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L’Ordine di S Stefano nella Toscana di Leopoldo II (1824-1859) I tentativi di dare nuova vitalità all’Ordine, dopo averne ottenuto il

Lorenzo Quartieri 1765 –

3. L’Ordine di S Stefano.

3.3. L’Ordine di S Stefano nella Toscana di Leopoldo II (1824-1859) I tentativi di dare nuova vitalità all’Ordine, dopo averne ottenuto il

ripristino, che costituiscono proprio l'aspetto di questo intervento, affondano le loro radici negli anni dello smantellamento della legislazione francese e della ricerca di sostituirla con una nuova normativa che conciliasse il vecchio ordine con le esigenze delle nuove istanze emerse durante il quindicennio di assenza dei Lorena.

152 L. LENZI, La piazza e la chiesa dei Cavalieri di S. Stefano ieri e oggi, in << Quaderni stefaniani>>, V (1986), pp. 165-195.

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F. PESENDORFER, Il granduca Ferdinando III: la rinascita dell’Ordine di S. Stefano, cit., p. 69.

131 Anche nella classe di governo non dovevano essere state poche le perplessità a <<ripristinare>> l'antico Ordine cavalleresco, se si attesero ben tre anni, prima di emanare il motu proprio del 22 dicembre del 1817, con cui l'Ordine tornava sì in vita nelle forme e nei modi in cui era stato riformato da Pietro Leopoldo nel 1775 (motu proprio 20 agosto 1775), ma lasciando tante zone d'ombra, capaci di dare luogo ad un'ampia materia controversistica, od almeno a non poche richieste di chiarimenti e a contenziosi.

Il tentativo mai cessato degli appartenenti all'Ordine di riconquistare posizioni il cui tramonto era stato definitivamente sanzionato dal complesso della legislazione leopoldina, sembrò riprendere nuova vita con l'atto di ripristinazione del 1817. Da allora si assiste ad un instancabile lavoro delle autorità dell'Ordine e di quella parte di nobiltà toscana e del resto della penisola, che nell'Ordine aveva posto una parte della difesa dei propri privilegi, al fine di dargli nuova vitalità. Purtroppo la strada indicata da Leopoldo, di un adeguamento dell'Ordine alle esigenze di una società più moderna, non era stata seguita dai cavalieri, in cui l'impegno maggiore fu indirizzato a riottenere la più larga parte degli antichi privilegi. Se, addirittura negli anni ‘30, non era ancora sopito il desiderio dei cavalieri di poter

godere di un Foro particolare154, tuttavia la maggiore attenzione delle

autorità dell'Ordine, dopo la sua restaurazione, appare rivolta principalmente alle commende, alle vecchie da richiamare in vita, alle nuove da fondare. D'altro canto questi benefici erano il segno della potenza dell'Ordine e la ragione dell’affezione perdurante di tanta parte della classe più ricca. Le altre prerogative lasciategli da Pietro Leopoldo avrebbero potuto essere proprie di qualsiasi altro ente benefico o con intenti culturali. La fondazione delle commende e l’assegnazione della relativa congrua statutaria apparivano ed erano i

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R. P. COPPINI, L’Ordine di S. Stefano nella Toscana di Leopoldo II (1824-1859), in <<L’Ordine di S. Stefano nella Toscana dei Lorena>>. Atti del convegno Pisa 19-20 maggio 1989, Roma, 1992, pp. 70-71.

132 tratti qualificanti dell'Ordine e fornivano il modo di distrarre dall'asse ereditario familiare una parte cospicua del patrimonio, che rimaneva vincolato nei termini stabiliti dal fondatore della commenda. Era un modo di far rientrare quanto si era dovuto cacciare sotto la pressione dei tempi nuovi, di ripristinare la non commerciabilità di alcune parti della proprietà.

Come è noto, soppresso il codice napoleonico, in Toscana non si arrivò mai a dare vita ad un Codice Civile. Solo in materia processuale sia attuò nel 1838 una generale riforma dei tribunali civili e criminali. In materia successoria si ritornò al sistema agnatizio che favoriva i maschi discendenti di maschi rispetto alle femmine <<e dei discendenti di esse>>. Con le leggi del 13 ottobre e del 15 novembre 1814, fu portata a termine la prima fase di generale riordinamento legislativo, sopprimendo il ben più razionale ed uniforme sistema francese. Furono confermate le leggi francesi in materia di feudalità, di sostituzioni fidecommissarie ed in genere tutte le disposizioni legislative riguardanti vincoli sugli immobili. Si è scritto che <<vennero così conservate le condizioni per quella libera circolazione dei beni, che era stato appunto uno dei maggiori pregi del sistema giuridico francese e di cui il paese aveva goduto, e doveva ancora

godere, i benefici economici>>.155 In generale si può essere concordi:

con la ripristinazione dell'Ordine di Santo Stefano vennero distratti, o quanto meno assai limitati nella loro libera commerciabilità, tutte quelle proprietà, su cui erano fondate delle commende. Le limitazioni previste per i sudditi toscani che volessero fondare commende consistevano nel fatto <<che l’importare del fondo da vincolarsi non led[esse], e lascia[sse] salva la legittima dovuta ai figli>>, e che in ogni caso <<i capitali da costituirsi in commenda non supera[ssero] il terzo della totalità del suo Asse Patrimoniale>>. Come specificava poco

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A. AQUARONE, Aspetti legislativi della restaurazione in Toscana, in <<Rassegna storica del Risorgimento>>, XLIII (1956), pp. 3-34, in particolare p. 10.

133 dopo la lettera della Segreteria di Stato retta da Neri Corsini, era addirittura possibile incommendare <<beni soggetti ad ipoteche>> (era naturalmente contemplata una casistica), beni <<tanto liberi che livellari>>, purché in regola con i nuovi regolamenti. Un ulteriore passo indietro rispetto alla legislazione francese era poi rappresentato dall'eventuale successione femminile al fondo commendale; infatti <<nel caso di estinzione della linea, o linee invitate>>, l'esistenza di una successione femminile non avrebbe bloccato <<la reversione dei fondi commendali all'Ordine>>, ma le eredi in questione avrebbero avuto diritto soltanto al godimento dei frutti del fondo vita natural durante.

È vero che per certi versi anche l'Ordine era parificato agli altri soggetti di diritto, ma si deve riconoscere che ciò accadeva sempre con non pochi riguardi e temperamenti. Così avveniva rispetto ai diritti di registro da pagarsi per l'attivazione delle commende. La Segreteria di Finanze, l'11 aprile 1818, affermava che non poteva valere più l'esenzione dell'antica Gabella dei Contratti, di cui prima della rivoluzione aveva goduto l'Ordine di S. Stefano, ma che tutti gli atti relativi alle commende da stabilirsi nell'Ordine andavano soggetti alla legge del 30 dicembre 1814 che stabiliva i diritti di registro per le successioni, e che perciò anche l'Ordine sarebbe stato soggetto <<al diritto fisso nei modi che la stessa legge prescrive a riguardo dei Luoghi Pii Laicali>>. Naturalmente le commende di Grazia, essendo considerate come donazioni regie, non andavano soggette ad alcun diritto, mentre per quelle Patronali <<fra i compresi nell'atto di fondazione>> doveva pagarsi soltanto il diritto previsto dalla legge <<per la trasmissione del semplice usufrutto, disgiunto dalla proprietà>>. Questa statuizione appariva giusta in quanto l'erede della commenda non godeva della libera disponibilità del fondo, e dal momento che la proprietà era acquisita all'Ordine, in virtù dell'atto di

134 Fondazione, finiva che in tal modo era distratta per sempre dalla legge sulle successioni.

Ovviamente il governo toscano, che si era opposto alla reintegrazione dei beni dell'asse ecclesiastico, ormai passati in proprietà privata, ed aveva cercato di persuadere in tal senso anche la vicina duchessa di Lucca, la ex regina d’Etruria Maria Luigia, aveva statuito che i beni già sottoposti a commenda e sciolti da ogni vincolo dal cessato governo, <<riman[evano] nel loro stato di libertà>>. Nel caso che i possessori antichi o i loro chiamati alla commenda si fossero determinati a riassumerne il titolo, avrebbero potuto farlo soltanto per mezzo di un nuovo atto di fondazione, che non avrebbe potuto avere in nessun caso valore retroattivo.

Certamente la ripristinazione dell'Ordine fu accolta, in Toscana come nel resto d'Italia, da un buon successo. In effetti pure in mezzo alle incertezze, per espletare tutti gli atti necessari per verificare che i beni da incommendarsi non superassero il terzo ereditario, per condurre le perizie peritali in assenza di un catasto, per accertare l'eventuale esistenza di ipoteche, il nucleo dirigente dell'Ordine esplicò un'attività instancabile al fine di restaurare prontamente vecchie situazioni decadute a causa <<dell'invasione francese>> e dare vita a nuove. Da fuori della Toscana si avevano ad esempio le domande accolte del modenese Fabbri, e di Fabrizio Capece Minutolo figlio del principe Antonio di Canosa, che ottenne il titolo del Priorato d’Austria; in Toscana il conte Giuseppe Conti ottenne il priorato di Pisa, il cav. Niccolò Martelli il Baliato di San Miniato, il senatore Amerigo Antinori il Baliato di Montalcino.

Ma il dato più interessante consiste nella distrazione dalle contrattazioni di una parte enorme di patrimonio immobiliare e mobiliare, perché potevano incommendarsi anche beni mobiliari. Il processo verbale con cui è accordato il Baliato di Montalcino ad Amerigo Antinori è esemplare al fine di comprendere come e per

135 quanto tempo nelle intenzioni di fondatori di commenda, si sarebbe tentato di tenere immutati i rapporti proprietari, sottraendone in tal modo anche parti cospicue ad ogni possibile velleità di alienazione. Al marchese Antinori era accordata la possibilità di <<fondare, ed accettando la fondazione di una commenda, per sé, i suoi figli, e discendenti di maschio legittimi, e naturali in infinito con ordine di primogenitura, e con la facoltà alla mancanza, ed estinzione totale della sua linea, di nominare altre due linee, previa l’annuenza sovrana, nelle quali farà passaggio la commenda, che poi ricadrà all'Ordine e alla libera collazione di S.A.I.R>>.

Non dovevano trascorrere che pochi anni per avere chiara la scarsa vitalità dell'Ordine. Intanto alla fine di ciascun quadrimestre la computisteria dell'Ordine non era in grado di fornire il bilancio <<tanto dell’annualità delle Commende conferite, quanto lo stato dei tempi rotti>>, cioè delle somme rimaste nelle casse in seguito alla vacanza delle commende. Non pochi problemi si stavano presentando al consiglio dell'Ordine dopo i primi successi per la sua ripristinazione: il numero delle commende continuava a coprire la cifra stabilita per le pensioni, la proprietà era interessata a fare una riserva al primogenito, ma già nel 1822 si cominciava a sentire la necessità di sottoporre ufficialmente all'attenzione del granduca il problema di rivitalizzare l'Ordine. Questi, per bocca del suo segretario di stato Neri Corsini <<aveva riconosciuto altresì commendevole lo zelo dello stesso consiglio diretto a promuovere l'incremento [dell'Ordine] con utili istituzioni>>, ma non sembrò prendere in eccessiva considerazione le richieste in questione, anzi le lasciò cadere senz’altra ufficiale risposta.

Risalgono infatti al 1822 i primi progetti per ripristinare l'Anzianità e l'istituto della Carovana <<senza dei quali questa nobile istituzione non sarebbe che una debole immagine di ciò che era avanti>>. In effetti non aveva torto il Consiglio a vedere l'avvenire dell’Ordine

136 strettamente legato al <<ristabilimento>> dei due istituti, ma nello stesso tempo non andava a fondo delle conseguenze che sarebbero derivate dalla rinnovata importanza della Carovana, almeno così come l'aveva concepita Pietro Leopoldo. Infatti già nella riforma del 1775 si potevano scorgere degli elementi tendenti a fare della Carovana una scuola per la formazione dei quadri burocratici necessari ad uno Stato moderno: la Carovana infatti doveva rappresentare, secondo i dettami di Leopoldo, quell'Istituto tendente <<a promuover nei giovani cavalieri la buona cultura e le scienze ed a formare cittadini abili a servire l'Ordine stesso e la Patria>>.

Ora il Consiglio dell'Ordine andava ben oltre e chiedeva di indirizzare una parte della somma attualmente destinata al pagamento delle commende di grazia a quelle di anzianità, in tal modo <<verrebbe a ristabilirsi quella ricompensa che invitava una volta i padri di famiglia ad ascrivere i loro figli nell'Ordine, onde venissero in esso educati ed istruiti>>. La constatazione della scarsa presa dell'Ordine sui ceti dirigenti attuali si ha nell’affermazione che l'ammissione all'Istituto avrebbe dovuto rappresentare una <<ricompensa peraltro che non converrebbe concedere indistintamente come in passato, ma soltanto a coloro che se ne rendessero meritevoli e sotto certe condizioni>>. In effetti già dagli anni ‘20 l'educazione del giovane rampollo del ceto dirigente si andava compiendo per altre vie: erano diventati ancora più frequenti i viaggi di istruzione in paesi stranieri, ogni famiglia conservava i suoi indirizzi e le sue lettere credenziali che si tramandavano di padre in figlio, venivano apprezzati sempre più gli aspetti tecnici dell'istruzione necessaria alla conduzione delle proprietà, si studiavano e si tentava di porre un freno agli effetti della prima rivoluzione industriale, altrettanto devastanti dell'altra politica, si cercava il modo di coniugare il progresso tecnico con la conservazione dei rapporti sociali. Proprio a questa nota conservativa si richiamava il consiglio <<di un Corpo che annovera nel suo seno gli

137 individui delle più cospicue famiglie dello Stato>> ed offriva, attraverso l'istituto della Carovana chiamato a nuova vita, i nuovi servigi affinché <<essi servissero d’esempio alle altre classi della società con i loro lumi, e con quei santi principi che sono la più ferma base dell'ordine sociale>>.

Già in un numero del 1985 dei <<Quaderni stefaniani>> si dava notizia di queste pressioni provenienti dall'Ordine per il ripristino degli istituti menzionati. In questo studio si poneva particolarmente l'accento sul ripristino della Carovana e sul metodo pedagogico da seguire dai giovani nell'istituto. Per quanto il progetto del 1825 appaia più organico e ragionato, come si è visto, del piano del 1822, non era comunque la prima volta che il Consiglio sottoponeva al granduca un progetto di ristabilimento degli istituti in questione. Unita alla lettera del 2 gennaio 1822 si trova una relazione sulle Idee relative ad un nuovo piano per l'istituto della Carovana, questo sì prevalentemente volto a indagare il sistema educativo impartito nell'istituto. Le ragioni del fallimento del sistema di Pietro Leopoldo erano individuate nell'età di diciassette anni, in cui i giovani venivano ammessi (troppo tardi riteneva il Consiglio ed adduceva una serie di ragioni psicologiche) e soprattutto nel fatto che le commende di anzianità, che rappresentavano la ricompensa del tempo speso nell'istituto, venivano accordate indistintamente a tutti i cavalieri <<qualunque fosse stata la loro condotta ed applicazione>>, anche se non si fossero addottorati. I rimedi prodotti riguardavano l'anticipazione ad un'età <<non minore di quattordici anni e non maggiore di quindici>> dell'ingresso dei giovani nell'istituto, dove avrebbero dovuto essere mantenuti dalle famiglie. Giunti a diciassette anni, età prescritta per l'ammissione dell'Ordine, dopo un corso di studi elementari, sarebbero rimasti nell'istituto a spese dell'Ordine <<come in passato per il tempo necessario a compiere i loro studi all'Università>>. Ma a differenza del passato avrebbero

138 dovuto addottorarsi o in giurisprudenza o nelle scienze fisiche e matematiche, essendo questa <<una condizione indispensabile per l'acquisto delle commende di anzianità>>. Nel tracciare il piano degli studi da impartirsi ai giovani carovanisti è sottolineato il concetto che, essendo i cavalieri <<destinati all'esercizio dei pubblici inpieghi>>, solo il piano di studi elaborato dal consiglio <<offrirebbe la ben fondata lusinga di formare una classe di virtuosi, ed illuminati cittadini, e i soggetti capaci di occupare degnamente gli impieghi necessari alla conservazione dell'ordine sociale e politico>>.

Mentre il progetto del 1822 dava particolare rilievo al ripristino della Carovana, quello del 1825 pur facendo perno su questo istituto, in cui era chiaro che erano riposte le speranze dell'Ordine per il futuro, pare prendere atto delle difficoltà che si frappongono ormai ad un semplice ripristino dell'Ordine. Le memorie giunte sul tavolo del granduca nel 1825, poco dopo la sua successione al trono, appaiono come l'ultimo tentativo di infondere una nuova vita ad un Ordine, che almeno nella forma in cui era stato ripristinato appariva sempre più anacronistico e che rifiutava di prendere atto delle trasformazioni subite dalla società.

Specialmente le Brevi osservazioni al progetto del Consiglio dell’Ordine di S. Stefano, relativo alla ripristinazione dell’anzianità e carovana apparivano un frutto tardivo e retrivo di un cavaliere, che ancora si illudeva di poter far rivivere una realtà ormai al tramonto, per quanto dura a morire. Una memoria anonima per noi in quanto non firmata, ma che non doveva essere tale per il granduca ed i suoi funzionari, proviene indubbiamente da un appartenente all'Ordine, persona di alto rango, che parla di sé <<nella sua qualità di difensore della gloria del Sovrano Gran Maestro, ed avvocato supremo di tutta la Sagra Milizia>>. A differenza del Consiglio che non osava chiedere di più della cifra attualmente erogata, l'autore delle osservazioni scriveva: <<... io non oso oppor limiti alla generosità della sua

139 magistrale munificenza, contento di farle osservare umilmente, che tanto maggiore sarà la sua gloria, quanto più pingue sarà il prestigio di una somma a Lei riservata>>.

Mentre il Consiglio dell'Ordine ormai accettava l'idea leopoldina della trasformazione della Carovana in una istituzione culturale, l'estensore di queste osservazioni auspicava questo istituto come unicamente atto a formare <<ufficiali idonei all'esercizio delle armi e al comando militare, elementi affatto necessari per provvedere alla interna ed alla esterna tranquillità e sicurezza dello Stato >>.

Più realista appariva il progetto di riforma dell'Anzianità e della Carovana proveniente dal Consiglio dell'Ordine; seppur obtorto collo sembrava prendere atto delle difficoltà e dei mutamenti oggettivi che rendevano estremamente inattuali le richieste di ripristino delle due istituzioni, ma ciò nonostante tentava di perorare la loro causa con una argomentazione storico-giuridica stringente e documentata. Muovendo dalla constatazione che l'una e l'altra fu <<sospesa e non abolita>> dal motu proprio del 1817, la relazione passava poi ad un esame storico delle vicende dell'istituto dell'Anzianità fino al momento in cui era stata <<annientata dalle armi del conquistatore>>, e proponeva infine <<che se la ripristinazione dell’anzianità non può dirsi rigorosamente comandata dalla giustizia, lo che noi siamo ben lungi del pretendere, essa è almeno caldamente raccomandata dall'equità>>. Il Consiglio chiedeva che quella parte della somma, attualmente a disposizione dell'Ordine per le commende di anzianità di diversi commendatori del passato ancora viventi, rimanesse amministrata dall'Ordine <<in perpetuo>>, con la stessa motivazione, invece di andare ad incrementare le commende di grazia, via via che morivano i beneficiari, in quanto <<essa potrebbe essere sufficiente all'oggetto della ripristinazione della Carovana>>. Infatti solo così avrebbe potuto avere successo l'intento di dare nuova vita all'istituto della Carovana. D'altra parte non

140 sfuggiva al consiglio il fatto che <<le fondazioni delle Commende di Padronato vanno di giorno in giorno più diminuendo; pochi son quelli che possono e vogliono imporre vincoli indissolubili sui patrimoni delle loro famiglie senza la correspettività dei vantaggi ad essi per lo avanti promessi>>. Questa diminuzione di interesse per i possibili vantaggi dell'Ordine unita al progressivo declassamento dei ceti dirigenti, che faceva sì che pochi ormai potessero fornire le prove di nobiltà per vestire gli abiti dell'Ordine, dava la certezza che a poco a poco era <<venuto a ridursi ad un semplice Ordine di grazia da conferirsi ad arbitrio>>. Ogni ostacolo al ripristino della Carovana poteva cessare soltanto ristabilendo le commende di anzianità, che avrebbero avuto la duplice funzione di <<servire di incoraggiamento alla fondazione di nuove Commende di padronato e di premio ai