umani entro l’orizzonte di questa vita, senza che intervenga alcun elemento soprannaturale16. Alberto riuscirà nell’impresa di accordare questo pensiero

al cristianesimo presentando Aristotele come non opposto alla tradizione, in cui la definizione di virtù di Pietro Lombardo, che vedremo a breve, riguarda, come secondo i successori dello stesso Lombardo, solo le virtù infuse17. Sarà così che Alberto potrà sostenere che Aristotele non parli di

ultraterreno perché ciò non compete alla filosofia, mentre le compete quella felicità che riguarda l’uomo come essere terreno e mortale, in cui egli raggiunge la piena realizzazione in quanto uomo18.

16 Ibidem.

17 Ibidem. 18 Ibidem.

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1. Il problema della virtù

Durante il Medioevo, le virtù cardinali si integrano nel pensiero cristiano, suggerendo, per la loro origine non cristiana, che un certo grado di bontà sia raggiungibile nella vita umana terrena19, proprio come sosterrà

anche Alberto. I Padri della Chiesa furono i primi a conoscere lo schema delle quattro virtù tramite scritti stoici e neoplatonici e lo associarono a passi di Antico e Nuovo Testamento. Fu Ambrogio il primo a coniare il termine “cardinali” e ad associare le quattro virtù ai quattro fiumi del paradiso20. Girolamo elevò queste stesse virtù sostenendo che servissero a

vivere in stato di grazia21. Agostino proseguì sulla stessa linea precisando

però che qualsiasi virtù è impossibile senza grazia, fede e carità e disapprovando, pertanto, il restringimento delle virtù al campo terreno. Esse sono nella sua concezione delle istanze dell’amore verso Dio22.

Le virtù così cristianizzate entrano nell’Alto Medioevo. Dopo il VI secolo vengono viste come strumenti per vivere in accordo con i precetti divini e a partire dall’VIII come strumenti di educazione morale23. Gregorio

Magno e Beda il Venerabile tentarono una prima suddivisione delle varie virtù distinguendo il piano della fides, in cui sono coinvolte le tre virtù teologali, da quello dell’operatio, che vede muoversi le virtù cardinali. Fu anche grazie a loro che divenne di uso comune il termine “virtù cardinali”24.

Ma certamente non vi fu posto per un’idea di queste virtù prettamente

19 I. P. Bejczy, The Cardinal Virtues in the Middle Ages: A Study in Moral Thought from the Fourth to the Fourteenth Century, Brill, Leiden Boston 2011, Introduction, pp. 1-3. 20 Ivi, pp. 12-17.

21 Ivi, pp. 18-22. 22 Ivi, pp. 22-28.

23 Ivi, p. 47: «From the sixth century, the virtues served as instruments which enabled believers to live in accordance with God’s precepts in their active lives and thereby to obtain a celestial reward. From the eighth century, the virtues moreover became the object of moral education. While Ambrose, Jerome, and Augustine assumed that Christians possessed the virtues by having accepted the faith, early medieval authors stressed the need for Christians to live by the virtues in order to fulfill their religious duties and to resist the temptation of sin».

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umana e filosofica: esse erano viste come doni divini, tanto da comparire nelle agiografie dei santi25. Un piccolo gruppo di scritti filosofici è in

controtendenza, come il De differentiis topicis ed il Commento all’Isagoge

di Porfirio di Boezio, nei quali egli connette le virtù al governo secolare,

concentrandosi sul significato filosofico26. Sarà caratteristica peculiare degli

scritti morali di epoca carolingia quella di associare le virtù cardinali con il potere secolare27.

Il XII secolo vede un forte rinnovamento nella concezione della virtù. Ci troviamo di fronte a vari approcci, secondo Bejczy: da una parte abbiamo il punto di vista secolarizzante e filosofico che sostiene la concezione classica delle virtù cardinali, con Aristotele e Boezio come principali autorità cui riferirsi28; dall’altra a partire dal pensiero agostiniano si sviluppa con Pietro

Lombardo ed alcuni circoli di studiosi un approccio decisamente conservativo e religioso nella sua concezione delle virtù29; infine vi è

l’approccio dei maestri parigini a partire dalla seconda metà del XII secolo, che distingueranno tra le virtù salvifiche e quelle non derivate dalla grazia, ma naturalmente ottenibili da ogni essere umano30. Alberto si riallaccia

senza ombra di dubbio in quest’ultima tradizione.

25 Ivi, pp. 52-53: «The use of the cardinal virtues in early medieval exegesis and hagiography obviously confirms the religious interpretation of the virtues as elaborated in contemporary moral and spiritual writing. The association of countless biblical passages with the quartet suggests that the virtues are an integral part of God’s message, while the attribution of the cardinal virtues to saints accentuates the idea that the virtues are divine gifts which elevate believers to God».

26 Ivi, pp. 54-55. 27 Ivi, p. 59. 28 Ivi, pp. 69-71 29 Ibidem.

30 Ibidem: «Modern scholars have depicted twelfth-century ethical discourse as revolving around a divide between a progressive, secularizing, philosophical approach, with Aristotle and Boethius as its authorities and Peter Abelard as its chief representative, and a conservative, religious, theological approach, based on Augustine and determining the views laid down by 1160 in Peter Lombard’s Sententiae. […] A third position originated in Parisian theology after 1160. The Parisian masters recognized virtue on a double level: true, gratuitous, salvific virtues were accessible to Christians only, while non-gratuitous virtues, conducive to earthly ends, were attainable for every upright human being».

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Un suo antecedente può essere considerato il francese Ildeberto di Lavardin (1056-1133), che promosse un’etica naturalistica: secondo il suo punto di vista esiste una bontà naturale umana sviluppabile dall’uomo, da solo, per realizzare l’ideale della vita umana, la felicità31. In queste parole

sembra di udire già la voce di Alberto. Interessante è anche la concezione di Abelardo, che comunque non ebbe una grande influenza su Alberto: per lui la prudenza non è una virtù, ma una scienza, come sostiene Aristotele; contrariamente a quel che si potrebbe pensare, egli non sostiene mai però che l’uomo possa sviluppare la virtù senza l’aiuto della grazia, spingendosi a suggerire che gli antichi pagani possedessero la virtù per intervento divino32.

Non mancano gli esempi di quello che abbiamo detto essere il secondo approccio, religioso, alla virtù: da Anselmo d’Aosta, a Ugo di San Vittore, a Bernardo di Chiaravalle, molti sarebbero i nomi da citare. Basti dire che per loro non può esistere alcuna virtù fuori dalla fede e dalla grazia cristiane33.

Una piccola rivoluzione fu quella operata dai successori di Pietro Lombardo la cui definizione porterà alla distinzione netta tra virtù teologali e cardinali: egli definisce la virtù come quella buona qualità della mente per cui si vive rettamente, che nessuno usa male e con cui Dio (riecheggia qui Agostino) opera in noi34. I maestri parigini a lui successivi del circolo di

Pietro Cantore si muoveranno a riconoscere la presenza di una certa dose di virtù morale fuori dalla religione, restringendo la definizione del Lombardo alle sole virtù teologali35. Delle virtù cardinali accentueranno invece

31 Ivi, pp. 78-79.

32 Ivi, pp. 87-90.

33 Ivi, pp. 92-93, pp. 100-104 e p. 113.

34 Ivi, pp. 119-121. Cfr. anche Pietro Lombardo, Sententiae in IV libris distinctae, Collegii S. Bonaventurae ad claras aquas, Grottaferrata 1971, II.27.1 §1, 1: 480: «Virtus est, ut ait Augustinus, bona qualitas mentis, qua recte vivitur et qua nullus male utitur, quam Deus solus in homine operatur».

35 Bejczy, The Cardinal Virtues in the Middle Ages, cit., ch. Two, The Twelfth Century, pp. 124-125: «In his unedited Summa Abel, a scholarly lexicon of religious key concepts, the Chanter restricts the Lombard’s definition of virtue to faith, hope, and charity, which he

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l’aspetto essenzialmente politico e sociale; il loro sviluppo è possibile a partire da una disposizione innata, grazie alla quale si passa ad un possesso

in habitu, la cui manifestazione consiste nell’uso di tali virtù36. Alberto

appartiene appieno anche a questa corrente. Vedremo come egli cercherà di sistematizzare e dare fondazione metafisica a questa concezione della virtù. Una prima sistematizzazione delle virtù si ha in Guglielmo d’Auxerre (1150 ca. – 1231), con la sua Summa aurea (composta tra il 1215 e il 1220). Da notare che la definizione aristotelica della virtù consistente in una medietà è citata ma non adottata: Guglielmo fa sua la definizione del Lombardo. Egli distingue comunque tra virtù cardinali e teologali, in una classificazione che dipende dall’oggetto proprio delle virtù. Mentre il primo tipo deriva da una forza della natura e si acquisisce con una semplice ripetizione di atti, la seconda tipologia di virtù non esiste senza grazia. Finalmente è stabilita una divisione netta che avrà successo negli autori successivi fino ad Alberto37.

Un altro problema, cronologicamente successivo, è quello del numero delle virtù cardinali, che secondo la tradizione sono quattro: temperanza, forza, prudenza, giustizia. È un numero che va giustificato, tanto più che neanche in Aristotele dette virtù si troveranno da sole: la prudenza rientra nelle cinque virtù intellettuali e quanto alle virtù morali se ne hanno ben undici. In molti si cimentano nell’impresa: Bonaventura, Alessandro di Hales e lo stesso Alberto, riportando gli argomenti del teologo parigino Filippo il Cancelliere (1165 ca. – 1236) 38. Dobbiamo ora spendere

qualche parola su quest’ultimo, che è l’interlocutore contemporaneo più importante per Alberto. Come ammettere quattro virtù se le facoltà dell’anima sono soltanto tre (razionale, irascibile e concupiscibile)? Il

calls “Catholic virtues” in contradistinction to the four “cardinal, political, or philosophical” virtues».

36 Ibidem.

37 D. O. Lottin, Psychologie et Morale aux XIIe et XIIe siècles, J. Duculot éditeur, Abbaye du

Mont César Louvain 1949, Tome III Seconde partie, pp. 142-150. 38 Ivi, Tome III Seconde partie, pp. 156-174.

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problema è risolto distinguendo tra atti e facoltà: difatti se per le due parti inferiori dell’anima abbiamo un solo atto, regolato rispettivamente da fortezza e temperanza, nella ragione pratica gli atti moralmente buoni possono essere di due tipi, l’uno orientato alla conoscenza del bene e del male, regolato dalla prudenza, l’altro orientato al comportamento verso il prossimo, amministrato dalla virtù della giustizia39. Quindi il numero delle

virtù dipende dal numero di tipologie di atto, non dalle facoltà dell’anima. Vedremo poi come Alberto utilizzi queste distinzioni, accettandole criticamente: egli rimarca infatti una gerarchia tra le facoltà, da una parte quelle regolate e sottomesse, dall’altra quella regolatrice, la ragione, che ha il compito di regolare il rapporto con gli altri e le passioni umane. L’idea della prudenza come facoltà il cui atto proprio è conoscere il bene ed il male sarà comunque ripresa nel De bono. Un’ulteriore argomentazione ultile a salvare lo schema a quattro delle virtù è l’idea presa in prestito da Bernardo di Chiaravalle che vi siano quattro condizioni necessarie al crearsi della virtù, ciascuna tutelata da una virtù cardinale: conoscenza, volontà, perseveranza e moderazione40.

Un ulteriore punto di discussione è il termine utilizzato per definire le virtù: cardinali proviene da cardo, “cardine”, ciò che fa aprire una porta. Tra Filippo ed Alberto c’è accordo nel sostenere che “cardinali” significa “principali”, in quanto queste virtù riguardano gli atti più importanti di ogni facoltà. Vi sarà anche una discussione sugli altri termini con cui sono definite (“politiche” o “civili”), ma i dettagli li vedremo nel quarto capitolo. Troviamo alcuni esempi di ramificazione delle quattro virtù presso

39 Ivi, Tome III Seconde partie, pp. 166-167. Cfr. Filippo il Cancelliere, Summa de bono, ed. Nicolai Wicki, Editions A. Francke SA, Berne 1985, p. 745, De bono gratie in homine, II, q. I, A133rb.

40 Bejczy, The Cardinal Virtues in the Middle Ages, cit., ch. Three, The Thirteenth and Fourteenth Centuries, p. 156.

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Guglielmo di Auxerre e Filippo il Cancelliere, ma il maggiore apporto a questo tema sarà dato dallo stesso Alberto41.

Il problema della connessione delle virtù viene ampiamente trattato, sia per quanto riguarda le virtù teologali (su cui quasi tutti convengono che la connessione sia data grazie alla virtù di carità) sia per quanto riguarda la connessione di virtù naturali tra di loro: su questo tema c’è invece meno accordo tra i predecessori di Alberto, per cui mentre Guglielmo d’Auxerre e Odone Rigaldi si schierano contro una possibile connessione, Filippo è invece a favore così come San Bonaventura42. Il problema principale

dell’ammettere una simile connessione è che tali virtù derivano dalla ripetizione di atti similmente virtuosi e ciò vale per ognuna delle virtù. Tuttavia per Filippo si può ammettere in senso analogico una connessione, per cui piacere, dolore e ciò che caratterizza ogni atto virtuoso di ciascun tipo si trova in realtà in ogni atto virtuoso di altro tipo. Bonaventura riprende questo tema affermando che ogni atto virtuoso richiede le condizioni delle quattro virtù.

Infine, vi è il problema del posto da far occupare alla prudentia, che nell’Etica Nicomachea è trattata come virtù intellettuale. Molti nel XIII secolo distinguono tra la concezione intellettuale della prudenza e la concezione che ne sottolinea il ruolo nella scelta morale43.

Alberto già nel De bono sostiene la funzione di guida esercitata da parte della prudenza, come auriga delle virtù, che occupa un terreno di mezzo tra virtù morali e intellettuali. Il suo è un trattato per certi versi atipico, in quanto ha interesse per le virtù cardinali acquisite come

41 Lottin, Psychologie et Morale aux XIIe et XIIe siècles, cit., Tome III Seconde partie, pp.

174-180.

42 Lottin, Psychologie et Morale aux XIIe et XIIe siècles, cit., Tome III Seconde partie, pp.

209-231.

43 Bejczy, The Cardinal Virtues in the Middle Ages, cit., ch. Three, The Thirteenth and Fourteenth Centuries, pp. 163-168.

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politicamente rilevanti, lasciando da parte le questioni teologiche che occupano tanto posto in Filippo il Cancelliere44.

44 Ibidem.

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2. Cicerone e i suoi lettori medievali

Cicerone è uno tra gli autori romani classici largamente studiato e discusso per tutto il corso del Medioevo prima e dopo l’epoca delle traduzioni. Anche durante in piena età scolastica, Alberto, Tommaso e altri (Giovanni da Parigi, Marsilio da Padova) testimoniano una continua discussione dei testi ciceroniani. Dunque l’interesse di Alberto per il pensiero di Cicerone non è affatto controcorrente, ma anzi si colloca in una tradizione che affonda le sue radici nel primo Medioevo. In effetti l’idea ciceroniana dell’inclinazione naturale ad aggregarsi forniva una via media tra le tesi aristoteliche, che dipingono l’uomo come animale politico per natura, in virtù della quale nessun fattore può limitare l’impulso umano ad associarsi, ed il modello agostiniano, che evidenziando i limiti della civitas

terrena sosteneva che, a causa del peccato originale, le istituzioni politiche

erano necessarie per rinforzare una pace, una giustizia e un’armonia impossibili da raggiungere senza una forza coercitiva che reprimesse i moti passionali dell’uomo. Per Cicerone il riconoscimento di questa natura non è immediato come in Aristotele ma va risvegliato ed esplicitato con ragione ed eloquenza (arte da coltivare nella res publica per impedire che i malvagi prendano il sopravvento). Gli uomini si uniranno quando si renderanno conto che è naturale farlo, e tuttavia riuscirvi non è impossibile nonostante, nell’ottica cristiana, permanga il peccato originale, perché la nostra natura razionale è in grado di elevarci oltre le passioni, le bassezze e gli interessi personali, che impediscono di perseguire il bene comune45. Una volta

costituito lo Stato, il suo scopo sarà quello di rinforzare pienamente i diritti privati e pubblici che sono stati acquisiti.

45 C.J. Nederman, Nature, Sin and the Origins of Society: the Ciceronian Tradition in Medieval Political Thought, «Journal of the History of Ideas», 49 (1988) pp. 3-26, cfr. pp. 4-6.

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Queste idee influenzeranno moltissimo i filosofi latini, a partire da Giovanni di Salisbury, che già nell’XI secolo adottava le tesi ciceroniane nella polemica contro Cornifico nel suo Metalogicon, sostenendo che Dio ci ha dato la capacità di migliorarci attraverso l’applicazione della ragione e della parola, e che solo in società raggiungeremo la felicità terrena46.

Abbiamo poi degli sviluppi con Brunetto Latini, che, pur rifacendosi in gran parte ad Aristotele nella traduzione del Grossatesta, segue Cicerone nella visione della società politica47. Passiamo quindi ad Alberto e Tommaso, che

condividono la dottrina della legge naturale di Cicerone48, ma, come

vedremo in Alberto, con delle modifiche necessarie ad adattarla alla visione cosmica cristiana. Giovanni da Parigi si occupò invece della dicotomia tra bene comune e interesse individuale e sostenne, sviluppando Cicerone, che nessuna società umana può basarsi su di un’imposizione coercitiva; è legittima invece quando è stabilita con un processo consensuale49. Infine

arriviamo al 1300 con Marsilio da Padova, in cui abbiamo ancora molti rifacimenti a Cicerone50. Egli resta dunque un punto di riferimento

importante, anche dopo le traduzioni integrali della Politica e dell’Etica

nicomachea, in quanto Aristotele a differenza di Cicerone non sviluppa un

discorso compiuto ed esplicito riguardante una legge naturale comune a tutti gli uomini.

L’idea di un Cicerone eclettico e non originale è ampiamente discussa e contestata. Seagrave in Cicero, Aquinas and contemporary issues in

natural law theory rigetta questa tesi per presentarci un Cicerone

innovatore, calato nella tradizione stoica ma al contempo conoscitore del pensiero peripatetico e anche di quello medio-platonico ed epicureo: l’idea

46 C.J. Nederman. Cicero in Political Philosophy, in H. Lagerlund (ed.), Encyclopedia of Medieval Philosophy. Philosophy Between 500 and 1500, Springer, Dordrecht 2011, pp. 216-220, p. 217. Cfr. Nederman, Nature, Sin and the Origins of Society, cit., pp. 11-14. 47 Nederman, Cicero in Political Philosophy, cit., p. 217-218.

48 Ivi, p. 218.

49 Nederman, Nature, Sin and the Origins of Society, cit., pp. 15-19. Cfr. Nederman. Cicero in Political Philosophy, cit., p. 218.

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di Seagrave è che «Cicerone ripete le opinioni degli altri quando sono rilevanti per lo “scopo” della sua esposizione»51, producendo dunque idee e

tesi filosofiche originali. Sebbene si possa notare una certa reticenza nel dire la sua, è rintracciabile una dottrina morale originale espressa ampiamente nel De republica e nel De legibus.

Il pensiero di Cicerone si articola a partire da una natura umana aristotelica con cui egli descrive l’anima in modo composito52. Due forze si

fronteggiano: l’una, appetitiva e concupiscibile, se seguita ci trascina nelle bassezze; l’altra, alta e razionale, ci eleva a spiriti superiori quali siamo secondo Cicerone. «Il problema di decidere tra queste inclinazioni nel determinare correttamente le proprie azioni non esiste per Cicerone per la semplice ragione che l’aspetto razionale dell’uomo è chiaramente superiore al suo aspetto animale»53. La natura umana più propria è quella data dalle

nostre facoltà razionali, che permettono il pieno sviluppo morale e intellettuale. Naturale è quindi ciò che si conforma alla ragione.

Da qui Cicerone trae la sua teoria sulla legge naturale: essa è comune a tutti gli uomini (grazie alla comune ragione), da essa deriva il diritto consuetudinario e positivo. Obbedirle è obbedire alla nostra propria natura54. Vivere secondo natura significa vivere secondo la piena e

sviluppata natura umana, non mancante di nulla. Solo così potremo raggiungere il Sommo Bene, lo scopo della vita umana55. Inoltre per

Cicerone la legge naturale, la legge di ragione e la legge di Dio sono sostanzialmente la stessa cosa56: le inclinazioni naturali sono connesse alla

51 S. A. Seagrave, Cicero, Aquinas, and contemporary issues in natural law theory, «The Review of Metaphysics», 62/3 (2009), pp. 491-523. «Cicero only reapeats the opinions of others when they are relevant to the “purpose” of his own exposition» p. 496, traduzione mia.

52 Ivi, cit., p. 498 e seguenti.

53 «The problem of deciding between these inclinations in correctly determining one’s actions does not exist for Cicero for the simple reason that man’s rational aspect is clearly superior to his animal one», ivi, p. 504, traduzione mia.

54 Ibidem.

55 Cicerone, De finibus, V, 9.

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legge divina ed eterna, che si esplica nella legge di natura, la cui eternità ha quindi un fondamento religioso. Sostenendo anche che la lex aeterna o divina consiste in un ordine cosmico che regola il divenire di ogni cosa57, si

può ben vedere come il Medioevo latino abbia apprezzato ed usato la teoria del diritto naturale di Cicerone, che ben si accorda con l’ordine cosmico retto dal Dio creatore del cristianesimo.

Tuttavia il De republica ed il De legibus non erano granché noti negli ambienti scolastici che ci interessano. Molto più diffusi all’epoca erano invece il De officiis ed il De inventione, come vedremo, dove il pensiero ciceroniano riflette comunque l’idea che egli si è fatto della natura umana e dove troviamo una definizione simile di legge naturale58. In entrambi i testi

si svolge una spiegazione della società umana e di come essa si sia formata: partendo da uno stato che più che naturale si può definire brutale, in cui ciascuno persegue il suo proprio interesse, si passa allo stato civile dove sono perseguiti l’utile e l’onesto. Questo passaggio avviene grazie alla persuasione o eloquenza, che grazie alla parola esplica il contenuto della ragione umana, ovvero la legge di natura59. Cicerone sostiene che per

operare una simile rivoluzione primitiva ci sia stato bisogno dell’intervento di uno o più uomini dotati di particolare eloquenza. Dunque gli uomini hanno una naturale propensione ad aggregarsi in società, e tuttavia l’associazione non è affatto qualcosa di necessario come lo è in Aristotele: lo stato civile è contingente perché la natura umana ha bisogno di essere

57 Ivi, p. 99.

58 Cicerone, De inventione, II, 53, Congedo Editore, Galatina 1998, tr. it. di M. Greco, p. 301: «La giustizia è l’abito mentale che […] garantisce ad ognuno la sua dignità. Il suo principio risale alla natura». Cfr. anche Cicerone, De officiis, III, 68-72.

59 Cicerone, De inventione, I, 2, tr. it. di M. Greco: «Ci fu infatti un tempo quando gli uomini vagavano per i campi come le bestie […]; nessuno aveva compreso quale utilità avesse il diritto naturale per tutti. […] In quel periodo un uomo veramente grandee saggio riuscì a capire quale fosse la natura dell’animo umano […]. Fu lui che, seguendo un disegno razionale, spinse e riunì in un luogo gli uomini […] inducendoli a fare ogni cosa in modo utile e onesto […], erano divenuti più sensibili alla persuasione e alla parola». Cfr. anche Cicerone, De officiis, I, 53 «Gradus autem plures sunt societatis hominum. Ut enim ab illa infinita discedatur, proprior est eiusdem gentis, nationis, linguae, qua maxime homines coniunguntur».

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risvegliata, ha bisogno di uno stimolo, senza il quale l’aggregazione sociale potrebbe non verificarsi.

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3. Alberto lettore di Cicerone

In Alberto l’influenza di Cicerone si fa sentire soprattutto per la teoria del diritto naturale. Nell’ultimo trattato del De bono, il quinto, dedicato alla giustizia, Alberto fa molti riferimenti, principalmente al De inventione, ma sottotraccia anche al De officiis (ad esempio per quanto riguarda la definizione della giustizia come rendere a ciascuno il suo60 o per l’idea che

la legge positiva sia fondata sulla legge naturale61, che fornisce anche le basi

per le virtù sociali62)63.

Il De officiis, trattato sui doveri ispirato dalla dottrina di Panezio da Rodi, è un trattato morale molto diverso dall’Etica Nicomachea, da cui Cicerone trae comunque moltissimi spunti. Inizialmente Cicerone sviluppa un discorso sulle virtù civili a partire dall’indagine del bene, la prudenza, passando per la giustizia (che consiste sia nel non arrecare danni che nel dare a ciascuno il suo), la fortezza (definita come un animo grande che disprezza i beni esteriori e sopporta ogni tipo di prova) per finire con la temperanza, che acquieta le passioni e fornisce la giusta misura, o decoro, in ogni azione64. A più riprese la giustizia è presentata come la virtù più alta,

perché informa la conoscenza del giusto e dell’ingiusto e fornisce i criteri per il vivere comunitario, permettendo così la tutela dei popoli65. Il dovere è

dunque, seguendo lo stoico Panezio, ciò che è utile e onesto: le due

60 Cicerone, De officiis, I, 20-24. 61 Ivi, III, 21-23.

62 Ivi, III, 24-26.

63 Alberto Magno, De bono, tr. V, pp. 259-305. 64 Cicerone, De officiis, I, 15.

65 Ivi, I, 20 («De tribus autem reliquis latissime patet ea ratio, qua societas hominum inter ipsos et vitae quasi communitas continetur; cuius partes duae: iustitia, in qua virtutis splendor est maximus, ex qua viri boni nominantur, et huic coniuncta beneficentia, quam eandem vel benignitatem vel liberalitatem appellari licet»), 153 («Placet igitur aptiora esse naturae ea officia, quae ex communitate, quam ea, quae ex cognitione ducantur. […] Certe necesse est, quod a communitate ducatur officium, id esse maximum»), II, 41 («Ius enim semper est quaesitum aequabile; neque enim aliter esset ius. Id si ab uno iusto et bono viro consequebantur, erant eo contenti; cum id minus contingeret, leges sunt inventae, quae cum omnibus semper una atque eadem voce loquerentur»).

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caratteristiche infatti coincidono e non possono contrastare che in apparenza66. Nonostante la guida principale di Cicerone sia Panezio,

troviamo spesso riferimenti aristotelici: dalle quattro virtù, le stesse a cui Aristotele da rilevanza, alla generosità che consiste nel giusto mezzo, per finire con la natura umana di cui abbiamo già parlato. Nel De inventione, poi, Cicerone ribadisce spesso che la legge naturale è in noi in quanto esseri razionali67 e che seguirla significa perseguire l’utile e l’onesto68.

Nel primo articolo del trattato V del De bono Alberto farà sua un’importante affermazione ciceroniana: «Il diritto naturale non deriva dall’opinione ma è stato impresso in noi da una forza innata»69. Alberto per

spiegare Cicerone ricorre al concetto di doppia potenzialità: egli sostiene che siamo esseri in potenza sia per la conoscenza dei termini della legge naturale, sia che per quanto riguarda il suo esercizio70. Tuttavia benché

l’anima umana sia una tabula rasa per la conoscenza dei termini, non lo è per quanto riguarda l’esercizio della legge naturale71, per la quale abbiamo

una naturale disposizione. Insomma siamo in grado di riconoscere il bene dal male e di praticarlo, ma abbiamo bisogno della società e della cultura per dare un nome a ciò che facciamo. Come si può vedere, Alberto qui prende una minima affermazione di Cicerone per trasformarla e plasmarla. Successivamente Alberto si domanda che cosa rientri nel diritto naturale. Per Cicerone vi rientrano la religione, la pietà, la gratitudine, la difesa dei propri diritti ed il rispetto72. A questa definizione si aggiunge

quella di Graziano ed Isidoro73. Tuttavia ci sono dei discostamenti in Alberto

dal testo originario di Cicerone, in cui la lista comprendeva anche il

66 Ivi, II, 10 («Quicquid enim iustum sit, id etiam utile esse censent, itemque quod honestum, idem iustum, ex quo efficitur, ut, quicquid honestum sit, idem sit utile»). 67 Cicerone, De inventione, III, 23.

68 Ivi, III, 13.

69 Alberto Magno, De bono, tr. V, q. I, art. 1, p. 259, ll. 14-16: «Naturae ius est, quod non opinio genuit, sed vis quaedam innata inseruit». Cfr. Cicerone, De inventione, II, 53. 70 Alberto Magno, De bono, tr. V, q. I, art. 1, solutio, p. 263, ll. 19-83.

71 Ivi, tr. V, q. I, art. 1, ad. 1um, p. 264, ll. 1-11. 72 Ivi, tr. V, q. I, art. 3, p. 271, ll. 74-75. 73 Ibidem, ll. 75-80 e cfr. p. 272, ll. 1-2.

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desiderio di vendetta e la verità74. Si può supporre che il desiderio di

vendetta non sia stato inserito da Alberto e sia stato sostituito dalla difesa dei propri diritti. Alberto risponde alle successive contestazioni degli argomenti contro Cicerone difendendone il punto di vista: i princìpi rientrano nel diritto naturale o in modo essenziale, o in modo subordinato, o in modo particolare75, e quelli enumerati da Cicerone vi rientrano nel

primo e secondo senso76. Ad esempio la religione è unica per tutti, anche se

poi si esplica in maniera diversa a seconda dei popoli e delle loro consuetudini77.

Dopo aver visto da vicino il diritto e la legge naturali e se questa possa ricevere dispensa divina, Alberto passa a trattare della legge in sé e per sé. Inizia dunque con un’ulteriore citazione attribuita a Cicerone: «la legge è il diritto scritto che prescrive l’onesto e proibisce il contrario»78. Questa

definizione è da attribuirsi ad un autore anonimo dell’Etica, che nel libro V, tr. III, c. III scrive: «lex large sumitur sic diffinita: lex est ius scriptum praecipiens honestum, prohibens contrarium»79. Tuttavia è possibile

rintracciare nel testo di Cicerone qualcosa di molto simile: «il diritto legislativo è quello contenuto in testo scritto che è esposto al popolo perché lo osservi»80 e qui abbiamo la componente di scrittura. D’altra parte la

giustizia è qui introdotta in un contesto in cui si cerca la natura dell’onesto, consistente nelle quattro virtù cardinali, che vengono esaminate81. Dunque

non è così azzardato mettere in bocca a Cicerone queste parole come ha fatto Alberto.

74 Cicerone, De inventione, II, 53.

75 Alberto Magno, De bono, tr. V, q. I, art. 3, solutio, p. 274, ll. 27-58. 76 Ibidem, ad 1um, ll. 59-69.

77 Ibidem, ll.70-74.

78 Ivi, tr. V, q. II, art. 1, p. 281, ll. 10-11. 79 Ivi., tr. I, q. IV, art. 2, p. 46, nota 70. 80 Cicerone, De inventione, II, 54. 81 Ivi, II, 53.

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Infine un ultimo riferimento a Cicerone viene fatto nell’introduzione alla quaestio III, che tratta della giustizia. Essa deve essere definita, come in Cicerone, tramite il diritto e la legge82.

Oltre al diritto naturale, Alberto è influenzato la riflessione ciceroniana relativa alla categorizzazione delle circostanze

Cunningham sostiene che la lista delle sette circostanze presente in Alberto sia da attribuire a Boezio, presa dal suo De topicis differentiis, e non a Cicerone, o che al più fosse una lista circolante negli ambienti accademici dell’epoca83. Tuttavia non si capisce questa sua affermazione se si guarda al De inventione, che all’epoca circolava liberamente, come vedremo a breve,

e nel quale sono presenti proprio le sette circostanze con le relative divisioni che ritroviamo in Alberto84. Dunque sono propensa a ritenere che la lista sia

effettivamente da attribuire a Cicerone e che Alberto conoscesse quel testo. Inoltre Alberto è tendenzialmente molto attento alle sue fonti, conosceva il

De topicis e non si capisce perché, se avesse preso la lista da Boezio, non

avrebbe dovuto citare il suo nome anziché quello di un pagano come Cicerone. È altrettanto vero però che in Cicerone il termine circustantia non compare mai: questo è da attribuirle al fatto che in questo autore, come vedremo, il discorso si sviluppa su una linea che nel De inventione è ben più giuridica che morale.

Il De inventione è un trattato di genere e tono molto diverso dal De

officiis, in quanto parte di un più ampio lavoro sulla Retorica. È dunque un

testo altamente specialistico dove si perde il tono colloquiale con cui Cicerone si rivolgeva al figlio nel De officiis. Dopo un breve attacco in cui viene rimarcata l’importanza dell’uso dell’eloquenza unitamente alla ragione e dove troviamo il passaggio dallo stato brutale a quello civile e “naturale”, reso possibile dalla ragione e dalla facoltà di linguaggio85, il

82 Alberto Magno, De bono, tr. V, q. III, p. 290, ll. 1-10. 83 Cunningham, Reclaiming Moral Agency, cit., p. 129.

84 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. III, art. 2, pp. 39-40. Cfr. Cicerone, De inventione, I, 24-27.

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lettore si addentra nelle complesse e dettagliate regole per una buona orazione giudiziaria. Tuttavia il succo del discorso prosegue nel trattare la giustizia, perché nella causa iuridicialis si ricerca la natura del giusto e dell’ingiusto. Possiamo scoprire nelle varie parti del discorso oratorio alcuni spunti che avranno molta influenza sugli autori scolastici, come la lista di prove da addurre, che diventano in Alberto le circostanze dell’azione: quelle relative alla persona, suddivise in nome, natura, abitudini ecc.; quelle relative al fatto stesso e da esso indivisibili (il quid ed il cur, il “cosa” ed il “perché” dell’azione); infine le prove che Cicerone definisce come relative alle circostanze, ovvero luogo, tempo, occasione, modo e possibilità86. Quasi

preannunciando alcuni sviluppi che vedremo in Alberto, Cicerone ammette che anche in ambito giuridico vi sono situazioni da considerare in base alle circostanze e all’intenzione e non per la loro natura87.

Nel genere di causa deliberativo si ricerca la natura dell’onesto e dell’utile. Cicerone termina di parlare delle orazioni da tenere in tribunale, in cui si ricerca il giusto, e discute di ciò che è da investigare per il suo intrinseco valore, l’onesto, ovvero le stesse virtù che nel De officiis prendono tanto spazio88. Parlando della giustizia, Cicerone aggiunge qualcosa che sarà

cruciale per Alberto: il diritto naturale non deriva dall’opinione ma è inculcato in noi da una forza innata89. Questa definizione è data all’interno

della divisione del diritto nelle sue parti: cruciale è il diritto naturale, dal cui principio deriva la virtù della giustizia; il diritto religioso consiste invece in quel sentimento che «spinge gli uomini a rispettare una qualche natura superiore che è chiamata divina, e ad osservarne il culto»90; troviamo quindi

il diritto consuetudinario, derivato dalla natura; infine, il diritto più esplicito è quello legislativo, osservato dal popolo.

86 Ivi, I, 24-28. 87 Ivi, II, 58. 88 Ivi, II, 52-54. 89 Ivi, II, 53. 90 Ibidem.

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Tornando alle circostanze, Alberto non si discosta dal testo ciceroniano e le riporta abbastanza fedelmente91. Il quis si divide in undici

parti: il nome, la natura (che a sua volta si suddivide in sesso, razza, patria, parentela, età), il genere di vita, la condizione (novem in Alberto), le abitudini o habitus, l’emotività o affectio, le tendenze (lo studium in Alberto), i progetti (consilium), le azioni, le vicende ed i discorsi (facta,

casus ed orationes)92. In Alberto troviamo piena corrispondenza. La lista

delle circostanze prosegue con il quid, la cui divisione in quattro parti è, stavolta veramente, da attribuire a Boezio93. Quindi abbiamo il perché (cur),

il luogo, il tempo, il modo94. Per quanto riguarda l’ultima circostanza

presente in Alberto, gli strumenti, essa non trova corrispondenza in Cicerone, che vi sostituisce l’occasione e la possibilità95 (che in Alberto

vanno a rientrare nel tempo96), ma in Boezio97. Come vedremo, le

circostanze assumeranno in Alberto una fondamentale valenza morale che non hanno in Cicerone, ma comunque l’apporto di questi è fondamentale.

91 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. III, art. 2, pp. 39-40.

92 Ivi, tr. I, q. III, art. 2, p. 39, ll. 1-61. Cfr. Cicerone, De inventione, II, 24-25.

93 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. III, art. 2, p. 39, ll. 67-80. Cfr. Boezio, De topicis differentiis, in Boezio, Opera omnia, ed. J.P. Migne, Parisiis 1891, Col 1212D.

94 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. III, art. 2, pp. 39-40. Cfr. Cicerone, De inventione, II, 26.

95 Ibidem.

96 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. III, art. 2, p. 40, ll. 1-24. 97 Boethius, De topicis differentiis, Col. 1212D.

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4. Canonisti, decretisti e teologi di età scolastica

Ma Alberto aveva sulla sua scrivania, per così dire, anche opere di autori bassomedievali (canonisti e teologi) che a vario titolo si erano occupati della legge naturale.

Graziano nel suo Decretum, opera del 1140 che per la prima volta sistematizza il diritto canonico e ne dirime le questioni che erano sorte nel corso dei secoli. Nell’opera di Graziano il diritto naturale è definito come ciò che è comune a tutti ed iscritto nella natura umana: consiste nel fare agli altri ciò che si vuole sia fatto e noi e non fare ciò che non si vuole sia fatto a noi. Ancora una volta il diritto naturale è superiore agli altri due, in quanto razionale, universale ed immutabile98.

Pietro Lombardo (1110-1160) seguì principalmente San Paolo nella sua definizione di legge naturale. Nelle Sententiae sostiene che il fondamento dell’etica sia derivato dal concetto di natura come norma morale generica. La legge naturale è stata scritta da Dio nel cuore dell’uomo, per conoscerla ed osservarla basta l’uso della ragione ed essa è comune ad ogni uomo in ogni tempo. Il contenuto di questa legge corrisponde alla legge di Mosè, scritta, data in aiuto alla debolezza della natura umana. Tuttavia non si spinge affatto ad affermare che tale conoscenza naturale abbia potuto salvare i pagani99.

Guglielmo d’Auxerre (XIII sec.) fu il primo ad integrare la legge naturale con la teologia. Egli sostenne che il diritto naturale fosse il fondamento per la norma delle virtù morali. Essa deriva dalla natura umana e consiste in ciò che detta la ragione, per cui gli enunciati pratici primi non

98 Ivi, pp. 293-299. Cfr. Graziano, Decretum Magistri Gratiani, ed. E. Friedberg, B. Tauchnitz, Leipzig 1879, I, dist. I: «Ius naturale est quod in Lege et Evangelium continetur: quo quisque iubetur alii facere qoud sibi vult fieri; et prohibetur alii inferre, quod sibi nolit fieri».

99 Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a San Tommaso D’Aquino, cit., pp. 354-357. L’idea della legge naturale come di semi, semina, insiti nella ragione umana sarà molto importante per Alberto, che tuttavia non avrà nella sua teoria sulla legge naturale gli sviluppi di Pietro il Lombardo.

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