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Lorenzo Quartieri 1765 –

6. Codificazione e assolutismo giuridico.

La codificazione segna intensamente la storia del diritto continentale e vi incide rompendone a fondo e irrimediabilmente la continuità. Tuttavia, dopo una tanto lunga convivenza con la codificazione come fonte normale di regole giuridiche, lo storico del diritto non può esimersi dal coglierla dall’interpretarla per ciò che soprattutto all’inizio fu e poi continuò costantemente ad essere: una enorme operazione di politica del diritto; anzi, la più colossale operazione di politica del diritto nell’intero arco della storia giuridica occidentale. Essa costituì infatti il sigillo definitivo per un risultato macroscopico, valutabile, in positivo, come la consolidazione di un rigoroso monopolio e, in negativo, di un brutale esproprio.

Alla classe borghese va riconosciuto il merito di aver capito il valore politico del diritto, valore coesivo che il diritto è in grado di svolgere per il potere politico; una attenzione inusitata per la dimensione giuridica e per la produzione giuridica. Inusitata perché sostanzialmente nuova rispetto alla vecchia psicologia del potere e al vecchio modello del suo esercizio. Il Principe di antico regime, anche

177 se dal Cinquecento in poi si mostra sempre più come legislatore, non ha mai la pretesa di monopolizzare il territorio del giuridico, che gli appare uno spazio troppo vasto, percorso da zone che egli non sente rilevanti per la cosa pubblica. Egli legifera sempre di più, perché questo esige la sempre più intensa circolazione giuridica, ma crede che, accanto alla volontà sovrana, debbano concorrere alla produzione dell'ordinamento fonti parallele, più congeniali a disciplinare convenientemente quelle zone irrilevanti.

Per tutto l'antico regime, un sostanziale pluralismo domina il paesaggio giuridico e ogni realtà statuale è, come esperienza giuridica, una realtà autenticamente pluri-ordinamentale. Questo avviene soprattutto per il diritto privato e soprattutto per quel nucleo più genuinamente privatistico che è costituito dal diritto civile. Il diritto privato era allora, in buona parte, il diritto dei privati cioè un diritto prodotto dai privati, cioè da autorità non investite di pubblici poteri, una realtà proveniente dal basso, di matrice consuetudinaria, che trovava la sua definizione giuridica nella <<interpretatio>> di dottori, giudici e anche notai. Questo diritto aveva due caratteri salienti: provenendo di là dallo Stato, si proponeva come autenticamente <<privato>> voce abbastanza schietta della società nella sua esperienza giuridica quotidiana; in grazia della sua matrice consuetudinaria questo diritto manteneva una sua preziosa osmosi col mondo dei fatti, ne traeva un vitale ricambio continuo, impedendo una troppo rigida confinazione tra <<factum>> e <<ius>>, tra il giuridicamente rilevante e l'irrilevante.

La Codificazione segnò, per la storia giuridica, una brusca inversione di marcia. Il detentore del potere politico dimostrò una psicologia profondamente mutata verso il diritto: ne capì la rilevanza, se ne arrogò la produzione, e ne fece un rigidissimo monopolio. L'esperienza giuridica che, per quanto atteneva al diritto privato, era effettivamente pluriordinamentale all'interno della stessa esperienza

178 statuale, si trovò a coincidere forzatamente con lo Stato stesso e ne restò compressa. Le fonti, che ieri avevano concorso alla formazione del diritto privato, si videro drasticamente eliminate o costrette a vivacchiare all'ombra della norma autoritaria del Principe.

L'età della borghesia al potere, l'età del liberalismo economico, coincide per il mondo del diritto con il più bieco degli assolutismi; e il vecchio diritto, che aveva incarnato la ragion civile, costretto nelle maglie di una intelligente ma coartante Codificazione, da diritto dei privati fu ridotto a quella porzione del diritto pubblico avente ad oggetto i rapporti privati. I privati, attori e protagonisti, erano stati vittima di un brutale esproprio. E questa la prima conseguenza che lo storico segna come negativa: la sfera del giuridico si rattrappiva nella sfera del legale, mentre l'extralegale subiva la condanna drastica dell'irrilevanza; il giurista da interprete - con una <<interpretatio>>, che nel mondo del diritto comune era mediazione fra il troppo vecchio diritto giustinianeo e i fatti novissimi - si ritrovava immiserito al rango di esegeta con una funzione meramente passiva. La produzione del diritto costituiva una circostanza che non lo riguardava: l'ordinamento si impoveriva delle energie speculative dei Maestri e della carica esperienziale dei giudici, e si impoveriva il ceto dei giuristi devitalizzato nella sua capacita costruttiva.

Il diritto, perduta la vecchia dimensione pluralistica, vedeva attenuata la sua relativa autonomia che era stata il grande privilegio del diritto privato dell'età di mezzo, si legava al detentore del potere e alla classe che l'aveva conquistato, rischiando di diventarne la voce, di identificarsi con la sua voce.

La Codificazione fu anche questo. Il peggio doveva però accadere sul piano culturale: tutta questa grossa operazione di politica del diritto, che abbiamo chiamato assolutismo giuridico, un'operazione di potere e storicamente relativa, grazie alle potenzialità giusnaturalistiche di cui fu caricata, da soluzione contingente che era e propria a un

179 determinato gioco di forze storiche, fu proiettata nel paradiso dei modelli assoluti diventando la migliore soluzione possibile per l'oggi e per il domani trasformandosi in organizzazione giuridica positiva e operativa.

Il giurista, fosse esso dottore o pratico, prima vittima dell'operazione politica perché sottoposto a un esproprio quasi totale, ne sembrò convinto, accettò le catene d'una passività completa.

La vittima accolse il ruolo modesto impostale dal persecutore e assentì di collaborare in perfetto subordine. Il vecchio interprete non si ribellò per l'asservimento e accettò di trasformarsi in esegeta. E la scienza giuridica ottocentesca dei paesi a diritto codificato assunse, in prevalenza, una dimensione esegetica.

Per il giurista di sempre il problema centrale e fondamentale, che dà vita al suo discorso scientifico e lo qualifica sul piano epistemologico, è quello sulle fonti, ma, da parte dell'esegeta, sulle fonti non si dice nulla o troppo poco, perché non c'è più nulla da discutere trattandosi di un problema già completamente risolto in altra e superiore sede. È purtuttavia questo il problema che fa grande Savigny, che fa grande la rivisitazione germanistica di Georg Beseler e di Otto van Gierke in una Germania che gode il privilegio d'essere ancora un laboratorio sperimentale; è il problema tuttavia che fa grande, a fine secolo, François Geny, professore di diritto civile in terra francese, che tiene ogni giorno aperto sulla sua cattedra il 'Code' napoleonico. Tutto il più vivo di questo complesso Ottocento è discussione sulle fonti: si apre con quel discorso vivo e pungente che è la polemica fra Thibaut e Savigny in tema di Codificazione, si chiude con quella meditata e vivissima riflessione sulle fonti che è « Méthode d'interprétation et sources en droit privé positif» di Geny.

Certamente, l'assolutismo giuridico usci vincente anche nella psicologia del giurista per quel plagio sottile che era calato nelle coscienze; certamente, la mitologia della legge si mutò troppo spesso

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- nell'animo del giurista - in acritica legolatria e non a torto di fronte a un osservatore superficiale la scienza giuridica ottocentesca si identifica mentalmente in un atteggiamento esegetico, ma il filo di consapevolezza attiva e critica, che la Codificazione aveva sepolto, non si era rotto, né tardò a riaffiorare appena che grossi mutamenti sociali, economici, tecnologici, sposandosi a più mature acquisizioni culturali e metodologiche, incisero a fondo il volto del paesaggio continentale europeo; il che avvenne negli ultimi due decenni del secolo.

Nella inevitabile complicazione dei rapporti sociali, economici e giuridici che ne derivò, il castello di carte assolutistico apparve crudamente per quello che, in buona parte, era stato, e cioè una intelligente ed abilissima finzione: uno scenario essenziale composto di due soli protagonisti, lo Stato e l'individuo; questo Stato concepito come la struttura più semplice pensabile, e perciò monolitica; l’ordinamento risolto nella legge e nella legge di tutte madre, il Codice; il Codice civile, a sua volta, fondato su un unico pilastro portante - la proprietà individuale - e articolato in maniera assai semplice col fine prevalente di realizzare la tutela e la libera circolazione della proprietà.

Tutta questa costruzione armoniosa e semplice nelle sue linee si scontrò con un mondo di fatti in grosso subbuglio. Rispetto alla bella favola illuministica costruita su dei modelli che apparivano sempre più statuari, si riscopri la complessità del giuridico e si intuì che

soltanto la riscoperta della complessità avrebbe fornito al giurista, fosse egli maestro o giudice, la possibilità d'una rinnovata cittadinanza.219

219

P.GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato nel secolo XIX, in <<Rivista di storia del diritto italiano>>, vol. 64, 1991, pp. 5-11.

181 Dalla riflessione di Geny si ricava che la coscienza del mutamento sociale è la vera àncora di salvezza, giacché sarà proprio il mutamento a rivelare l'inadeguatezza del diritto legale.

Accanto alla legge scritta, vecchia e sempre più invecchiata, c'è lo spazio dell'esperienza quotidiana, del diritto vivo: quello è il regno

della libertà del giurista, dove egli potrà senza intermediari e senza

condizionamentiinterrogare <<la nature des chosespositive>>.

Geny ne vede la fecondità nell'essere sempre e comunque un riferimento ontologico, fuori delle finzioni ed artifici del diritto legale, fuori delle imbalsamazioni del Codice, dove finalmente l'interprete, vero interprete e non più soltanto esegeta, unicamente forte del suo metodo scientifico, può affermare libertà e responsabilità insieme, l'una e l'altra necessarie per costruire il diritto del futuro.

Geny ripugna il diritto ufficiale e la scienza giuridica ufficiale.

Se qualcosa va recuperato, è la complessità del giuridico, il suo estendersi fuori dello Stato e della legge. Sarà da questo recupero che conseguirà l'ingigantimento del giurista-interprete, perché sarà lui il soggetto privilegiato chiamato a colloquiare con la natura positiva delle cose e a garantire il perfetto adeguamento ai nuovi

bisogni.220

Il vecchio monopolio e il vecchio esproprio operati dall’assolutismo

giuridico si rivelano inadeguati a ordinare una realtà sempre più

straripante perché sempre più complessa. Riemerge l'idea di coinvolgere a livello di fonti dottrina e giurisprudenza proprio nella loro veste di «interpretatio», cioè di osservazione disponibile d'un paesaggio socio-economico che cambia e di sua traduzione in termini di costruzione giuridica. Il rischio, è il divario insanabile fra paese

reale e paese legale, con la conseguenza rovinosa di una

irrecuperabile perdita di credibilità del diritto come strumento

220 Ibid., cit., pp. 13-14.

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ordinante. L'universo giuridico vivente deve avere una coerente corrispondenza nel diritto ufficiale.221