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La legge e le sue divisioni, la giustizia generale e speciale

Capitolo quarto La virtù

6. La legge e le sue divisioni, la giustizia generale e speciale

Alberto chiude il discorso sul diritto naturale per dedicarsi all’esame prima della legge, poi della giustizia, sia come concetto generale che come virtù particolare. Per quanto riguarda la legge, egli sceglie di non occuparsi della legge umana, ma di quella naturale e soprannaturale soltanto.

Nel primo articolo Alberto presenta, come è solito fare, diverse definizioni dello stesso termine “legge”, le analizza e prende poi posizione individuando la migliore. Definizione attribuita a Cicerone, ma che in lui non si trova, è quella per cui «la legge è il diritto scritto che approva l’onesto e proibisce il contrario»258. Per Graziano invece la legge è «l’ordinamento

del popolo dove anziani con il popolo hanno sancito qualche disposizione»259. Invece in Agostino, deduce Alberto dalle parole

dell’autore, la legge è «l’ordinamento che prescrive il giusto e proibisce il contrario, sancito con la dovuta forza»260. La definizione prediletta sarà la

prima, che dice il genere della legge (diritto scritto) ed il suo fine (approvare l’onesto e proibire il contrario)261.

La prima obiezione fa riferimento proprio al genere, sostenendo che se la legge naturale non è scritta, non è legge262. Inoltre si oppone a queste

definizioni quella che si trova in Boezio: «le leggi furono istituite per l’utilità dell’uomo»263. Come conciliare l’utilità con l’onestà che dovrebbe essere

promossa dalle leggi?

258 Ivi, tr. V, q. II, art. 1, p. 281, ll. 9-11: «Dicit enim Tullius, quod ‘lex est ius scriptum asciscens honestum prohibensque contrarium’», tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 603. 259 Ibidem, ll. 12-14: «Gratianus in Decreto: ‘Lex est constitutio populi, qua maiores natu simul cum plebibus aliquid sanxerunt’». Cfr. Graziano, Decretum Gratiani, II, 1. Cfr. anche Isidoro, Etymologiae, V, 10.

260 Alberto Magno, De bono, tr. V, q. II, art. 1, p. 281, ll. 25-27: «Ex hoc accipitur, quod lex est constitutio iustum praecipiens et contrarium prohibens convenienti vigore sancita». 261 Ivi, tr. V, q. II, art. 1, p. 282, ll. 17-20: «Dicimus igitur ad id quod obicitur de diffinitione prima, quod ipsa data est per genus et finem. Ius enim scriptum est genus, et finis est asciscere honestum et prohibere contrarium».

262 Ivi, tr. V, q. II, art. 1, p. 281, ll. 28-31: «Obicitur autem contra primam, quia non videtur convenire omni legi, quia est lex naturalis, quae non est ius scriptum, sed potius cordi intertum».

263 Ibidem, ll. 38-40: «Dicit Boethius quod leges conduntur ad utilitatem populi; utilitas autem non necessario est honestum», traduzione mia. Cfr. Boezio, Peri hermeneias liber

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Alberto apre la sua solutio con una frase di Aristotele esplicativa: «voluntas enim omnis legislatoris est ut bonum secundum virtutem cives faciat»264. Il buon legislatore vuole che i suoi cittadini si comportino

secondo virtù, per cui le promuove nella legge. Risponde alle obiezioni sostenendo che il diritto può essere scritto e diventare legge in due modi: o se è scritto dall’uomo nelle lingue a lui conosciute, o se è scritto da Dio nel cuore dell’uomo. In questo secondo senso la legge naturale fa pienamente parte della legge265. Scrivere è dunque da intendersi in senso lato, anche se

non metaforico: Alberto è veramente convinto che Dio abbia scritto lo ius

naturae nel cuore dell’uomo. Inoltre, scrive il nostro autore, l’onesto che

riguarda lo Stato non è privo di utilità266. Difatti rendere prudenti,

temperanti e forti i cittadini ha indubbiamente anche dei vantaggi pratici. La legge è in generale come abbiamo visto «il diritto scritto che prescrive l’onesto e proibisce il contrario»267, definizione erroneamente

attribuita a Cicerone. Precisiamo che in Alberto esiste una legge naturale, una legge di Mosè, una legge della grazia ed una delle membra268.

Affronteremo adesso i problemi relativi alle singole leggi prese una per volta.

Per quanto riguarda la prima, ci si chiede che differenza sussista tra la legge naturale ed il diritto naturale. Presto detto: il diritto non obbliga, la legge sì. Il primo è un insieme di pensieri sulle cose da farsi, la seconda un’obbligazione che deriva da un ordine (mandatum)269.

Aristotelis latine versus, in Commentarii in librum Aristotelis, ed. C. Meiser, Teubneri, Leipzig 1843, 9, 509 A.

264 Alberto Magno, De bono, tr. V, q. II, art. 1, p. 282, solutio, ll. 1-3. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 3-5.

265 Alberto Magno, De bono, tr. V, q. II, art. 1, p. 282, ad 1um, ll. 24-27: «Unde solvendum est ad primam, quod scriptum ius dicitur dupliciter, scilicet scriptum digito dei et insertum cordi humano et scriptum studio hominis propter utilitatem posteritatis».

266 Ibidem, ad 3um, ll. 36-40: «Ad aliud dicendum quod honestum pertinens ad rem publicam non caret ratione utilitatis, quid licet reddere unicuique, quod suum est, sit utile, est tamen honestum, inquantum attingit rationem virtutis».

267 Ivi, tr. V, q. II, art. 1, p. 281, ll. 10-11: «Lex est ius scriptum asciscens honestum prohibensque contrarium», tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 603.

268 Ivi, tr. V, q. II, art. 2, p. 283, ll. 21-23: «In Glossa autem super Apostolum dividitur lex in quattuor leges, scilicet in legem naturae et legem Moysi et legem gratiae et legem membrorum».

269 Ivi, tr. V, q. II, art. 2, p. 285, ad 2um, ll. 27-30: «Lex magis respicit obligationem ex mandato naturae et ius magis cogitationes operabilium per naturam, et ita patet differentia legis naturalis et iuris naturalis».

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La legge mosaica e quella della grazia non sarebbero necessarie se con quella naturale ci si potesse salvare. Ma non è così: la legge naturale non è sufficiente per la salvezza270. Le altre due leggi sono quindi necessarie e

per niente superflue. Però, nel considerare il valore e il ruolo della Legge mosaica, la coscienza cristiana, rispetto a quella ebraica, si trova di fronte un enigma teologico e antropologico: secondo le parole di san Paolo, la Legge mosaica sembra aver accresciuto il peccato: «peccatum non cognovi, nisi per legem: nam concupiscentiam nesciebam, nisi lex diceret: Non concupisces. Occasione autem accepta, peccatum per mandatum operatum est in me omnem concupiscentiam. Sine lege enim peccatum mortuum erat»271. Come è possibile che il peccato sia accresciuto dalla Legge, la Torà,

che deriva da Dio? In effetti non è proprio così: la legge non è causa del peccato (né per se né per accidens) ma ne è solo occasione (una forma di causalità accessoria, ancora più debole della causalità accidentale). È pur vero che la Legge mosaica, specificando e determinando molto più della semplice legge naturale, fece sì che i peccati fossero ancora più gravi proprio perché proibiti specificatamente ed esplicitamente. Alberto esamina con finezza le dinamiche psicologiche del fascino del proibito (anche attraverso un’azzeccata citazione ovidiana) e la maggior consapevolezza del peccato di fronte a un divieto normato:

Poi al quesito su come si possa dire che <la Legge> accresca il peccato e la concupiscenza, si deve rispondere che la Legge non è causa del peccato né per sé né per accidente, ma ne è l’occasione. Infatti occasione significa una minore influenza causale sull’effetto rispetto alla causa per accidente. L’occasione è tale perché “ci sentiamo spinti verso ciò che è vietato e desideriamo sempre le cose che ci sono negate” [Ovidio, Amores III, 4, 17]. Ma questo accade perché ogni facoltà dell’anima prova un desiderio tanto più ardente per il suo oggetto quanto più questo viene posto più in alto [...]. Ora un precetto pone in alto ciò che vieta e così questo viene ritenuto da noi di maggior importanza, e pertanto in virtù del precetto si accende in noi un desiderio ancora più grande di quell’oggetto, e così accresce la

270 Ibidem, ad 3um, ll. 35-37: «Ad aliud dicendum quod sola lex naturalis sine gratia mediatoris non sufficiebat ad salutem, sicut bene probant verba Augustini».

271Rm 7, 7-8. Cfr. Alberto, De bono, tr. V, q. II, art. 2, ll. 74-77: «Ulterius enim quaeritur qualiter dicatur augere peccatum, sicut dicit Apostolus: ‘Peccatum occasione accepta per mandatum seduxit me et per illud occidit’».

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concupiscenza, e qualora non sia data la grazia, la concupiscenza si lega all’atto del peccato e allora accresce il peccato, perché il peccato, che <prima della Legge> era solo un peccato fuori da ogni comandamento, in virtù del comandamento è diventato trasgressione e disobbedienza, disprezzo del comandamento e del suo Autore.272

La legge delle membra è sicuramente la più problematica perché pare non concordare con la definizione ciceroniana di legge come «ius scriptum asciscens honestum prohibensque contrarium»273. Alberto intraprende

allora un percorso di analisi concettuale e semantico-etimologica. Infatti il termine lex deriva dal verbo ligare, ovvero “legare”, dunque “costringere”, “vincolare”. Così la lex esprime il vincolo nella forma del comandamento nelle prime tre forme della divisione: legge naturale, legge mosaica e legge della grazia. Tuttavia la legge può derivare anche da un habitus che inclina verso qualcosa (come accade, ad esempio, con le leggi della natura che inclinano i corpi a muoversi o a star fermi); è in questo senso che possiamo chiamare lex anche la legge delle membra, un habitus che corrompe il corpo e lo inclina all’illecito274. Non si tratta di una legge consistente in precetti

proposizionali, dunque, ma in disposizioni fisiologiche che si oppongono alla virtù e alla grazia275. Con questo Alberto non intende affatto legittimare

la lex membrorum in nome di un generoso ‘naturalismo’, ma, anzi, vuole

272 Ivi, tr. V, q. II, art. 2, p. 287 l. 79 – p. 288 l. 6: «Ad id autem quod ulterius quaeritur, quomodo dicitur augere peccatum et concupiscentiam, dicendum, quod lex non est causa peccati per se nec per accidens, sed est occasio. Occasio enim minorem influentiam causalitatis dicit super effectum quam causa per accidens. Occasio autem est huiusmodi, quia “nitimur in vetitum semper cupimusque negata”. Hoc autem ideo contingit quia omnis potentia animae tanto magis exardescit in suum obiectum, quanto illud ponitur in eminentiori […] Praeceptum autem id quod vetat, ponit in alto per hoc quod exaltatur a nobis, et ideo per praeceptum magis accendimur in illud, et ira auget concupiscentiam, et eum non det gratiam, vincitur concupiscentia ad actum peccati et tunc auget peccatum, quia peccatum, quod tantum fuit peccatum praeter mandatum, per mandatum factum est transgressio et inoboedientia et mandati et mandantis contemptus», traduzione mia. 273 Ivi, tr. V, q. II, art. 2, p. 283, ll. 26-28: «Diffinitio autem divisi est, quod ‘lex est ius scriptum asciscens honestum prohibensque contrarium’. Haec autem diffinitio non convenit legi membrorum».

274 Ivi, tr. V, q. II, art. 2, p. 285, ad 1um, ll. 17-26: «Lex derivative a ligando in genere dicitur. Est autem ligatio ex habitu inclinante in aliquid et ligatio ex mandato. Et ligatio quidem ex habitu convenit legi membrorum, eo quod fortius habitus respersus in membris corrupti corporis ligat ad illicitum».

275 Ivi, tr. V, q. II, art. 2, p. 288, ad 17um, ll. 24-29: «Ad hoc quod ultimo quaeritur de lege peccati, dicendum quod non dicitur lex univoce cum aliis legibus nisi secundum nominis derivationem, scilicet quia ligat; et bene concedo, quod non ligat in praeceptis, sed habitibus et dispositionibus contra virtutem et gratiam assignantibus».

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identificarla per distinguerla dalle altre leggi, moralmente positive. Certo, si rende conto che la sua esistenza non può essere in alcun modo ignorata.

Rimane una domanda a proposito dei tre tipi di legge derivata da Dio (la naturale, la mosaica e quella della grazia): ci sono delle differenze tra di loro? E se sì, quali sono? Per Graziano in effetti (ma la citazione è erroneamente attribuita ad Isidoro) non vi sono sostanziali differenze, dal momento che scrive che lo «ius naturale est quod in lege et in evangelio continetur»276. Alberto è abbastanza d’accordo su questo punto, sempre che

si intenda la legge naturale in senso lato: difatti la legge naturale esprime solo i principi universali del diritto277 ed è indeterminata rispetto a

entrambe le leggi, quella mosaica e quella di Cristo278. Queste ultime non

sono affatto superflue, perché la prima determina la legge come segno, la seconda determina la legge come verità279.

Chiusa la questione della legge e delle sue parti, si affronta ora finalmente la giustizia, qui intesa come iustitia generalis280. Alberto parte

dalla definizione di Anselmo, secondo il quale la giustizia è «la rettitudine della volontà serbata per se stessa»281; detta definizione sarebbe riferita alla

giustizia generale e non speciale. Secondo un’altra versione, di Agostino, sono retti, e quindi giusti, coloro che vogliono ciò che vuole Dio282. Il nostro

autore si trova sostanzialmente d’accordo con entrambe le definizioni: per lui la giustizia generale è «il dovere della rettitudine di tutta l’anima secondo le potenze ordinate all’agire, all’altro e a Dio. [...] La rettitudine dell’anima,

276 Ibidem, art. 3, ll. 35-36. Cfr. Graziano, Decretum, d. 1 princ.

277 Alberto Magno, De bono, tr. V, q. II, art. 3, p. 288, ad 1um, ll. 71-80: «Lex naturae dicit universalia iuris tantum […]. Ius naturale est determinatum sine inquisitione et appositione hominis super id quod ratio naturalis dictabat».

278 Ibidem, ad 2um, ll. 81-82: «Lex naturalis est indeterminata in utraque lege».

279 Ibidem, ad 2um, p. 288, l. 83 – p. 289, l. 5: «Unum determinat ut signum, alterum autem ut veritas […]. Ideo neutra superfluit».

280 Ivi, tr. V, q. III, p. 290, l. 3.

281 Ivi, tr. V, q. III, art. 1, p. 290, ll. 13-14: «Iustitia est rectitudo voluntatis propter se servata». Cfr. Anselmo, De veritate, in Opera omnia, vol. 6, ed. F.S. Schmitt, Thomas Nelson, Edinburgh 1946-61, c. 12, 482 b.

282 Ibidem, ll. 56-57: «Recti sunt, qui volunt quod deus vult». Cfr. Agostino, Enarrationes in Psalmos, ed. F. Gori, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Wien 2011, 93, 18.

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che è la giustizia generale, consiste in un ordine di tutte le potenze rispetto all’agire, al superiore e all’inferiore»283.

Con giustizia generale si intende quindi quel modo di vivere rettamente che ci fa essere in armonia con l’universo creato da Dio. Un’armonia che è sia esteriore, nelle azioni e nello stile di vita, che interiore, secondo la fede284. In questo contesto ogni parte è ordinata ed ha il suo posto

nel mondo, così come ogni parte dell’anima ha il suo posto e la sua funzione dentro di noi. C’è qualcosa di superiore, la nostra parte razionale, che deve governare ciò che è inferiore, le nostre parti irascibili e concupiscibili. Quando queste parti si trovano in accordo, giustamente ordinate alla parte superiore, guidate dalle virtù, allora ci troviamo in un tutto armonico con noi stessi e con il mondo circostante. La volontà è giustamente posta nella definizione di Anselmo, perché la retta volontà è premessa per la nascita di qualsiasi virtù. Il retto determina così un ordine nell’anima che si oppone al disordine285.

La giustizia generale viene quindi ad essere condicio sine qua non per le altre virtù: «iustitia generalis comparatur vineae, ei quod sua rectitudo conducit ad rectitudines speciales in actibus specialium virtutum»286. Essa è paragonata ad una vigna che genera le virtù come dei

tralci. È la madre delle virtù. Consiste in un dovere che si estende ben oltre quello della giustizia speciale: è il dovere che non riguarda un atto ma l’ordine in generale. Ma quindi qual è lo status della giustizia generale? È una virtù?

A queste domande si trova risposta nel secondo articolo. Alberto nella solutio istituisce un importante parallelismo tra gli effetti della grazia nelle virtù e la giustizia generale. Egli sostiene infatti che si può considerare

283 Alberto Magno, De bono, tr. V, q. III, art. 1, p. 292, solutio, ll. 15-38: «Debitum autem generale est debitum rectitudinis totius animae secundum vires ordinatas ad actum et ad alterum et ad se et ad deum secundum ordinem rectitudinis, in qua creatus est homo […]. Rectitudo animae, quae est iustitia generalis, consistit in debito ordine virium omnium ad actum et ad superiorem et parem et interiorem secundum rectitudinem status primi, in quo creatus est homo».

284 Ibidem, ll. 67-70: «Rectitudo iustitiae generalis consistit in toto statu vitae secundum interiora et exteriora, secundum fidem et mores et ad deum et ad se et ad proximum». 285 Ivi, tr. V, q. III, art. 1, p. 293, ad 2um e ad 3um, ll. 1-28.

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la grazia «non in sé, ma in quanto è nelle virtù come nelle sue parti, e le virtù sono in essa come nella sostanza del tutto»287: l’effetto che segue dalla grazia

è quindi l’ordine delle parti, un ordine retto. In questo caso grazia e

giustizia generale sono l’una la causa dell’altra, anche se Alberto esclude

che la giustizia sia un effetto prossimo della grazia288.

Tuttavia esistono anche modi di intendere la giustizia generale più laici. Essa può essere infatti considerata come «disposizione di tutta la condotta in sé»289, che consiste in altri termini nelle virtù stesse, o come ciò

«che si deve fare in quanto conviene alla natura e ai compiti dell’uomo in quanto è uomo»290 e in questo senso riguarda ogni virtù. La giustizia

generale può dunque nascere per intervento divino, per grazia. Può nascere dal possedere le virtù civili e dall’ordinare queste in modo retto. Infine, è posseduta da chi compie il suo dovere di uomo in quanto uomo, dunque secondo la razionalità che è propria dell’uomo. Possiamo vedere dunque che le origini di questa iustitia sono diverse, ma tutte egualmente valide.

La giustizia inoltre, scrive Alberto in ad 14um, serve ad allontanarsi dal male in quanto corruttore di un ordine retto, mentre le speciali nature del male sono allontanate dalle singole virtù291. Per completare il quadro,

nega nettamente che la iustitia generalis sia una virtù: essa infatti non nasce da una disposizione, come fanno le virtù speciali e la grazia, entrambe corrispondenti a una disposizione dell’anima, ma piuttosto è un modo di essere292.

287 Ivi, tr. V, q. III, art. 2, p. 295, solutio, ll. 50-54: «Est autem alia et secunda consideratio gratiae non in se, sed secundum quod est in virtutibus ut in partibus et virtutes in ipsa sicut in substantia totius»; tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 419.

288 Ibidem, ll. 65-67 e ll. 93-94.

289 Ibidem, ll. 73-76: «Iustitia autem generalis duobus aliis modis praeter praedictum accipitur, scilicet pro habitu totius consuetudinis in se, non distincte ad consuetudinem huius operis vel illius»; tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 620.

290 Ibidem, ll. 78-80: «Tertius autem modus iustitiae generalis est debitum decentiae naturae et officii hominis, inquantum est homo», it. di A. Tarabochia Canavero, p. 620. 291 Ivi, tr. V, q. III, art. 2, p. 298, ad 14um, ll. 1-14.

292 Ibidem, ad 16um, ll. 21-29: «Concedimus quod non sunt habitus generales in anima nisi duo, scilicet gratia, quae generalis est ut totum, et virtus, quae generalis est ut universale. Nec dicimus, quod iustitia generalis proprie loquendo sit habitus, sed habitudo relicta in viribus animae et in ipsa anima ex effectu gratiae gratum facientis in virtute».

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Infine, Alberto nega che la giustizia generale abbia un atto proprio se intendiamo con actus qualcosa che abbia a che fare con l’agire e l’operare293.

Essa possiede tuttavia un «atto che completa le parti dell’anima rispetto a un retto modo di essere»294, mettendo ordine tra esse.

L’ultima quaestio, addita e quindi aggiunta per ultima, si occupa della giustizia speciale, ovvero di quella giustizia che va intesa come virtù. Dopo averne provato l’esistenza e averla di nuovo distinta dalla giustizia generale nel primo articolo295, Alberto decide di sostenere con Cicerone che

la giustizia consista nel «dare a ciascuno il suo»296, che questo sia il suo atto.

Vi si obietta che è proprio di ogni virtù il reddere e a questo proposito si porta in supporto la famosa definizione Aristotelica di virtù297: «La virtù è

uno stato abituale che produce scelte consistente in una medietà rispetto a noi, determinato razionalmente, e come verrebbe a determinarlo l’uomo saggio»298, in cui la medietà si riferisce all’equità e la determinazione

razionale all’ordine. Dunque ordine ed equità, che sono ciò che caratterizza la giustizia, si trovano in ogni virtù.

Alberto risponde riportando il problema a come possiamo intendere la giustizia: essa è in due sensi giustizia generale ed in un senso giustizia speciale. Come giustizia generale è sia, come abbiamo visto, la rectitudo

universalis in base al quale si organizza tutto il cosmo, sia genus virtutum,

genere delle virtù, ed è così che la intende il legislatore, il quale vuole portare a perfezione i cittadini non secondo una sola virtù ma in tutte. Ma la giustizia speciale va intesa più come la intende il giudice: come aequalitas, come equità, in base alla quale è giusto restituire ciò che possediamo di