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Tra Antico Regime e Codificazione. Il lunigianese Lorenzo Quartieri (1765-1834) professore di Codice Napoleone nell'Università di Pisa.

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INTRODUZIONE

Nell’affrontare l’ultima fatica che chiude il mio percorso universitario, ho ritenuto di dedicare uno studio approfondito sulla figura di Lorenzo Quartieri, originario di Bagnone in Lunigiana, professore di Istituzioni civili dal 1791-92 al 1809-10; di Codice Napoleone dal 1810-11 al 1813-14; di Pandette dal 1814-15 al 1824-25; emerito dal 1825-26 al 1833-34. Auditore (ma non cavaliere) della Religione di S. Stefano dal 1825.

Quando il prof. Lorenzo Quartieri comincia ad insegnare, la situazione generale, organizzativa e gestionale, dell’Università di Pisa si trova in grande subbuglio, dato che il granduca Pietro Leopoldo aveva predisposto il suo Regolamento generale per tutte le scuole pubbliche del Granducato che prevedeva numero fisso di cattedre, lezioni pubbliche in italiano, nuove discipline d’insegnamento, esami di profitto scritti, investendo così l’intero panorama scolastico toscano. La successione al trono imperiale, però, comportò la sospensione dell’entrata in vigore di tale Regolamento.

Gli anni settecenteschi del granducato di Ferdinando III risultano caratterizzati da una quasi totale assenza di iniziativa politica in relazione allo Studio Pisano: con i venti rivoluzionari e minacciosi provenienti dalla Francia ciò che più contava era il controllo politico e morale dell’ambiente accademico per circoscrivere influssi giacobini. Dopo la chiusura dello Studium Generale nel 1799/1800, determinata dalla prima occupazione francese, una volta concluso anche il tormentato avvicendarsi dei governi provvisori nei mesi successivi, si aprì, nell’estate del 1801 il settennato del Regno d’Etruria che fu per l’Ateneo pisano un periodo di tranquilla, piatta e ordinaria amministrazione, senza alcuna novità di rilievo. L’annessione della Toscana all’Impero napoleonico, alla fine del 1807, interruppe la condizione d’immobilismo in cui l’Università vegetava. Con la

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4 fondazione dell’Accademia Imperiale, nell’autunno 1810, furono abrogati i vecchi statuti cosimiani cinquecenteschi.

L’Accademia napoleonica, eliminando ogni privilegio, realizzò un corpo docente la cui indubbia natura corporativa si fermava sulla soglia della uniformità giuridica, promulgando, perciò, lo Statuto sulla formazione dell’Accademia di Pisa. Dalla “Università del Principe” si doveva passare ad una “Università di Stato”, frequentata non da sudditi ma da cittadini. La ristrutturazione istituzionale non ebbe, però, rilevanti conseguenze sulla composizione del corpo docente: i professori pisani si dimostrarono acquiescenti verso il nuovo regime. Con la Restaurazione, il 9 novembre 1814 Ferdinando III approvava il Regolamento per la R. e I. Università di Pisa, formulato da una commissione, nella quale faceva parte anche il Quartieri, con il compito di abolire l’attuale sistema e ripristinare l’antico, compiendo tuttavia una comparazione, al fine di individuare <<quei cambiamenti di cui l’esperienza potesse aver fatta conoscere utile applicazione>> cioè conservare quegli elementi che non stridevano troppo con il clima della Restaurazione.

La commissione doveva provvedere alla codificazione civile, processuale e commerciale, in quanto abrogato il Codice Napoleone, furono ripristinati il Diritto Romano, il Diritto Canonico e le Leggi granducali emanate fino al 1808. Venne mantenuto in vigore solo il Codice di commercio napoleonico, considerato insostituibile strumento normativo data l’assenza di una qualunque legge patria in materia mercantile.

Solo con l’ascesa al trono di Leopoldo II, si iniziò un serio sforzo di ammodernamento giuridico composto da un’organica serie di codici per le differenti branche del diritto; sforzo che però rimase incompiuto. La vita sociale infatti continuò ad essere regolata dalla legislazione vigente, salvo che per taluni particolari settori ove si provvide all’emanazione di speciali norme più adeguate ai tempi.

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5 In questo contesto a cavallo fra Ancien Régime e Restaurazione opera il lunigianese Quartieri, che, oltre ad essere, come detto, professore dell’Università pisana, era stato anche precettore di Leopoldo II: a questo riguardo, non è assodato ritenere che proprio dal Quartieri, l’ultimo granduca, avesse ricevuto quell’atteggiamento di “riformismo nella continuità”, che avrebbe contraddistinto tutti gli anni del suo Regno.

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CAPITOLO PRIMO

1. Uno sguardo d’insieme sullo Studio pisano dall’età della Reggenza alla fondazione dell’Accademia Imperiale.

Il 20 dicembre 1744, sul punto di compiersi il secondo centenario dell’emanazione degli statuti voluti dal duca Cosimo entrati in vigore nell’anno accademico 1545/46, si procedeva per un’opera di

revisione degli statuti universitari cinquecenteschi che

sopravvivevano formalmente ma erano, nella pratica, largamente desueti. Già in età medicea si era avvertita l’esigenza di ricomporre la legislazione accademica in un Corpus organico che comprendesse le ordinazioni via via giunte alla legislazione originaria e fosse

alleggerito delle disposizioni non più in uso.1 Lo statutario Studium

Generale, governato dalle magistrature di un’Universitas scholarium di composizione multinazionale, si era trasformato in una scuola di Stato, frequentata per lo più da toscani, diretta e controllata dal potere pubblico e attraverso funzionari di nomina sovrana. Anche sul piano dell’organizzazione didattica, la consuetudine e le disposizioni di Granduchi e di Ministri dello Studio avevano apportato modifiche

al testo approvato a metà cinquecento2. Questa sorta di

consolidazione delle leggi universitarie, però, era impresa ardua e di esito non sicuro. La vastità dell’impegno derivava dall’intensità di

1 E. PANICUCCI, Dall’Avvento dei Lorena al Regno d’Etruria (1737-1807), in <<Storia dell’Università di Pisa>>, Edizioni Plus, Pisa, 2000, p.3.

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M. TANGHERONI, L’Età della repubblica dalle origini al 1406, in <<Storia dell’Università di Pisa>>, Pacini, Pisa, 1993, pp. 11-12.

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7 energie e varietà delle competenze che essa avrebbe richiesto, erano necessarie: <<prudenza legislatoria per adattare le ordinazioni alle circostanze ed ai tempi correnti>>, esperienza delle discipline d’insegnamento e dei migliori metodi didattici, << perizia del regolamento de’ tribunali>> per risvegliare il foro accademico << dal letargo e dalla disistima>> in cui giaceva, oltre che << una distinta notizia degli usi antichi e moderni dello Studio>>.

Così nei quasi trent’anni del Granducato di Francesco Stefano fu razionalizzato e modernizzato l’organico delle letture con soppressioni, accorpamenti e con l’introduzione di discipline come il Diritto Pubblico, l’Astronomia, l’Algebra, la Fisica sperimentale e la Chimica. Fu completata la costruzione della Specola e avviata la formazione della Biblioteca; furono aggiornati vecchi programmi statutari e incentivate le pubblicazioni scientifiche dei professori con aumenti di stipendio. Le magistrature elettive della scolaresca ( Vicerettore e Consiglieri delle Nazioni) vennero trasformate in cariche ricoperte a rotazione dai docenti con l’esclusiva funzione di amministrare il foro accademico. Il governo inoltre preferì assecondare l’abbandono delle dispute circolari, attività didattica (imposta dagli statuti), troppo legata alla tradizione della dialettica scolastica. Così pure avallò la tendenza a ridurre le lectiones latine, pronunciate in cattedra, a dotte dissertazioni puramente formali, scarse nel numero e nella durata, ed incoraggiò il fenomeno dei corsi domestici, tenuti nelle case dei professori.

All’epoca della successione di Pietro Leopoldo, dunque, la realtà dell’Università si era ulteriormente allontanata dall’immagine che si ricavava leggendo il testo degli statuti.

Nel 1770 si auspicava <<la compilazione di un nuovo codice statutario, che comprendesse le nuove antiche leggi, che autorizzasse le buone consuetudini e abolisse le contrarie, che prescrivesse a

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8 ciascun de’ ministri dell’Università i suoi offizi, che confermasse gli antichi privilegi e ne aggiungesse de’ nuovi>>.

Il momento pareva propizio quanto meno alla realizzazione di un ampio progetto di riforma: il giovane Granduca nel luglio 1767, appena due anni dopo l’arrivo in Toscana, aveva dato una prima, significativa dimostrazione del suo <<zelo pedagogico>>, nominando una deputazione che proponesse per lo Studio pisano un regolamento degli studi più moderno e <<più atto ad assicurare il maggior profitto degli scolari>>. La deputazione aveva discusso di come frenare l’indisciplina della scolaresca e rendere più selettivi gli esami di dottorato, avevano dibattuto su questioni quali il prolungamento della durata dell’anno accademico, l’aumento del

numero delle lezioni, i controlli sulla frequenza dei corsi.3 Il

prolungamento dell’anno accademico avrebbe comportato però che la maggioranza degli studenti che si mantenevano all’Università di tasca propria non avrebbe potuto sostenere le spese di un soggiorno così prolungato e si paventava il pericolo di una contrazione della popolazione studentesca. D’altra parte neppure i Collegi della Sapienza e Ferdinando erano in condizioni di ospitare collegiali per un periodo più lungo di quello abituale. C’era poi il classico problema dello sfavorevole clima pisano in estate; in particolare si rischiava di mettere a repentaglio la salute degli scolari che vivevano <<in case ristrette e incomode>>. Inoltre era opportuno non accorciare le vacanze estive perché la maggior parte dei giovani le impiegava a Firenze per far pratica negli studi legali. Infine, il prolungamento dell’anno accademico non accompagnato da un corrispettivo incremento degli stipendi ai docenti, poteva accadere che molti professori legisti che svolgevano la libera professione decidessero di abbandonare l’insegnamento. I deputati si erano inoltre dichiarati

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9 sfavorevoli ad un restringimento delle ferie natalizie, di carnevale e di Pasqua, argomentando che durante le vacanze intermedie non cessavano le lezioni domestiche, <<le più utili agli scolari>>, ma solo

quelle pubbliche che erano di mera pompa.4

Dopo la sospensione dei lavori della deputazione, il Sovrano aveva continuato a raccogliere materiale in vista della riorganizzazione universitaria, chiedendo pareri per fino al celebre Ministro della corte viennese van Swieten, riformatore del sistema scolastico austriaco. Il risultato di tutto questo fervore di riforma che animava il Granduca fu però assai deludente. La deputazione era apparsa soprattutto interessata ad ottenere dal sovrano <<decorazioni e privilegi>> per i professori ed attenta ad evitare ogni novità didattica e organizzativa che potesse comportare un maggiore impegno lavorativo.

Nel bilancio sullo stato degli studi tracciato alla vigilia della partenza dalla Toscana, Pietro Leopoldo esprimeva un giudizio severo sull’atteggiamento assunto dal corpo docente verso i suoi tentativi di riforma. Il Granduca ribadiva di aver cercato la collaborazione dei professori e di aver trovato, invece, resistenze, non volendo essi <<recedere dai loro antichi metodi che credevano i più perfetti del mondo, non volendo darsi pena alcuna con gli scolari, parendogli mille anni di andarsene quando cominciavano le vacanze>>. Il giudizio era troppo drastico e la responsabilità dei cattedratici un po’ caricata, certo è che il riformismo <<dal basso>> promosso da Pietro Leopoldo era affetto da un limite intrinseco: difficilmente i Lettori, <<sempre attaccati agl’antichi pregiudizi>>, avrebbero avanzato proposte in contrasto con il loro interesse che era <<di non aumentar la fatica e di non diminuire il guadagno>>. Dopo questa prova deludente l’ipotesi ambiziosa di un rinnovamento organico

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10 dell’istituzione universitaria e, magari, di una nuova redazione statutaria fu messa da parte.

Nel 1786 fu introdotta una nuova disciplina per l’esame di laurea che, data la mancanza di esami di profitto, era il solo momento di formale verifica della preparazione degli scolari. Fu questo l’unico concreto risultato della politica universitaria leopoldina raggiunto con il contributo di qualche esponente del mondo accademico. L’ultima grande occasione mancata di riorganizzazione dell’apparato universitario fu il Regolamento generale per tutte le scuole pubbliche del Granducato al quale il Granduca lavorò fino all’estate del 1788. Numero fisso e contenuto di cattedre, lezioni pubbliche di durata conveniente, fatte in italiano e con moderne metodologie, corso di laurea non quadriennale ma quinquennale, anno accademico molto più lungo, nuove discipline d insegnamento e, addirittura, esami di profitto scritti: questi i cardini della riforma da introdurre sia a Pisa che a Siena. Il Piano investiva l’intero panorama scolastico Toscano, dalle Università di Pisa e Siena alle Accademie ecclesiastiche e secolari, ai seminari, alle scuole basse di città e di campagna dunque le cautele dello stesso Granduca e la successione al trono imperiale comportarono la sospensione dell’entrata in vigore del Regolamento. Quando Pietro Leopoldo, nel preambolo del Regolamento, esordiva dichiarando che fin dall’arrivo in Toscana la <<pubblica istruzione della gioventù>> era stata una delle sue maggiori cure nel 1790 davvero preoccupato per la <<cattiva istruzione>> e la crescente ignoranza della nazione che stava per lasciare, volle confermare la propria fiducia nel progetto di << stabilire un sistema uniforme per l’educazione del paese>> ne raccomandò al suo successore la pronta applicazione, trattandosi di un affare <<della massima importanza>>. Il sovrano era ben consapevole che al granduca suo figlio sarebbe occorsa una grande <<fermezza>> per superare gli <<infiniti ostacoli>> frapposti <<in particolare dai Lettori delle Università>>.

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11 In effetti, la raccomandazione rimase disattesa e, in generale, gli anni settecenteschi del Granducato di Ferdinando III appaiono caratterizzati da una quasi totale assenza di iniziativa politica in relazione allo Studio Pisano. Con i venti rivoluzionari che spiravano dalla Francia e poi sempre più vicini e minacciosi, il sovrano guardava all’Università di Pisa non certo con l’animus del riformatore desideroso di migliorare la didattica o di aggiornare i vecchi statuti: ciò che più contava era il controllo politico e morale dell’ambiente accademico per circoscrivere la diffusione del contagio giacobino che, proprio tra i professori pisani, aveva alcuni dei più attivi veicoli. Alla fine del secolo dei lumi la situazione dell’Accademia appariva allarmante ai ministri granducali: il corpo docente sembrava

intorpidito da una <<specie di apatia>> nei confronti

dell’insegnamento e dell’attività di ricerca scientifica, per non parlare dell’adesione di autorevoli docenti alle idee democratiche. I padri di famiglia che mandavano i figli all’Università per farli formare come <<sudditi morigerati, istruiti e fedeli al loro Principe>>, rischiavano di vederli tornare privati delle <<massime della religione e della sana morale>>, <<del buon costume>> e <<delle altre virtù sociali>>. Dunque per i consiglieri toscani di fine Settecento dietro al solito <<contagio>> della <<scostumatezza>> si nascondeva una temibile

epidemia rivoluzionaria: l’insopprimibile <<frammentazione

morale>> degli universitari e l’<<amore di libertà>> connaturato alla condizione giovanile venivano ora pericolosamente amplificati dalla difficile congiuntura politica. In gioco c’erano non solo la salute morale e fisica degli scolari, messa a repentaglio nel postribolo e nella taverna o con la pesante goliardia e turpiloquio, ma anche e soprattutto la <<fedeltà al governo>> di ampie fasce della futura

classe dirigente.5

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12 Dopo la chiusura dello Studio nel 1799/1800, determinata dalla prima occupazione francese, una volta concluso anche il tormentato avvicendarsi di governi provvisori nei mesi successivi, si aprì, nell’estate del 1801 il settennato del Regno d’Etruria che fu per l’Ateneo pisano un periodo di tranquilla e piatta, ordinaria

amministrazione, senza alcuna novità di rilievo6. L’annessione della

Toscana all’Impero napoleonico, alla fine del 1807, interruppe la condizione d’immobilismo in cui l’Università vegetava: le innovazioni imposte erano così radicali che neppure nei momenti di maggior slancio riformatore Pietro Leopoldo avrebbe potuto pensarle tutte. Con la fondazione dell’Accademia imperiale, nell’autunno 1810, furono finalmente abrogati i vecchi statuti cosimiani. Le profonde trasformazioni apportate all’istituzione accademica nel periodo napoleonico furono: l’abolizione del foro e della dignità di Gran Cancelliere dello Studio, goduta ab antiquo dall’Arcivescovo di Pisa; l’introduzione di nuovi titoli di baccellierato e licenza, degli esami di

profitto e delle tesi di laurea scritte7.

2. Il corpo docente.

Ancora per tutto il Settecento e durante il Regno d’Etruria rimase immutata la secolare tripartizione del corpo docente pisano nei Collegi dei legisti, degli artisti e dei teologi ciascuno con a capo un Priore, scomparsi nel 1810 per lasciare spazio alle cinque moderne Facoltà di Giurisprudenza, Medicina, Teologia, Scienze e Lettere e

ripristinati nel 18148. La principale funzione dei tre Collegi era di

esaminare i laureandi in utroque iure, in philosophia et medicina, in theologia.

6

D. BARSANTI, L’Università di Pisa dal 1800 al 1860. Il quadro politico e istituzionale, gli ordinamenti didattici, i rapporti con l’Ordine di Santo Stefano, Pisa, Ets, 1993, pp. 21-25.

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E. PANICUCCI, Dall’Avvento dei Lorena al Regno d’Etruria, cit., p. 7. 8 D. BARSANTI, L’Università di Pisa, cit. p. 6.

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13 Le condizioni economiche dei professori variavano notevolmente in funzione del Collegio di appartenenza: il dovere di far parte del consesso che si riuniva per svolgere gli esami di dottorato comportava per ciascun docente il diritto di lucrare una quota delle propine pagate da ogni laureando. Naturalmente il guadagno era tanto più alto quanto maggiore era il numero dei laureandi: di conseguenza era di gran lunga più fruttuosa l’ascrizione tra i legisti, dato che la maggioranza degli studenti pisani frequentava i corsi di Diritto. È comprensibile, dunque, che aspirassero ad entrare nel Collegio legale anche quei titolari di cattedre non giuridiche che

potevano vantare un titolo dottorale in legge.9

<<Uno de’ più preziosi e stimabili diritti spettanti ai rispettivi Collegi-affermava Migliorotto Maccioni- è quello di poter nominare e

proporre i soggetti nell'occorrenza delle cattedre vacanti>>10. Il

giurista faceva ampio ricorso al suo armamentario di erudizione storico giuridica, risalendo alle disposizioni del jus comune e agli usi delle << più culte nazioni>>11, per dimostrare la validità del sistema della cooptazione ed argomentava che i componenti di un corpo erano in grado, più di <<qualunque altro al di fuori del medesimo>>, di giudicare dell'idoneità di chi chiedeva di essere ammesso nel corpo

medesimo12. In realtà, anche se il Maccioni, riferendo episodi relativi

al periodo quattro-cinquecentesco, tentava di provare che anche a Pisa, i Collegi avevano esercitato. In tempi passati, il diritto di

scegliere e approvare nuovi cattedratici13, era piuttosto il

Provveditore ad avere il fondamentale ruolo di orientare le decisioni del sovrano nel reclutamento del corpo docente.

9 E. PANICUCCI, Dall’Avvento dei Lorena al Regno d’Etruria, cit., pp. 40-41. 10

M. MACCIONI, Osservazioni sopra la giurisdizione e diritti spettanti all’Accademia Pisana, scritte di commissione della R. Deputazione sopra gli affari della medesima, manoscritto del XVIII sec., Pisa, Facoltà di Giurisprudenza, p. 332.

11

Ibid., p. 350. 12

Ibid., p. 332. 13 Ibid., pp. 337-346.

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14 I requisiti che il funzionario ricercava in chi supplicava per una lettura erano qualità intellettuali, culturali, morali e di carattere: il professore ideale doveva essere un soggetto <<di costumi onestissimi, di maniere civili, di temperamento placido e non punto rissoso>>, pieno di <<stima e amore verso la religione>>, ben provvisto di <<vivacità dell’intelletto>> e <<profondità del sapere>>, con <<una lucida e pronta maniera di comunicare i propri pensieri>> e <<una sincera e naturale propensione ad interessarsi, con ogni possibile industria del profitto degli scolari e del decoro dell’Università>>. Rientravano tra gli elementi valutati anche eventuali notizie sulle condizioni fisiche dell’aspirante Lettore: al contrario di ciò che si potrebbe pensare si tendeva a considerare positivamente una <<complessione>> non troppo robusta che pareva comportare uno stile di vita misurato e ritirato, incline agli studi, alieno dall’<<uso oramai troppo comune de’ divertimenti>>. Naturalmente aveva un certo peso la <<qualità de' natali>> del supplicante: <<trovandosi due in eguale o prossimo grado di dottrina>> si optava per quello di <<estrazione più ragguardevole>>, nella convinzione che <<un contegno decoroso ed una grande sensibilità alla più florida riputazione>> fossero propri in esclusiva delle persone <<d’onorata famiglia>>.14 Si preferiva, inoltre, non nominare persone di patrimonio troppo esiguo perché lo Studio non era in condizioni di erogare stipendi elevati. Si temeva che un Lettore di modeste sostanze, pressato dalle preoccupazioni economiche, non avrebbe goduto della tranquillità materiale necessaria per dedicarsi completamente alle fatiche intellettuali e didattiche. I Lettori si reclutavano spesso tra i neo laureati per lo più sudditi granducali. Secondo una vecchia consuetudine, anche nel Settecento lorenese i professori che tennero a Pisa corsi nei due principali ambiti di discipline universitarie, quello legale e quello medico-fisico, nella

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15 stragrande maggioranza dei casi iniziarono la loro carriera dalle letture rispettivamente di Istituzioni civili o canoniche e di Logica, propedeutiche agli altri corsi di Diritto e di Filosofia e Medicina. Dopo alcuni anni gli istitutisti di Diritto civile venivano promossi alle letture straordinarie e successivamente a quelle ordinarie della medesima materia. Per gli istitutisti di jus canonico il percorso accademico era più semplice perché, fin dal 1713/14, era stata soppressa la categoria intermedia degli straordinari. Peraltro, era possibile che un docente

passasse dall’ambito civilistico a quello canonistico e viceversa.15 Il

passaggio di un gradino a quello superiore solitamente era accompagnato da un aumento di stipendio; inoltre gli ordinari (legisti, medici o fisici che fossero), rispetto ai colleghi dei due livelli inferiori, avevano diritto, in base ai regolamenti fissati dagli statuti dei Collegi, a lucrare quote molto maggiori delle propine di dottorato

versate da ogni laureando.16 Mentre ancora negli ultimi anni

dell’epoca medicea il governo immetteva nel corpo accademico nuovi Lettori, conferendo incarichi di docenza con scadenza annuale, rinnovabili, nel Settecento lorenese le assunzioni erano a tempo

indeterminato.17 Una volta caduto in desuetudine il sistema

dell’assunzione a termine e dei rinnovi, sistema che consentiva un più agevole ricambio del corpo docente e, soprattutto, la pronta sostituzione dei Lettori più giovani qualora non dessero buona prova dei propri talenti, era forse ancora più importante che in passato un’attenta selezione preliminare, dato che, per poi allontanare dalla cattedra chi si rivelava incapace, era necessario un ordine di licenziamento, provvedimento spiacevole anche per chi doveva emetterlo, o magari la nomina ad un incarico extrauniversitario. Uno dei problemi più dibattuti in età di Reggenza fu quindi come garantire

15 D.MARRARA, L’età medicea (1543-1737), in <<Storia dell'Università di Pisa>> Pacini, Pisa, 1993, pp. 79-187: p. 128.

16

Ibid., p. 134. 17 Ibid., pp. 141-142.

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16 l’immissione in organico di giovani ben preparati e promettenti. Quando il giovane che chiedeva l’incarico aveva conseguito a Pisa il dottorato, il Provveditore poteva reperire informazioni sul suo conto consultando i professori che lo avevano avuto come allievo per sapere se, da studente, si fosse distinto <<in un’applicazione più continua e più regolata>>. Un titolo molto valutato era l’aver

ricoperto una lettura straordinaria dei giorni festivi.18 Già all’inizio

dell’età lorenese, le case dei professori, ove si tenevano le lezioni domestiche, rappresentavano le sedi principali dell’insegnamento universitario; ufficialmente, però, i luoghi deputati allo svolgimento delle attività didattiche restavano l’edificio della Sapienza e le sue pertinenze, cioè il Teatro anatomico e l’Orto botanico. Il titolare di ogni cattedra era tenuto a svolgere durante l’anno accademico un

corso di almeno settanta lezioni pubbliche19 da recitarsi nelle scuole,

agli orari e sui programmi stabiliti dal calendario annuale, in latino, senza far uso di alcun supporto mnemonico scritto, per una durata di

mezz’ora.20 Finita la lezione cattedratica, ogni professore doveva

riunire gli allievi nei pressi di una colonna nel cortile della Sapienza e rispiegare in italiano i concetti fondamentali appena esposti in aula: era la <<ripetizione alla colonna>>, tradizionale integrazione della lectio, affermatasi per consuetudine ed imposta a partire dal 1686

come attività didattica obbligatoria della durata di un quarto d’ora21,

un onere in più. Inoltre ciascun professore era tenuto a partecipare a quattro dispute circolari: due volte proponeva delle conclusioni che doveva poi difendere dalle obiezioni del concorrente (circoli attivi); due volte, al contrario, doveva argomentare contro le tesi formulate dal collega (circoli passivi). Ciascun circolo si svolgeva per un ora al termine della lezione in presenza degli allievi. Chi proponeva il tema

18

E. PANICUCCI, Dall’Avvento dei Lorena al Regno d’Etruria, cit., p. 44. 19

D. MARRARA, L’età medicea, cit., p. 163. 20

Ibid., pp. 163 e 170. 21 Ibid., pp. 169-170.

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17 della disputa doveva prendere spunto dall’argomento appena trattato ex cathedra; proprio per questo i programmi delle letture

concorrenti dovevano procedere di pari passo.22 Benché

precisamente disciplinate ed imposte per legge, queste tre attività didattiche erano in uno stato di crisi. Nessun Lettore arrivava a pronunciare le settanta lezioni pubbliche annuali; molti tralasciavano le ripetizioni alla colonna che erano invece indispensabili <<per appianare le difficoltà>> e <<per sciogliere le dubbiezze>> sugli argomenti trattati dalla cattedra. Nel corpo accademico si era diffusa una serpeggiante ostilità nei confronti dei circoli, giudicati <<superflui e di pochissimo ornamento>>; invece, l’esercizio della disputa in circolo, svolto correttamente, offriva ai cattedratici l’occasione di <<far risplendere la vivacità e prontezza del loro ingegno>> e, soprattutto era un <<letterario conflitto>> utile agli scolari per apprendere l’uso degli strumenti dialettici. Spesso erano proprio gli scolari ad impedire lo svolgimento delle funzioni didattiche: alcuni indisciplinati sbarravano ai colleghi più studiosi e tranquilli l’ingresso nelle aule della Sapienza dove il professore era già pronto a cominciare la lezione, oppure con scherni e minacce impedivano i compagni di fare crocchio attorno al Lettore per ascoltare la ripetizione alla colonna, o ancora disturbavano i circoli con <<strepitosi ed audaci interrompimenti>>. Promotori di questi scompigli erano soprattutto gli scolari veterani che si arrogavano il privilegio di tirare o allentare a proprio arbitrio <<la briglia alle funzioni dello Studio>>; i professori, dal canto loro, contribuivano peccando di assenteismo. Se accadeva che i bidelli omettevano di fare le <<appuntature>>, cioè annotare le assenze ingiustificate che rendevano i Lettori passibili di una decurtazione dello stipendio proporzionata al numero delle lezioni mancate, così i Lettori, se decidevano di saltare una lezione, mandavano a dire ai bidelli di non

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18 poter salire in cattedra e nessuno si preoccupava di indagare le l’impedimento fosse reale o fittizio, grave o leggero. Per rimediare a tali disfunzioni si consigliava un ordine sovrano che richiamasse i docenti ai loro doveri e li obbligasse a giustificarsi in caso di assenza non più con i bidelli ma con il Provveditore; si proponeva inoltre di rinnovare i bandi per il mantenimento della disciplina in Sapienza e di comminare <<qualche mortificazione esemplare>> ai facinorosi. L’ultima iniziativa di epoca medicea per disciplinare le attività didattiche fu un regolamento del 1736. Per garantire che le lezioni pubbliche si svolgessero regolarmente il provvedimento imponeva al Provveditore di recarsi frequentemente ad ascoltarle. In realtà si rivelò inefficace anzi l’ordine impartito al Provveditore di intervenire nelle aule di Sapienza produsse effetti opposti a quelli sperati: da un lato i professori mal tolleravano le visite, dall’altro gli studenti, sentendosi le spalle coperte, presero a boicottare le lezioni che il Provveditore decideva di ascoltare. Il provvedimento del 1736 non produsse alcun effetto benefico neppure sulle modalità di svolgimento dei circoli. Le dispute si facevano sempre più rare, erano spesso ridotte a noiose farse, <<dialoghi in tutto e per tutto concertati>> in anticipo tra i disputanti che si mettevano così a riparo dal rischio di far brutta figura di fronte agli allievi. Questa particolare attività era una caratteristica peculiare dello Studio pisano, considerato un mezzo idoneo per soppesare comparativamente l’abilità dei docenti e regolare il trattamento economico. Il metodo della disputa talora obbligava uno dei due disputanti a mettere il proprio intelletto <<quasi alla tortura>> per trovare capziose argomentazioni a difesa di dottrine indifendibili al solo scopo di contrastare le tesi dell’avversario anche quando apparivano palesemente condivisibili: questo contorsionismo intellettuale permetteva magari al disputante di dimostrare vivacità e acutezza d’ingegno ma certo non dava al giovane pubblico un esempio di

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19 rigore scientifico. Un rimedio che consentisse di salvare dall’estinzione la tradizionale attività didattica poteva consistere nella trasformazione della disputa in una semplice dissertazione: ciascun Lettore sarebbe stato così libero di decidere quali tesi e opinioni propugnare. In realtà i circoli erano avversati non solo dai professori ma dallo stesso governo lorenese che li considerava inutili turbative della buona armonia del corpo docente e occasioni di disordini: potevano infatti esasperare lo spirito di competizione tra i professori, far nascere rancori e, addirittura, degenerare in violenti diverbi che non contribuivano in alcun modo all’educazione culturale e morale dei giovani universitari. La crisi della tradizionale attività delle dispute circolari, ormai considerate <<buffonate da commedia>>, divenne

definitiva nel 175223; mentre le lectiones ex cathedra, prima recitate

a memoria secondo gli antichi ordini, venivano lette da un foglio e duravano solo 15-20 minuti.

Si auspicava che gli aspiranti alle letture fossero obbligati a fornire un oggettivo elemento di valutazione, ad esempio sottoponendo al

giudizio delle autorità accademiche qualche proprio

<<componimento stampato o manoscritto>>. Per le <<persone di più verde età>>, ancora non in grado di esibire una produzione scientifica, poteva essere introdotto un vero e proprio esame, consistente magari nel <<comporre una lezione>> da recitare in presenza dell’Auditore, su un argomento assegnato con un giorno d’anticipo. La necessità di sottoporsi a questo cimento avrebbe avuto il positivo effetto <<d’allontanare le importune domande di cattedre che si fanno da soggetti d’angusta abilità e di distogliere quelle persone di mediocre ingegno o molto inclinate alla distrazione de’ divertimenti, dall’ambire le cattedre>>24.

23

E. PANICUCCI, Dall’Avvento dei Lorena al Regno d’Etruria, cit., pp. 104-106. 24 Ibid., p. 45.

(18)

20 L’introduzione di questa specie di concorso per esame avrebbe comportato la rinuncia da parte di Francesco Stefano al potere di scegliere i Lettori in piena libertà, secondo criteri insindacabili. La delicata funzione del reclutamento del corpo docente sarebbe stata delegata completamente alla discrezionalità dei funzionari accademici, una soluzione che certo non era in linea con la tendenza lorenese ad accentrare nel sovrano assoluto l’esercizio di una capillare azione di governo e di controllo. La proposta, già

inutilmente avanzata in età medicea, rimase, perciò, lettera morta. 25

2.1. La stratificazione gerarchica del corpo docente.

In mancanza di rigorosi sistemi selettivi per valutare chi chiedeva una cattedra o almeno per sperimentare temporaneamente i Lettori novelli prima di un’assunzione definitiva, si continuava a praticare l’uso di assegnare ai giovani neo assunti gli insegnamenti propedeutici della Logica e delle Istituzioni civili e canoniche. Peraltro, i limiti di questo sistema apparivano evidenti nel XVIII secolo come già in passato: ci si chiedeva se Lettori ancora inesperti fossero in grado di trattare con la dovuta esattezza ed ampiezza materie

fondamentali per la formazione dello studente.26

Per buona parte del periodo della Reggenza, infatti, gli scolari pisani ebbero la possibilità di ascoltare le Istitutiones Iuris Civilis da un maestro di grande dottrina ed esperienza quale era Leopoldo Andrea Guadagni, istitutista dal 1731, promosso a Pandette nel 1742 con l’obbligo però di continuare a tenere il corso domestico di Istituzioni, incombenza supplementare che il pandettista esercitò con

eccezionale perizia, grazie alla sua copiosa erudizione, fino al 1758.27

L’insegnamento di Pandette, dopo una brevissima comparsa nei ruoli dello Studio pisano alla fine del Cinquecento e una discontinua

25

D.MARRARA, L’età medicea, cit., p. 144. 26 Ibid., p. 143.

27

(19)

21 attività tra il 1617 ed il 1642, era stato abolito perché considerato poco utile ed anche per la difficoltà di trovare degni titolari: nel pandettista infatti la perfetta preparazione giuridica doveva accompagnarsi ad un gran bagaglio di cultura umanistico-filologica, perché oggetto della lettura era l’esposizione del testo giustinianeo depurato da glosse commenti e ricollocato nel contesto storico che lo aveva prodotto, allo scopo di meglio comprendere l’ispirazione originaria delle norme che si applicavano nella pratica quotidiana dei tribunali. Chiaramente ispirata alle metodiche della Scuola culta, la disciplina non aveva avuto molto successo a Pisa per tutta l’età

medicea.28 Sembra perciò un segnale di novità la riapertura della

lettura decisa nel 1742 dal governo lorenese utile per dare agli scolari una conoscenza più profonda e perfezionata del Digesto. Il corso di Pandette aveva un carattere monografico nelle lezioni pubbliche, mentre in quelle domestiche gli allievi ascoltavano e scrivevano <<parte dei Paratitli ed Epitome delle Pandette>>, e potevano così farsi <<una nozione generale di tutto il Corpo civile>>, novità, questa, non di poco conto per l’Ateneo pisano, gradita a quanti ritenevano insufficiente l’apprendimento dei pochi titoli del Corpus trattati monograficamente da ordinari e straordinari. Nonostante le Pandette restassero una disciplina a frequenza facoltativa, i frequentanti

comunque furono sempre molti.29

Il Guadagni sosteneva che la cattedra di Pandette era <<di sua natura>> ordinaria. Il corso del pandettista, non a frequenza obbligatoria, neppure aveva grande utilità pratica per la formazione professionale degli uomini di legge. Solo un Lettore di vasta e raffinata preparazione giuridica e di sperimentate capacità didattiche poteva suscitare l’interesse almeno di una parte della scolaresca

28

B. BRUGI, Origine e decadenza della cattedra di Pandette nelle nostre Università in Id., Per la storia della giurisprudenza e delle Università italiane. Nuovi saggi, Torino, UTET, 1921, pp. 136-146.

29

(20)

22 verso una materia di grande spessore culturale, ma di scarsi contenuti pratici, perciò un lettore con queste qualità meritava di far

parte del rango più prestigioso dei docenti universitari.30 Le lezioni

del Guadagni riscuotevano tanto successo da danneggiare gli altri colleghi istitutisti di minore fama e anzianità. La preferenza accordata al Guadagni dipendeva dal fatto che il professore era autorizzato a tenere il solo corso domestico e perciò i suoi studenti potevano conseguire la fede di frequenza della materia, necessaria per la laurea senza prendere le lezioni pubbliche, mentre, qualora avessero scelto uno degli istitutisti, sarebbero stati tenuti ad assistere sia al corso pubblico che a quello privato. Per un docente, avere pochi studenti a lezione significava averne ancora meno che lo scegliesse come Promotore al momento di laurearsi; al contrario, una certa abbondanza di frequentanti garantiva un buon numero di futuri laureandi e un arrotondamento dello stipendio con le propine che spettavano, appunto, al docente designato dal laureando come Promotore. Rispetto ai colleghi delle categorie superiori, gli istitutisti guadagnavano meno e lavoravano di più sostenendo il peso del corso pubblico e di quello domestico, era naturale e inevitabile che, dopo un certo numero di anni, proprio quando avevano raggiunto maggiore esperienza di insegnamento, chiedessero e ottenessero il passaggio alle letture straordinarie, <<per godere di un maggior riposo>>, oltre che di entrate più consistenti. Per ricoprire le cattedre rimaste vacanti il governo doveva assumere in ruolo nuovi Lettori, cosicché ad insegnare le Istituzioni erano sempre <<i meno esperti e i più giovani dell’Università>>. Questa concezione tradizionale delle letture di istitutista come palestra per i Lettori neoassunti si inseriva, dunque, in un più generale attacco alla gerarchia in cui si articolava il corpo docente, o meglio alle caratteristiche negative che essa aveva

assunto nel Collegio legale. Allo scopo di eliminare

30 Ibid., pp. 48-49.

(21)

23 contemporaneamente sia il privilegio dei canonisti e civilisti di non far lezioni domestiche sia l’inconveniente di affidare i fondamentali corsi di Istituzioni ai neoassunti, si proponeva di <<abolire ogni differenza tra Lettori ordinari, straordinari ed institutisti>>, di potenziare l’insegnamento delle Istituzioni tralasciando i vecchi corsi monografici previsti per gli ordinari e gli straordinari ed obbligare tutti i Lettori a tenere corsi domestici. Il progetto di riforma, presentato al trono nel 1775, fu avversato da Pompeo Neri, convinto sostenitore del sistema tradizionale, in uso non solo a Pisa, ma in tutti gli Atenei. Egli riteneva indispensabile, nello Studio come <<in tutti i servizi pubblici>>, una <<graduazione>> che consentisse al governo di distinguere, con un diverso trattamento, il principiante dal docente più anziano e permettesse di <<tener viva la diligenza dei professori

con la speranza di una promozione graduale>>31. La struttura

gerarchica fu perciò abolita formalmente solo nel 181432 ma venne

semplificata e modificata, per via di prassi, già a partire dalla metà degli anni Settanta. Il passaggio dal grado di istitutista all’ordinariato, cioè, non comportava più alcuna variazione nei programmi del corso e nel metodo didattico: chi veniva promosso ordinario non trattava le materie del Digesto e del Codice seguendo i vecchi programmi monografici previsti dagli statuti per i corsi ordinari ma continuava ad insegnare il Diritto civile con approcci istituzionali e dando lezioni domestiche. La tendenza a dispensare titoli di ordinario rispondeva ad esigenze di carattere economico. Si è già detto che l’ordinariato dava diritto in occasione delle sessioni di dottorato a lucrare maggiori propine, che rappresentavano un’ambita integrazione dello stipendio: il governo così risparmiava le magre sostanze dello Studio

31

Ibid., pp. 46-47.

(22)

24 scaricando in parte l’onere del mantenimento del corpo docente sulle

spalle degli studenti. 33

2.2. Gli incentivi economici all’impegno didattico dei docenti. Il passaggio da un gradino a quello superiore solitamente era accompagnato da un aumento di stipendio: la carriera dei professori dell’Ateneo pisano era infatti scandita, oltre che dalle promozioni, anche dagli aumenti di stipendi che si distinguevano in ordinari e straordinari. Un tempo, quando era ancora in uso l’assunzione con la condotta ad legendum, i Lettori avevano l’onere di rivolgere periodiche suppliche per essere riconfermati nell’incarico allo scadere del contratto. In quell’occasione chiedevano un aumento che, solitamente, veniva concesso ogni tre anni assieme al rinnovo della condotta, salvo il caso di gravi mancanze. L’ammontare dell’aumento, tuttavia, fu in un primo tempo variabile in modo da poter essere commisurato al merito acquisito dal docente. Il Provveditore valutava dottrina, impegno e puntualità nella didattica, onorabilità dei costumi e bisogni materiali del professore e, in base a questi parametri, suggeriva la somma opportuna.

L’aumento triennale era elargito con tale regolarità che venne appunto chiamato ordinario e col tempo il suo ammontare fu fissato invariabilmente a venti scudi. Si qualificava invece come straordinario l’aumento concesso in premio di un particolare impegno didattico o scientifico. Il miglior sistema <<per conoscere un professore abile dall’inabile e per tenerlo sempre in obbligo di studiare e far cadere l’impostura>> era di esigere dai docenti una costante attività di produzione scientifica. La capacità dei professori non si poteva misurare solo in base agli impegni scolastici, perché gli esercizi didattici si erano talmente semplificati che erano alla portata di tutti. Perciò, non solo l’aumento straordinario, ma anche quello triennale

(23)

25 doveva essere inteso come ricompensa per le pubblicazioni scientifiche dei docenti. L’intenzione, in realtà, restò sulla carta e, salvo il caso di evidente demerito, la maggiorazione di stipendio venne sempre concessa tanto che negli anni Ottanta si tentò di riformare il sistema <<una volta per tutte>> arrivando ad abolire gli aumenti ordinari assumendo i professori con un adeguato stipendio fisso. La proposta rimase in sospeso e alcuni anni più tardi si dipinse di essa a tinte fosche le prevedibili conseguenze: i professori sarebbero sprofondati nell’indolenza e nel torpore più completi, come accade a chiunque veda che <<l’aver un maggiore zelo>> <<produce un egual vantaggio>>. Durante il periodo della Reggenza la produzione scientifica dei docenti divenne un nuovo parametro valutato dal governo, non solo per decidere le assunzioni, ma anche per regolare avanzamenti di carriera e trattamento economico dei Lettori, sintomo questo di un’evoluzione nel modo di concepire il profilo professionale e la funzione sociale del docente universitario: alla figura tradizionale del Lettore di testi giuridici e di opere di autori classici, incaricato di trasmettere il patrimonio culturale del passato, andava sovrapponendosi quella dello studioso, impiegato dal governo nella duplice veste di insegnante e di intellettuale che promuove cultura e progresso scientifico elaborando, in forma scritta e pubblica, i risultati dei propri studi.34 I consiglieri della Reggenza progettarono addirittura di introdurre l’obbligo per ciascun professore di comporre ogni anno una dissertazione sulla propria materia; la nuova incombenza utile << per illustrare l’Università>> e per dare impulso alla ricerca, avrebbe preso il posto dei <<circoli>>, le tradizionali dispute pubbliche tra i professori, troppo legati ai vecchi schemi della scolastica, avversate non solo dagli accademici pisani, ma anche dai governanti lorenesi, caduti completamente in

(24)

26

desuetudine.35 Com’era prevedibile la proposta della Reggenza

incontrò forti resistenze nell’ambiente accademico. I cattedratici, pur dichiarandosi pronti a conformarsi alla volontà sovrana, si auguravano che il progetto prospettato fosse lasciato cadere e i << più sensati>> argomentavano che l’obbligo di comporre ogni anno una dissertazione avrebbe distolto i maestri da quello che era pur sempre il fine precipuo delle Università, cioè l’istruzione degli scolari: <<lo scopo primario dell’Università -scrivevano- si è d’istruire colla maggior diligenza e pienezza possibile li giovani studenti negli elementi della scienza e però la giunta di una nuova fatica darebbe occasione alla maggior parte di diminuire o trascurare non poco l’altra, che è la principale>>.

Inoltre, i professori non potevano impegnarsi a sostenere di tasca propria sistematicamente ogni anno le spese della pubblicazione. In alternativa, la stampa poteva essere finanziata attingendo alla cassa dello Studio; in questo caso, però, si sarebbe dovuta fare necessariamente una scelta dei lavori migliori, dal momento che non tutte le dissertazioni sarebbero state all’altezza di <<far onore all’Università>> e la cassa non avrebbe potuto sostenere esborsi eccessivi. Si sarebbe dovuto, perciò, assegnare a qualcuno il gravoso compito di selezionare gli scritti destinati all’edizione, scritti che dovevano possedere i requisiti della lunghezza del lavoro, la qualità e l’originalità dei contenuti. Il <<clementissimo gradimento>> dimostrato dal sovrano per le opere date alla luce dai professori poteva costituire di per sé uno stimolo sufficiente alla produzione scientifica, senza che ci fosse bisogno di vincolare i risultati della libera attività di studio a scadenze periodiche fisse e obbligatorie. In

35

B. MARANGONI, Lo Studio di Pisa nell’età del Consiglio di Reggenza (1737-1765). Aspetti della politica e delle istituzioni scolastiche, in <<Rivista di storia del diritto italiano>>, LXVIII (1995), pp.153-202.

(25)

27 effetti, i docenti scrivevano e pubblicavano, ma non volevano farlo

sotto la pressione di un’imposizione di legge.36

Oltre che per premiare pubblicazioni, gli aumenti straordinari, potevano essere concessi anche quando un docente veniva promosso da una cattedra di livello inferiore ad una più prestigiosa o in occasione del passaggio da una lettura ad un’altra dello stesso rango, come ad esempio dall’ordinaria civile all’ordinaria canonica. Questo genere di aumenti si giustificava in considerazione delle fatiche che il Lettore doveva sostenere per prepararsi a spiegare una nuova materia e per preparare le relative lezioni e dispense.

Il governo, inoltre, era solito ricompensare con emolumenti straordinari i docenti ai quali commetteva particolari incarichi non strettamente attinenti all’attività didattica. Ancora, gli aumenti straordinari erano usati per manifestare un concreto apprezzamento a maestri di particolare valore, per incoraggiare docenti che sostenevano maggiori impegni didattici o, ancora, per ripagare quelli

che supplivano alle funzioni di un Lettore assente.37

2.3. Il sistema di finanziamento dell’Ateneo.

Dai ruoli relativi al periodo che va dal 1737 al 1807 si conferma la tendenza secondo la quale: i professori impiegati presso lo Studio furono, nella stragrande maggioranza, originari del Granducato. La componente di origine estera era costituita per lo più da ecclesiastici regolari, spesso già residenti in Toscana al momento dell’assunzione e comunque meno esigenti in termini di stipendio perché il più delle volte avevano la possibilità di sistemarsi in città presso i conventi dei loro Ordini e, in generale, non dovevano spendere molto per il proprio mantenimento. I criteri che già in epoca medicea

36

E. PANICUCCI, Dall’Avvento dei Lorena al Regno d’Etruria, cit., p. 52. 37 E. PANICUCCI, Dall’Avvento dei Lorena al Regno d’Etruria, cit., p. 55.

(26)

28

presiedevano al reclutamento del personale docente38 erano legati al

fenomeno del protezionismo scolastico che aveva segnato il processo di evoluzione dello Studium Generale, frequentato da una scolaresca di composizione multinazionale, in un istituzione scolastica controllata e diretta dallo stato, finalizzata alla formazione dei sudditi. Aveva sempre avuto un certo peso nell’orientamento sfavorevole all’assunzione di forestieri la convinzione che, come l’Università era rivolta quasi esclusivamente ad un pubblico di studenti <<nazionali>>, cosi pure le sue cattedre dovessero costituire altrettanti impieghi da riservare nella quasi totalità ai sudditi aspiranti Lettori. Qualcheduno invece guardava molto più in alto, all’obiettivo primario del governo cioè alla <<felicità dello Stato>>, ed affermava che quella felicità dipendeva in gran parte dalla <<conservazione e propagazione del vero sapere>> ed era, perciò, fondamentale provvedere l’Ateneo dei professori più <<scelti e dotti>>, senza badare se fossero sudditi o forestieri: <<quando nel proprio paese non si trova l’eccellenza in una professione conviene cercarla

altrove>>39. In conclusione, gli interessi dei toscani dovevano essere

tutelati e prevalere solo quando ad una lettura concorrevano un forestiero e un <<nazionale>> giudicati di pari abilità. In realtà l’assunzione di scienziati o letterati già affermati, toscani o forestieri che fossero, era ostacolata soprattutto da motivazioni di carattere economico.

Fin dal principio del periodo lorenese chi otteneva una cattedra riceveva solitamente uno stipendio base di 100 scudi se veniva da fuori città. La somma era decisamente inferiore quando il professore già abitava nel pisano o quando era irregolare e poteva farsi accogliere presso un convento. Naturalmente sarebbe stato indispensabile offrire stipendi iniziali molto più generosi per chiamare

38

D. MARRARA, L’età medicea, cit., p. 147. 39

A. WANDRUSZKA, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, Firenze, Vallecchi, 1968, p. 456.

(27)

29 nell’Università qualcuno di quegli <<uomini grandi>> che si rendevano <<celebri al mondo per singolarità di dottrina>>. Chi di essi avrebbe accettato, infatti, di stabilirsi a Pisa, rinunciando ad altre vantaggiose occasioni, <<senza un premio conveniente>>? Il regime di bassi stipendi da un lato impediva allo Studio di partecipare alla gara internazionale per l’assunzione in cattedra dei migliori intelletti europei, dall’altro non rappresentava uno stimolo sufficiente per l’impegno dei professori i quali, certo, non sfuggivano all’<<inclinazione della natura>> che porta gli uomini <<a desiderare il riposo della mente e del corpo>> e li trattiene dal sottoporsi a

<<gravi fatiche>> senza l’aspettativa di <<ricompensa

proporzionata>>. Inoltre, era sempre incombente il pericolo che i migliori intelletti impiegati allo Studio pisano fossero indotti da qualche offerta allettante a trasferirsi in un altro Ateneo. Una diversa gestione delle risorse economiche avrebbe consentito di selezionare, ingaggiare e, poi, mantenere personale docente più qualificato. Il basso livello degli stipendi non era, infatti, un dato immodificabile della realtà universitaria pisana, ma una conseguenza del numero eccessivo di letture attivate. In effetti, l’esigenza di snellire l’organico si manifestò periodicamente durante tutto il Settecento lorenese ed anche oltre. Oltretutto alcuni docenti percepivano denaro dalla cassa universitaria senza prestare alcun servizio didattico: si trattava di professori emeriti, quindi dispensati dall’insegnamento a seguito di un legittimo provvedimento di giubilazione, oppure di personaggi autorevoli, magari ex docenti, che vivevano altrove con altre importanti incombenze e godevano del particolare privilegio di essere ascritti ai ruoli dell’Ateneo e di ricevere ugualmente lo stipendio. Furono così eliminate, in età di Reggenza, alcune letture giudicate <<di nessun uso e di solo ornamento del ruolo>>. Negli anni Settanta si verificò un nuovo peggioramento della situazione finanziaria dell’Università. Dalla necessità contingente di colmare il

(28)

30 disavanzo della cassa universitaria, al di la dei provvedimenti tampone per fronteggiare l’emergenza, prese avvio un dibattito che confluiva entro il più ampio progetto di riforma del sistema fiscale. La scelta di costituire per lo Studio un apposito fondo di ammontare prestabilito, in modo da <<tener separata la spesa dell’Università dalle spese generali dell’erario>>, rispondeva all’apprezzabile proposito di garantire all’istituzione pisana un’entrata fissa e sicura, non soggetta a fluttuazioni e restrizioni>: se, al contrario, la determinazione della somma da erogare all’Università fosse stata rimessa annualmente alle decisioni dei <<ministri dell’erario>>, <<assuefatti a riguardare con troppo spirito di economia le spese letterarie>>, le esigenze dell’Ateneo sarebbero state spesso sacrificate, per la tendenza a considerare il settore della cultura e dell’istruzione pubblica come secondario rispetto ad altre voci di uscita del bilancio dello Stato, invece l’Università era l’<<officina>> in cui venivano <<forgiati>> i giudici, gli avvocati, i medici, gli scienziati, gli insegnanti e i funzionari pubblici: la costituzione per lo Studio di un fondo di ammontare prestabilito non solo avrebbe liberato definitivamente l’Ateneo dalle ristrettezze economiche ma avrebbe anche consentito di chiamare a Pisa i più illustri maestri d’Italia nelle varie discipline. Il governo leopoldino decise di costituire per il sostentamento dei corsi fiorentini una dote a parte. L’entrata in funzione del sistema di finanziamento statale non dovette comportare comunque un beneficio economico duraturo. Il problema di fondo restava insomma sempre lo stesso: << per il troppo gran numero di professori>> non si riusciva ad accumulare il risparmio necessario a modificare <<il presente sistema molto difettoso>> di reclutamento dei docenti, introducendo <<col tempo>> il principio <<di aver pochi professori pagarli bene e renderli più utili ed attivi>>40.

(29)

31 L'erogazione degli aumenti ordinari triennali provocava un costante e inarrestabile dissanguamento della dote, oltretutto senza incentivare il merito dei professori, dato il carattere automatico della concessione. D'altra parte era inevitabile consentire un graduale accrescimento dello stipendio a professori che venivano assunti con un basso emolumento iniziale. Per uscire da questo circolo vizioso sarebbe stata necessaria una vera e propria rifondazione dell’organico, che elencasse i corsi utili ad una formazione completa e moderna dei dottori in Teologia, in Giurisprudenza e in Medicina e Fisica, e giungesse così a stabilire un numero di cattedre fisso e contenuto: è quanto Pietro Leopoldo tentò inutilmente di realizzare con il Regolamento Generale per tutte le scuole pubbliche del Granducato41. La soluzione, in effetti, era di difficile attuazione perché minacciava troppi interessi costituiti e diritti acquisiti che né Ferdinando III né il Re e la Regina d’Etruria seppero o vollero intaccare. Il numero delle letture continuò a fluttuare. Dopo una fase di contrazione durante l’ultimo decennio del secolo, si registrò una nuova consistente espansione negli anni del Regno d’Etruria, con

conseguenti croniche difficoltà a far quadrare il bilancio.42 Nel 1810 il

famoso Rapport général sur l’état actuel de l’instruction publique en Toscane et sur les mesures à prendre pour l’accorder avec le régime de l’Université Impériale di Cuvier, Coffier e Balbo, che preparò la fondazione dell’Accademia di Pisa come sezione dell’Università imperiale napoleonica, additava proprio nella variabilità del numero delle letture e nella sovrabbondanza dei corsi uno dei maggiori

inconvenienti dell’organizzazione universitaria pisana.43

41

L. RUTA, Tentativi di riforma dell’Università di Pisa sotto il granduca Pietro Leopoldo (1765-1790), in <<Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno>>, VIII (1979), pp. 197-273: pp. 248-249.

42 D. BARSANTI, L’Università di Pisa, cit., p. 38. 43

(30)

32

3. Gli insegnamenti giuridici.

All’inizio del Settecento lorenese l’insegnamento del Diritto a Pisa era incentrato sull’esame dei due ordinamenti giuridici universali, il Corpus iuris civilis giustinianeo ed il Corpus iuris canonici.

I docenti preposti all’insegnamento del Diritto civile erano distribuiti in tre classi gerarchicamente ordinate: al primo gradino si trovavano i Lettori più giovani e meno pagati, incaricati di spiegare le Istitutiones giustinianee; al secondo ed al terzo gradino, distinti da diversi livelli di

anzianità e di trattamento economico, erano collocati

rispettivamente gli straordinari e gli ordinari, ciascuno dei quali illustrava ogni anno un corso monografico prendendo le mosse da un titolo del Digestum o del Codex, assegnato secondo un ciclo rigidamente precostituito che si ripeteva ogni quattro anni. Allo stesso modo esistevano istitutisti di Diritto canonico i quali, per introdurre gli scolari all’apprendimento della disciplina, utilizzavano trattati elementari concepiti alla maniera delle Istitutiones iuris civilis. Erano questi i corsi che dovevano essere obbligatoriamente frequentati, a norma delle Ordinazioni del 1611, da chi aspirasse al

dottorato in utroque iure.44 Questi i tratti essenziali che

caratterizzarono l’insegnamento della Giurisprudenza nell’Ateneo pisano durante il Settecento lorenese ed il Regno d’Etruria. Un mutato modo di concepire la scientia iuris, fu la fondazione nel 1738 di una lettura di Diritto naturale o <<diritto pubblico>> rimasta per decenni materia facoltativa, il regolamento degli esami del 1786 ne impose la frequenza obbligatoria, sanzionandone il ruolo di necessaria introduzione all’apprendimento del Diritto positivo. Nel 1742 l’organico si arricchì della cattedra di Pandette, ricostituita dopo un secolo esatto di inattività ed indirizzata alla conoscenza storico-filologica del Digesto, secondo la tradizione della scuola culta: rispetto alla novità del Diritto naturale, l’introduzione del corso, che

(31)

33 rimase in funzione ininterrottamente fino al 1810 sempre come materia opzionale, ebbe minor ricaduta pratica sulla preparazione delle schiere di giovani che passarono per le aule dell’Università, ma non fu, meno carica di significati. Diritto naturale e Pandette furono gli unici corsi giuridici che i lorenesi aggiunsero a quelle ereditati all’epoca medicea, anche l’insegnamento di Diritto feudale, ritornato a funzionare regolarmente nel 1750 dopo decenni di latitanza, poi abolito negli anni Novanta da Ferdinando III. Comunque, il tradizionale predominio scientifico del Diritto civile romano e canonico rimase sostanzialmente intatto per tutto il Settecento e negli anni del Regno d’Etruria.

Negli ultimi anni del Settecento i provvedimenti annuali per il rinnovo dei ruoli incoraggiarono un mutamento della didattica del Diritto comune, secondo la tendenza a sostituire la tradizionale spiegazione monografica <<per trattati>> con corsi di carattere istituzionale. Il Corpus giustinianeo, però, grazie alla solidità che gli derivava da secoli di indiscusso monopolio nei tribunali e nelle Università, fu solo scalfito dalle critiche di quei giuristi, anche all’interno del mondo accademico, ne mettevano in luce carenze e zone d’ombra; i sostenitori della necessità di affiancare ai corsi di Diritto comune una cattedra di Diritto patrio non riuscirono ad affermarsi, anche perché era oggettivamente impossibile, in mancanza di un codice della legislazione toscana, sistematizzare la materia ai fini della didattica. Solo negli ultimissimi anni del Settecento, quando l’età del riformismo illuminato aveva ormai ceduto il passo all’epoca convulsa delle rivoluzioni, gli attacchi alla Giurisprudenza romana si fecero più espliciti ed incisivi, colorandosi di connotazioni politiche

antimonarchiche.45

Ritorniamo al 1738, ad un dispaccio del 15 ottobre con cui Francesco Stefano da Vienna ordinava al Consiglio di Reggenza di istituire un

(32)

34 corso di Droit naturelle des gens et public de l’Empire e designava come titolare l'abate senese Francesco Nicola Bandiera. Unica del suo genere in Italia fino a che una analoga non venne creata nell'Ateneo

pavese nel 174246, questa cattedra aveva già fatto una fugace

apparizione nei ruoli del 1726/27 e 1727/28. Il Granduca Gian Gastone, infatti, aveva voluto così premiare il ministro e già professore di Diritto civile a Pisa Giovanni Bonaventura Neri Badia affidando a suo figlio Pompeo, fresco di laurea in utroque iure, la prestigiosa (e lucrosa) incombenza di professare le dottrine giusnaturalistiche. In realtà, il giovane Neri aveva dato pochissime lezioni e la sua carriera accademica si era interrotta nel 1728 con il

ritorno a Firenze e l’assunzione ad altri incarichi di governo.47 La

lettura era rimasta sguarnita nell'ultimo decennio del Granducato mediceo, a riprova che la sua creazione era stata un provvedimento ad hominem, ma dopo l'insediamento della Reggenza venne ripristinata una disciplina considerata <<nobile ed utilissima>>. Il Bandiera mise insieme quattro libri di Istituzioni di diritto pubblico universale, attingendo ampiamente ad alcune parti di un trattato pubblicato dal suo maestro Vitriario nel 1734, le Istitutiones Juris Naturae et Gentium che costituivano, a loro volta, una fedele sintesi del De Iure Belli ac Pacis di Grozio, concepita come manuale scolastico per le Università. Le lezioni pubbliche erano finalizzate ogni anno accademico alla trattazione monografica di una particolare tematica, mentre a casa il Lettore spiegava e dettava agli scolari

annualmente i quattro libri delle Istituzioni.48 Pare tuttavia che il

successore di Pompeo Neri non si rivelasse all'altezza dell'incarico ricevuto e che la sua compilazione di Istituzioni, utilizzata per l'insegnamento, trascurasse parti fondamentali della disciplina. Infatti

46 D. MARRARA, Pompeo Neri e la cattedra pisana di <<Diritto pubblico>> nel XVIII secolo, in <<Rivista di Storia del diritto italiano>>, LIX (1986), pp. 178-187.

47

Ibid., pp. 177-178.

(33)

35 il Lettore di Diritto naturale, pubblico e delle genti, per svolgere una trattazione completa ed esauriente della materia avrebbe dovuto sviluppare tutti e tre i nuclei di cui si componeva il corso, esponendo, per ciascuno di essi, le principali problematiche: la condizione originaria dell'uomo e i suoi diritti nello stato di natura (Diritto naturale), l'origine contrattualistica della società civile, la condizione dell'uomo che vive nella dimensione sociale, i rapporti tra i consociati e la suprema potestà, i diritti e i doveri del potere sovrano e la natura delle varie forme di governo (Diritto pubblico), e infine i diritti e doveri delle nazioni nei loro rapporti reciproci, lo ius belli ac pacis, lo ius foederis (Diritto delle genti). L'abate senese invece tralasciava i temi relativi al Diritto naturale. Nel 1766, quando la cattedra rimase vacante per la morte del titolare, l'Auditore Mormorai scrisse a Pietro Leopoldo che <<il defunto professor Bandiera>> si era limitato a dar complete solamente le sue Istituzioni di diritto pubblico universale <<nelle quali appena si trovavano le definizioni del Diritto naturale>>. Il ministro auspicava che il futuro Lettore adottasse un sistema <<più regolare e più utile>> di insegnamento che contemplasse <<in primo luogo>> << i principi del Diritto naturale, sorgente la più pura e base>> di ogni altro Diritto e <<successivamente>> << i principi del

diritto delle genti e del diritto pubblico in tutta la sua estensione>>49.

Suggeriva ancora, l'Auditore, di unire al corso di Diritto pubblico quello di Filosofia morale e non perdeva l'occasione di tessere le lodi del giovane Granduca, dotato di talenti superiori e di una formazione culturale profondamente giusnaturalistica (acquistata << in un cielo fortunato in cui, per consenso generale delle più molte nazioni, è nato ed ha fatto i più luminosi progressi lo studio metodico del diritto naturale>>), che garantivano la sua capacità <<di ordinare e prescrivere il meglio>>. La scelta del sovrano ricadde su Giovanni Maria Lampredi e si trattò, in effetti, di un'ottima decisione, maturata

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