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Il coraggio: de fortitudine

Capitolo quarto La virtù

2. Il coraggio: de fortitudine

Alberto presenta come primo approccio al coraggio quattro definizioni notevoli, come suo solito prese sia da autori antichi che da cristiani. La prima è ciceroniana e recita: «la fortezza è la capacità

ponderata di affrontare e sostenere i pericoli»65. Questa definizione

considera la materia della fortezza e il fatto che essa sia ordinata alla ragione66. Il termine considerata che ho tradotto con ponderata è in corsivo

perché può essere un punto di discussione: difatti i pericoli possono essere o improvvisi, e in tal caso sono affrontati grazie alla precedente disposizione acquisita, o previsti dalla ragione, che ordina le virtù in modo da fronteggiarli67. Così conclude l’obiezione a cui Alberto risponde che la virtù

è ponderata nel senso che il forte pondera il pericolo, sa come sostenerlo grazie all’intervento della ragione che ordina le virtù; tuttavia il comportarsi bene di fronte al pericolo è frutto della disposizione68.

Inoltre «non è la sofferenza ma la causa per cui uno sostiene il pericolo a mostrare se si è forti o no»69: non è quindi il pericolo, che può

essere più o meno grande, a decidere se si è forti, lo si può essere anche in situazioni non pericolose.

La definizione agostiniana segue la prima e recita: «la fortezza è l’amore che sopporta facilmente per l’amato»70. Le obiezioni si scagliano

proprio contro quel facile, ma Alberto scioglie ogni dubbio presentandola come fortezza infusa dalla grazia71. Sulla definizione che sarebbe tratta

Glossa al Vangelo di Matteo («la fortezza è la fermezza d’animo contro le insidie del secolo»72), ma che invece si trova in Agostino, De divinis

65 Cicerone, De inventione, II, 54: «Fortitudo est considerata periculorum susceptio». Cfr. Alberto Magno, De bono, tr. II, q. I, art. 1, p. 82, l. 25.

66 Ivi, tr. II, q. I, art. 1, p. 85, ad 11um, ll. 88-90. 67 Ivi, tr. II, q. I, art. 1, p. 83, ll. 5-30.

68 Ivi, tr. II, q. I, art. 1, p. 85, ll. 6-17.

69 Ivi, tr. II, q. I, art. 1, p. 85, ad 4um; tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 424.

70 Agostino, De moribus ecclesiae, cit., I, 15: «Fortitudo est amor facile tolerans omnia propter amatum». Cfr. Alberto Magno, De bono, tr. II, q. I, art. 1, p. 82, ll. 28-29.

71 Ivi, tr. II, q. I, art. 1, p. 84, ll. 34-41 e p. 85, ad 11um, ll. 90-92.

72 Agostino, De divinis quaestionibus octoginta tribus, q. 61, n. 4. Cfr. Alberto Magno, De bono, tr. II, q. I, art. 1, p. 82, ll. 30-31.

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quaestionibus 61, 4, Alberto non si sofferma più di tanto, classificandola

come definizione che si riferisce alla materia comune della fortezza73. Ben

più spazio prende invece la definizione di Aristotele, che non ha un corrispettivo preciso nel testo dell’Etica ma che Alberto deduce dalle parole di Aristotele: «la fortezza sopporta e fa cose temibili per un bene»74. Si

giunge quindi alla materia propria della fortezza: il sostenere, che come vedremo sarà il suo atto proprio, ciò che è difficile75; questa virtù si oppone

alla paura, che non è mai del tutto vinta, ma non deve prendere il sopravvento.

Alberto si dedica dunque a trattare della materia del coraggio, che secondo una definizione aristotelica consiste nelle «passioni imposte dall’esterno che comportano una scelta»76. Aristotele sta applicando al

coraggio ciò che aveva preannunciato a proposito della virtù in generale, consistente in una medietà tra i due estremi del timore e dell’audacia. Egli però, dopo essersi chiesto quale tipo di mali il coraggioso sia in grado di fronteggiare, restringe il campo a chi riesce ad affrontare una morte valorosa combattendo per la propria patria77. Questa è una definizione

stringente, che mal si adatta al contesto di Alberto, il quale difatti non la utilizzerà che di sfuggita.

Le obiezioni opposte a questa definizione sono fondamentalmente due: una muove dalla definizione di Aristotele, secondo cui materia del coraggio è l’affrontare la morte per la patria, obiettando che in tal caso non è affatto possibile esercitarsi come in ogni altra virtù; la seconda obietta che nel sostenere i pericoli esterni non vi è alcun piacere come dovrebbe esserci nell’esercizio di virtù, per definizione dello stesso Aristotele78. La solutio

scioglie i dubbi sostenendo che la fortezza riguarda come oggetto principale l’affrontare una morte provocata da altri, ma più in generale riguarda anche

73 Ivi, tr. II, q. I, art. 1, p. 85, ad 11um, ll. 92-93.

74 Ivi, tr. II, q. I, art. 1, p. 82, ll. 32-34: «Fortitudo sit circa terribilia sufferens et operans gratia boni».

75 Ivi, tr. II, q. I, art. 1, p. 85, ad 7um, ll. 68-72.

76 Ivi, tr. II, q. I, art. 2, p. 86, ll. 4-5: «Circa passions illatas, praecipue quae sunt cum eligentia». Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, III, 9, 1115 a 4 e seqq.

77 Ivi, III, 9, 1115 a 25-35.

78 Alberto Magno, De bono, tr. II, q. I, art. 2, p. 86, ll. 12-21 e ll. 30-34. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 2, 1104 b 4-5.

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ciò che è difficile: quindi sebbene la sua materia principale sia la morte provocata, la fortezza tuttavia si esercita anche nella morte naturale o nel resistere alle tentazioni79. Quest’ultima è la condizione che accompagna

l’esercizio di ogni altra virtù su materie diverse: Alberto qui sostiene che «in un certo senso l’essenza delle virtù è una sola. Le virtù hanno una sola medietà perché le condizioni di tutte le virtù si trovano nella medietà»80.

Per quanto riguarda invece l’atto della virtù, Alberto propone ancora una volta una definizione aristotelica, in cui «è forte chi soffre, teme e arrischia ciò che è opportuno per un fine consono e al tempo opportuno»81.

Aristotele prosegue qui la sua trattazione sostenendo che chi è coraggioso lo è a misura d’uomo, affrontando quindi cose temibili in vista del bello che ha da venire82. Nel suo affrontare i pericoli, ribadisce lo Stagirita, il coraggioso

non è mai tuttavia avventato, poiché in tal caso mancherebbe di ragione, che conviene invece a chi possiede questa virtù: «infatti il coraggioso subisce e agisce secondo le circostanze e come prescrive la ragione»83.

Per quanto riguarda le articolazioni della fortezza, possiamo trovare riferimenti coevi nel francescano Alessandro di Hales. Nel suo commento alle Sentenze egli attribuisce due atti alla fortezza, ovvero il «terribile in patiendo, difficile in agendo»84, quelli che in Alberto divengono l’affrontare

79 Alberto Magno, De bono, tr. II, q. I, art. 2, p. 87, ll. 12- 30: «Sed quia difficile est materia fortitudinis, ideo alia difficultatem habentia attribuuntur ei […]. Unde fortitudo tribus modis est circa aliquid ut circa materiam, scilicet ut circa ultimum, in quo habet rationem virtutis, et hoc tantum est mors illata, in qua quaeritur subversio boni honesti in forti. Et circa id quod causatur a fortuna vel natura eiusdem rationis cum materia principali, sicut est mors innata vel causata a fortuna, et circa hoc non proprie est actus fortitudinis, ut dictum est, sed potius usus, quia talibus utitur decenter et honeste fortis. Et tertio circa id quod sunstantialem ordinem habet ad id quod est propria materia, ut est infirmitas vel bellum vel obsidio civitatis vel persecutio vel tempestas vel naufragium et huiusmodi. Invenitur enim a sanctis fortitudo esse circa alia difficilia sicut circa resistere concupiscentiae carnis et resistere diabolo».

80 Ibidem, ll. 62-65: «Ex hoc accipitur, quod vis virtutum quodammodo una est et unum quodammodo habent medium, per hoc quod omnium, per hoc quod omnium condiciones circa medium unius materiae inveniuntur»; tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 430. 81 «Qui quidem igitur, quae oportet et cuius gratia, suffert et timet et ut oportet et quando, similiter et qui audet, fortis est», ivi, tr. II, q. I, art. 2, p. 88, ll. 71-73, traduzione mia. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, III, 10, 1115 b 17-20.

82 Ivi, III, 10, 1115 b 10-15. 83 Ivi, III, 10, 1115 b 19-20.

84 Alessandro di Hales, Glossa in quattuor libros sententiarum Petri Lombardi, vol. III, Collegium S. Bonaventurae, Firenze 1954, III, dist. XXXIII, L 235 b 15, p. 400.

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ed il sostenere. Ma tra questi due aspetti della fortezza a prevalere è in Alberto il secondo, mentre Alessandro li mette sullo stesso piano.

Tuttavia nella definizione aristotelica non uno, ma ben tre atti sono proposti. Nelle obiezioni ci si chiede a quale si debba dare la priorità, e si opta per l’affrontare85. Non è così nella solutio di Alberto, che propone

invece come atto proprio e sostanziale il sostenere ciò che è più difficile86.

Alberto sostiene anche nella risposta ad 7um che in un certo senso un timore ed un’audacia “buoni” debbano trovarsi nel coraggio, rendendo il forte cauto ma al tempo stesso impavido87. Tuttavia da due eccessi non conseguono più

medi ma uno solo perché, come abbiamo già visto, l’estremo nasce dalla corruzione di una circostanza, e le circostanze sono molteplici88.

A proposito del rapporto di timidezza ed audacia rispetto al coraggio, l’articolo successivo affronta proprio il tema dell’opposizione della virtù a questi due estremi. Alberto afferma che timore ed audacia possono intendersi in due modi: rispetto all’habitus, essi si oppongono in modo contrario alla virtù della fortezza e allo stesso tempo si contrastano tra loro; rispetto alla passione, non sono contrari alla fortezza ma possono trovarsi insieme ad essa se sono ordinati dalle circostanze e frenati dalla ragione89.

Alberto ammette dunque che non vi è una demarcazione netta tra la virtù ed i suoi corrispettivi viziosi, ma che al contrario le qualità in apparenza corrotte possono diventare virtuose se sottomesse alla ragione e quindi se sono controllabili.

Un passo interessante è quello dedicato alla distinzione della fortezza da ciò che sembra tale ma non lo è. Alberto distingue con Aristotele cinque “fortezze apparenti”: la fortezza dei cittadini, che muove dal desiderio di

85 Alberto Magno, De bono, tr. II, q. I, art. 3, p. 89, ll. 27-33.

86 Ivi, tr. II, q. I, art. 3, p. 90, solutio, ll. 72-75: «Unde sustinere addit super audere et ideo altius ponit fortitudinem in ratione virtutis quam audere et hac de causa est actus substantialis et principalis fortitudinis».

87 Ivi, tr. II, q. I, art. 3, p. 91, ad 7um, ll. 42-60: «Unde sicut ille timor bonus est et est in forti, ita et illa audacia, qua audet audenda, bona est».

88 Ibidem, ad 13um, l. 95- p. 92, l. 1.

89 Ivi, tr. II, q. I, art. 4, p. 92, solutio, ll. 60-69: «Dicendum, quod timor et audacia dupliciter accipiuntur, scilicet ad habitum et ad passionem. Et si accipiuntur ista pro habitu, tunc contrarie opponuntur fortitudini. Ed hoc dico, secundum quod timor accipitur in contrarietate ad audaciam […]. Si vero accipiuntur pro passionibus, sic non contrariantur fortitudini, sed possunt esse cum ipsa, si a ratione frenantur et ordinantur circumstantiis».

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onore per vincere il quale essa spinge ad agire coraggiosamente, ma manca del fine della vera fortezza90; la fortezza dei soldati professionisti o di altri

tipi di combattenti, che è simile perché si esercita in guerra con le armi, ma differisce in quanto mancante dell’habitus nel modo della ratio naturale consenziente, in quanto teme più la morte del disonore, al contrario del forte91; la fortezza dell’ira, in cui manca del tutto la razionalità propria di

ogni virtus92; la fortezza per via della vittoria sperata o frequente, che

differisce per il fine dalla vera fortezza93, che somiglia al coraggio degli

ubriachi, come scriverà Alberto poco tempo dopo nel suo Super Ethica94; la

fortezza per ignoranza dei pericoli, che di nuovo manca di ratio non avendo precognizione95.

Dunque, ricapitolando, l’esercizio della virtù del coraggio comprende un iniziale farsi carico di sopportare cose difficili ed una fase successiva in cui queste cose devono essere sostenute. Il coraggio media direttamente con le nostre emozioni irascibili, in particolare con la paura e la rabbia. La paura di una morte violenta è la materia principale della fortezza, che tuttavia si esercita anche in altri casi (altrimenti sarebbe impossibile possederla). Esiste tuttavia una paura “razionale” e buona che accompagna anche il più coraggioso. I rischi devono essere corsi solo quando le circostanze lo domandano e la ragione promuove l’azione96.

Passiamo dunque alle parti del coraggio. Seguendo Cicerone, anche Alberto ne distingue quattro: magnificentia, fidantia, patientia,

perseverantia. Per spiegare il rapporto che intercorre tra questa e tutte le

altre virtù cardinali Alberto fa uso del concetto di potestativum, come abbiamo già visto nel capitolo 2. «Le virtù morali», scrive, «sono potenze e

90 Ivi, tr. II, q. I, art. 6, p. 95, ll. 19-23. Cfr. ivi, tr. II, q. I, art. 6, p. 97, ll. 42-58. 91 Ivi, tr. II, q. I, art. 6, p. 95, ll. 52-71. Cfr. ivi, tr. II, q. I, art. 6, p. 97, ll. 49-54. 92 Ivi, tr. II, q. I, art. 6, p. 95, ll. 71-77. Cfr. ivi, tr. II, q. I, art. 6, p. 97, ll. 65-72. 93 Ivi, tr. II, q. I, art. 6, p. 96, ll. 13-16. Cfr. ivi, tr. II, q. I, art. 6, p. 97, ll. 65-72.

94 Alberto Magno, Super Ethica, ed. W. Kubel, Aschendorff, Münster 1968-1987, III, 2, 9. 95 Alberto Magno, De bono, tr. II, q. I, art. 6, p. 96, ll. 26-35. Cfr. anche ivi, tr. II, q. I, art. 6, p. 97, ll. 65-72.

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le loro parti sono potestative. […] Le parti ricevono la predicazione del tutto in modo imperfetto e sono ordinate, il tutto è perfetto»97.

Egli si occupa anche del problema di rapportare le quattro parti enumerate da Cicerone con le undici elencate da Macrobio: chi ha ragione? Per Alberto entrambi, visto che Macrobio enumera anche le parti secondarie del coraggio, che rientrano nella classificazione delle quattro parti principali98. Ad esempio la magnanimità rientra nella magnificenza, la

sicurezza e la fiducia nella fidanza, e così via99.

Macrobio nella sua opera riporta tutto al governo della patria molto più esplicitamente di quanto non faccia Alberto. Ad una visione eccessivamente elitaria delle virtù che coinvolgerebbe pochi egli contrappone una classificazione che si deve a Plotino, proponendo quattro gradi nelle quattro virtù stesse, quattro modi in cui esse possono svilupparsi, ad un grado sempre maggiore100.

1. Livello politico. 2. Virtù purificatrici.

3. Virtù dell’animo purificato. 4. Virtù esemplari.

È dal primo livello e dalle varie divisioni che Alberto trae il modello per il confronto con Cicerone ed è interessante notare che si riferisca alle virtù come proprie dell’uomo, che è animale sociale, e non al livello successivo delle virtù stesse, un livello più vicino a Dio e che porta al disprezzo del mondo terreno. Emerge dunque come Alberto voglia coscientemente escludere dalle sue argomentazioni il livello trascendente

97 Alberto Magno, De bono, tr. II, q. II, art. 10, p. 112, solutio, ll. 37-44: «Dicendum, quod virtutes morales sunt potestates quaedam et suae partes sunt parte potestativae, sicut fere est in omnibus spiritualibus totis et partibus. Parte autem illae recipiunt quidem praedicationem totius secundum rationem imperfectam et habent ordinem, ita quod actus partis primae supponitur in secunda parte et aliquid additur, sicut alibi diximus», tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 467.

98 Ivi, tr. II, q. II, art. 11, p. 113, solutio, ll. 21-27: «Dicendum quod in veritate Tullius enumerat partes principaliter potestatem fortitudinis perficientes, sed Macrobius enumerat principales et secundarias».

99 Ivi, tr. II, q. II, art. 11, p. 113, ll. 44-72. 100 Macrobio, In somnium Scipionis, I, 8, 1-6.

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delle virtù, che possono anche essere doni della grazia, ma non in questo contesto: nel De bono l’autore vuole sempre ribadire la provenienza umana e naturale delle virtù che si vanno a sviluppare. Ma vediamo più da vicino il testo di Macrobio:

Et est politici prudentiae ad rationis normam, quae cogitat quaeque agit, universa dirigere ac nihil praeter rectum velle vel facere, humanisque actibus tamquam divinis arbitriis providere; prudentiae insunt ratio, intellectus, circumspectio, providentia, docilitas, cautio: fortitudinis animum supra periculi metum agere, nihilque nisi turpia timere, tolerare fortiter vel adversa vel prospera: fortitudo praestat magnanimitatem, fiduciam, securitatem, magnificentiam, constantiam, tolerantiam, firmitatem: temperantiae nihil adpetere paenitendum, in nullo legem moderationis excedere, sub iugum rationis cupiditatem domare; temperantiam secuntur modestia, verecundia, abstinentia, castitas, honestas, moderatio, parcitas, sobrietas, pudicitia: iustitiae servare unicuique, quod suum est, de iustitia veniunt innocentia, amicitia, concordia, pietas, religio, affectus, humanitas101.

Come si costituiscono queste quattro parti e quali definizioni ne fornisce Alberto? Tratterò le parti delle varie virtù molto sinteticamente.

101 Ivi, I, 8, 7. Nella trascrizione mi sono permessa di aggiungere alcune virgole dove Macrobio elenca le parti delle varie virtù.

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Parte della fortezza. Definizione fornita da Alberto.

Magnificenza. «Considerare e compiere cose grandi ed eccelse con uno splendido ed ampio intendimento dell’animo»102.

Fidanza. «In circostanze grandi e oneste l’animo pone fiducia in se stesso»103. A sua volta la fidanza è composta da fiducia e sicurezza.

Pazienza. «La pazienza è la capacità di sopportare volontariamente e a lungo cose ardue e difficili per un fine onesto e utile»104. Essa è a sua volta composta da serenità d’animo e longanimità.

Perseveranza. «La perseveranza è il rimanere stabilmente e per sempre in un proposito ben considerato con la ragione»105.

Il coraggio porta dunque a perfezione la parte irascibile della nostra anima, rendendola immune alle passioni che provengono dall’esterno, come il pericolo di morte, grazie alle speciali virtù della prudenza, della perseveranza, della magnanimità e della fidanza.

102 Alberto Magno, De bono, tr. II, q. II, art. 1, p. 99, ll. 12-15: «Magnificentia est rerum magnarum et excelsarum cum animi ampla quadam et splendidissima propositione agitatio atque administratio», tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 433. Cfr. Cicerone, De inventione, II, 54.

103 Ivi, tr. II, q. II, art. 3, p. 102, ll. 1-3: «Fidentia est, per quam in magnis rebus et honestis multum animus in se fiduciae certa cum spe collocavit», tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 440. Cfr. Cicerone, De inventione, II, 54.

104 Ivi, tr. II, q. II, art. 4, p. 103, ll. 48-50: «Patientia est honestatis aut utilitatis causa rerum arduarum ac difficilium voluntaria ac diuturna perpessio», tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 444. Cfr. Cicerone, De inventione, II, 54.

105 Ivi, tr. II, q. II, art. 8, p. 110, ll. 10-12: «Perseverantia est in ratione bene considerata stabilis et perpetua permansio», tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 461. Cfr. Cicerone, De inventione, II, 54.

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3. La temperanza

Visto l’ampio uso che Alberto fa di Cicerone nel secondo trattato, non dovremo stupirci se anche nel terzo, quello dedicato alla temperanza, vi sia un così grande utilizzo di testi ciceroniani. Sembra che per Alberto Cicerone abbia compreso l’essenza stessa di tutte le virtù cardinali, pur avendole trattate così brevemente nel suo De inventione.

Il primo articolo si apre infatti con cinque definizioni di temperanza, ma solo quella ciceroniana è, come si vede nella solutio, ben fondata, esauriente e riferita alla temperanza come virtù civile e non teologica: «la temperanza è il dominarsi in modo fermo e moderato nella libidine e in altri impeti non corretti dell’animo» rimanendo stabilmente e per sempre in un proposito ben considerato con la ragione106. Le altre definizioni qui presenti

o non sono esaurienti o si riferiscono alla temperanza come virtù teologica, mentre il discorso è prettamente civile. La virtù della temperanza è, come le altre virtù cardinali, perfezionata dall’abitudine; Cicerone include sia la sua materia speciale, la libidine, che quella più generale, tutte le passioni esterne, nella definizione; ne specifica l’atto, che consiste nel dominio e nella moderazione dei piaceri107. Tuttavia, anche se Alberto afferma subito che la

temperanza ritrae dai vizi che corrompono il corpo ed a cui risponde la nostra parte concupiscibile, ovvero la gola ed il sesso, egli afferma anche che questi piaceri, se presi nella giusta misura, non sono necessariamente dei mali: essi non devono quindi essere totalmente frenati perché altrimenti andremmo contro natura108.

Avendo già preannunciato la materia della temperanza, non stupisce che Alberto segua Aristotele nell’articolo successivo, affermando che vanno esclusi dalla materia propria della temperanza tutti quelli stimoli che non sono tattili o del gusto109 a differenza di quanto affermano Cicerone e

106 Ivi, tr. II, q. II, art. 8, p. 110, ll. 10-12: «Perseverantia est in ratione bene considerata stabilis et perpetua permansio», tr. it. di A. Tarabochia Canavero, p. 461. Cfr. Cicerone, De inventione, II, 54.

107 Alberto Magno, De bono, tr. III, q. I, art. 1, p. 117, solutio, ll. 45-55.

108 Ivi, tr. III, q. I, art. 1, p. 120, ad 24um, ll. 53-55: «Necessariae delectationes non sunt malae, et ideo illae non refrenatur, quia frenare illas vergeret in detrimentum naturae». 109 Ivi, tr. III, q. I, art. 2, p. 123, ll. 39-50.

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Macrobio110. Tuttavia dire che la temperanza deve occuparsi di contenere i

piaceri relativi a questi sensi non significa, ancora una volta, escludere del tutto i piaceri, bensì tenere fuori quei piaceri brutali che allontanano l’uomo dalla dignità della sua natura, mutandolo in bestia111. La temperanza intesa

in senso generico riguarda quindi tutti i tipi di piaceri innati, ma se intesa come virtù cardinale riguarda solo i piaceri che derivano da due sensi112, di

cui uno è riconducibile all’altro: difatti nell’articolo successivo, in cui Alberto si chiede se la temperanza sia una virtù doppia, visto che ha