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L’ordine di S Stefano negli anni della reggenza (1737-1765): urti e contrasti per l’affermazione del potere lorenese in Toscana.

Lorenzo Quartieri 1765 –

3. L’Ordine di S Stefano.

3.1. L’ordine di S Stefano negli anni della reggenza (1737-1765): urti e contrasti per l’affermazione del potere lorenese in Toscana.

Il 24 aprile del 1738 Francesco Stefano di Lorena, da un anno granduca di Toscana, dopo la morte di Gian Gastone de’ Medici (7 luglio 1737), vestiva a Vienna, nella cappella dedicata a S. Ignazio, all'interno della Chiesa dei Gesuiti, l'abito di Gran Maestro dell'Ordine

dei Cavalieri di S. Stefano.119 Con questa cerimonia il nuovo sovrano

della Toscana si poneva alla testa dell'istituzione che era stata esplicitamente creata per decisione e volontà del fondatore della

dinastia medicea, Cosimo I120, di cui così raccoglieva fino in fondo

tutta l'eredità politica.

Fondato nel 1562 con lo scopo dichiarato di combattere sul mare i nemici della fede cristiana, l'Ordine aveva da tempo perduto ogni reale funzione militare. Le ultime imprese dei cavalieri stefaniani, degne di un qualche rilievo, si erano svolte in occasione della loro partecipazione, accanto alle forze veneziane, alla guerra contro i Turchi nell'ormai lontano 1684-1688. Di contro si era accresciuto, nel corso del tempo, il ruolo sociale che l'Ordine aveva in quanto istituto nobiliare nel quale affluivano sempre più numerosi in primo luogo gli esponenti delle varie aristocrazie cittadine toscane, accompagnati però, anche, da non pochi rappresentanti dei ceti aristocratici degli altri stati italiani e d'oltralpe.

Bagnone; ha dato i natali ad Antonio, regio procuratore generale alla Corte di Cassazione di Firenze, consultore del Ducato di Lucca, deputato al Parlamento di Toscana, cavaliere di Santo Stefano, nobile di Montepulciano per volere del Granduca Leopoldo II e vanta come stemma del casato tre coppe d'oro in campo rosso, sormontate da un'aquila nera in volo spiegato. Il casato si è estinto nel 1987 con la morte di mons. Giuseppe Bicchierai, prestigiosa figura del clero ambrosiano>>.

119 F. DIAZ, Il granducato di Toscana. I medici, Torino, Utet, 1976, pp. 523-524. 120

F. ANGIOLINI, Politica, società e organizzazione militare nel principato mediceo: a proposito di una <<Memoria>> di Cosimo I, in <<Società e storia>>, IX (1986), pp. 15-21, 24-31.

101 Quando Francesco Stefano diventò granduca di Toscana, l'Ordine di S. Stefano contava più di 1 .000 cavalieri , di cui circa l'80% erano quelli originari del granducato. I membri dell'Ordine erano sensibilmente aumentati di numero nel corso degli ultimi due decenni del XVII secolo, in parte grazie alla creazione di nuove commende di padronato, in parte, grazie all'ingresso nell'Ordine di molti cavalieri che ottengono l'abito come successori nelle tante commende di padronato istituite durante il granducato di Ferdinando II (1621-1670), in parte, come conseguenza delle sempre più frequenti nomine di cavalieri ancora fanciulli che, per la loro giovane età, allungano la permanenza media dei cavalieri nei ranghi dell'Ordine.

A questo migliaio di cavalieri l'Ordine di S. Stefano metteva a disposizione 174 commende di anzianità che remuneravano i loro titolari. Il Gran Maestro dell'Ordine poteva inoltre beneficiare i suoi cavalieri con 92 commende di grazia. Infine vi erano ben 504 commende di padronato familiare, anch'esse con rendite annue. L'Ordine di S. Stefano possedeva poi, accumulato in quasi due secoli di esistenza, un ingente patrimonio, formato da fattorie, terre sparse, case e titoli del debito pubblico. Tuttavia le casse dell’Ordine dovevano provvedere al mantenimento di un vasto stuolo di dignitari e impiegati, al pagamento di pensioni e di alcune commende sia di anzianità che di grazia, oltre, beninteso, alle correnti spese di funzionamento dell'istituzione e a quelle di gestione del patrimonio stesso.

Accanto a questi impegni finanziari l'Ordine aveva una grande mole di crediti, di varia natura, che non riusciva, né molto spesso voleva,

esigere.121 In altre parole l'Ordine non solo eroga denari sotto forma

121 F. ANGIOLINI, L’Ordine di S. Stefano negli anni della Reggenza (1737-1765): urti e contrasti per l’affermazione del potere lorenese in Toscana, in <<L’Ordine di S. Stefano nella Toscana dei Lorena>>. Atti del convegno Pisa 19-20 maggio 1989, Roma, 1992, pp. 1-4.

102 di emolumenti, pensioni, rendite, ma finanzia, per via indiretta, attraverso la concessione di prestiti non esatti, o la non puntuale riscossione di quanto gli è a vario titolo dovuto, i propri membri, ed anche altri che, pur non indossando l'abito stefaniano, sono purtuttavia inseriti nell'orbita dell'istituzione cavalleresca. Basti pensare agli affitti, non riscossi, delle case di Livorno, o anche, alle

sette fattorie debitrici dell'Ordine.122 E' chiaro, quindi, che l'Ordine di

S. Stefano, di cui Francesco Stefano nella primavera del 1738 divenne Gran Maestro, aveva un peso economico e finanziario di tutto rilievo nel granducato toscano. Ma ancor più rilevante era il suo ruolo sociale e politico, sia perché nelle sue file si ritrovava la maggior parte dell'aristocrazia toscana, sia perché l'istituzione riusciva ad aggregare attorno a sé forze e interessi che travalicavano quelli strettamente afferenti al ceto dominante. Ed è appunto per queste caratteristiche, che fanno della Religione di S. Stefano una realtà a un tempo complessa e variegata, che si svilupperà attorno all'Ordine, negli anni della Reggenza, un'aspra e serrata lotta politica, momento non secondario del più ampio contrasto tra i nuovi governanti, venuti d'oltralpe, e i vari segmenti, politicamente schierati in modo difforme, nei quali si era venuto articolando, nel passaggio dinastico,

il tradizionale gruppo dirigente toscano.123

Le direttrici dell'azione del governo lorenese si orientarono secondo tre obiettivi che mirarono, rispettivamente, a modificare la natura dell'impegno militare dell'Ordine; a ridefinirne il ruolo come istituzione nobiliare e, soprattutto, come istituzione nobilitante; a ristrutturarne, infine, l'assetto economico, ridisegnando autorità e poteri nell'Ordine e sull'Ordine medesimo.

122

E. LUTTAZZI GREGORI, Un’azienda agricola in Toscana nell’età moderna: il Pino, fattoria dell’Ordine di S. Stefano (sec. XVI-XVII). Atti del convegno Verona 28-30 novembre 1977, Giannini, Napoli, 1979, pp. 219-248.

123

M. VERGA, Dai Medici ai Lorena: aspetti del dibattito politico nella Toscana del primo settecento dall’epistolario di Bernardo Tanucci, in << Società e storia>>, VIII (1985), pp. 558-578.

103 Il mutamento nell'attività militare dell'Ordine era reso necessario sia dall'esigenza di ridurre i costi rappresentati dal mantenimento delle due galere stefaniane con i loro equipaggi, sia dalla linea politico- diplomatica lorenese verso l'area mediterranea, volta a stabilire condizioni di pacifica convivenza e di proficui rapporti commerciali

con l'Impero ottomano e gli stati barbareschi.124 Quanto, poi,

all'intervento del nuovo potere lorenese, sull'Ordine come istituto nobiliare, e al cambiamento nei modi di gestione del suo patrimonio, si trattava di due iniziative che muovevano l'una dalla volontà di Francesco Stefano e del suo gruppo dirigente di rendere l'istituzione cavalleresca coerente con le concezioni di nobiltà e di potere monarchico cui essi si ispiravano; l'altra, dalla ormai ben nota prospettiva generale del governo lorenese che, vedendo nello stato toscano un cespite decisivo per le entrate del Granduca, faceva dell'incremento dei bilanci e del risanamento finanziario il fulcro della

sua azione.125

Di sicuro l'Ordine di S. Stefano non si impose subito sin dagli inizi del dominio lorenese come una delle maggiori questioni che il nuovo

regime doveva affrontare.126 Emmanuel Nay, conte di Richecourt,

aveva per primo posto il problema dell'Ordine al suo sovrano quando, il 16 ottobre del 1737, lo informava sulle condizioni del commercio estero toscano e sulle misure necessarie a ridargli vigore. L'attività commerciale del Granducato, sosteneva il conte, poteva riprendersi solo con la riapertura di relazioni con il Levante, ma le galere stefaniane, per quanto militarmente assai poco pericolose, ostacolavano con la sola loro esistenza una prospettiva di questo genere: i cavalieri di S. Stefano non possedevano più, e da tempo, alcuna capacità bellica meritevole di questo nome; le due loro galere

124

F. DIAZ, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Torino, UTET, 1987, p. 51 in nota. 125 J. CL. WAQUET, Tra principato e lumi: lo spazio della Reggenza nella Toscana del Settecento, in <<Società e storia>>, VI (1983), pp. 39-40.

126

M. VERGA, Da <<cittadini>> a <<nobili>>. Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano, Giuffrè, 1990.

104 erano molto dispendiose; infine i cavalieri potevano rispettare, se proprio necessario, la norma statutaria che li obbligava a combattere gli ' infedeli ' andando ad affrontarli sui campi di battaglia pannonici. Del resto, concludeva il Richecourt, quasi a voler incoraggiare Francesco Stefano sulla strada della fine delle ostilità nel Mediterraneo, e della ripresa dei rapporti commerciali con il mondo musulmano, già Ferdinando II aveva cercato di far la pace con

Costantinopoli.127

L’Ordine di S. Stefano, fin quando i suoi cavalieri saranno tenuti a scorrere il mare a caccia di musulmani, costituisce un impaccio alla politica di accordo e di collaborazione commerciale con gli stati dell'Africa settentrionale e con l'Impero ottomano.

Infatti, ben prima del tentativo di Ferdinando II, il governo mediceo aveva cercato di ristabilire rapporti pacifici con i Turchi e di riaprire, in questo modo, i mercati orientali ai traffici toscani, scontrandosi sempre, però, con l'ingombrante e imbarazzante presenza dei cavalieri di S. Stefano, le cui scorrerie nel Mediterraneo mal si conciliavano con questi propositi di pacifica coesistenza. Vi avevano

provato sia Francesco I che il suo successore, Ferdinando I.128

Di nuovo il ruolo militare dell’Ordine venne discusso al principio del 1738, il Richecourt informava il suo sovrano come l'Ordine fosse anche ricettacolo di molti avversari della nuova dinastia, che non facevano mistero dei loro sentimenti filospagnoli.

Tuttavia, per il momento, niente sembrava turbare l'esistenza dell'Ordine di S. Stefano. Il 29 gennaio del 1738 Francesco Stefano ordinava di prendere tutte le disposizioni necessarie affinché le galere stefaniane potessero uscire in corso la prossima estate, secondo gli obblighi previsti dagli Statuti dell'Ordine e secondo le antiche e consolidate consuetudini.

127

F. ANGIOLINI, L’Ordine di S. Stefano negli anni della Reggenza (1737-1765), cit., p.7.

105 Ma l'Ordine di S. Stefano rimarrà ai margini dell'iniziativa politica del governo lorenese ancora per poco tempo, e sarà proprio da Vienna, da parte del Granduca medesimo, che prenderà avvio la prima mossa di quella che sarà una lunga, difficile, e tutt'altro che lineare, nei suoi sviluppi, battaglia politica.

A partire dalla primavera del 1738, l'Ordine di S. Stefano diventa oggetto di progetti e di provvedimenti che mirano a modificarne il ruolo militare, a risanarne l'economia e ad affermare su di esso, pienamente, l'autorità del granduca lorenese.

Come si è detto tutto ciò darà luogo a una lotta non breve: attorno all'Ordine di S. Stefano si addensano interessi molteplici; l'Ordine stesso diventa pretesto per cementare alleanze e, al contempo, per disfare vecchie solidarietà; in generale diventa uno dei terreni di scontro privilegiati tra i gruppi che si contendono il potere nella Toscana della Reggenza.

Nel 1741 Francesco Stefano ordinò la riduzione del numero di cavalieri che ogni anno venivano accettati dall'Ordine come volontari per partecipare alle crociere estive delle due galere. D'ora in avanti accanto ai dodici cavalieri <<carovanisti>>, obbligati secondo le regole degli Statuti a salire sulle galere dell'Ordine, non si sarebbero ammessi più di sedici cavalieri volontari, ponendo fine all'uso di accogliere tutte le domande di imbarco, ed evitando così che le casse dell'Ordine dovessero corrispondere un soldo mensile, oltre il vitto e l'alloggio, a tutti quei cavalieri che si dichiarassero disposti a navigare. L'innovazione introdotta da Francesco Stefano, fu contrastata immediatamente dall'Ordine, che vedeva in essa una minaccia al reclutamento di nuovi cavalieri, privati della possibilità di ottenere <<questo onorevole impiego>>. I cavalieri stefaniani, anche se a frotte chiedevano ogni anno di esser mandati a navigare, non possedevano in realtà, alcuna spiccata passione per la vita di mare e le domande dei volontari erano numerose perché in verità ben si

106 sapeva come due galere non potessero ospitare più di 24 cavalieri. Ma la sola richiesta d'imbarco, come si è detto, dava luogo a uno stipendio mensile, al mantenimento a Pisa, nel Palazzo della Carovana, ad assegnazioni più facili di commende di anzianità. Come osservava il Richecourt, l'Ordine non annoverava molti cavalieri davvero atti a servire sulle galere, e tanti prendevano l'abito stefaniano ben sapendo che non avrebbero dovuto affrontare i disagi della navigazione. L'Ordine non aveva più membri che fossero in grado di svolgere le loro funzioni militari per mare, e le commende di anzianità, all'origine, erano state istituite per premiare soprattutto i cavalieri che per più tempo avevano navigato. Si era dunque in presenza di un'istituzione originariamente fondata per lottare contro gli <<infedeli>> e i nemici del Gran Maestro, che non aveva più tra le sue file dei combattenti, ma che continuava ad applicare regole e pratiche create e adottate in virtù del suo ruolo militare, ormai, però, di fatto inesistente.

Il problema del rapporto tra militanza nell'Ordine e impegno diretto e personale sul mare sarà risolto soltanto nel 1750, quando verrà abolita la squadra di galere, sostituita da tre vascelli su cui saranno tenuti a imbarcarsi i cavalieri che dovranno fare la loro <<carovana>>, e che saranno sottoposti a comandanti esperti nella navigazione a vela. Naturalmente ci fu chi cercò di opporsi al mutamento, strepitando sulla violazione delle norme statutarie e delle bolle pontificie che erano a fondamento dell'Ordine, ed invocando per questo l'intervento della Santa Sede.

Ma le recenti paci con l'Impero ottomano e con gli stati barbareschi, la conclamata inutilità delle galere, che nel volgere di pochi anni vennero radiate da tutte le principali flotte del Mediterraneo, non rendevano altrimenti proponibile per i cavalieri di S. Stefano che operare con una marina radicalmente trasformata nei mezzi e nei fini.

107 Le difficoltà risiedevano anche nella delicata situazione determinata dal fatto che questi strenui difensori della fede cattolica sarebbero saliti su navi manovrate da equipaggi composti a stragrande maggioranza da protestanti, dato che i quattro quinti dei marinai erano sudditi inglesi.

Ad ogni modo nell'ottobre del 1751, al ritorno della prima <<carovana>> fatta sui vascelli, il Richecourt poteva scrivere, senza celare la propria soddisfazione, che i cavalieri imbarcati si erano comportati egregiamente. L'Ordine di S. Stefano aveva ormai accettato di svolgere sul mare una funzione diversa, e soprattutto più adeguata ai tempi.

D’altra parte i lorenesi si trovarono di fronte a un organismo che funzionava in base a regole assai diverse da quelle che costituivano il loro bagaglio giuridico e ideologico. Il sistema di reclutamento dei cavalieri creava gravi pregiudizi alla qualità sociale dell'Ordine stesso. Quest'ultimo aspetto, poi, incideva pure, negativamente, sulla situazione economica dell'Ordine, perché cavalieri dai redditi deboli e commende di padronato dalle entrate misere aumentavano il volume

dei debiti che affliggevano le casse dell'Ordine.129

Ma mettere mano ai modi di essere e di agire dell'Ordine, come istituto nobiliare, travalicava i limiti dell'istituzione per diventare un elemento della ampia politica volta a ridefinire i contorni e i fondamenti della classe dominante toscana. In altri termini la discussione e la lotta che si accesero, relativamente a questi problemi, furono un momento, talora strumentale, del vasto dibattito e scontro politico-culturale che attraversò i vertici del granducato nel quarto decennio del settecento, e che troverà il suo

esito legislativo nella legge sulla nobiltà toscana del 1750.130

129

F. ANGIOLINI, L’Ordine di S. Stefano negli anni della Reggenza (1737-1765), cit., pp. 8-13.

108 Il primo urto avvenne nel corso del 1737. Esso fu immediatamente rivelatore di quanto distanti fossero concezioni e pratiche reciproche, tra il gruppo dirigente dell'Ordine e del ceto dominante toscano e il nuovo sovrano con i suoi uomini. Questi ultimi non ammettono che la nobiltà sia una qualità che possa discendere da altri fuori che dalla sovrana autorità. Inoltre il titolo aristocratico è saldamente ancorato al possesso feudale, al servizio presso il sovrano, alle lunghe e immemorabili genealogie di titolati. L'Ordine di S. Stefano respinse, infatti, la domanda d'ammissione, come cavaliere per giustizia, del conte Ernesto Augusto di Falkenhein, quantunque la sua richiesta fosse stata sostenuta esplicitamente dallo stesso Francesco Stefano. Il conte di Falkenhein, nonostante i suoi feudi e gli avi carichi di titoli e di signorie, non soddisfaceva i requisiti richiesti dall'Ordine, requisiti che imponevano che i pretendenti l'abito cavalleresco non solo producessero testimonianze sulle loro qualità, ma anche presentassero <<fedi autentiche ed estratte da pubblici archivij, de matrimoni, e battesimi, e de' godimenti de primi onori precisi, et individui>>. Pertanto, il conte avrebbe potuto ottenere l'abito di cavaliere per giustizia, solo in virtù di un atto sovrano che lo avesse dispensato dalle prove necessarie, ed autorizzato a derogare dalle norme dell'Ordine.

In Toscana invece, anzi in Italia, è tutto diverso. Qui la nobiltà è cittadina e va provata mediante i documenti estratti dai registri delle città, che soli possono attestare delle qualità, antiche, dei richiedenti la croce stefaniana. I diplomi di nobiltà concessi in area tedesca non possono servire per provare la nobiltà al momento di entrare nell’Ordine di S. Stefano, come negli altri Ordini militari, se non si riferiscono ai discendenti di coloro che vennero insigniti del titolo nobiliare, ma sempre e soltanto se questi discendenti sono in grado di attestare le loro genealogie con documenti scritti.

109 In realtà il rigore e lo scrupolo documentario, se da un lato sottraevano di fatto al controllo e al potere del Gran Maestro, il reclutamento dei cavalieri, dall'altro, permettevano che le varie oligarchie cittadine del Granducato modulassero gli ingressi nell’Ordine.

Né Francesco Stefano, né il Richecourt o gli altri esponenti del governo lorenese, ingaggiarono battaglia con le autorità dell'Ordine sulle procedure che una tale linea avrebbe comportato l'invalidazione dei fondamenti medesimi dell'Ordine come istituto nobiliare e avrebbe significato rompere brutalmente con l'aristocrazia toscana. Francesco Stefano, per contro, con i suoi più stretti collaboratori, capì subito che l'attacco poteva essere più proficuamente sferrato rivedendo a fondo il sistema delle commende di padronato come uno dei mezzi mediante i quali si reclutavano i cavalieri. Le commende di padronato, infatti, e il meccanismo successorio che su di esse si era instaurato, rappresentavano la breccia attraverso la quale riuscivano a penetrare nell'Ordine rampolli di famiglie dalla nobiltà tutt' altro che limpida, permettendo, contemporaneamente, al gruppo dirigente dell'Ordine di ricorrere alla più grande elasticità nell'applicazione di criteri e regole di ammissione.

Nel 1738 il Granduca chiese che il valore dei patrimoni delle commende di padronato venisse stabilito ad almeno 5.000 scudi, se i fondatori erano nobili, e a 10.000 se non potevano soddisfare i requisiti di nobiltà. E' questo il primo tentativo di mettere sotto controllo il meccanismo di accesso all'Ordine.

Oltre a ciò Francesco Stefano proibì l'uso di rinunziare, da parte del titolare, alla commenda di padronato in favore di un successore, per porre termine alla pratica di vestire più cavalieri su una stessa commenda.

L'altra leva usata per irrigidire i criteri di ammissione all'Ordine e per ridurre gli spazi di discrezionalità lasciati al Consiglio dei cavalieri fu

110 quella di definire meglio le regole cui dovevano sottostare i quarti, specie quelli di lato materno, degli aspiranti cavalieri. Francesco Stefano si richiamò ad alcune iniziative assunte durante gli ultimi anni della precedente dinastia: che anche per i quarti materni si provasse, su cinque generazioni, la discendenza da famiglia che avesse potuto godere i <<primi onori>> della città originaria, poi, si precisò che i pretendenti la croce stefaniana dovevano aver visto la luce in patrie già <<città>> alla data della loro nascita e che i quattro quarti della famiglia fossero originari di città nobili.

Tutti questi provvedimenti vennero sanzionati definitivamente nelle Addizioni terze, annesse alla edizione del 1746 degli Statuti

dell'Ordine.131 In tal modo le nuove procedure furono inserite

nell'insieme delle regole che presiedevano al funzionamento dell'istituzione, entrando a far parte, a pieno diritto, del corpo giuridico dell'Ordine in un'apparente linea di continuità con la