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Gli atti come cause efficienti prossime della virtù

Cause efficienti e finali della virtù

2. Cause efficienti prossime e remote della virtù

2.1 Gli atti come cause efficienti prossime della virtù

Dato che la virtù è di due tipi, intellettuale e morale, la virtù intellettuale in genere nasce e si sviluppa a partire dall’insegnamento, ragione per cui ha bisogno di esperienza e di tempo; la virtù morale deriva dall’abitudine […]. A partire da ciò è anche chiaro che nessuna virtù morale nasce in noi per natura, dato che nessun ente naturale si abitua ad essere diverso: […] nessun’altra cosa che è per natura in un certo modo potrà venire abituata a essere diversa. Quindi le virtù non si generano né per natura né contro natura, ma è nella nostra natura accoglierle, e sono portate a perfezione in noi per mezzo dell’abitudine9.

L’articolo 210 si apre con questi riferimenti ad Aristotele, l’autore

cruciale per la dimostrazione che Alberto vuol compiere: le virtù sono causate direttamente dagli atti morali, che ne sono la causa efficiente prossima, poiché «gli stati abituali derivano da attività dello stesso tipo»11.

La virtù è quindi acquisita tramite l’abitudine e l’essere umano è naturalmente predisposto ad accoglierla. Tuttavia, sottolinea Alberto, la virtù non è propriamente appresa per natura, ma da un operare volontariamente e frequentemente in direzione del bene. Ed ecco che la virtù è riportata ad un più ampio contesto sociale e non semplicemente riferita alla vita privata. «Allora dal momento che i legislatori abituano [i cittadini] alle virtù politiche, la virtù è causata dall’essere operata frequentemente»12. Il legislatore ha per Alberto, come per Aristotele, il

compito di obbligare chiunque a diventare buon cittadino, con un uso iniziale della forza cogente che non sarà più necessario una volta che il cittadino avrà acquisito quelle virtù civili necessarie alla convivenza sociale.

9 Aristotele, Etica Nicomachea, II,1, 1103 a 15-26, trad. it. di C. Natali. 10 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, art. 2, pp. 46-50.

11 Aristotele, Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 22-23, trad. it. di C. Natali.

12 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, art. 2, p. 46, ll. 67-69: «Cum igitur legislatore assuefaciente ad virtutes politicas, virtus politica causabitur a frequenter operari».

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A quest’idea presa direttamente da Aristotele vengono opposte numerose obiezioni. Prendendo spunto da Avicenna, ad esempio, la quinta obiezione iniziale sostiene che tutte le virtù siano causate da Dio e non da atti simili ripetuti, dato che per il filosofo persiano le forme stesse sono indotte nei corpi dalle intelligenze motrici divine e da Dio e che la materia non può essere la causa dell’esistenza della forma13. La sesta obiezione mette

invece in rapporto virtù e scienza, perfezione dell’intelletto speculativo e morale, stabilendo un parallelismo per cui, al contrario di quanto afferma Aristotele, come i principi primi delle scienze si trovano già nel nostro intelletto e non devono essere appresi (posizione sicuramente più platonica che aristotelica), così l’habitus della virtù si deve trovare nella nostra anima. Dunque esso sarebbe derivante direttamente dalla natura14. Alla ricorsività

viziosa della teoria aristotelica si oppone invece l’obiezione 15, che evidenzia questa contraddizione nelle stesse parole dello Stagirita:

È a partire dalla rinuncia ai piaceri che diventiamo temperanti, e quando lo siamo diventati, siamo capaci di rinunciarvi al massimo grado. Lo stesso avviene anche nel caso del coraggio, infatti, abituandoci a disprezzare i pericoli, e ad affrontarli, diventiamo coraggiosi e, divenuti coraggiosi, saremo capaci di affrontare i pericoli al massimo grado15.

13 «Qualcuno, però, potrebbe dire che nulla impedisce che a venire ad essere dal Principio primo sia una forma materiale e che poi, da questa, consegua l’esistenza nella sua materia. […] Perché ciò possa essere, le cose posteriori a questa forma e a questa materia dovrebbero necessariamente essere successive nel grado dei causati e la loro esistenza dovrebbe darsi in virtù della mediazione della materia; così tuttavia la materia verrebbe ad essere una causa per l’esistenza delle forme dei molteplici corpi che sono nel mondo e per le loro potenze, e questo è impossibile. L’esistenza della materia consiste, infatti, nell’essere soltanto ricettiva e nel non essere causa dell’esistenza di nessuna cosa, se non secondo la ricezione. […] Insomma, benché la forma materiale sia causa della materia perché la fa passare all’atto e la perfeziona, anche la materia ha un influsso sulla sua esistenza e cioè il fatto di renderla propria e di determinarla, anche se il principio dell’esistenza non viene dalla materia. […] All’esistenza della materia non è sufficiente soltanto la forma: la forma è, piuttosto, come una parte della causa e se è così, non è possibile che della forma si faccia sotto ogni aspetto una causa della materia, per sé sufficiente. […] È quindi necessario che il primo causato sia una forma non materiale e sia, anzi, un’intelligenza», Avicenna, Metafisica, IX, 4, trad. it. cit., pp. 927-929, 404-405. Cfr. Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, art. 2, p. 47, 5um, ll. 57-62

14 Ivi, tr. I, q. IV, art.2, p. 48, 6um.

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Pare quindi che la virtù sia da una parte causata dagli atti morali, dall’altra che essa stessa causi tali azioni: ci troviamo dunque in un inaccettabile circolo vizioso. Dovremmo quindi ammettere che gli atti non sono causa efficiente della virtù?

Nella solutio Alberto ribadisce la sua posizione, arrivando a sostenere come Aristotele che vi sia in noi una naturale disposizione a ricevere la virtù e che tuttavia essa non sia naturale nel senso di immediata o istintiva, ma causata da ripetuti atti morali compiuti coscientemente. «Nella nostra natura si trova un’innata potenza o abilità di sviluppare queste qualità morali. La capacità è innata, non la virtù stessa pienamente sviluppata, che deve essere coltivata da una ripetizione di atti»16. Gli atti

formano quindi in noi come una seconda natura, un habitus, che una volta acquisito dirigerà le nostre azioni, che saranno quindi molto più sicure nel loro orientamento al bene rispetto a quelle che precedono l’habitus virtuoso. La virtù consisterà nell’operare secondo la recta ratio, seguendo la via media tra le passioni, cioè operando un corretto discernimento17. La nostra

capacità di compiere atti moralmente buoni deriva in ultima analisi dalla nostra ragion pratica, dove operano ragione, volontà e scelta. Senza questa capacità di discernere, gli atti non portano alla virtù: «il mero esercizio di azioni senza attenzione cosciente alle particolari condizioni o circostanze coinvolte non sarebbe realmente un’immediata causa di virtù»18.

Rispondendo alle obiezioni, Alberto giunge a negare che i principi dell’intelletto speculativo siano in noi per natura simpliciter, immediati: essi sono invece appresi tramite l’esperienza come sostiene Aristotele. Quindi per quanto riguarda la virtù, sebbene esista in noi una naturale disposizione a riceverla, essa non sarà raggiunta senza l’opera della volontà, causa efficiente remota dell’habitus virtuoso, che porta a perfezione la

16 Cunningham, Reclaiming moral agency, cit., p. 146: «Within out our nature lies an innate power or abilit to develop these moral qualities. The capacity is innate, not the full- fledged virtue itself, which must be cultivated by a repetition of acts», traduzione mia. 17 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, art. 2, p. 49, solutio, ll. 3-27.

18 Cunningham, Reclaiming moral agency, cit., p. 147: «The bare exercise of actions without conscious attention to the particular conditions or circumstances involved would not really be an immediate efficient cause of virtue», traduzione mia.

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materia19. Infine, nella risposta ad 15um, Alberto afferma che «niente

proibisce nel tutto potestativo che la stessa virtù sia causa e causato rispetto agli atti. […] L’atto infatti causa la virtù secondo la sua essenza, ma la virtù causa l’atto secondo la facoltà di attingere al medio»20. Ricorre ancora una

volta il concetto di tutto potestativo con cui va intesa la virtù, mentre i suoi atti vanno intesi come parti. Gli atti ultimi, perfezionati una volta acquisito l’habitus virtuoso, saranno certamente migliori degli atti da cui è causata la virtù stessa, in un contesto di continuo perfezionamento.