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Il bonum in genere e l’atto volontario; possibilità di atti moralmente indifferent

La metafisica del bene, il bene fisico e il bene morale

2. Dal bonum naturae al bonum consuetudinis: causa materiale e cause formali di atti moralmente buon

2.2 Il bonum in genere e l’atto volontario; possibilità di atti moralmente indifferent

Subito dopo la suddivisione del bonum naturae troviamo quella del

bonum moris, dove Alberto pone le basi per il suo sistema delle virtù. Il bene

morale può derivare dalla consuetudine o dalla grazia: questo secondo tipo di bontà verrà tuttavia lasciato da parte per far spazio ad una moralità tutta umana e naturale, benché sempre orientata al bene e dunque a Dio. Il punto fondamentale è trovare uno spazio terreno per sviluppare la morale. Il bene che deriva dalla consuetudine viene a sua volta suddiviso in bonum in

genere (il bene in generale non ancora concretizzato in un’azione), bonum ex circumstantia (il bene che si concretizza in una particolare azione

circostanziata), bonum virtutis politicae (lo sviluppo delle virtù dette cardinali o civili dato dalla ripetizione cosciente e volontaria di azioni virtuose). Questi tre livelli di bontà sono naturali e precedono logicamente la bontà infusa dalla grazia. La particolarità del De bono risiede in questo, nel trattare la virtù naturale in maniera quasi del tutto indipendente, per ricollocarla in un contesto umano e universale.

Al lettore si pongono ben presto dei problemi interpretativi, sia a proposito del posto che occupano l’atto volontario ed il bene generico nella mappa morale di Alberto, sia per quanto riguarda la possibilità che esistano azioni morali indifferenti, non classificabili né come buone né come

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malvagie. I due quesiti, come vedremo, sono profondamente connessi l’uno all’altro.

Per quanto riguarda il confronto tra bene generico ed atto volontario, nell’articolo 4 della quaestio II, dopo aver definito il primo come «l’atto sopra debita materia»69, un’azione orientata al bene e corrispondente alla

situazione in cui ci si trova, Alberto sostiene nella solutio che il primo soggetto morale non sia simpliciter il bonum in genere ma venga posto dall’atto volontario: «Il primo [soggetto] in morale è ciò che è possibile alla condizione di lode, che è la virtù, o di biasimo, che è il vizio, e questo è l’atto volontario che nasce dalla scelta e dalla deliberazione»70. Questo atto

volontario è suscettibile di lode o di critica e può orientarsi al bene o al male indifferentemente. Al contrario, il bene in genere è già orientato alla bontà e «non è detto simpliciter primo [soggetto] in morale ma più ordinato ad uno dei contrari»71 così come lo è il malum in genere. L’atto volontario va

letto come un’astrazione, distinguibile formalmente dal bene generico: appare come qualcosa indirizzabile al bene o al male, o di non ancora orientato.

Tuttavia per comprendere appieno il significato di bonum in genere, Alberto rimanda implicitamente ad un altro suo importante, benché incompleto, trattato morale: il De natura boni. Qui si legge che «il bene in genere è ciò che è il primo bene in ciò che riguarda la morale»72, definito da

alcuni maestri come ciò che può volgersi al bene o al male: pur essendo bene

secundum se, può diventare azione malvagia per una qualche causa, come

dare l’elemosina, di per sé una buona azione, diventa malvagia quando compiuta solo per essere ammirati e lodati. Infatti nel De natura boni le azioni umane sono causate sia dalla materia, l’oggetto dell’azione, bene o male per natura, sia dalle circostanze, che possono cambiare la natura del

69 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. II, art. 4, p. 29, 6um, ll. 5-6

70 Ibidem, ll. 44-47: «Primum in moribus est quod est possibile ad condicionem laudis, quae est virtus, vel vituperii, quae est vitium, et hoc est volontarius actus secundum eligentiam et deliberationem existens», traduzione mia.

71 Ibidem, ll. 49-51: «Bonum autem in genere non dicit simpliciter primum in moribus, sed ordinatum magis ad unum contrariorum», traduzione mia.

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bene e del male73. Siamo quindi di fronte ad un’incoerenza del testo

albertino, dove sia l’atto morale che il bene in generale sono il primo soggetto morale?

Il bandolo della matassa di questo primo quesito si trova, secondo Cunningham74, nell’astrazione con cui va inteso l’atto morale simpliciter.

In effetti possiamo considerarlo come il primo passo nella morale solo astrattamente, spogliandolo di deliberazione e razionalità, di orientamento al bene o al male, di circostanze formali… Non resta quasi più nulla e si deve dunque ammettere che il primo reale soggetto morale è il bonum in genere, non ancora concretizzato in azione ma pronto ad orientare al bene il suo proprio oggetto. Questi, già in parte esaminato come atto sopra debita materia, è la relazione proporzionata tra l’azione buona e la materia, è un rispondere alle necessità di chi ci troviamo davanti, ad esempio a quelle di una persona affamata o triste. È la prima potenzialità del bene morale. In effetti Alberto nell’articolo 7 ad 1um ammette, d’accordo con il De homine, che «molte cose accadono senza deliberazione e quelle non sono indifferenti, né buone né malvagie, poiché non rientrano nel genere morale. Qualunque cosa invece che sia fatta con deliberazione, è buona o malvagia»75.

Il bonum in genere deve ancora formalizzarsi, è solo uno stimolo a compiere il bene, un galleggiante disancorato nel mare della morale, un’imbarcazione che può ancora finire in secca, diventare vizio, peccato, malvagità: il male generico non è altro che la privazione di questa proporzionalità. Il bonum in genere deve ancora mettere la vela e prendere una direzione: questo sarà possibile grazie alle circostanze. Esso può ancora essere soggetto al male in specie: per evitarlo il fine dell’azione buona e compiuta deve avere in sé la coincidenza dell’oggettività, la res, e della soggettività, intentio. In questo frangente Alberto trova una via media tra il

73 Tracey, The moral thought of Albert the Great, in I. M. Resnick, A Companion to Albert the Great, cit., p. 354. Cfr. Alberto Magno, De natura boni, 1.2.1.1, 2.

74 Cunningham, Reclaiming moral agency, cit, pp. 123-124.

75 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. II, art. 7, p. 34, ll. 62-66: «Multa fiunt sine deliberatione et illa non sunt indifferentia nec bona nec mala, eo quod non sunt in genere moris. Quaecumque autem cum deliberatione fiunt, bona vel mala sunt», traduzione mia.

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soggettivismo di Abelardo, che riduceva alla sola intenzione la moralità dell’azione, e Pietro Lombardo, nelle cui Sententiae la bontà morale risiede esclusivamente nell’azione esterna e nei suoi effetti.

Si può leggere il bene generico come un istinto fondamentale a compiere il bene. Non si tratta – ancora – di una conoscenza razionale che permetta di distinguere bene e male con assoluta certezza, ma del sapere intuitivamente che certe azioni vanno nella direzione del bene. Certamente questo “bene” è ancora confuso e poco delineato, come un blocco di marmo appena sezionato, ma già l’uomo, come l’artista, è in grado di immaginare quel che può trarre dalla materia informe. Alberto ci sta suggerendo che tutti noi siamo accomunati dalla propensione a compiere il bene e che questo fa parte della natura umana. Non solo: sappiamo istintivamente che cosa è “bene” in generale e che cosa è “male”. Per questo motivo lo sviluppo delle virtù non è un’opzione arbitraria, ma è lo sviluppo della nostra natura più profonda e razionale.

Facendo quindi un salto in avanti fino all’articolo 7, troviamo un approfondimento sulla possibilità che esista qualcosa di indifferente in morale, aprendo al secondo problema. L’autore specifica che secondo la teologia non possono esistere atti volontari neutrali, tutti sono necessariamente viziosi o virtuosi, degni di lode o meritevoli di biasimo. Tuttavia nella cornice morale che Alberto si è costruito si può ammettere che vi sia qualche cosa di indifferente. Dagli atti moralmente indifferenti vanno in primo luogo esclusi quelli compiuti senza deliberazione, che non sono affatto morali76. Moralmente indifferente corrisponde in etica all’atto

ozioso, un atto volontario con deliberazione indifferente al bene o al male. Non è chiaro tuttavia se Alberto qui stia ancora parlando dell’atto volontario come astrazione: da alcune affermazioni sembra che stia pensando ad un’azione già determinata dalle circostanze e, comunque sia, descrive chiaramente delle azioni compiute con ragione e deliberazione (in

76 La deliberazione, la natura logica dell’atto morale in cui, soppesate le circostanze, considerato il proprio intento e previste le possibili conseguenze, viene generata la sostanza dell’atto, è tanto importante da tracciare un netto discrimine tra atti morali e non. Non è quindi possibile condannare, o lodare, atti compiuti senza deliberazione, senza ragione. Ma di questo parlerò più avanti.

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caso contrario, non sarebbero classificabili come morali). Nella risposta ad

1um sostiene che ogni atto non deliberato e ragionato non è considerato

come rientrante nella sfera morale delle azioni77. Si può quindi dedurre che

più che ad un atto volontario simpliciter egli si riferisca a quel bonum in

genere tanto discusso.

Per trovare la soluzione a quest’intricata natura del bene morale ci possiamo servire, ancora una volta, della solutio dello stesso articolo 7. In effetti qui si apre alla possibilità di un’azione moralmente indifferente per poi richiudere subito la porta: niente è indifferente per la teologia. L’atto ozioso viene condannato dall’Alberto teologo, anche se non dall’Alberto filosofo, e tanto basta, almeno a lui, a risolvere il problema: la morale dell’autore va compresa in continuità con l’ordine divino del mondo.

Infine, scrive Alberto nell’articolo 5, non si può stabilire un’uguaglianza tra bene in genere ed in specie: il primo può diventare male o bene in specie, così come il male in genere può diventare bene o male in specie. Questo accade a causa delle necessità contrarie in cui l’agente morale può imbattersi. L’autore riporta poi nell’articolo 6 delle fini distinzioni tra bene in sé, bene per sé, secondo sé e a causa di sé.

2.3 Le circostanze

Abbiamo stabilito finora la causa materiale della virtù e dell’atto morale, uno stimolo a compiere il bene, un orientamento, naturale e innato, sottoposto alle forti correnti della causa formale: le circostanze. È a questo punto che la materia grezza viene plasmata ottenendo una forma definita, cioè quella dell’atto morale concreto, non più astratto. In questa ed in altre occasioni l’autore dimostrerà che fare filosofia morale non riguarda soltanto l’indagine del comportamento umano, ma anche e soprattutto la sua concretezza, vero scopo della morale.

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Le fonti principali su cui si poggia Alberto nella quaestio III sono Boezio con il De topicis differentiis e Cicerone con il De inventione. In effetti l’affermazione di Cunningham in Reclaiming Moral Agency a p. 129 («in point of fact, this enumeration is found not in Cicero, but in Boethius’s De

topicis differentiis»78) secondo cui l’enumerazione delle circostanze di

Alberto non sarebbe contenuta in Cicerone non è del tutto esatta. In Cicerone troviamo una lista molto simile a quella di Boezio, sebbene non definita come lista di circostanze ma di “attributi”. In ogni caso, è più che evidente che Alberto ha presente il testo ciceroniano, dove, oltre ad avere i nomi delle circostanze che ritroviamo in Boezio e nello stesso Alberto (con l’aggiunta dell’occasione e della possibilità), si incontra anche una divisione del quis che ricalca punto per punto quella boeziana79; lo stesso Boezio si

riferisce alla distinzione ciceroniana nel De differentiis topicis. È dunque evidente la compresenza nei due testi degli stessi elementi che sono presenti in Alberto. In Cicerone non si trova però mai l’espressione circumstantiae, presente invece in Boezio ed Alberto. C’è da dire che il De inventione è un trattato retorico, che si occupa delle migliori strategie da mettere in atto per vincere un processo giudiziario. Cicerone parla dunque di attributi del fatto e della persona che possono convincere i giudici dell’innocenza o della colpevolezza dell’imputato80.

Tuttavia la premessa fondamentale della concezione di Alberto è che le circostanze non siano semplicemente qualificazioni retoriche, come in Cicerone, a cui far riferimento in tribunale: non solo parole ma costituenti formali che rendono più o meno virtuosa un’azione. «Le circostanze propriamente informano l’atto secondo quella forma che dà l’essere onesto o vituperevole»81. Anche per Boezio «le circostanze sono quelle che

78 Cunningham, Reclaiming Moral Agency, cit., p. 129. 79 Cicerone, De inventione, I, 24-27.

80 Ibidem.

81 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. III, art. 1, p. 38, ad 1um, ll. 14-18: «Ista talia non dant esse actui, inquantum actus est, sed dant esse ei, inquantum honestus vel vituperabilis est, et propter hoc, licet sint extrinseca actui, non tamen sunt extrinseca honesto vel vituperabili». Cfr. ibidem, ad 1um, ll. 14-18. Si può notare come in questo punto si manifesti esplicitamente la polemica di Alberto con quel legalismo che aveva fagocitato ogni discussione morale, togliendo terreno all’indagine filosofica.

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convenientemente causano la sostanza della questione»82. Sono le

circostanze a dare la qualità di “agire bene” o “agire male al singolo atto dell’uomo, sono le circostanze, in una parola, a rendere l’atto moralmente

qualificabile. Esse sono certamente retoriche, perché sulla loro base le

persone possono essere accusate o assolte (ed è per questo che sono presenti nel De inventione), ma dobbiamo notare che dal punto di vista etico «non danno l’essere all’atto in quanto atto, ma in quanto onesto o vituperevole, e quindi, anche se estrinseche all’atto, non lo sono all’onesto o al vituperevole»83.

Nell’articolo 1 della quaestio III Alberto definisce le circostanze come

singularia in cui si trova l’azione: esse come abbiamo visto «informano

l’atto», in gergo aristotelico, «secondo quella forma che dà l’essere onesto o vizioso»84. Quindi le circostanze non costituiscono l’essere dell’atto ma gli

conferiscono una forma, classificabile come orientata al bene o no. Tuttavia, pur dando solo il modo, la specie all’atto (e quindi essendo estrinseche rispetto ad esso), le circostanze costituiscono l’essere della virtù e sono ad essa intrinseche. La volontarietà è la coscienza delle singolarità in cui si trova l’atto.

È necessaria una breve pausa nel percorso riguardante le circostanze per capire il motivo per cui vengono da Alberto definite “singolarità” e il legame tra questo termine e la distinzione tra l’approccio retorico e morale rispetto all’atto. Nella risposta ad 4um/5um l’autore spiega che preferisce chiamarle circostanze solo rispetto alla quaestio, che in questo caso va intesa non come quaestio disputata ma come “processo in tribunale”. In questo caso esse sono trattabili come riferimenti giuridici di natura linguistica o retorica, che servono per giungere ad un giusto verdetto legale. Ma il suo interesse verte sulla natura morale dell’azione, per cui «in

82«Circumstantiae sunt quae convenientes substantiam quaestionis efficiunt». Boezio, De topicis differentiis, Col. 1212C.

83 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. III, art. 1, p. 38, ad 1um, ll. 14-18: «Non dant esse actui, inquantum actus est, sed dant esse ei, inquantum honestus vel vituperabili est, et propter hoc, licet sint extrinseca actui, non tamen sunt extrinseca honesto vel vituperabili». Cfr. Ferro, Metafisica ed etica nel “De bono” di S. Alberto Magno, cit., p. 449.

84 «Circumstantia proprie informat actum secundum illam formam quae dat esse honesti vel vituperabilis», Alberto Magno, De bono, cit., tr. I, q. III, art. 1, p. 38, solutio, ll. 7-9.

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rapporto all’atto [le circostanze] sono dette propriamente singolarità, e poiché l’etico non considera l’inchiesta giudiziaria, per questo non le chiama circostanze ma singolarità. L’atto infatti è sempre singolare»85. Le

circostanze retoriche sono universali ed estrinseche all’atto, sono informazioni che riguardano la discussione retorica; al contrario viste come singolarità sono portatrici di un contenuto, particolare e irripetibile, che caratterizza quell’azione e non un’altra. L’autore, secondo Cunningham, traccia, come abbiamo visto, una linea tra l’atto come entità psico-fisica (cui le circostanze sono estrinseche) e le sue qualità o accidenti morali, costituiti dalle circostanze stesse86.

Si può sostenere che mentre le singolarità sono le variabili, assolutamente particolari e irripetibili, che ogni singola azione compiuta possiede (e quindi strettamente connesse all’atto stesso, intrinseche), le circostanze conferiscono a quell’azione fisica una natura morale: esse sono causa estrinseca rispetto all’atto ma intrinseca (formale) rispetto alla virtù, andandone a definire l’essenza. Le circostanze sono la categorizzazione morale di ciò che accade nel mondo reale e dunque devono necessariamente trovarsi ad un più alto grado di astrattezza. Si perde parte della complessità del reale per poter dare un giudizio morale.

Vengono poi elencate nell’articolo 2 le sette circostanze principali. Una di esse è riferita alla persona agente (quis) mentre le altre sei all’azione stessa: quid e cur – sicuramente le due più importanti dal momento che vanno a definire il contenuto dell’atto e l’intenzione da cui esso è mosso –, il quando, ubi (dove), il modo e gli strumenti87. A sua volta ciascuna

circostanza così generalmente tratteggiata è suddivisa in varie parti. Il quis si compone di ben undici fattori, quali il nome, la natura (risultato di vari dati, come sesso, età, nazionalità…), la fortuna (la condizione in cui ci si

85 «In comparatione ad actum dicuntur proprie singularia, et quia ethicus non considerat quaestionem, propter hoc non vocat circumstantias, sed singularia. Actus enim semper [...] est singularis», ibidem, ll. 55-58.

86 Cunningham, Reclaiming moral agency, cit., pp. 133-135.

87 Boezio, De topicis differentiis, 4, 1205 D: «Circumstantiae vero sunt: quis, quid, ubi, quando, cur, quomodo, quibus adminiculis». Cfr. Cicerone, De inventione, I, 24-27, pp. 117- 121.

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trova, come l’essere liberi o servi) e lo stesso habitus come disposizione di animo e corpo nell’essere virtuoso88.

È opportuno confrontare questa lista di circostanze con quella fornita da Boezio nel De differentiis topicis.

Has igitur circumstantias in gemina Cicero partitur, ut eam, quae est quis, circumstantiam in attributis personae ponat. Reliquas vero circumstantias in attributis negotio constituat. Et primam quidem ex circumstantiis eam, quae est quis, quoniam personae attribuit, secat in undecim partes: nomen ut Verres, naturam ut barbarus, victum ut amicus nobilium, fortunam ut dives, studium ut geometer, casum ut exsul, affectionem ut amans, habitum ut sapiens, consilium, facta, et orationes [...]. Reliquas vero circumstantias, quae sunt quid, cur, quomodo, ubi, quando, quibus auxiliis, in attributis negotio ponit; quid et cur, dicens continentia cum ipso negotio; cur in causa constituens89.

Andiamo anche a vedere nello specifico quale sia l’approccio nel testo ciceroniano.

Ogni asserto può essere convalidato adducendo le prove desunte o da quello che si riferisce alle persone o da quello che si riferisce ai fatti. Ritengo che si riferiscano alle persone questi elementi: il nome, la natura, il genere di vita, la condizione, le abitudini, l’emotività, le tendenze, i progetti, le azioni, le vicende, i discorsi. […] Sono inerenti al fatto quegli attributi che copaiono sempre connessi con esso, e da esso non possono essere separati [quid, cur]. […] In relazione poi alle circostanze del fatto […] si ricercherà il luogo, il tempo, il modo, l’occasione, la possibilità90.

Non dobbiamo farci confondere dal termine “circostanze” usato in traduzione: l’espressione latina è in gestionem autem negotii. Abbiamo quindi dei fattori sostanzialmente ricalcati, che Boezio trae da Cicerone e che Alberto trae da entrambi. La combinazione delle circostanze contribuisce a rendere virtuoso un atto e d’altra parte esse possono rendere più o meno virtuoso un atto fino a scusarne l’autore: pensiamo ad esempio

88 L’habitus virtuoso dunque è il prodotto delle azioni, formalizzate dalle circostanze, e, una volta che si è costituito, interverrà nel determinare le successive azioni come parte della circostanza quis.

89 Boezio, De topicis differentiis, 4, 1212 D.

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al fattore dell’età, in base al quale perdoniamo ad un bambino quel che riterremmo inaccettabile o inopportuno in un adulto.

È doveroso spendere qualche parola per quanto riguarda le circostanze quid e cur, le quali, specifica Alberto nell’articolo 3, determinano il contenuto dell’azione; le altre quattro (escluso il quis) ne stabiliscono la gestione. Parlando del quid, l’obiezione 9 dell’articolo 2 sembra cogliere un punto debole dell’argomentazione: il quid costituisce la sostanza del fatto stesso, quindi come può essere una circostanza determinante la natura morale dell’atto se si trova già in esso91? Alberto

aveva già affrontato in parte il problema nel primo articolo, dove nella