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La metafisica del bene, il bene fisico e il bene morale

1. La metafisica del bene

1.2 Essere, vero, bene

Strettamente connesso al concetto di partecipazione del bene ed esemplarietà di esso, che si esplica nel mondo sensibile, è quello del rapporto tra il bene e l’ente, affrontato negli articoli seguenti. Alberto ci presenta diversi punti di vista nell’articolo 6. Da una parte abbiamo Aristotele e il Liber de causis, che sostengono sia la sostanziale impossibilità di convertire il bene nell’ente che la primarietà del secondo34, dall’altro lato

si trovano Agostino e Boezio, secondo i quali «tutto ciò che è, in quanto è, è bene»35.

In questo caso in Aristotele siamo di fronte al passo dedicato ai paralogismi, ovvero a quegli errori che si fanno di solito nella dimostrazione sillogistica. Aristotele ne elenca diversi. Per la precisione essi sono sette: «i paralogismi riguardanti la determinazione in genere si presentano quando uno sostenga che qualsiasi predicato appartiene nella stessa misura sia all’oggetto che ad una sua determinazione […]; i paralogismi riguardanti la duplice prospettiva […] si verificano quando la determinazione particolare viene prospettata come assoluta»36. E così via fino a giungere al paralogismo

che ci interessa: «la confutazione poi che si fonda sulla conseguenza ha un’apparente validità, poiché si crede che il rapporto tra ragione e conseguenza sia convertibile. In effetti, quando dalla realtà di un oggetto discende necessariamente un certo altro oggetto, si crede allora che una volta posta la realtà del secondo oggetto, anche il primo ne deriverà necessariamente»37. Alberto stabilisce dunque una connessione tra questo

errore logico e una possibile convertibilità dell’ente con il bene: poiché dove

34 Liber de causis, édition étabilie à l’aide de 90 manuscrits avec introduction et notes par A. Pattin, ed. A. Pattin, Tijdschrift voor Philosophie, Leuven 1966, prop. 4: «Prima rerum creatarum est esse et non est ante ipsum creatum aliud»; prop. 17: «Res omnes entia propter ens primum […] Vita autem prima dat eis quae sunt sub ea vitam non per modum creationis immo per modum formae».

35 Agostino, De diversis quaestionibus octoginta tribus, ed. A. Mutzenbecher, Brepols, Turnhout 1970, q. 24. Cfr. Boezio, Quomodo substantiae in eo, quod sint, bonae sint (“De hebdomadibus”), ed. H.F. Stewart, E.K. Rand e S.J. Tender, Brepols, Turnhout 2010. 36 Aristotele, Confutazioni sofistiche, 166 b 28-30 e 166 b 37-40, tr. in Aristotele, Organon, tr. it. di G. Colli, Adelphi Edizioni, Milano 2003, pp. 654-655.

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c’è l’ente c’è anche il bene e il primo precede sempre il secondo, viene erroneamente da supporre che dove vi sia il bene sia presente anche l’ente; tuttavia non è affatto così, come dimostra Aristotele.

Nel Liber de causis il contesto è decisamente diverso da quello in cui si trova la stessa affermazione nel De bono: certamente in entrambi ci troviamo in contesto metafisico; tuttavia nella prima opera la primarietà dell’ente creato è connessa al discorso sulle intelligenze, assente in Alberto. Difatti si legge che «esse quidem creatum primum est intelligentia totum»

38: questo essere creato per primo è l’intelligenza prima, da cui nascono le

altre intelligenze. Dunque nel Liber de causis l’ente primum creatum è immediatamente connesso ad una forma di conoscenza della causa prima: quest’idea in Alberto è assente. Si può dire che egli intenda infatti l’ente creato come la molteplicità delle creature, non come le intelligenze.

Per quanto riguarda Agostino, Alberto estrapola ancora una volta un’affermazione da un contesto ben diverso da quello in cui opera. Si tratta, per Agostino, di affermare la necessità del libero arbitrio umano per la salvezza ultraterrena39: senza volontà e libero arbitrio nulla è imputabile

all’uomo. Quindi il bene di cui qui si parla è sì bene matafisico, in cui ogni bene creato è congiunto e partecipe del Bene Primo, ma il discorso che da esso si sviluppa è prettamente morale, mentre per Alberto siamo ancora in un contesto metafisico che fonderà l’argomentazione morale.

38 Liber de causis, cit., prop. 4.

39 «Utrum et peccatum et recte factum in libero sit voluntatis arbitrio. Quidquid casu fit, temere fit; quidquid temere fit, non fit providentia. Si ergo casu aliqua fiunt in mundo, non providentia universus mundus administratur. Si non providentia universus mundus administratur, est aliqua natura atque substantia quae ad opus providentiae non pertineat. Omne autem quod est, in quantum est, bonum est. Summe enim est illud bonum, cuius participatione sunt bona cetera. Et omne quod mutabile est, non per se ipsum, sed immutabilis boni participatione, in quantum est, bonum est. Porro illud bonum, cuius participatione sunt bona cetera quantumcumque sunt non per aliud, sed per se ipsum bonum est, quam divinam etiam providentiam vocamus. Nihil igitur casu fit in mundo. Hoc constituto consequens videtur, ut quidquid in mundo geritur partim divinitus geratur, partim nostra voluntate. Deus enim quovis homine optimo et iustissimo longe atque incomparabiliter melior et iustior est. Iustus autem regens et gubernans universa nullam poenam cuiquam sinit immerito infligi, nullum praemium immerito dari. Meritum autem poenae peccatum, et meritum praemii recte factum est, nec peccatum aut recte factum imputari cuiquam iuste potest qui nihil propria fecerit voluntate. Est igitur et peccatum et recte factum in libero voluntatis arbitrio». Agostino, De diversis quaestionibus octoginta tribus, cit., q. 24.

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In Boezio la questione affrontata è simile a quella che troviamo in Alberto: si tratta di rispondere alla domanda «perché le cose sono buone?». L’obiezione alla risposta affermativa esclude che siano buone per partecipazione (perché non essendo buone di per sé non tenderebbero al bene) o di per sé (se tutte le cose sono buone perché esistono e l’essere corrisponde al Bene, tutte le cose sono Dio). Boezio risponde con una dimostrazione per assurdo: allontana il primo bene e pone che tutte le cose siano in ogni caso buone, distinguendo tra esistere ed essere bene. Allontanando nel pensiero il primo bene vediamo che viene tolta la causa che fa essere buone le cose. Invece, poiché l’essere proviene dalla volontà del bene, in ogni cosa essere è subito essere bene40. Troveremo più avanti

dei riferimenti a Boezio più espliciti, la cui soluzione non sarà affatto condivisa da Alberto. In ogni caso qui egli trae soltanto l’affermazione della

solutio: tutto ciò che esiste, in quanto è, è bene, perché proveniente dalla

bontà prima.

Alberto dà ragione ad entrambe le parti, sia alle affermazioni di Agostino e Boezio che a quelle di Aristotele e del Liber de causis, distinguendo i punti di vista che hanno portato a queste posizioni. Per rendere conto delle sue soluzioni dobbiamo prima però soffermarci sulla sua dottrina dei trascendentali e sui riferimenti che se ne hanno negli ultimi tre articoli di questa prima quaestio in cui il bene, il vero e l’essere sono messi in relazione.

Per capire cosa Alberto intenda dire dobbiamo trattare della sua dottrina dei trascendentali, in cui egli combina elementi aristotelici con la tradizione cristiana e con Dionigi Areopagita. Per trascendentali si intendono quelle caratteristiche comuni a tutte le dieci categorie aristoteliche, che si trovano quindi in tutti i generi e che sono ad essi anteriori. Aristotele però non aveva compreso nei trascendentali il bene ed il vero, come fecero i santi, ma soltanto l’essere e l’uno41. Per i primi due

c’era quindi una fondazione teologica che Alberto non poteva ignorare. Egli

40 Boezio, “De hebdomadibus”, quaestio e solutio.

41 J.A. Aertsen, Albert’s Doctrine on the Transcendentals, in I. M. Resnick, A Companion to Albert the Great, cit, pp. 611-613.

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nei suoi commenti (Super sententiae, Super Dion. de div. nom.) tiene ben presenti queste tradizioni: da una parte quella aristotelica e avicenniana che riduce i trascendentali a concetti primari, dall’altra quella cristiana e Neoplatonica che li riduce alla causa prima, cioè Dio42.

Commentando Dionigi, Alberto rinnova questa tradizione di pensiero ed amplia il concetto aristotelico di “trascendentale”. Tra il bene e l’essere vi sono tre tipi di relazione, o meglio, la loro relazione può essere vista da tre diversi punti di vista: c’è tra di loro una vera identità, in quanto nel creato essi coincidono; d’altra parte l’essere è anteriore al bene, per il fatto che quest’ultimo aggiunge concettualmente qualcosa all’ente, mettendolo in relazione ad un fine; per concludere, dal punto di vista della causalità, il bene è anteriore all’essere perché coincide con la causa finale, che per definizione di Aristotele è la causa di tutte le cause e per la tradizione cristiana è Dio. Essere, vero e bene sono quindi convertibili, come conviene ai trascendentali. Per Alberto ogni bene creato proviene dal bene primo, Dio, in quanto egli è sia causa efficiente che finale: per questo questi tre trascendentali sono convertibili. Nella realtà tutto ciò che è creato da Dio esiste, è bene perché tende a ricongiungersi a Lui, è vero perché conoscibile da parte dell’uomo. In ogni caso però il bene aggiunge un legame con la causa finale e prima, mentre il vero mette in relazione l’essere con il principio di conoscenza43.

Tornando all’articolo 6 della prima quaestio del De bono, Alberto afferma che, dal punto di vista dell’intentio, l’ente è creato per primo ed in seguito informato dal bene: questo significa che dal punto di vista di un qualsiasi ente creato il bene a cui esso si rivolge come ad un fine a cui partecipa è secondario rispetto alla propria esistenza44. Ciò vale anche per

l’essere umano: la virtù, l’esercizio della bontà, è un che di acquisito e successivo alla nostra esistenza. Se consideriamo invece il bene nella causa prima e l’essere nelle creature, il bene è anteriore e primario. Dunque da un

42 Ivi, p. 614.

43 Ivi, pp. 615-618.

44 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 6, p. 11, solutio, ll. 77-86. Cfr. Pseudo-Dionigi, De divinis nominibus, ed. P. Chevallier, Brepols, Turnhout2010, 5,5 820 A.

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punto di vista divino, o anche umano (una volta che si sia giunti alla piena comprensione speculativa della realtà), il bene si irradia come il sole ad illuminare gli enti. Il bene è ciò che viene desiderato, è il fine, si diffonde e informa gli enti, portandoli dalla materia, pura potenzialità, alla loro forma propria, realizzandoli nell’atto45. Prima di questo si può dunque immaginare

solo un caotico ammasso informe di materia, privo di bene e di forma. Infine da un terzo punto di vista il bene e l’ente sono convertibili l’uno nell’altro poiché nulla esiste che non sia bene46.

Con questa prima conclusione l’autore si avvia all’articolo 7 in cui si chiede «se tutto ciò che esiste, in quanto è, è bene». Sappiamo già che per Alberto non tutto è rivolto interamente al bene, ma solo relativamente. Qui egli ripercorre parte del De hebdomadibus di Boezio, affermando che la soluzione di separare intellettualmente bene ed ente non lo convince affatto. Per Boezio l’essere di ogni cosa è buono, ma non bene primo, e tuttavia deriva da esso.

Multa sunt quae cum separari actu non possunt, animo tamen et cogitatione separantur; ut cum triangulum vel cetera a subiecta materia nullus actu separat, mente tamen segregans ipsum triangulum proprietatemque eius praeter materiam speculatur. Amoveamus igitur primi boni praesentiam paulisper ex animo, quod esse quidem constat idque ex omnium doctorum indoctorumque sententia barbararumque gentium religionibus cognosci potest. Hoc igitur paulisper amoto ponamus omnia esse quae sunt bona atque ea consideremus quemadmodum bona esse possent, si a primo bono minime defluxissent. Hinc intueor aliud in eis esse quod "bona sunt", aliud quod "sunt"47.

Per chiarire quel che Boezio intende dire Alberto ricorre alla sua teoria delle cause di bene. Qui si trova la combinazione chiave delle idee platoniche e plotiniche di partecipazione ed esemplarietà con le idee

45 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 6, p. 12, ll. 5-18 e 30-32. Cfr. Agostino, De doctrina christiana, de vera religione, ed. J. Martin – K.D. Daur, Brepols, Turnhout 1962, I, 32: «Noi esistiamo perché egli è buono e, per il fatto di esistere, siamo anche buoni. […] Le altre cose esistenti non potrebbero esistere senza di lui, e in tanto sono buone in quanto hanno ricevuto l’esistenza».

46 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 6, p. 12, ll. 45-54. 47 Boezio, “De hebdomadibus”, solutio.

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aristoteliche delle quattro cause, operazione difficile che Alberto porta a termine con un’incredibile facilità.

L’autore inizia supponendo che nulla esista senza una causa e che tutti gli esseri abbiano quattro tipi di cause: materiale e formale, che sono intrinseche, efficiente e finale, estrinseche. Ci sono solo due possibili combinazioni di cause secondo cui si può produrre qualcosa: causa finale ed efficiente, causa materiale e formale. «Il fine si trova infatti nella causa efficiente attraverso l’intenzione, e la forma è nella materia grazie alla potenzialità. Così, pur intervenendo tutte e quattro le cause, tuttavia una è la causa delle cause, che rimanendo immobile conduce tutte le altre all’atto: ed è la causa finale»48. Il fine (desiderato) provoca la causa efficiente

(desiderio), la quale porta la materia ad assumere la sua forma. Si crea un indissolubile legame fra le quattro cause che contribuiscono al movimento verso l’essere e verso il bene. Tuttavia mentre l’essere è dato dalla causa efficiente (che rende possibile da parte della materia l’assunzione della forma), il bene è dato dalla causa finale; dunque bene ed essere restano distinti, sebbene non siano separabili nella realtà e siano convertibili in quanto trascendentali.

Quest’uso delle quattro cause è coerente con la visione olistica di Alberto, che vuole chiarire non solo il tipo di connessione esistente tra Dio, primo bene, ed il mondo, ma anche come e perché questa connessione sia possibile. La nozione di partecipazione non basta più, anche perché in essa non è veramente possibile distinguere la causazione dell’essere da quella del bene. Le cause aristoteliche concorreranno poi a spiegare la formazione delle virtù: quello sarà forse uno degli usi più arditi e belli che Alberto farà mai di quest’arma aristotelica.

Per quanto riguarda l’articolo 8, Alberto usa Avicenna per produrre una teoria del vero come essere in atto49. Tutto ciò che in qualche modo è in

potenza è incline alla falsità. Alberto prende spunto dal trattato I della

48 «Finis enim est in efficiente per intentionem, et forma est in materia per potentiam. Item, causae cum omnes essent, tamen una est causarum causa, quae immobilis manens omnes alias conducit ad actum; et illa est finis», Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 7, p. 14, ll. 45-49, traduzione mia.

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Metafisica, dove, nella sezione 8, Avicenna si era chiesto cosa fosse la verità.

Egli era giunto a definirla sia come esistenza delle singole cose, che come esistenza di ciò che è eterno, e per ultimo come lo «stato dell’enunciato che indica lo stato della cosa esterna quando gli è conforme»50. Alberto riporta

la distinzione tra la verità che si riferisce al rapporto tra la cosa e il segno e quella, meglio definita come veridicità, che si riferisce al rapporto tra segno e cosa. In piena ispirazione aristotelica, per entrambi i filosofi la verità è segno di corrispondenza tra parola e mondo51.

Ma c’è di più: sia Alberto che Avicenna danno anche una connotazione morale alla verità. Nel trattato VII, 6 il filosofo arabo sostiene che ogni cosa necessariamente esistente è veritas: «veritas enim cuiusque rei est proprietas sui esse quod stabilitum est ei»52. La verità è una proprietà

dell’essere che viene stabilita, per gli enti creati, dall’essere necessario, in atto, vero, cioè da Dio. Niente infatti è più vero di ciò che è necessariamente esistente, che rende esistenti e vere le quiddità degli esseri viventi, il che cosa sono. Affermando ciò, si può ben vedere come Alberto possa sostenere che «la verità sia presso l’essere e la falsità presso il non essere, poiché tutto ciò che è in qualche modo in potenza è incline alla falsità»53.

Infine, nell’articolo 10 troviamo le ultime precisazioni: Alberto sostiene che il vero mette in relazione l’essere con un principio di conoscenza, con la sua forma, riproponendo la convertibilità di bene, ente e vero. Quest’ultimo è il fine dell’intelligenza speculativa, la forma dell’ente conoscibile54. Nel sottotesto Alberto sta affermando che il fine ultimo

dell’uomo, il suo vero bene, è la conoscenza speculativa. Egli ha già affermato nel De homine e affermerà in più opere che l’uomo è essenzialmente ratio, che la ragione costituisce l’uomo come tale55. La

50 Avicenna, Metafisica, cit., I, 8, 48, p. 107.

51 Ibidem. Cfr. Alberto Magno, De bono, cit., tr. I, q. I, art. 8, p. 15, ll. 11-13. 52 Avicenna, Metafisica, cit., VIII, 6, p. 809, 357.

53 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 8, p. 17, ll. 9-12: «Veritas sit penes esse et falsitas penes non esse, patet, quod omne hoc quod aliquo modo est in potentia, inclinatum est ad falsitatem», traduzione mia.

54 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 10, p. 20, ll. 41-47.

55 Alberto Magno, De homine, De divisione animae per has differentias vegetabile, sensibile et rationale, p. 77, l. 24: «Rationale constituit speciem hominis»; 3.1.3, Diffinitiones Philosophorum, p. 18, ll. 10-24. Cfr. H. Anzulewicz, Anthropology: The Concept of Man in Albert the Great, in Resnick, A Companion to Albert the Great, cit., p. 336: «The

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ragione speculativa e la ragione pratica sono in Alberto unite, due aspetti dello stesso costituente essenziale dell’uomo. Questo permette ad Alberto di sostenere sia l’aspetto di scienza deduttiva dell’etica che quello di scienza pratica: l’etica come dottrina ha lo scopo di conoscere i principi in base ai quali si conduce un’azione morale, la natura dell’azione morale stessa, cosa sia il libero arbitrio ecc.; come attività pratica l’etica ha come scopo l’azione in quanto mezzo per un fine desiderato e prefissato. In quest’opera sono presenti entrambi gli aspetti, ma i continui richiami di Alberto a considerare come scopo dell’opera l’azione morale evidenziano una probabile tendenza dell’epoca a lasciare la discussione morale, appunto, come un discorso astratto. I due aspetti saranno, come vedremo, connessi dalla virtù della prudenza56.

Alberto ha quindi costruito un sistema metafisico-morale in cui l’essere, l’atto, il bene ed il vero si oppongono al non-essere, alla potenza, al male e al falso. La sua soluzione della quaestio sull’ipotesi che tutte le cose siano buone è certamente più convincente di quella di Boezio. Ancora una volta abbiamo visto l’uso assolutamente libero che egli fa degli altri autori. Le affermazioni di Aristotele sono usate per estendere i trascendentali, cosa che lo Stagirita, nella sua divisione netta tra morale e metafisica, non avrebbe mai fatto. Ma Alberto può farlo, anzi, deve farlo per dare coerenza interna al suo discorso. Senza dubbio questa coerenza è evidente e ben studiata dal Dottore Universale.

endowment of reason constitutes man as man, even though man as a union of body and soul is necessarily bound to the vegetative and sensitive powers»; p. 338: «The very essence of man is the rational soul as an incorporeal and immortal, intellectual substance». 56 M. Fürer, “Albert the Great”, The Stanford Encuclopedia of Philosophy (Fall 2016

Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL=

https://plato.stanford.edu/archives/fall2016/entries/albert-great: «Another concern that Albert expresses is how ethics as a theoretical deductive science can be relevant to the practice of the virtuous life. He addresses this problem by distinguishing ethics as a doctrine from ethics as a practical activity of individual human beings. […] Albert sees these two aspects of ethics as linked together by the virtue of prudence».

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2. Dal bonum naturae al bonum consuetudinis: causa