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Tutto ciò che esiste tende al bene primo

La metafisica del bene, il bene fisico e il bene morale

1. La metafisica del bene

1.1 Tutto ciò che esiste tende al bene primo

Alberto inizia il primo trattato chiedendosi quale sia la natura del bene. Al lettore bastano poche righe dell’articolo 1 per immergersi in un’investigazione che pone come riferimento tre autori chiave, Aristotele, Avicenna e al-Ghazali, le cui definizioni di bene sono messe a confronto1.

In Aristotele il bene è definito come «ciò a cui tutto tende»2. Nel

primo libro dell’Etica Nicomachea si sostiene che questa sia una buona definizione: un bonum è un fine desiderato non in vista di altro ma per se stesso. Inoltre, visto che lo scopo dell’opera, come per Alberto, è l’agire e non soltanto la conoscenza del bene, si individua nel bene pratico della vita umana il bene più alto, che consiste nella felicità. Questa deve quindi essere definita: essa è frutto dell’insegnamento e della pratica ed è l’attività dell’anima secondo virtù, il cui esercizio è di per sé piacevole e bello3.

Vediamo dunque come nell’opera aristotelica il discorso sul bene umano si connetta immediatamente a quello sulle virtù.

Accordando l’aristotelismo con la visione teologica cristiana, Alberto spiega la definizione di Aristotele sostenendo che in ogni ente del creato c’è una disposizione ad unirsi al suo proprio fine, andando da subito oltre gli intenti aristotelici. Mentre infatti Alberto vuole dare una fondazione metafisica alla morale che va a costruire, in Aristotele metafisica e morale restano campi distinti. Alberto vuol fare qualcosa di diverso: dare una coerenza interna al mondo metafisico, naturale ed etico connettendo questi campi, in linea con la tradizione, una metafisica dove si esiste per il pensiero stesso creativo e provvidenziale di Dio.

1 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 1, pp. 1-2, ll. 1-37 e 1-47. 2 Aristotele, Etica Nicomachea, 1094a2.

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Nell’universo per Alberto c’è quindi un ordine: l’autore suggerisce subito che il pensiero di Aristotele sia in accordo con il cristianesimo. Assumendo il bene come fine, si presuppone anche che gli enti siano tutti in potenza prima che in atto, in una naturale disposizione a raggiungere il fine4. Non si può ammettere che nella natura vi sia qualcosa di vano perché

«Dio e la natura non fanno nulla invano»5.

Se la definizione di Aristotele è usata da Alberto per guardare al bene dal punto di vista degli enti desideranti, la definizione di bene attribuita ad Avicenna si spinge a definire questo concetto come unione di atto e potenza, come ciò che è perfetto nella sua realizzazione6. Il filosofo islamico nel IV

trattato della sua Metafisica, che Alberto ha ben presente, definisce in realtà l’essere in potenza come mancanza e l’essere in atto come perfezione e bene in ogni cosa; il male è la privazione di quel perfezionamento individuale, il rimanere in potenza senza realizzarsi. Dunque più che come unione di atto e potenza il bene è per Avicenna il completamento delle proprie funzioni, l’essere in atto e non più in potenza.

In età scolastica circolava una definizione che è erroneamente attribuita ad Avicenna, che deriva in realtà dalla Summa de bono di Filippo il Cancelliere: nella prima quaestio egli scrive infatti: «Bonum est habens indivisionem actus a potentia simpliciter vel quodammodo. “Simpliciter” dico ut in Primo; in divina enim essentia idem est potentia cum actu»7. Ecco

quindi sciolto un nodo interpretativo: Alberto trae da Filippo questa seconda definizione che il Cancelliere aveva tratto «ab Aristotele et aliis philosophi»8 e che nel testo albertino erano divenuti semplicemente

“Avicenna”. Da notare che in Filippo l’indivisio si può dire simpliciter solamente del Primo Bene, ovvero Dio, la cui essenza divina è unione perfetta di atto e potenza.

4 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 1, p. 1, ll. 10-25.

5 Aristotele, Del cielo, 271a 33 in Opere, Fisica - Del cielo, vol. 3, ed. A. Russo-O. Longo, Laterza, Bari 1987, p. 249.

6 Avicenna, Metafisica; la scienza delle cose divine (Al-Ilahiyyat) dal Libro della guarigione (Kitab al Sifa), ed. O. Lizzini e P. Porro, Bompiani, Milano 2002, IV, 2, 184, pp. 409 e 411.

7 Filippo il Cancelliere, Summa de bono, p. 7, A1va, ll. 34-36. 8 Ivi, p. 6, A1va, ll. 21-22.

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Nella Metafisica aristotelica a cui si rifanno entrambi i passi medievali (in Filippo ci sono riferimenti espliciti mentre in Alberto, come già detto, c’è solo il rimando ad Avicenna) troviamo il passo corrispondente da cui Filippo e Alberto deducono che il bene è non-divisione di atto e potenza.

Che, poi, un atto buono sia migliore e più nobile di una buona potenza risulta chiaro da quanto segue. Tutto ciò che noi consideriamo potenziale è potenza di cosa contrarie […] è potenza di essere in buona salute e di essere malato, di essere in quiete e di essere in movimento […]. Pertanto uno stesso oggetto ha, in un medesimo tempo, la possibilità di ricevere i contrari; ma è impossibile che i contrari esistano nello stesso oggetto in un medesimo tempo, ossia che […] coesistano gli atti, […] l’atto si identifica con una sola delle due cose: e la conclusione è che l’atto è migliore. […] È evidente allora che non esiste il male all’infuori delle “cose”, giacché per natura il male è posteriore alla potenza. E quindi neppure nelle cose primordiali o eterne esiste alcun male o alcun errore o alcunché di corrotto9.

Né in Aristotele né in Avicenna troviamo dunque le precise parole che sono riportate nei testi medievali come citazioni. Tuttavia in entrambi i filosofi l’atto è sicuramente identificato con il bene e la potenza come privazione, come male. Questo in un’ottica cristiana si trasforma nell’idea che solo in Dio possiamo trovare la piena identificazione di potenza ed atto, solo Dio possiede la piena perfezione.

Filippo il Cancelliere, Avicenna ed Aristotele trovano un pieno accordo in Alberto. Le parole sono di Filippo, ma si accordano perfettamente con quanto il filosofo persiano scrive nella sua Metafisica, IV 2. Il presupposto di questa definizione, che ogni ente desideri in virtù della sua materia o potenzialità la forma o atto, è provata anche nella Fisica di Aristotele, dove si legge che il desiderio della forma non lo ha la forma stessa ma la materia, che desidera la forma «come la femmina ha il desiderio del

9 Aristotele, Metafisica, 1051a 4-21, in Opere, vol. 6, ed. A. Russo,Laterza, Bari 1973, pp. 271-272.

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maschio o il brutto del bello»10. Quindi Alberto estrapola da Avicenna, come

Filippo, solo quel che serve per attribuirgli una definizione che non è propria del filosofo, ma adattata ad un contesto che vuole, ancora una volta, un accordo tra metafisica e morale: l’intento di Avicenna era infatti del tutto incentrato sulla definizione di bene metafisico.

Una delle obiezioni mosse alla seconda definizione11 è che essa sia in

contraddizione con la prima, in quanto, mentre la definizione aristotelica sottintende una potenzialità tendente ad un atto (il bene) e dunque distinta da esso, Filippo il Cancelliere connette atto e potenza nel bene, che nella prima definizione è il desideratum, in modo forte: «bonum est indivisio

actus a potentia»12. Tuttavia a questa obiezione Alberto ribatte usando la

terza definizione, secondo cui il bene è l’atto appreso con piacere13. Questa

definizione non si trova nella Logica et philosophia di al-Ghazali, come sostiene la nota 15; tuttavia è possibile rintracciarvi qualcosa di molto simile. Difatti si legge che vi è un intrinseco diletto nell’apprendere le virtù; ora, se consideriamo la virtù come l’atto, il compimento della potenzialità, sarà chiaro che da questa affermazione a sostenere che il bene è l’atto appreso con piacere il passo è brevissimo14.

Il concetto di delectatio e di appetitus, ripreso nella risposta ad 9um («Id quod appetit bonum et actum, non est omnino divisum a bono»15) è

fondamentale perché è ciò che muove l’attività umana. Nel De homine Alberto aveva individuato tre fasi principali del moto: la cognizione del fine da raggiungere, l’appetito del fine, l’esecuzione dell’azione. La stessa cosa accade, seppure in maniera più complessa, in ambito morale16. Troviamo

una prima fase in cui interviene la ragione per stabilire il fine da perseguire, passaggio qui rappresentato dall’indagine razionale sulla natura del bene. Si

10 Aristotele, Fisica, 192 a 20-24, in Opere, Fisica – Del cielo, vol. 3, ed. A. Russo-O. Longo, Laterza, Bari 1973, p. 24.

11 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 1, p. 3, ll. 42-49. 12 Ivi, tr. I, q. I, art. 1, p. 1, l. 4.

13 Ivi, tr. I, q. I, art. 1, p. 1, ll.16-17.

14 al-Ghazali, Logica et philosophia, impressum ingenio & impensis P. Liechtensteyn Coloniensis, Venezia 1506, p. 70.

15 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 1, p. 6, ad 9um, ll.30-32.

16 Alberto Magno, De homine, ed. H. Anzulewicz et J.R. Söder, Monasterii Westfaliorum in Aedibus Aschendorff, 2008, q. 65, art. 2.

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giunge quindi all’appetitus, l’amore per il fine, la volontà che funge da carburante per l’azione. Infine con la deliberazione decideremo come concretizzare l’azione, guidati dalle virtù più o meno sviluppate. Compiere un’azione moralmente buona dunque ci porta ad avvicinarci al bene, un bene che desideriamo, verso cui siamo mossi da amore e desiderio, perché è la nostra propria natura che ci spinge ad essere virtuosi. Il Bene è ciò a cui l’uomo naturalmente tende; bene è il compimento della propria natura nell’atto virtuoso.

Nella risposta alla prima obiezione17, Alberto sostiene l’idea di un appetitus naturalis diverso dall’appetitus perfectus: il primo coinvolge ogni

ente composto di materia e tendente alla forma, il secondo solo l’uomo perché richiede la conoscenza. Tutti gli esseri si muovono verso una perfezione che non possiedono, ma il cui raggiungimento è possibile grazie alla natura stessa di quel particolare essere. Bene è ciò che ogni cosa desidera. Ma mentre piante e animali lo raggiungono solo attraverso un’attitudine innata, l’uomo persegue il bene coscientemente e attivamente. Il perfezionamento umano, dirà poi Alberto, è l’acquisizione di virtù. Infine, il bene, ciò a cui tutto tende, non può che essere Dio. Il raggiungimento del bene muove quindi da un impulso naturale che coinvolge ogni essere vivente, e consiste nel perfezionamento delle potenzialità insite nell’ente, nel completamento delle proprie funzioni.

È opportuno fare adesso un parallelismo tra il testo albertino e quello del Cancelliere: difatti anche Filippo aveva proposto tre definizioni di bene.

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Alberto Magno Filippo il Cancelliere Optime annuntiant bonum, quod omnia

appetunt18.

Definizione 1 da Aristotele.

Bonum est quod desideratur ab omnibus19.

Bonum est actus, cuius apprehensio est cum delectatione20.

Definizione 3 da al-Ghazali.

Bonum est moltiplicativum aut diffusivum esse21.

Bonum est indivisio actus a potentia22. Definizione 2 da Avicenna.

Bonum est habens indivisionem actus a potentia simpliciter vel quodam modo23.

Le definizioni qui date sono tutte ben provate e di carattere metafisico. Eppure il De bono è un trattato di natura morale. Questi primi articoli servono ad Alberto per spiegare l’ordine morale nell’ordine cosmico e metafisico. I settori della conoscenza non sono qui separati ma profondamente connessi: per Alberto la metafisica è filosofia prima, presupposto di ogni altra conoscenza; l’ordine morale riflette un ordine metafisico-teologico che si esplica in una struttura gerarchica della natura. È in virtù di quest’ordine che l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, tende naturalmente a ritornare alla sua causa efficiente e finale, l’intelletto primo, il bene primo, Dio. Già in questo primo articolo si può vedere come Alberto sia andato ben oltre la definizione di felicità di Aristotele e l’abbia connessa ad una struttura certa metafisica: il suo intento è mettere in luce la bontà naturale delle creature in relazione al loro essere24.

L’articolo 2, «se tutto il bene sia tale per una bontà singola, che è il sommo bene» («Utrum omne bonum sit bonum bonitate una simplici, quae est summum bonum»25) affronta una questione spinosa. L’autore

comprende appieno la complessità del tema che sta trattando: se sostenesse che esiste una sola bontà prima, Dio, dovrebbe concludere che nulla di ciò che è creato, incluso l’uomo, è buono; se al contrario dicesse che tutto è

18 Ivi, tr. I, q. I, art. 1, p. 1, ll. 11-12.

19 Filippo il Cancelliere, Summa de bono, cit., p. 7, A1va. 20 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 1, p. 1, ll. 13-14. 21 Filippo il Cancelliere, Summa de bono, cit., p. 7, A1va. 22 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 1, p. 1, ll. 15-17. 23 Filippo il Cancelliere, Summa de bono, cit., p. 7, A1va.

24 C. Ferro, Metafisica ed etica nel “De Bono” di S. Alberto Magno, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», vol. 45, nº5 1953, pp. 434-464.

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indistintamente bene grazie alla bontà prima divina, si troverebbe in un’imbarazzante deriva panteistica. Agostino, usato moltissimo come riferimento in questo articolo, afferma nel De trinitate: «Questo è buono, quello è buono. Sopprimi il questo e il quello e contempla il bene stesso, se puoi; allora vedrai Dio, che non riceve la sua bontà da un altro bene, ma è il Bene di ogni bene»26. Poco dopo Agostino sostiene la necessità di fare

astrazione dai beni particolari e molteplici per giungere al bene primo, Dio27.

Alberto utilizza dunque, come Agostino, la nozione platonica di partecipazione: il primo bene riluce nel creato come un sole, come un originale che si riflette nel suo esempio. Egli sottolinea nella risposta ad 1um che il bene primo è ragione del bene creato, per cui il bene divino si trova nella razionalità del mondo e dell’uomo28. La partecipazione non è diretta

ma ogni cosa possiede una finita e particolare istanza di bene, causata dalla bontà prima. Dunque qui troviamo un accordo, caratterizzante in generale tutta la filosofia albertina, tra la causalità aristotelica, in virtù di cui ogni ente desidera il suo fine, il suo bene, e riceve da esso la forma, e l’emanazione plotinica, dove gli enti sono immagine di una Causa Prima, che a sé li richiama. Dio è dunque sia un passivo oggetto di desiderio che il motore efficiente del tornare a lui, sia causa finale che efficiente.

Già nel De natura boni Alberto aveva stabilito che i beni si suddividono in creati ed increati, che l’unico bene increato è Dio e che i beni increati sono ordinati a lui; inoltre si era chiesto come si manifestasse negli uomini il bene increato, come fosse diminuito in loro e in che modo potesse

26 «Bonum hoc et bonum illud. Tolle hoc et illud, et vide ipsum bonum, si potes; ita Deum videbis, non alio bono bonum, sed Bonum omnis boni. Neque enim in his omnibus bonis, vel quae commemoravi, vel quae alia cernuntur sive cogitantur, diceremus aliud alio». Augustinus, De trinitate, tr. it. di P. Montinari, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1949, VII, 3.4,

27 Augustinus, De trinitate, cit., VIII, 3.5.

28 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 2, p. 8, ad 1um, ll. 34-36: «Primum enim bonum relucet in ratione boni creati» («Il primo bene infatti riluce nella razionalità del bene creato»).

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essere recuperato29. Qui aggiunge al discorso l’idea di una proporzionalità

comune tra beni creati ed increati, come vediamo nell’articolo 4.

In esso Alberto approfondisce il rapporto tra il bene creato ed increato tramite il concetto di analogia, intesa come «comparazione ad uno stesso fine»30. Procede chiedendosi se esista una nozione comune in virtù

della quale beni creati e Bene Primo siano accomunati, in un contesto religioso in cui la trascendenza divina è uno dei fondamenti teologici più condivisi tra credi anche molto diversi tra loro. Tuttavia, scrive Alberto, se esistesse una ragione comune dovremmo riuscire a trovare un’analogia tra creatore e creature. Questa non può basarsi sulla sostanza né su di uno stesso atto, ma la troviamo nella comparazione ad uno stesso fine: il sommo bene31. Dunque viene ammessa una comune proporzionalità tra bene creato

ed increato ridotta al terzo senso dell’analogia32. Tutti i vari gradi di bontà

sono connessi da una comune proporzionalità, sono da un certo punto di vista uniti.

Questa distinzione e ricomposizione sulla base dell’analogia può essere proposta non solo nell’astrattezza delle premesse metafisiche, ma anche una volta entrati nell’ambito morale: ogni bontà morale designa una perfezione, in cui atto e potenza sono indissolubilmente legati.

Il principio di analogia e le dottrine dello Pseudo Dionigi si fondono nella spiegazione di Alberto della relazione tra le creature e Dio. Il risultato è un universo concepito nella classica maniera neo-platonica come una gerarchia di enti emanati da, e tendenti a, un bene infinito. […] Ciò che è stato detto per quanto riguarda il bene in generale sarà non meno applicabile agli elementi di bontà morale: tutti in un certo modo implicheranno una perfezione ed una “unità di atto e potenza”, ognuno di essi ha una specifica posizione intellegibile nella più completa nozione di

bonum 33.

29 M.J. Tracey, The moral thought of Albert the Great, in I. M. Resnick, A Companion to Albert the Great, cit., p. 353. Cfr. Alberto Magno, De natura boni, in Opera omnia, vol. 25.1, ed. E. Filthaut, Aschendorff, Münster 1974 1, 1, 1 e 1, 2.

30 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 4, p. 10, l. 9: «Comparationem ad unum finem». 31 Per i tre sensi del temine analogia Alberto cita Aristotele, Metafisica, IV, 2, 1003a 32. 32 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. I, art. 4, p. 10, ll. 10-25.

33 «The principle of analogy and the doctrines of Pseudo-Dionysius coalesce in Albert’s explanation of the relationship between creatures and God. The result is a universe conceived in classic neo-Platonic fashion as a hierarchy of beings issuing from, and tending back toward, an infinite good. […] What has been said of the good in general will be no less

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Insomma, per Alberto esiste un ordine nel creato, una gerarchia di beni ed enti creati da Dio e immagine della trinità, come vedremo più avanti. Questo non esclude che negli enti stessi ci sia un desiderio del Primo Bene, ma anzi lo presuppone. Nella bontà fisica e morale vedremo questi stessi elementi, applicati al creato e all’uomo.

L’uso che egli fa delle fonti (Aristotele, Avicenna, Agostino e Filippo il Cancelliere) è assolutamente libero, tale da proporre un accordo tra i testi che certo non è possibile ritrovare negli originali. La cosa più importante per Alberto è provare grazie alle auctoritates del suo tempo che la morale ha una fondazione metafisica.

Ci riesce? Senza dubbio le sue argomentazioni sono molto forti, tuttavia per accettarle dobbiamo prima aver presente il panorama in cui si muove. Che l’emanazione plotinica concordi con le quattro cause non è certo un concetto ammissibile in un moderno manuale di storia della filosofia, ad esempio. L’obiezione sulla concordia tra la prima e la seconda definizione di bene continua ad arrovellarci, anche se Alberto pare averla confutata.

Nel leggere questo autore dobbiamo quindi ricordarci che la sua opera non è un collage di testi autorevoli, ma un’opera originale, dove egli propone soluzioni a problemi pressanti per la sua epoca, e, se vogliamo, della nostra. Il suo punto di vista è ben diverso dal nostro, condizionato da una parcellizzazione del sapere nella società contemporanea; nel XIII secolo i campi del sapere sono congiunti e prova ne è la stessa sterminata produzione di Alberto, che spazia in ogni campo dello scibile.

applicable to the elements of moral goodness: all these in some way will connote a perfection and an “undividedness of act from potency”, each of which has a certain intelligible setting within the more comprehensive notion of bonum». Cunningham, Reclaiming Moral Agency, cit., p. 99.

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