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All’inizio del Settecento lorenese l’insegnamento del Diritto a Pisa era incentrato sull’esame dei due ordinamenti giuridici universali, il Corpus iuris civilis giustinianeo ed il Corpus iuris canonici.

I docenti preposti all’insegnamento del Diritto civile erano distribuiti in tre classi gerarchicamente ordinate: al primo gradino si trovavano i Lettori più giovani e meno pagati, incaricati di spiegare le Istitutiones giustinianee; al secondo ed al terzo gradino, distinti da diversi livelli di

anzianità e di trattamento economico, erano collocati

rispettivamente gli straordinari e gli ordinari, ciascuno dei quali illustrava ogni anno un corso monografico prendendo le mosse da un titolo del Digestum o del Codex, assegnato secondo un ciclo rigidamente precostituito che si ripeteva ogni quattro anni. Allo stesso modo esistevano istitutisti di Diritto canonico i quali, per introdurre gli scolari all’apprendimento della disciplina, utilizzavano trattati elementari concepiti alla maniera delle Istitutiones iuris civilis. Erano questi i corsi che dovevano essere obbligatoriamente frequentati, a norma delle Ordinazioni del 1611, da chi aspirasse al

dottorato in utroque iure.44 Questi i tratti essenziali che

caratterizzarono l’insegnamento della Giurisprudenza nell’Ateneo pisano durante il Settecento lorenese ed il Regno d’Etruria. Un mutato modo di concepire la scientia iuris, fu la fondazione nel 1738 di una lettura di Diritto naturale o <<diritto pubblico>> rimasta per decenni materia facoltativa, il regolamento degli esami del 1786 ne impose la frequenza obbligatoria, sanzionandone il ruolo di necessaria introduzione all’apprendimento del Diritto positivo. Nel 1742 l’organico si arricchì della cattedra di Pandette, ricostituita dopo un secolo esatto di inattività ed indirizzata alla conoscenza storico- filologica del Digesto, secondo la tradizione della scuola culta: rispetto alla novità del Diritto naturale, l’introduzione del corso, che

33 rimase in funzione ininterrottamente fino al 1810 sempre come materia opzionale, ebbe minor ricaduta pratica sulla preparazione delle schiere di giovani che passarono per le aule dell’Università, ma non fu, meno carica di significati. Diritto naturale e Pandette furono gli unici corsi giuridici che i lorenesi aggiunsero a quelle ereditati all’epoca medicea, anche l’insegnamento di Diritto feudale, ritornato a funzionare regolarmente nel 1750 dopo decenni di latitanza, poi abolito negli anni Novanta da Ferdinando III. Comunque, il tradizionale predominio scientifico del Diritto civile romano e canonico rimase sostanzialmente intatto per tutto il Settecento e negli anni del Regno d’Etruria.

Negli ultimi anni del Settecento i provvedimenti annuali per il rinnovo dei ruoli incoraggiarono un mutamento della didattica del Diritto comune, secondo la tendenza a sostituire la tradizionale spiegazione monografica <<per trattati>> con corsi di carattere istituzionale. Il Corpus giustinianeo, però, grazie alla solidità che gli derivava da secoli di indiscusso monopolio nei tribunali e nelle Università, fu solo scalfito dalle critiche di quei giuristi, anche all’interno del mondo accademico, ne mettevano in luce carenze e zone d’ombra; i sostenitori della necessità di affiancare ai corsi di Diritto comune una cattedra di Diritto patrio non riuscirono ad affermarsi, anche perché era oggettivamente impossibile, in mancanza di un codice della legislazione toscana, sistematizzare la materia ai fini della didattica. Solo negli ultimissimi anni del Settecento, quando l’età del riformismo illuminato aveva ormai ceduto il passo all’epoca convulsa delle rivoluzioni, gli attacchi alla Giurisprudenza romana si fecero più espliciti ed incisivi, colorandosi di connotazioni politiche

antimonarchiche.45

Ritorniamo al 1738, ad un dispaccio del 15 ottobre con cui Francesco Stefano da Vienna ordinava al Consiglio di Reggenza di istituire un

34 corso di Droit naturelle des gens et public de l’Empire e designava come titolare l'abate senese Francesco Nicola Bandiera. Unica del suo genere in Italia fino a che una analoga non venne creata nell'Ateneo

pavese nel 174246, questa cattedra aveva già fatto una fugace

apparizione nei ruoli del 1726/27 e 1727/28. Il Granduca Gian Gastone, infatti, aveva voluto così premiare il ministro e già professore di Diritto civile a Pisa Giovanni Bonaventura Neri Badia affidando a suo figlio Pompeo, fresco di laurea in utroque iure, la prestigiosa (e lucrosa) incombenza di professare le dottrine giusnaturalistiche. In realtà, il giovane Neri aveva dato pochissime lezioni e la sua carriera accademica si era interrotta nel 1728 con il

ritorno a Firenze e l’assunzione ad altri incarichi di governo.47 La

lettura era rimasta sguarnita nell'ultimo decennio del Granducato mediceo, a riprova che la sua creazione era stata un provvedimento ad hominem, ma dopo l'insediamento della Reggenza venne ripristinata una disciplina considerata <<nobile ed utilissima>>. Il Bandiera mise insieme quattro libri di Istituzioni di diritto pubblico universale, attingendo ampiamente ad alcune parti di un trattato pubblicato dal suo maestro Vitriario nel 1734, le Istitutiones Juris Naturae et Gentium che costituivano, a loro volta, una fedele sintesi del De Iure Belli ac Pacis di Grozio, concepita come manuale scolastico per le Università. Le lezioni pubbliche erano finalizzate ogni anno accademico alla trattazione monografica di una particolare tematica, mentre a casa il Lettore spiegava e dettava agli scolari

annualmente i quattro libri delle Istituzioni.48 Pare tuttavia che il

successore di Pompeo Neri non si rivelasse all'altezza dell'incarico ricevuto e che la sua compilazione di Istituzioni, utilizzata per l'insegnamento, trascurasse parti fondamentali della disciplina. Infatti

46 D. MARRARA, Pompeo Neri e la cattedra pisana di <<Diritto pubblico>> nel XVIII secolo, in <<Rivista di Storia del diritto italiano>>, LIX (1986), pp. 178-187.

47

Ibid., pp. 177-178.

35 il Lettore di Diritto naturale, pubblico e delle genti, per svolgere una trattazione completa ed esauriente della materia avrebbe dovuto sviluppare tutti e tre i nuclei di cui si componeva il corso, esponendo, per ciascuno di essi, le principali problematiche: la condizione originaria dell'uomo e i suoi diritti nello stato di natura (Diritto naturale), l'origine contrattualistica della società civile, la condizione dell'uomo che vive nella dimensione sociale, i rapporti tra i consociati e la suprema potestà, i diritti e i doveri del potere sovrano e la natura delle varie forme di governo (Diritto pubblico), e infine i diritti e doveri delle nazioni nei loro rapporti reciproci, lo ius belli ac pacis, lo ius foederis (Diritto delle genti). L'abate senese invece tralasciava i temi relativi al Diritto naturale. Nel 1766, quando la cattedra rimase vacante per la morte del titolare, l'Auditore Mormorai scrisse a Pietro Leopoldo che <<il defunto professor Bandiera>> si era limitato a dar complete solamente le sue Istituzioni di diritto pubblico universale <<nelle quali appena si trovavano le definizioni del Diritto naturale>>. Il ministro auspicava che il futuro Lettore adottasse un sistema <<più regolare e più utile>> di insegnamento che contemplasse <<in primo luogo>> << i principi del Diritto naturale, sorgente la più pura e base>> di ogni altro Diritto e <<successivamente>> << i principi del

diritto delle genti e del diritto pubblico in tutta la sua estensione>>49.

Suggeriva ancora, l'Auditore, di unire al corso di Diritto pubblico quello di Filosofia morale e non perdeva l'occasione di tessere le lodi del giovane Granduca, dotato di talenti superiori e di una formazione culturale profondamente giusnaturalistica (acquistata << in un cielo fortunato in cui, per consenso generale delle più molte nazioni, è nato ed ha fatto i più luminosi progressi lo studio metodico del diritto naturale>>), che garantivano la sua capacità <<di ordinare e prescrivere il meglio>>. La scelta del sovrano ricadde su Giovanni Maria Lampredi e si trattò, in effetti, di un'ottima decisione, maturata

36 però tanto lentamente che solo nel 1773 il giurista fiorentino ottenne l'agognato titolo di <<ordinarius iuris publici universalis>>, che rappresentava il coronamento di un'aspirazione professionale coltivata da più di quindici anni. Nel 1763 il giurista era riuscito ad entrare nel ruolo, ma aveva dovuto accontentarsi di una lettura di

Istituzioni canoniche, materia che non gli andava per nulla a genio50:

oggetto prediletto dei suoi studi erano proprio il giusnaturalismo, il Diritto pubblico e delle genti, come testimoniavano gli scritti più recenti, il De maiestate Principis e il De licentia in hostem, pubblicati

nel 1761.51 Il professore, nell'attesa che la cattedra occupata dal

Bandiera si liberasse, cominciò di propria iniziativa a tenere un corso domestico di Diritto pubblico. Fra l'altro dal 1744 il Bandiera era anche Rettore del Collegio Ferdinando, carica che lo teneva molto occupato e lo distoglieva dall'insegnamento: il governo lo aveva scelto per quest'impegnativa funzione extradidattica forse perché non era un docente di primo ordine o anche perché, negli anni Quaranta, la cattedra stessa era ancora considerata d’importanza secondaria. Nel 1766 al Lampredi fu richiesto solo un prospetto del metodo e del programma che avrebbe adottato, sia per le lezioni pubbliche che per quelle domestiche, se gli fosse stata affidata l'incombenza <<così delicata e di tanta importanza>> di insegnare

l'Etica e il Diritto pubblico.52 Nacque così il primo abbozzo del

principale scritto del Lampredi, pubblicato in tre volumi tra il 1776 e il ‘78, dal titolo Juris Pubblici Universalis sive Juris Naturae et Gentium Theoremata, quae ab eo in eadem Academia exponuntur et declarantur, opera molto nota, che ebbe due riedizioni, una nel 1782

ed una, postuma, tra il 1792 ed il ‘93.53 Il piano fu elaborato e

presentato al governo nel 1767. Due anni più tardi il Lampredi

50

P. COMANDUCCI, Settecento conservatore: Lampredi e il diritto naturale, Milano, Giuffrè, 1981, pp.113-126.

51

Ibid., pp.43-96 e Ibid., pp. 115-119. 52

E. PANICUCCI, Dall’Avvento dei Lorena al Regno d’Etruria, cit., pp. 67-68. 53 COMANDUCCI, op. cit., pp.167-299.

37 ottenne un aumento di stipendio ed il formale incarico di tenere un corso domestico di Diritto pubblico, senza tralasciare le lezioni pubbliche e private di Istituzioni canoniche, finché, dopo l'ennesima supplica, nel 1773 ricevette la lettura e una congrua gratificazione economica. Formalmente il suo titolo era, come si è detto, <<ordinarius iuris pubblici universalis>>, ma nelle sue lezioni veniva trattata anche l'Etica, come appare chiaramente dai Theoremata,

oltre che dai ruoli a stampa.54 Nel 1773, prima di approdare alla

cattedra de iure publico, Giovanni Maria Lampredi metteva in luce che nel panorama degli insegnamenti giuridici il giusnaturalismo era ormai una realtà diffusa: ricordava infatti che la disciplina era professata <<in tutte le più celebri Università d’Europa>>, con grande successo di pubblico. Quanto all’Ateneo pisano, assicurava di aver avuto nella propria casa, fra gli scolari, non pochi giovani stranieri giunti in città apposta per ascoltare le sue lezioni e ripartiti, alla fine del corso, per i loro paesi. La formazione giusnaturalistica era indispensabile per chi aspirava <<a servir lo Stato nel dipartimento politico ed economico>>55, perché insegna <<i primi principi della giustizia, i doveri del Principe verso de’sudditi e de’sudditi verso del Principe>> e permette di discernere <<se le leggi stesse sieno rette o se altre maggiormente convenissero>>. Il Lampredi aggiungeva che la conoscenza del Diritto naturale risultava <<utilissima>> per tutte le professioni legali in particolare, per i giudici, chiamati a distinguere il giusto e l’ingiusto nei casi concreti dell’agire umano. Una memoria scritta nel 1790, tre anni prima della morte, offre una chiara e semplice visione dei rapporti tra Diritto naturale e Diritto positivo, cosi come il professore li concepiva in relazione all’insegnamento universitario della iurisprudentia: <<le leggi naturali sono il

54 D. MARRARA, Pompeo Neri, cit., pp. 191 e 196. 55

P. RANUCCI, Elogio di Giovanni Maria Lampredi, Professore di Diritto Pubblico Universale nell’Università di Pisa, Firenze, Cambiagi, 1793, p. 35; D. MARRARA, Pompeo Neri, cit., p. 189 e COMANDUCCI, op. cit., pp. 167-168.

38 fondamento tanto delle civili quanto delle sacre religiose>> in quanto tutti gli ordinamenti positivi <<non sono, in sostanza, che eccezioni o modificazioni delle leggi naturali e saranno sempre tanto migliori quanto meno si scosteranno da quelle. Chi desidera dunque d’imparar le leggi e di mettersi in grado di decidere del giusto e dell’ingiusto dell’azioni umane bisogna, necessariamente, che cominci dal conoscere bene il gius, o sia le leggi, della natura>>. In questa definizione del diritto naturale come metro indispensabile per uno studio critico dei complessi normativi vigenti, l’indagine critica dei testi alla luce del diritto di natura apriva la strada ad una riflessione sui limiti intrinseci del Corpus iuris civilis sia come fonte del Diritto vigente sia come oggetto esclusivo, insieme con il Corpo canonico, degli studi universitari. Lampredi ha lasciato alcune considerazioni generali su queste tematiche nella memoria del 1790, concepita come un vero e proprio progetto di piano di studi per lo scolaro legista. Dopo avere imparato dalle dottrine giusnaturalistiche << ciò che è giusto ed ingiusto naturalmente>>, il giovane doveva passare ad apprendere le <<modificazioni ed eccezioni>> fatte alle leggi naturali dal legislatore del suo Stato, cioè il <<gius patrio>>. Siccome il sovrano aveva voluto che nelle materie non disciplinate dal Diritto patrio si ricorresse al gius romano <<come a quel sistema che meno di tutti gli altri si è allontanato dalla giustizia naturale>>, era indispensabile lo studio del Corpus iuris civilis. Peraltro poneva in evidenza i difetti che affliggevano in particolare il Digesto: Triboniano ed i suoi collaboratori avevano composto senza metodo la raccolta di responsi e meditazioni giuridiche dei giureconsulti latini e non si erano curati di <<far vedere le ragioni primitive e i principi di giustizia sopra i quali la risposta del filosofo giureconsulto era appoggiata>>. Le Pandette, così compilate, si riducevano perciò ad <<un dizionario di casi>> che non poteva in alcun modo <<servir di codice alle nazioni culte>> e neppure fungere da testo su cui <<imparar la scienza del

39 giusto e dell’ingiusto>>. Era perciò molto importante che l’insegnamento della compilazione giustinianea fosse affidato <<ad abili professori>>. Il mondo accademico pisano nel suo complesso non si mostrò affatto propenso a modificare l’assetto secolare delle cattedre legali, non ritenne di dover opporre alcuna correzione al metodo usato nello studio della Giurisprudenza, avendolo trovato <<plausibile>> tanto nell’organico delle letture quanto nel contenuto dei programmi. Lo scolaro avrebbe dovuto seguire i corsi obbligatori di Istituzioni civili e canoniche, di straordinaria civile e di ordinaria, restavano facoltative le lezioni di Diritto criminale, di feudale, di Pandette, ed anche il Diritto pubblico. Il piano di studi non accennava minimamente all’insegnamento del Diritto patrio. I giovani dottori in Diritto lasciavano l’Università <<affatto ignari e digiuni>> di quelle leggi con cui poi dovevano lavorare <<come giudici o causidici>> e proponeva sull’esempio di altre Università <<di erigere una cattedra di gius patrio>>. <<E’ facile a dirsi che possa essere utile nell’Università di Pisa una cattedra di gius patrio, ma non è egualmente facile ad eseguirsi>>. L’enorme vastità ed eterogeneità del materiale normativo e la mancanza nel Granducato di un codice che lo raccogliesse in modo organico rendevano impossibile un suo metodico e globale insegnamento. Le leggi toscane si trovavano in una condizione di tale disordine che l’approntamento di un programma universitario di Diritto patrio sarebbe risultato non meno impegnativo, in termini di tempo e di complessità, dell’opera di consolidazione stessa. Del resto è però utile ammettere che il Lampredi quando, nella citata memoria del 1790, indicava lo studio del Diritto patrio come una tappa fondamentale nel curriculum del laureando in Giurisprudenza, non aveva in mente il Diritto patrio toscano ma quello piemontese, progressivamente sistematizzato con ben tre operazioni di consolidamento durante i regni di Vittorio

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Amedeo II ( 1723 e 1729) e di Carlo Emanuele III ( 1770).56 Nel

Granducato invece il progetto di codice richiesto nel 1745 a Pompeo Neri era rimasto incompiuto per le enormi difficoltà pratiche dell’opera e soprattutto per l’insanabile divergenza di impostazione

politica.57 Nel Discorso primo pronunciato dal Neri in presenza dei

deputati alla compilazione del codice, il Diritto patrio, costituito da regolamenti locali e da ordini particolari emanati in tempi diversi sotto la pressione di bisogni contingenti, era descritto come un

<<ammassamento>> disorganico, frammentario, pieno di

contraddizioni, di ripetizioni inutili e di omissioni, una <<mistura perpetua>> di disposizioni vigenti e norme desuete, uno zibaldone normativo la cui sistemazione sarebbe stata <<un non piccolo tormento>>58. La Giurisprudenza, cioè l’arte <<di distinguere il giusto dall’ingiusto>>, si poteva imparare solo attraverso lo studio del Diritto civile giustinianeo, insegnato <<per principi, nel modo che s’

insegnano l’altre scienze>>59. La formazione universitaria dello

scolaro legista, perciò, non doveva restare appesantita dal Diritto patrio, che altro non era se non un carico di <<notizie>> <<non riducibili a scienza, inutili a sapersi avanti l’occorrenza e facili a

impararsi quando il caso viene>>60. Un giudizio così netto era

56

E. PANICUCCI, Dall’Avvento dei Lorena al Regno d’Etruria, cit., pp. 68-71. 57

M. VERGA, Da <<cittadini>> a <<nobili>>. Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 221-228 che in appendice (pp. 313-402) offre l’edizione critica dei tre Discorsi tenuti dal Neri nel 1747 alla deputazione per la compilazione del nuovo codice granducale. Sul dispaccio del 5 maggio 1745 con cui Francesco Stefano incaricava da Vienna il Neri di <<travailler à la refonte generale des toutes les loys>> per formare <<un code à l’imitation de celuy de Savoye>>, p. 147.

58 Discorso Primo tenuto nell’adunanza dei deputati alla compilazione di un nuovo codice delle leggi municipali della Toscana. Sotto il dì 31 Maggio 1747 in VERGA, op. cit., p. 325.

59

Ibid., p. 339.

60 Noto è il passo del Discorso Primo sull’inutilità dello studio del Diritto patrio nelle Università: << Il corpo del gius civile è adunque in Toscana, in quelle parti che dagli statuti non è corretto quello secondo il quale si decidono le differenze dei privati e si amministra la giustizia sì nei giudizi ivili che i criminali da qualunque magistrato […]. Questo diritto romano forma unitamente in questo paese lo studio della giurisprudenza […]. E la cognizione degli statuti e delle leggi locali del paese non è reputata parte essenziale della scienza di un giureconsulto e però si considera per

41 destinato ad ostacolare qualsiasi piano per introdurre anche in Toscana un corso di Diritto patrio presso l’Università di Pisa o anche a Siena, almeno fino a che non fosse stata intrapresa con successo l’opera di codificazione. Per realizzare un codice toscano l’incarico fu conferito da Ferdinando III nel 1792 al Lampredi ma rimase incompiuto per la morte prematura del professore nel marzo 1793. La situazione politica del Granducato, stretto in una penisola rivoluzionata dalle armate napoleoniche e dai giacobini nazionali, era molto precaria e anche nell’ambiente accademico pisano si diffondevano gli entusiasmi per le nuove idee democratiche. Il governo doveva evitare, nella scelta del nuovo docente un errore di valutazione che si sarebbe rivelato <<fatale alla gioventù e allo Stato>>. A fine Settecento, le lezioni di Diritto pubblico rischiavano di diventare veicoli di propaganda contro la monarchia assoluta o