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Cause efficienti e finali della virtù

3. Cause finali di virtù

Per quanto riguarda le cause finali della virtù, sebbene vi sia un annuncio all’inizio della quaestio IV di una futura sezione dedicata a questo tipo di cause estrinseche56, detta sezione è mancante, perché il De bono è

comunque, non bisogna dimenticarlo, un’opera incompleta. Tuttavia è possibile, non senza qualche difficoltà, rintracciare alcuni riferimenti nel testo che permettono di ricostruire una teoria sulle cause finali della virtù.

I riferimenti di Alberto sono principalmente riportabili al Libro I dell’Etica Nicomachea (e non al Libro X, non ancora disponibile in traduzione all’epoca dell’opera albertina). In tale libro Aristotele inizia la sua ricerca chiedendosi in cosa consista il bene supremo e sommo a cui tutte le attività umane, pratiche e non, sono ordinate57. Si può dire che esso

consista nella felicità (εὐδαιμονία), ma non è ancora chiaro che cosa essa sia, infatti «per quanto riguarda il nome vi è un accordo quasi completo nella maggioranza […], su cosa sia la felicità vi è disaccordo»58. Dopo alcune

argomentazioni emerge la soluzione: poiché il bene che l’uomo deve operare come fine suo proprio consiste nell’attività dell’anima secondo ragione, la felicità o bene umano non può che essere la virtù, il cui esercizio ha come scopo quel bene59.

La linea di riflessione aristotelica considera l’uomo esclusivamente nella cornice mondana, storica e sociale. L’uomo di cui parla è un uomo naturale che opera in questo mondo. Il confronto con l’etica e con l’antropologia aristotelica poneva ai teologi del XIII secolo una nuova sfida. Come conciliare questa impostazione, questo ideale greco della felicità terrena, con l’altro tipo di felicità, quella ultraterrena, o beatitudo, propria del cristianesimo? «Prima e durante la prima carriera di Alberto, i teologi generalmente ignoravano o rifiutavano la possibilità di una felicità

56 Ivi, tr. I, q. IV, p. 43, ll. 3-5

57 Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1, 1094 a 1 e segg. 58 Ivi, I, 4, 1095 a 15-21, tr. it. di C. Natali, p. 7. 59 Ivi, I, 7, 1098 a 1-20.

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terrena»60. L’incontro con i testi aristotelici cambiava il quadro

problematico, perché si doveva cercare di integrare questo ideale di felicità terrena intellettuale e virtuosa, l’εὐδαιμονία di Aristotele, con la beatitudo ultraterrena della teologia cristiana. Forse quest’ultima è completamento e perfezionamento di un percorso terreno? E questo percorso si fa solo con le armi della fede o anche con gli strumenti razionali della filosofia? Alberto, pur non dedicandole alcuna sezione speciale, riconosce alla felicità un ruolo importante. Per chiarire il ruolo della felicità come causa finale è opportuno riprendere un passo già citato a proposito della scelta nell’azione: così come nella natura, anche nella morale si trovano due tipi di fini. Il primo, che serve a distinguere le virtù dai vizi, si trova in ogni atto ed è la materia di cui abbiamo già discusso, il secondo, che non si trova in alcun atto o virtù specifica, ma in tutti, è la felicità61. In un ulteriore passaggio, poi, la felicità

viene distinta nettamente dalla beatitudo: la prima riguarda l’ambito etico in questo mondo, la seconda investe il merito ultraterreno determinato dalle nostre azioni62. Su questa distinzione concettuale, che non è però una

separazione netta (perché è possibile una continuazione della felicità naturale nella beatitudo), si basa la possibilità per Alberto di aprire la porta alla felicità naturale dell’uomo, non dipendente dalla grazia, ma prettamente umana, derivata dalla nostra natura.

La felicità terrena consiste nella virtù, o meglio nell’ «atto secondo la perfetta virtù dell’anima»63, nell’agire secondo virtù. Ma si deve dire anche

che «gli atti determinano la virtù […] perché sono congiunti alla felicità»64.

Secondo questa prospettiva si è felici solo agendo secondo le virtù, ed esse «si trovano essenzialmente nella felicità»65. Ma se la causa finale di virtù

60 Cunningham, Reclaiming Moral Agency, cit., p. 255: «Before and during Albert’s early career, theologians generally ignored or dismissed the possibility of earthly happiness», traduzione mia.

61 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, art. 1, p. 44 l. 73 – p. 45 l. 11. 62 Ivi, tr. I, q. IV, art. 7, p. 63, ll. 42-47.

63 Ivi, tr. I, q. VI, art. 2, p. 80, ll. 87-89 e tr. III, q. V, art. 3, p. 209, ll. 29-30: «Es enim felicitas actus secundum omnem perfectam virtutem animi», traduzione mia.

64 Ivi, tr. IV, q. I, art. 4, p. 234: «Sed tamen secundum hoc actus non determinat de virtutibus Macrobius, sed potius secundum quod coniunguntur felicitati viae, quae est perfectio animae secundum perfectam virtutem», traduzione mia.

65 Ivi, tr. IV, q. I, art. 2, p. 226, ll. 63-64: «Omnis enim virtus essentialiter salvatur in felicitate».

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sono le virtù stesse, non ci troviamo forse in un circolo vizioso? In realtà no. Nelle virtù consiste la felicità o bene terreno e umano, ed il bene è desiderato per se stesso. Si capisce allora come la virtù possa essere sia mossa che motore di se stessa.

Per completare il quadro si deve far riferimento alla grazia: essa non si oppone affatto alla felicità perché «perfeziona la natura, non la distrugge ma vi si unisce»66.

Tuttavia il pensiero di Alberto è in un certo senso altalenante riguardo al tema della felicità: nel commento all’Ethica egli scriverà infatti che la felicità consiste nell’unione con Dio e che la si raggiunge tramite la virtù intellettuale. Frutto anche di una lettura più completa del testo aristotelico e in particolare del suo libro X, quest’opera successiva si discosta molto dal De bono: qui lo scopo dell’azione morale scoperto con la filosofia è meno completo di quello scoperto con la Rivelazione67.

Un ulteriore punto di vista sarà quello riportato nei commenti biblici, dove Alberto si fa più teologo che filosofo: qui la felicità è più perfetta della virtù, perché non è una disposizione dell’anima, ma un’azione dell’anima ben disposta, il prodotto culminante di ogni disposizione eccellente, raggiunto con tempo e fatica. La beatitudine è certamente più perfetta sia della felicità che della virtù68.

Possiamo riassumere in una tabella le cause efficienti e finali di virtù per come vengono configurate nel De bono:

Cause efficienti di virtù Cause finali di virtù

Prossime Atto virtuoso Atto virtuoso

Remote Volontà Felicità terrena

66 Ivi, tr. IV, q. I, art. 5, p. 237, ll. 84-85: «Gratia est perfectio naturae et non destruit perfectio perfectum, sed potiur unitur ei», traduzione mia. Cfr. ivi, tr. IV, q. I, art. 5, p. 241 e ivi tr. V, q. II, art. 2, p. 285.

67 Tracey, The Moral Thought of Albert the Great, cit., pp. 369-370. 68 Ivi, pp. 377-378.

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Conclusioni

Abbiamo visto in questo capitolo la delineazione dell’atto morale e delle sue componenti. Siamo partiti con Alberto dalla materia virtutis, causa materiale delle virtù cardinali, che verte su piaceri e dolori i quali vanno regolati secondo ragione. Essa può essere intesa sia come debita materia dell’atto morale, che come intenzione dell’uomo agente, che come desiderio di chi agisce.

Alberto è quindi passato a descrivere le cause efficienti più prossime delle virtù: gli atti morali ripetuti che vanno a costituire un habitus. In un continuo dialogo con Aristotele, principale ispiratore di questa sezione, Alberto mette a tacere ogni obiezione riportando la virtù civile al suo livello propriamente umano. Il motore dell’atto è però, in senso più largo, la volontà: a questo proposito il nostro autore si prolunga in due importanti digressioni, in cui distingue il volontario dall’involontario per violentiam e da quello per ignorantiam. Difatti le condizioni imprescindibili per un’azione volontaria, e quindi libera, sono due: il principio dell’azione deve essere nel soggetto agente (vanno esclusi dagli atti volontari quelli compiuti sotto costrizione) e l’agente deve avere una buona conoscenza delle circostanze in cui si situa la sua azione (senza detta conoscenza, l’atto è di nuovo involontario).

Ma queste non sono le uniche condizioni per avere un atto categorizzabile come “morale”: serve anche l’intervento della razionalità, che è presente sotto forma di consilium e delectatio. La deliberazione precede la scelta, che verte su ciò che è già stato deliberato: le due hanno dunque lo stesso oggetto. Esse riguardano i mezzi per raggiungere fini già stabiliti dalla volontà. È qui che la ratio fa la sua parte, prendendo in considerazione tutti gli elementi utili all’esercizio di una volontà libera. Non può esistere in altre parole volontà libera senza il possesso della razionalità. Alberto decide poi di lasciare una traccia nel suo testo, non dedicandovi una sezione, delle cause finali della virtù: si tratta da una parte del conseguimento della virtù stessa in actu, dunque del suo pieno possesso

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a cui si giunge ripetendo azioni virtuose, finché non diventi quasi automatico (ma mai senza ratio) comportarci bene; dall’altra si tratta di raggiungere la felicitas terrena, il cui ruolo è decisamente ampliato da Alberto rispetto ai suoi predecessori.

Nel prossimo capitolo vedremo nel dettaglio le varie virtù cardinali: che cosa siano, quale sia la loro materia ed il loro atto, quali siano le parti che vanno a costituirle come un totum potestativum. Questi saranno i principali temi di fronte ai quali ci troveremo.

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Capitolo quarto