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Crimen maiestatis : questioni vecchie e nuove

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Academic year: 2021

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Premessa

Il presente lavoro, senza eccessive pretese data l’inesperienza di chi scrive, si prefigge come obiettivo quello di fornire un quadro, il più possibile esaustivo, circa la disciplina del “crimen maiestatis”. In particolare, si cercherà di evidenziare come il diritto penale romano, nonostante da sempre secondario rispetto al diritto privato, sia stato capace di una legislazione in grado di far scuola fino al XIX secolo e di influenzare l’età contemporanea e le rispettive codificazioni. Accingendosi allo studio di tale reato, ci si accorgerà di come l’esemplarità della pena costituisse un elemento connotante la fattispecie, tanto da non farsi eccezioni nemmeno per i soggetti ricoprenti le più alte cariche che, anzi, spesso erano proprio coloro che maggiormente erano perseguiti.Il processo si svolgeva in modo atipico rispetto a quello ordinario, con pene soggette, nel corso del tempo, a sempre maggiori inasprimenti : dall’ “aqua et

igni interdictio” alla pena capitale. Da quanto detto sarà

facile desumere un’ulteriore caratteristica della fattispecie : la natura politica preponderante rispetto a quella penale, rinvenibile nell’utilizzo che se ne fece al fine di eliminare avversari politici o di incrementare le casse statali. Ma ciò che sicuramente caratterizzò il crimen maiestatis è la forte atipicità, tanto che, nemmeno oggi , se ne può dare una definizione precisa e universalmente valida, e soprattutto non sono chiari quali fossero i comportamenti che integrassero il reato, poiché, nel tempo, la fattispecie si dilatò fortemente tanto da ricomprendere realtà molto diverse tra loro, dalla “perduellio” alla magia.

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2 L’analisi, oltre a fare da cornice a suddetta fattispecie criminosa, persegue lo scopo di dimostrare come degli antichi istituti romani non abbiano perso, ancora oggi, il loro carattere di modernità e funzionalità , sebbene per molti aspetti , primi fra tutti l’ “ inciviltà” delle pene e la loro commistione con elementi magici, possano essere sentiti “lontani” dall’uomo di oggi, ma tale “distanza” verrà meno se si considera quanto segue. Il largo ricorso alle accuse di maiestas, infatti, ha sicuramente come motivazione più plausibile il timore, che in alcune epoche sfociò in un vero e proprio terrore, degli Imperatori di essere giustiziati da chi mirava ad ottenere il loro potere : fu proprio questa la motivazione che portò alla realizzazione di una macchina repressiva fino ad allora senza precedenti, finalizzata all’eliminazione dei nemici interni dell’Imperatore e di chiunque avesse potuto rivelarsi a lui scomodo ai fini della realizzazione della sua politica (oltre a garantire una cospicua attività al Fiscus romano). Ebbene, quanto appena descritto non potrà far altro che richiamare alla mente di chi legge ( e di chi sia munito di un minimo di conoscenze storiche ) proprio quello stesso regime di terrore politico che connotò il tanto discusso regime fascista caratterizzato dalla medesima forza repressiva autoritaria : alla luce di una così evidente somiglianza , forse, quindi non sbaglia chi sostiene che la storia altro non è che un cerchio chiuso che

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INDICE

Premessa……….…..1

CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua

evoluzione

1.1 Introduzione………..………...7

1.2 Dal “Regnum” alla prima Repubblica….………9

1.3 …alla “Res Publica ………24

1.4 Età Augustea……….……….37

1.5 Il Principato……….53

1.6 Il periodo del Dominato………..61

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CAPITOLO II : Crimen maiestatis e sua disciplina

2.1 Introduzione……….…71

2.2 Evoluzione storica del crimen maiestatis….………77

2.3 Definizione del crimen maiestatis……….………81

2.4 Singole fattispecie………90

2.4.1 Una particolare figura di reus maiestatis………95

2.5 Crimen maiestatis e risvolti processualistici……….….100

2.5.1 Le prove : l’acquisizione per tormenta………106

2.5.2 Le pene……….………117

2.5.3 L’età tardo imperiale……….……….124

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CAPITOLO III : Crimen maiestatis : l’evoluzione

storico - concettuale

3.1 Genesi del reato politico : evoluzione concettuale del

crimen maiestatis……….……….156

3.2 Reato politico e regimi liberali……….163

3.3 Fine ottocento : in Italia e in Europa………172

3.4 Dalle amnistie fasciste al Codice Rocco……….180

3.5 segue : le amnistie degli anni ’20……….…………..185

3.6 Il Codice Rocco……….………195

3.6.1 Interpretazione articolo 8 c.p : delitto politico in senso oggettivo ………..………203

3.6.2 segue: Il delitto politico in senso soggettivo…….….208

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6 Bibliografia essenziale……….………219

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CAPITOLO I

DIRITTO CRIMINALE ROMANO E SUA

EVOLUZIONE

1.1Introduzione

Il diritto romano è tradizionalmente suddiviso in due grandi aree : quella privatistica , riguardante le vicende giuridiche relative al “ cives” in quanto singolo, e quella pubblicistica, concernente invece lo Stato e il rapporto tra lo stesso e i cittadini. Il diritto cosiddetto “pubblico” ricomprende al suo interno, oltre al diritto costituzionale, il diritto penale. Quest’ultimo si occupa essenzialmente di due tipologie di illeciti : i “crimina “, cioè delitti offensivi dell’intera comunità, e i “delicta”, riguardanti invece le offese ai singoli cittadini e, per tale motivo, rientranti nella sfera privatistica1.Un punto da cui sicuramente partire è la consapevolezza di come non si possa prescindere, ai fini della nostra analisi, dall’epoca di riferimento e dalle caratteristiche sociali e politiche della stessa. In particolare, la repressione criminale è, più di qualsiasi altra funzione politica, strettamente connessa e, allo stesso tempo, dipendente dalle vicende storiche e dal potere costituito. Come già evidenziato nella premessa, è

1

L’utilizzo promiscuo dei due termini ebbe inizio nel momento in cui il diritto penale pubblico iniziò ad inglobare il diritto penale privato , con la conseguenza che i fatti illeciti vennero considerati tutti allo stesso modo ( età post- classica e giustinianea). Solo nella tarda età classica si ha l’idea di atto criminale inteso come diritto sostanziale, distaccato dalla sfera processuale.

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8 necessario tuttavia riconoscere come il diritto romano sia connotato da uno stampo prevalentemente privatistico, essendo la disciplina penalistica meno considerata anche dagli stessi giureconsulti dell’epoca, come lo dimostra anche il minor spazio ad essa riservato nelle opere giunte ai giorni nostri.Il presente lavoro, oltre ad offrire un quadro introduttivo circa l’approfondimentodi uno dei più rilevanti e, allo stesso tempo, contraddittori crimini disciplinati dal diritto penale romano, quale è il “crimen

maiestatis”, si pone anche come ulteriore finalità quella di

dimostrare il carattere di modernità che, ancora oggi, molti degli antichi istituti romani hanno conservato.

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9

1.2 Dal “Regnum” alla prima Repubblica

Le problematiche che, in campo penale, tanto il “Regnum” tanto la prima Repubblica si trovarono ad affrontare furono le seguenti :

a) quando e secondo quali modalità si arrivò alla distinzione tra “crimina” e “delicta” ;

b) quali fossero effettivamente e concretamente tali “crimina”

c) quale fu l’origine e il conseguente sviluppo della “provocatio ad popolum”;

d) come emersero i processi rivoluzionari plebei e quale fu il loro apporto al diritto criminale romano e) quale fu la realtà che si venne a creare in epoca

decemvirale e post- decemvirale.

Per poter dare una risposta il più possibile adeguata a suddetti quesiti , bisogna prima di tutto dire che già nella società gentilizia alcuni atti venivano considerati offese interne all’unità del gruppo, e altri invece come una sorta di atti di guerra provenienti da un gruppo nei confronti di un altro gruppo. Dionigi di Alicarnasso ci fornisce un esempio relativo ai primi, grazie ad una norma appartenente alla legislazione romulea, nella quale si stabiliva che nel rapporto patrono/cliente chi fosse venuto meno ad un proprio dovere sarebbe stato punito con la sacertà2.

2 La norma ha come fondamento un mos gentilizio finalizzato all’affermazione del potere delle gentes sui sottoposti e venne successivamente riconosciuta

nell’ordinamento cittadino, a causa del venir meno della fides tra cliente e patrono, quindi un tradimento punibile con la morte tramite la consacrazione del reo al dio degli inferi.

Con la prima secessione della plebe, avvenuta nel 494 a. C., a chiunque violi la persona dei tribuni della plebe sarà applicata la pena della sacertà (leges

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10 Tra i secondi sono ricomprese invece tutte quelle ipotesi in cui un’offesa del componente di un gruppo al componente di un altro gruppo era causa di vendetta da parte dell’uno nei confronti dell’altro e quindi motivo di guerra tra i rispettivi clan. Successivamente, si passò dal principio della responsabilità collettiva a quella personale, per cui l’autore del fatto veniva consegnato dal proprio gruppo al gruppo cui apparteneva l’offeso, per poter così procedere alla vendetta ( era cioè “noxae deditus”, consegnato per il delitto)3.In età monarchica sono riscontrabili ancora aspetti della repressione penale precivica : la vendetta era messa in pratica dall’offeso stesso ( o dai parenti) e solo eccezionalmente si aveva l’intervento della comunità di appartenenza, intervento limitato, fra l’altro, ai soli casi di reati militari e religiosi. Gli illeciti religiosi, in quanto ritenuti turbativi della pax

deorum, erano considerati causa di sventura x la

collettività e di conseguenza anche la rispettiva sanzione era di stampo religioso, avente come finalità non tanto la punizione del colpevole ma l’espiazione del comportamento ritenuto “nefas” nei confronti della divinità offesa.Il tipo di sanzione veniva stabilito dal Rex , in quanto sommo sacerdote e ritenuto in quanto tale capace di dialogare con gli dei4, e le pene potevano essere : il “piaculum”( ossia il sacrificio di un animale o la devoluzione di una somma) per i reati più lievi ; mentre

3

Poiché la noxae deditio era pienamente applicata nei rapporti interfamiliari della comunità cittadina, si ritiene che il principio giunga dai mores dell’età precivica. Allo stesso modo si può ricordare la pena del taglione, prevista nelle XII tavole per il membrum raptum; la sacratio capitis del colpevole è invece da ricondurre sicuramente a certe pratiche religiose.

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Ciò è quanto viene descritto nelle leges regiae, che ,sulla base di quanto ci viene detto da Pomponio, erano leggi votate dai comizi ; queste leges vennero raccolte nello ius papirianum da Papirio sul finire dell’età monarchica. Sono oggi ritenute dalla dottrina come le fonti più arcaiche del diritto criminale romano, benché citate da poche fonti.

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11 per i reati più gravi , i “supplicia” ( ossia il sacrificio del colpevole ) , che a loro volta potevano comprendere o la “consecratio capitis et bonorum” ( sacertà) ovvero l’abbandono del reo e dei suoi beni di modo che chiunque potesse derubarlo od ucciderlo, o la “deo necari”, consistente invece nella messa a morte del colpevole come sacrificio alla divinità offesa. La messa a morte a titolo di sacrificio era prevista per quei crimini, quali la divulgazione di segreti religiosi e il venir meno all’obbligo di castità da parte di una Vestale, che configuravano i casi più gravi e rilevanti di empietà. Venivano invece qualificati come reati militari tutti quei comportamenti ritenuti idonei a recar danno all’intera compagine sociale o del

popolus militarmente organizzato; era il Re, in quanto

dotato di imperium e capo dell’esercito, ad attuare la loro persecuzione. Nel far ciò egli era totalmente arbitro, privo cioè di qualsiasi vincolo derivante da norme o procedure prestabilite, e libero di far ricorso ad ogni qualsivoglia rimedio, da lui ritenuto necessario ai fini della repressione. A differenza di quanto visto prima, le pene in questione avevano carattere totalmente laico, quindi non sacrale, e consistevano solitamente in fustigazioni a cui seguiva la decapitazione : prassi di cui abbiamo notizia ancor oggi grazie al celebre episodio della condanna a morte dei figli di Bruto e degli altri congiurati per la restaurazione dei Tarquini5. Riflettendo sulla circostanza che, come già si è detto, con la noxae deditio la responsabilità collettiva del gruppo precedette la responsabilità personale del singolo e sul fatto che attualmente non è rinvenibile nella società gentilizia alcun indizio circa una qualche differenziazione tra le offese arrecate al gruppo e quelle dirette al singolo

5 Liv. 2.5.8 ; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano, 1998, pag 242

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12 in quanto tale, si può concludere che non sussistono ragioni per escludere che suddetta differenziazione risalga all’epoca precivica. È con il sorgere della comunità cittadina che inizia a farsi sentire la necessità di separare atti lesivi della comunità, e quindi perseguibili su iniziativa e nell’interesse della stessa, e atti lesivi del singolo, perseguibili invece su iniziativa individuale.Sarà proprio tale differenziazione che, nella riflessione giuridica successiva, darà vita alla suddivisione tra i cosiddetti delitti pubblici, ovvero i “crimina”, e i delitti privati, ovvero i

“delicta”. I primi saranno previsti e regolati dal diritto

pubblico nelle forme del processo penale mentre i secondi saranno previsti e regolati nella forma del processo privato, nelle forme del diritto privato .Durante il periodo del “Regnum” vennero configurati come “crimina” l’omicidio ( intendendosi come tale l’uccisione di un uomo libero); la “perduellio” ( ovvero ogni azione diretta a ledere l’ordine politico della civitas) ; la “proditio” ( ovvero il tradimento nei confronti della civitas derivante da alleanze con il nemico) ed infine la fraus ( vale a dire, nel rapporto tra patrono e cliente, il venir meno ai propri doveri nei confronti dell’altro ) .Per quanto concerne il modo in cui il Rex amministrasse la giustizia, dobbiamo prima di tutto riconoscere come al riguardo non vi siano notizie certe : gli studi più recenti ritengono che il sovrano giudicasse dinnanzi al popolo e che alcuni ausiliar si ioccupassero dei due crimini più importanti : omicidio6 e

6

Già da Numa Pompilio si distingueva tra uccisione volontaria e involontaria , prevedendosi che solo con riferimento alla prima gli adgnati avrebbero potuto provvedere all’uccisione dell’omicida, esercitando così la vendetta. Questa punizione venne individuata con l’espressione paricidas esto, il cui significato sembrerebbe essere “sia parimente ucciso”.

Nel secondo caso invece avrebbe dovuto trovare espiazione mediante la consegna di un ariete sacrificato agli adgnati

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perduellio7. Secondo Bernardo Santalucia, con riferimento

all’omicio, i quaestores parricidii , una volta accertato il dolo , controllavano come venisse condotta la vendetta; con riguardo invece alla perduellio, i duoviri perduellionis, accertata la responsabilità, si occupavano dell’esecuzione della pena. Se esistesse o meno una “provocatio” già in età monarchica è, ancora oggi, questione controversa tra gli studiosi, ma gli indizi a sostegno di una risposta positiva sono scarsi e incerti.Con l’avvento della Repubblica, invece, troviamo una legge ad hoc, proposta da P. Valerio Publicola e approvata dal comizio centuriato, secondo la quale nessun magistrato potesse uccidere, fustigare8, o infliggere una multa pecuniaria ad un cittadino senza tener conto della “provocatio ad populum” da lui proposta. L’espressione “provocatio ad populum”, forse per influenza del Mommsen9 , viene usualmente tradotta come “appello al popolo”,ovvero come diritto del civis a conseguire l’instaurazione di uno iudicium populi dinanzi al comizio centuriato per vedere cassata la sanzione capitale, la verberatio e in seguito (ma, in questo caso, dinanzi ad assemblee diverse) anche l’irrogazione di multe superiori alla maxima comminategli mediante iudicium magristratus10. L’ istituto, non concepibile attraverso le decisioni del rex e perciò posto in diretto rapporto con l’indebolimento della magistratura suprema connesso alla

7 Il colpevole di perduellio veniva fustigato a morte attaccato ad un albero ( Livio I, 26, 6 ), ma, anche essere fustigato e poi ucciso a colpi di scure.

8

Dionigi 5,19,4 9

Staatsrecht, 3,352 = Droit public romain, 6,1,403.

10 Costituì sempre un punto fermo del pensiero del Mommsen la subordinazione alla provocatio dello iudicium populi , configurato come secondo grado di procedura ( staatsrecht, 3,351,353,354 e nt. 6 = Droit public romain,

6,1,402,405,406 nt. 2; Strafrecht, 477 = Droit pènal romain, 2,163 sg.) e come “autentica espressione del potere sovrano della collettività cittadina” ( Staatsreht, 3, 351 = Droit public romain, 6,1,401), identificandosi in una “perfetta

manifestazione della libertà civica romana” ( Strafrecht, 171 = Droit pènal romain, 1,197).

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14 caduta della monarchia 11, era ritenuto idoneo a sottolineare “il legame necessario tra il principio democratico ed il potere esclusivo della collettività sulla vita e sulla morte del cittadino” : considerazione, questa, alla quale si lega l’assunto secondo cui il “diritto penale pubblico comincia con la lex Valeria” che le fonti presentano pressochè contemporanea all’instaurazione della repubblica12. Il Mommsen accolse quindi in blocco la tradizione relativa all’istituto, considerandolo introdotto dalla lex Valeria del 50913, recepito dalle XII Tavole14 e reso oggetto di rinnovata previsione da parte di una delle leges

Valeriae Horatiae del 449 15 nonché dalla lex Valeria del

11

Staatsrecht, 1, 141; 3,302 = Droit public romain , 1,161; 6,1,343; Strafrecht, 41

sg., 163 = Droit penal romain, 1,46,188. In epoca monarchica la provocation (Cic.,

Rep., 2,54: Provocationem autem etiam a regibus fuisse declarant ponteficii libri, significant nostri etiam augurales…[Che, d’altra parte, si siano verificati casi di provocatio anche avverso i re lo dichiarano i libri pontificali e lo danno a

conoscere pure i libri di noi Auguri…]) corrispondeva invece ad una discrezionale connessione del sovrano : Staatsrecht, 3,351 = Droit public romain, 6,1,402 ;

Strafrecht, 162 nt.2 = Droit pènal romain, 1,187 nt. 1.

12

Strafrecht, 56,162 = Droit pènal romain, 1,64,186.

13

Intorno la quale le testimonianze sono numerose ma non omogenee. Cic., Rep., 2,53 riferisce infatti che P.Valerio Publicola legem ad populum tuli team, quae

centuriatis comitiis prima lata est, ne quis magistratum civem Romanum adversus provocationem necaret neve verberaret, secondo una versione che trova piena

corrispondenza con Val. Max., 4,4,1, dov’è narrato che il personaggio (al quale LIv., 2,8,2 si limita ad ascrivere l’iniziativa di una legge de provocatione adversus

magistratus ad populum , con terminologia affine a quella che si rinviene in Plut., Poplic., 11,2) legem etiam centiriatis comitiis tulit, ne quis magistratus civem Romanum adversus provocationem verberare aut necare vellet.

14

Ciò sulla base di Cic. Rep., 2,54 ( ab omni iudicio poenaque provocari licere

indicant XII tabulae compluribus legibus , che condusse il Mommsen ad ipotizzare

l’aggiunta alle varie disposizioni sanzionatrici di clausole specifiche autorizzatrici della provocatio (Staatsrecht, 3,352 nt. 2 = Droit pènal romain, 6,1,403 nt. 1 : cfr.

Strafrecht, 42 nt. 2 = Droit pènal romain, 1,46 nt. 2.

15

Cic., Rep., 2,54 : quod proditum memoriae est Xviros, qui leges scripserint, sine

provocation creatos, satis ostendit reliquos sine provocation magistratus non fuisse, Lucique Valeri Potiti et M. Horati Barbati, hominum concordiae causa saepe popularium, consularis lex sanxit , ne quis magistratus sine provocatione

crearetur…; Liv., 3,55,4-5 : Aliam deinde consularem legem de provocatione, unicum praesidium libertatis, decemvirali potestate eversam, non restituunt modo, sed etiam in posterum muniunt sancienso novam legem, ne quis ullum magistratum sine provocatione crearet ; quis creasset, eum ius fasque esset occidi, neve ea caedes capitalis noxiae haberetur.

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15 30016, per venire sesteso poi al territorium militiae da una

lex Porcia 17. Ulteriore riaffermazione avrebbe ricevuto

dalla lex Sempronia de capite civis , rogata da Caio Gracco nel 12318 per venire superato, infine, dal diffondersi del sistema delle quaestiones perpetue.Analizzando la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, sempre con riferimento alla provocatio, si evince come essa in realtà individuasse la richiesta dell’imputato di essere sottratto alla coercizione del magistrato ed essere invece sottoposto al giudizio popolare. Grazie alla provocatio ad

populum, quindi,il soggetto si sottraeva al potere dei

consoli o altri magistrati per venire invece giudicato dal popolo. Il procedimento constava di quattro adunanze, alle quali intervenivano tanto il magistrato tanto il popolo. Alle prime tre, destinate alla raccolta delle prove e alle arringhe delle parti, il popolo assisteva solo in modo non ufficiale ed era il magistrato a condurre totalmente l’inchiesta; se, invece, l’imputato al termine della terza adunanza veniva dichiarato colpevole dal magistrato, si procedeva allora ad una quarta ed ultima riunione, in cui il popolo partecipava solennemente con un regolare potere di voto. Suddetta procedura, però, non aveva luogo per

16

Intorno alla quale l’unica testimonianza è costituita da Liv., 10,9,3-6 : Eodem

anno M. Valerius consul de provocatione legem tulit diligentius sanctam. Tertio ea tum post reges exactos lata est, semper a familia eadem. Causam renovandae saepius haud aliam fuisse reor quam quod plus paucorum opes quam libertas plebis poterat. Porcia tamen lex sola pro tergo civium lata videtur, quod gravi poena, si quis verberasset necassetve civem Romanum, sanxit; Valeria lex cum eum qui provocasset virgis caedi securique necari vetuisset, nihil ultra quam “improbe factum” adiecit.

17 L’unica fonte che parla di tre leggi omonime è Cic., Rep., 2,54, dove, in collegamento diretto con il richiamo della lex Valeria Horatia de provocatione si legge : neque vero leges Porciae, quae tres sunt trium Porciorum, ut scitis,

quicquam praeter sanctionem attulerunt novi

18

Il Mommsen (Staatsrecht 3,353 sg = Droit public romain, 6,1,405; Strafrecht, 42 = Droit penal romain, 1, 46 sg.) la considerò infatti diretta ad un ulteriore rafforzamento della provocatio. Si tratta, però, di una valutazione a lungo condivisa ma da considerare oggi decisamente inattuale.

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16 ogni processo ; la provocatio poteva aversi unicamente con riferimento ai cittadini di pieno diritto : erano quindi esclusi gli stranieri, gli schiavi e le donne, nei confronti dei quali il magistrato era unico arbitro.Inoltre, la

provocatiopoteva essere opposta solo all’imperium domi e

non anche all’ imperium militiae ; questo però solo in via di principio, poiché in realtà anche nelle province veniva concessa la provocatio ai romani residenti, e , talvolta, perfino in guerra ai soldati delle legioni cittadine ( solo però con riferimento ai reati comuni e non anche ai reati militari di diserzione). Quanto detto fin qui è riportato delle leges Porciae , ovvero tre leggi appartenenti ad epoche diverse e dal contenuto incerto19. Tale giudizio era l’unico a cui il cittadino che aveva esercitato la provocatio veniva sottoposto , non era cioè un processo di secondo grado.Secondo Wolfgang Kunkel, la provocatio della prima età repubblicana non costituiva un rimedio giuridico, bensì un mezzo volto a difesa dei plebei nei confronti dei magistrati patrizi, grazie all’intervento del popolo, ritenendo infatti che questa si fosse delineata inizialmente nel corso del contrasto patrizio-plebeo come rimedio di natura politica contro gli abusi della coercitio posta in atto dai titolari dell’imperium : suppose peraltro che il processo comiziale avesse costituito un compenso alla perdita dei poteri di coercizione capitale subita, in conseguenza della

lex Valeria del 300, dai magistrati supremi in rapporto ai

reati di carattere politico. Rispetto ad essi soltanto, dunque, il processo comiziale avrebbe potuto esplicarsi20.

19

V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, Napoli, 1989, pag. 171. 20

Il Kunkel è, in verità, inutilmente tortuoso su questo punto. Una volta riferito, infatti, alla lex Valeria del 300 un divieto concernente sia la messa a morte che la fustigazione, osserva che “in ogni tempo il magistrato era nella condizione di promuovereuna procedura giudiziaria contro il cittadino passabile di pena se riteneva che i mezzi di coercizione rimastigli non bastassero”. Nega quindi che la

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17 Esclusa, quindi, qualsivoglia competenza comiziale in ordine ai reati comuni21, la lacuna in tal modo apertasi nel sistema repressivo repubblicano veniva colmata accogliendo l’idea che, in un sistema modellato sui principi della rappresaglia e della persecuzione privata, allo Stato spettava solo la funzione di sorvegliare attentamente che fossero osservate le regole e le limitazioni della vendetta da esso fissate.22Nelle XII Tavole il Kunkel ravvisò infatti tracce di un “giudizio capitale privato” riferibile ai reati comuni e diretto a subordinare, in via generale, la vendetta privata all’esito di un procedimento imperniato sulla legis actio sacramento e su un’attività di questio destinata a svolgersi dinanzi ad un collegio di iudices.23Il Kunkel rivalutò il ruolo di tali magistrati, assegnando loro l’esercizio di una giurisdizione “ampia e variegata”, in quanto non circoscritta alle infrazioni contro l’ordine pubblico e la moralità per le quali non era previsto alcun regolare processo penale” ma concorrente “con quella dei pretori e delle quaestiones da loro condotte, in modo simile a quello in cui, all’inizio delc principato, concorse con essa la giurisdizione del prefetto urbano”. Essa si sarebbe esplicata, infatti, al pari di quest’ultima mediante un “processo penale orientato in senso poliziesco” che aveva mutuato dalla prassi forme sommarie e che

provocatio ( configurata come “pura protesta contro il superamento dei limiti tracciati alla coercizione mediante le leggi sulla provocatio” medesima ) avesse l’effetto di obbligare il magistrato a dar corso ad un processo comiziale: in coerenza con l’assunto secondo cui esso avrebbe costituito la compensazione ai diminuiti poteri di coercitio , ammette tuttavia per lui questa possibilità, implicitamente alternativa rispetto al lasciare impunito il colpevole. Rilievi critici in G. Crifò, In tema di “provocatio ad populum” , in Libertà e uguaglianza in Roma antica. L’emersione storica di una vicenda istituzionale, Roma 1984, 134 e M. Humbert, Le tribunat de la plebe et le tribunal du peuple : remarques sur l’histoire

de la “provocatio ad populum”, in MEFRA, 100 (1988), 457 nt. 76.

21

Ibid., 36

22Ibid., 37 sgg., 43 23

(18)

18 risultava applicabile non solo nei casi di manifesta colpevolezza ma, anche, nei confronti di individui appartenenti, anche se di condizione libera, ai “più bassi strati della società”, cioè alla massa proletaria urbana : il pretore sarebbe stato, così, lasciato libero di dedicare le sue cure, oltre che alla giurisdizione civile, ai giudizi penali bisognosi di indagini più scrupolose del solito ed a quelli che vedevano coinvolte “persone di un certo riguardo”24; ma, in realtà, un rimedio simile era costituito già dall’

auxilium tribunicium, che viene presentato dalle fonti

come un mezzo distinto e concorrente alla provocatio. Per il Santalucia quest’ ultima costituiva invece una sorta di opposizione del cives alla coercizione del magistrato, con contestuale richiesta di un regolare processo dinnanzi al popolo25. Egli valorizza l’intervento di provocationes già in epoca regia affermato da Cicerone per ricostruire un’attività giudiziaria che, specie nell’età dei Tarquini, avrebbe fatto capo al rex e che si sarebbe compiuta sia nei confronti degli illeciti di carattere religioso, suscettibili di condurre alla proclamazione della sacertà, sia di quelli repressi mediante l’esplicarsi della coercitio connessa al comando militare.26Il progressivo far capo al popolo della funzione giudiziaria si sarebbe affermato attraverso l’uso di svolgere la cognizione dinanzi alle curie in funzione testimoniale, esteso poi alla repressione dei crimini di sangue affidati alla vendetta privata previo accertamento

24

Ibid., 75 sg., 92. Sul tema Manotovani, Sulla competenza penale del “praefectus urbi” attraverso il “liber singularis” di Ulpiano, in Idee vecchie e nuove sul diritto criminale romano, a cura di A. Burdese, Padova 1988, 171 sgg., 185 nonché,

intorno a Tac., Ann., 14, 40-41. L. Fanizza, Delatori e accusatori. L’iniziativa dei

processi di età imperiale, Roma 1988, 50 sg.

25

Il processo penale nelle XII Tavole, in AA.VV., Società e diritto nell’epoca decemvirale (Atti Copanellon3-7 giugno 1984) Napoli 1988, 250 sgg. ; Storia di roma, 1, 433 sgg.

26

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19 compiuto dai questori.27In rapporto ai reati repressi in via di coercitio , il potere disciplinare dei consoli avrebbe dato luogo ad atti di imperio rientranti non nell’ambito della giurisdizione ma in quello amministrativo : nella

provocatio sarebbe dunque da vedere ( retrodatando fino

al 509 la prospettiva elaborata dal Pugliese ) un rimedio diretto a permettere al civis di opporsi alla coercitio medesima, chiedendo dinanzi ai comizi un regolare processo di primo ed unico grado. In tali casi la contesa passava “dalle mani del console a quella del questore,…non…investito…del potere di giudicare, ma solo di quello di procedere al’l’istruttoria del caso e di elevare l’accusa dinanzi al popolo-giudice”28, riunito in un primo tempo nel comizio curiato e, a partire dalle XII Tavole, nel comizio centuriato29.Il medesimo documento decemvirale avrebbe parallelamente eliminato i processi rivoluzionari plebei non per via implicita ( così come ritenuto dal Mommsen) ma attraverso una specifica norma, della quale il Santalucia ravvisa un’eco nel divieto concernente l’ interfici…andemnatum quemcumque hominem [la messa a morte di qualsiasi persona senza previa condanna] cui accenna Salv., Gub. Dei, 8,5.30Con la caduta dei decemviri, che erano stati istituiti come magistrati senza provocatio , nel 449 a. C. i consoli L. Valerio e M. Orazio ristabilirono la legge di Publicola, potenziandola e stabilendo l’impossibilità di istituire magistrati sine

provocatione, pena la morte. Una terza legge confermò le

precedenti, dichiarando riprovevole tutto ciò che fosse

27

Ibid. 1,435 sgg; La repressione penale e le garanzie del cittadino, ibid., 2,1 Torino

1990, 535 sg. 28

Il processo penale nelle XII Tavole, 257; Storia di Roma,1,440.

29

Circostanza quest’ultima, che corrispondeva ad una risalente aspirazione plebea, come lo studioso deduce da Cic., Sest., 65 : Il processo penale nelle XII

Tavole, 261 = Storia di Roma, 1, 443 sg.

30

(20)

20 fatto in violazione della legge. Tuttavia, fino almeno all’epoca dei Gracchi, continuarono ad esistere delitti per i quali i magistrati erano pienamente liberi, svincolati cioè da qualsiasi limitazione proveniente dalla provocatio ; ricordiamo tra questi : il parricidio, la violazione del voto di castità di una Vestale; e la proditio31. La lex sacrata del 492

a. C comportò cambiamenti rilevanti anche da un punto di vista processualistico : stabilì infatti che chiunque avesse ostacolato i tribuni, magari interrompendoli o disturbandoli nel momento in cui parlavano alla plebe, avrebbe dovuto subire il giudizio dell’assemblea plebea e avrebbe dovuto dare vades, a garanzia della multa che gli sarebbe stata irrogata, il tutto a rischio di pena di morte con conseguente consacrazione del suo patrimonio alla divinità. Tale legge, benché poi non approvata dal Senato, è ricordata oggi per il suo carattere squisitamente rivoluzionario, essendo a tutti gli effetti la prima affermazione del potere di giudizio in campo penale dell’assemblea plebea. La competenza di questo tribunale rivoluzionario andò via via dilatandosi : dai casi espressamente indicati dalla lex sacrata del 492 finì per ricomprendere ogni tipologia di attentato alla funzione dei tribuni e di lesione degli interessi e della libertà della plebe; in modo che si arrivò così a configurare un reato generale di offesa alla plebe. Tale fattispecie, molto ampia ed elastica, finì per inglobare tutte le offese agli interessi della plebe, ogni violazione delle leges sacratae e dell’ordine pubblico. Da rilevare poi, ai fini della nostra analisi, è l’introduzione degli “iudicia plebis” , ovvero processi rivoluzionari dinanzi all’assemblea, nei confronti di tutti quegli uomini politici od ex magistrati accusati di mala gestio dei propri incarichi. In quest’ordine di idee si

31

(21)

21 spiegano, ad esempio, i processi a carico di T. Menenio e di Ap. Claudio, rispettivamente nel 476 e nel 470 a.C. . I processi rivoluzionari plebei, se da una parte costituirono un potente strumento di lotta politica, dall’altra determinarono una rinnovata concezione dell’intervento popolare nella giurisdizione penale e una più precisa configurazione dei processi politici; rappresentarono poiexempla di rilevante influenza sulla caratterizzazione dei iudicia populi dinanzi al comizio centuriato, che per i

iudicia capitis, ossia per i reati che comportavano la pena

di morte, con le XII tavole ebbe competenza esclusiva32. Il problema è se tale competenza comprendesse o meno la dichiarazione di homo sacer del colpevole per i reati contro la plebe perseguibili in base alle leges sacratae. La circostanza che anche la nomina dei primi decemviri, appartenenti alla classe patrizia, fu condizionata dalla plebe alla non abrogazione delle leges sacratae, non disgiunta dal fatto che queste ultime rimasero come un corpo distinto dalle XII tavole ma ugualmente valido, farebbe presumere che l’iniziativa e la competenza plebea per la difesa della costituzione disegnata dalle leges sacratae e dalla loro interpretazione sia rimasta, almeno in linea di principio, ferma. D’altra parte non è possibile ritenere con sicurezza che la norma tramandata da Salviano, secondo cui i decemviri avrebbero proibito di mettere a morte un uomo non regolarmente condannato, avrebbe comportato l’abolizione dei processi capitali dinanzi al tribunale rivoluzionario plebeo. Non vi sono dubbi, invece, per quanto riguarda il mantenimento, pur dopo le XII tavole, della competenza del concilio della plebe nei processi per multa, che dovevano essere la maggiorparte, in quanto qualsiasi processo dinanzi alla

32

(22)

22 plebe era diretto all’applicazione di una pena pecuniaria o, comunque, si incardinava, come quelli previsti dalla lex

sacrata del 492, intorno al pagamento di una multa, pur se

poteva sfociare nella sacratio capitis. Dato il carattere delle XII tavole, non tutta la situazione sin qui descritta risultava dalle stesse regolata, pur se al processo e al diritto penale era dedicato, comparativamente, più spazio che alle altre materie. Così era stabilita la competenza esclusiva del comitiatus maximus (ossia del comizio centuriato) per i processi capitali, ma è difficile dire se con ciò si proibiva ai tribunali rivoluzionari plebei di dichiarare

sacer in base alle leges sacratae, come sembrerebbe

possibile e probabile. Infatti non si faceva menzione né dei poteri dei tribuni di irrogare multe, né dei iudicia plebis che si erano andati affermando negli anni precedenti. Si potrebbe dire che la materia regolata dalle leges sacratae e dalla loro interpretazione non veniva toccata, quasi in quanto punto molto delicato e scottante. Nemmeno si parlava del potere di coercitio o di iudicatio riservato ai magistrati che, corretto e limitato dalla provocatio e dalla competenza del comizio centuriato, rimaneva così come si era affermato nella prassi costituzionale. Si faceva invece certamente menzione dei quaestores parricidii, che avrebbero istruito e promosso i giudizi capitali da portare al comizio centuriato, ma non si trovava accenno ai duoviri

perduellionis, che quali delegati dei consoli, nel caso di perduellio flagrante avrebbero messo a morte il reo senza

giudizio. Per quanto riguarda i crimina, a quelli di omicidio, di perduellio, di proditio, le XII tavole ne aggiunsero altri, da perseguire sempre con il giudizio pubblico e nell’interesse della comunità33. Con riguardo a

33 Un esempio è il crimine di malum carmen incantare, ossia provocare la morte mediante la pronuncia di formule magiche. Inoltre vennero penalizzate diverse

(23)

23 coloro che prestavano falsa testimonianza, o agli schiavi che si rendevano colpevoli di furto manifesto, la nuova legge prevedeva poi che i rei venissero precipitati dalla rupe Tarpea34. Ampliamente regolati sono poi vari delicta considerati come offese ai singoli e non alla comunità e puniti con pene patrimoniali di varia entità, nell’interesse dei privati offesi e nelle forme del processo privato35.

azioni lesive dell’attività e dell’economia agricola (incendio di casa o di covoni, pascolo notturno sul fondo coltivato esottrazione dei frutti altrui, maledizione dei raccolti); la corruzione del giudice o dell’arbitro. Per tutti era prevista la pena capitale

34

Gell. 20.1.53. 35

G. Pugliese Caratelli (a cura di), Optima hereditas, Sapienza giuridica romana e conoscenza dell’ecumene, volume quindicesimo, “Antica madre”, Milano, 1992, F.Serrao, Il diritto dalle genti al Principato, pagg. 3-86.

(24)

24

1.3 …alla Res Publica

I iudicia populi e i iudicia plebis, nelle forme e nei limiti stabiliti dalle XII tavole, continuarono a esistere e a funzionare, anzi la competenza a condurre l’accusa e a istruire il processo ad un dato momento, e forse, secondo alcuni, già nella seconda metà del V secolo, si estese dai questori ai tribuni della plebe; questi ultimi, dopo la limitazione della competenza a giudicare de capite civis al solo comizio centuriato stabilita dalle XII tavole, avrebbero trovato in ciò un corrispettivo della perduta competenza del concilio della plebe a pronunciare condanne capitali.Ma è dubbio fino a che punto la riserva decemvirale in favore del comizio centuriato abbia potuto comportare l’abrogazione della competenza plebea a dichiarare la sacertà in base alle leges sacratae.Con riguardo all’applicazione delle pene, non restavano ormai che scarse vestigia dell’antico carattere religioso della pena. Le sanzioni più comuni erano la morte o il pagamento di una somma di denaro, dato che la carcerazione non aveva carattere di pena, ma solo di custodia preventiva del reus.I modi di applicazione della pena capitale erano i più vari: la decapitazione con la scure, la fustigazione fino alla morte, la vivicombustione, la praecipitatio e saxo, il culleus.L’esecuzione era rimessa in un primo tempo ai lictores, più tardi ad uno schiavo pubblico, il carnifex, sotto la sorveglianza dei tresviri

capitales o nocturni, magistrati minori ai quali era affidata

la custodia delle prigioni, l’incarcerazione degli accusati in pendenza di processo, la cura delle esecuzioni e il servizio di polizia in genere, specialmente notturno.La pena di morte veniva comunque applicata raramente, essendo diffusa la pressi di consentire all’imputato, fino a che non

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25 fosse stato pronunciato l’ultimo voto decisivo per la condanna, di abbandonare il territorio cittadino e di recarsi in volontario esilio presso un’altra città, stretta a Roma da un accordo che riconoscesse tale diritto. All’espatrio del reo seguiva un formale provvedimento di “interdizione dell’acqua e del fuoco” (aqua et igni

interdictio), che comportava la perdita della cittadinanza,

la confisca dei beni e il divieto di rientrare, sotto pena di morte, nel territorio urbano36.Sin dagli inizi del II secolo il Senato, quasi come reazione all’onnipotenza popolare nella giurisdizione sui crimini capitali, cominciò ad istituire corti straordinarie con il compito di conoscere e giudicare su determinati fatti, considerati crimina politicamente rilevanti. Si trattava di quaestiones non permanenti ex

senatusconsulto e generalmente note come quaestiones extraordinarie37, con le quali talvolta si elevavano imputazioni generiche o si perseguivano fatti fino a quel momento non previsti come reati o si procedeva senza l’esercizio del diritto alla difesa per assenza dell’imputato. Intanto, con riferimento agli illeciti profitti dei governatori delle province, bruttura della quale la nobilitas si macchiava frequentemente38, nacque un nuovo tipo di processo, istituito con leggi popolari che prevedevano minuziosamente le norme incriminatici, con sanzione precostituita, e caratterizzato da un organo giudicante permanente, la quaestio perpetua, che durerà dal 149 a.C. a tutto il primo secolo del Principato.Nel 171 a.C. il Senato affidò al pretore cui era stata assegnata la Spagna il compito di costituire tribunali di cinque membri presi

36

B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, cit. , pag. 197 37

Forse la più antica questio del genere venne istituita da un senatoconsulto del 186 a.C., pervenutoci su una tavola di bronzo, per la repressione dei Baccanali. Altre ne seguirono, fino a che una legge de capite civis di Caio Gracco stabilì che i processi capitali potessero essere istituiti solo per legge

38

(26)

26 dall’ordine senatorio, dinanzi ai quali gli spagnoli, sotto la necessaria rappresentanza di patroni romani, anch’essi senatori, potevano accusare gli ex governatori per le spoliazioni di cui erano stati vittime onde ottenere la restituzione del maltolto39. Si trattava di un nuovo tipo di processo sotto diversi aspetti; infatti pur essendo diretto alla receptio pecuniae da parte dei provinciali danneggiati, non era privato, come da varie parti si diceva, ma aveva carattere pubblico. La composizione del tribunale e l’ordinamento del processo era combinata in modo tale da frenare, da una parte, le accuse dei provinciali, e da evitare, dall’altra, l’intervento dell’assemblea popolare; i processi si chiudevano così con un nulla di fatto. In definitiva questo processo, seppur con diversi caratteri e fini, si avvicinava alle quaestiones ex senatusconsulto. A tal proposito non si può dimenticare il senatusconsultus

Calvisianum, a noi noto attraverso il quinto Editto di

Cirene.Esso, infatti, per favorire i provinciali che accusavano un magistrato di concussione, istituì un procedimento celere dinanzi al Senato, il quale, ascoltati gli accusatori e nominato un patrono, doveva immediatamente estrarre a sorte tra i propri membri un collegio di cinque giudici, perché entro un termine di trenta giorni giudicasse se o quale somma fosse stata veramente estorta ai sudditi della provincia e, in caso affermativo, condannasse il magistrato riconosciuto colpevole a restituire tale somma. Questo procedimento aveva dunque caratteri e regole particolari e non può considerarsi un modello per i processi senatori che si affermeranno sotto il Principato di Augusto. Esso tuttavia non può essere considerato irrilevante ai fini del riconoscimento al Senato di un’importante funzione nella

39

(27)

27 repressione penale40. Nel 149, per lo stesso reato, una lex

Calpurnia, considerata da molti l’atto di nascita del diritto

penale romano, istituì una corte permanente con il compito di giudicare de pecuniis repetundis41. Si fece un passo avanti, ma le cautele della classe di governo permanevano: i componenti della corte dovevano appartenere all’ordine senatorio; i provinciali dovevano agire sotto la protezione e la rappresentanza dei patroni romani; il processo continuava poi ad essere sottratto al

iudicium populi. Le cose non cambiano con la successiva lex Iunia. L’istituzione per legge di tribunali stabili sul

modello della quaestio de repetundis, presieduti da pretori o, in via eccezionale, da ex edili, e competenti ciascuno per determinate fattispecie criminose, produsse importanti conseguenze di ordine sostanziale e processuale. Sul piano sostanziale determinò un notevole ampliamento del numero degli illeciti pubblici, grazie alla configurazione di una vasta gamma di figure criminose caratterizzate dal fatto che la condotta imputabile e l’evento lesivo erano definiti dalla legge istitutiva della rispettiva quaestio. Sul piano processuale, il progressivo aumento del numero delle quaestiones perpetuae, istituite da apposite leges publicae populi Romani, condusse fra l’età di Silla e la fine della libera Res Publica, alla configurazione di un nuovo tipo di processo criminale che surrogò il precedente tipo comiziale. La rottura con il passato e le novità eclatanti si verificarono ad opera della

lex Sempronia di Caio Gracco del 123 a.C. , che istituì una

corte giudicante di cinquanta membri appartenenti

40

G. Pugliese, Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il

principato, in “aufstieg und niedergang der romischen welt”, II. 14, Berlin- New

York, 1982, pagg. 723 ss.

41 La quaestio de repetundis fu successivamente perfezionata e modificata, sotto il profilo della sanzione ( da risarcitoria a penale), dalla lex Acilia del 123 a.C.

(28)

28 all’ordine equestre e presieduta da uno speciale pretore

de repetundis. La pena era del doppio del valore degli

illeciti profitti conseguiti da magistrati o senatori (o dai loro figli) a danno dei soci o dei provinciali. Per questi ultimi era prevista la possibilità, ma non necessariamente l’obbligo, di assistenza da parte dei patroni romani42. Tutte le corti speciali, competenti in materia di repetundae,

maiestatis, ambitus, peculatus vis, omicidio, falso, iniuriae,

adottarono come schema di riferimento il processo de

repetundis.Si attuò quindi il passaggio dal sistema degli iudica populi, la cui pena poteva essere pecuniaria o

capitale, a quello degli iudicia publica legitima, basati su nove tribunali, cinque dei quali competenti per reati politici ( maiestatis, ambitus, vis, repetundae, peculatus) e quattro per reati comuni (omicidio, parricidio, falso, ingiurie gravi). Per ciascuno di suddetti tribunali vi era una legge volta a disciplinare le relative procedure, relative alla costituzione della presidenza e della giuria; ai formalismi dell’introduzione e dello svolgimento del rito ; ed infine alla sentenza. Sono tuttavia rinvenibili principi e criteri comuni di fondo che permettono di poter sostenere il carattere accusatorio dello schema processuale. La natura accusatoria è infatti rinvenibile sia nell’iniziativa in capo ad un “quivis de populo” , sia nella posizione di terzietà dell’organo giudicante, ovvero la giuria popolare, a

42

Questo tratto distintivo del rito accusatorio rispetto a quello inquisitorio – al quale sono da aggiungere: la pubblicità di atti e fasi, in contrapposizione alla segretezza; la libera ed esclusiva attività dell’accusato e dell’accusatore

nell’assunzione delle prove, in contrapposizione alla libertà d’indagine del giudice; la libertà e l’immediatezza del contraddittorio fra accusato e accusatore

nell’assunzione della prova testimoniale, in contrapposizione al diverso regime del rito inquisitorio – è stato esplicitamente sottolineato da Cicerone in un passo delle Verrine, in cui afferma che la giustizia criminale, per essere tale, richiede il concorso di tre indispensabili presupposti: l’accusa pubblica, la piena e

incondizionata libertà di difesa dell’accusato, la rimessione del verdetto ad una giuria popolare (Verr. II,5,9,23).

(29)

29 differenza di quanto si verificava nel sistema processuale inquisitorio, nel cui ambito accusatore e giudice coincidevano più o meno esattamente. L’iniziativa processuale era affidata a qualunque cittadino privato, quale rappresentante dell’interesse pubblico, salvo particolari eccezioni, come per la quaestio de iniuriis, nella quale solo la parte lesa poteva dare inizio al processo. Può darsi che proprio da questa pubblicità dell’accusa derivi il nome di iudicia publica solitamente dato a questi processi43. Il rito si articolava in tre fasi: formalità introduttive, dibattimento, giudizio. La fase introduttiva si apriva con la postulatio, con la quale il denunciante chiedeva al presidente della giuria il riconoscimento della sua legittimazione all’accusa, e si chiudeva con l’iscrizione dell’accusato nel ruolo dei sottoposti a giudizio (inscriptio

inter reos).La necessità dell’accusa si manifestava non solo

all’inizio del processo, ma anche nel suo svolgimento, talché, se l’accusatore, dopo aver proposto l’accusa, non compiva gli atti man mano necessari, ossia desisteva dalla sua iniziativa, il processo si arrestava e non poteva giungere al suo epilogo.Il presidente (quaesitor), accertata la legittimazione del denunciante, esclusa per le donne, salvo casi particolari, e per il liberto contro il patrono, ad eccezione del crimen maiestatis, autorizzava la postulatio, che si trasformava così in formale accusa (nominis

delatio). Quindi, subordinatamente alla prestazione del ius iurandum de calumnia, cioè il giuramento di non proporre

la nominis delatio nella consapevolezza dell’innocenza dell’accusato, da parte dell’accusatore, procedeva all’accettazione dell’accusa (nominis receptio), alla sua iscrizione a ruolo ed alla fissazione del giorno dell’udienza

43 G. Pugliese, Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il

(30)

30 dibattimentale. Bisogna, in proposito, precisare che il rito delle quaestiones poteva instaurarsi soltanto tra un accusatore e un accusato, non essendo ammesso il concorso di persone nel reato, e per la sola fattispecie criminosa prevista dalla legge istitutiva, essendo escluso anche il concorso di reati. Era, pertanto, necessario istituire, in presenza di più postulanti, un procedimento incidentale (divinatio) volto alla scelta del più affidabile sulla base della maggiore dignità e idoneità processuale. I postulanti esclusi avrebbero potuto pur sempre aderire, in qualità di subscriptores, alla delatio nominis proposta dall’accusatore. Questi processi erano quindi caratterizzati da una certa apertura democratica, poiché, se escludevano le donne, gli stranieri e gli schiavi, ponevano però tutti i cittadini maschi su un piede di uguaglianza, almeno teorica, e ben rappresentavano ciò che si intendeva per democrazia nell’antichità. Questo indirizzo democratico tuttavia era corretto, e in qualche modo contraddetto, dalla composizione della singola quaestio: il presidente, in quanto magistrato o ex magistrato, era attualmente o almeno potenzialmente senatore, e nella stragrande maggioranza dei casi proveniva da una famiglia appartenente alla classe senatoria, ossia agli optimates, anche se, per sua scelta politica soggettiva, militava tra i

populares; la giuria, a sua volta, comprendeva soltanto

persone che, per nobiltà di nascita o di carica (senatori) o per ricchezza (cavalieri e, in un certo periodo, tribuni

aerarii), si trovavano negli strati alti della società.

All’indirizzo democratico, che presiedeva alla scelta dell’accusatore, si contrapponeva, dunque, l’indirizzo aristocratico al quale si ispirava la composizione del tribunale. E la contrapposizione o combinazione di tali due indirizzi rispecchiava bene i caratteri della Repubblica negli

(31)

31 ultimi cento anni della sua storia44. L’accusatore, in seguito alla nominis receptio, assumeva il ruolo di parte processuale, e s’impegnava a fornire le prove della colpevolezza dell’accusato. A tal fine poteva giovarsi dell’apporto dei subscriptores, nonché di eventuali “indices” (pentiti o dissociati)45, sempre che la legge istitutiva della quaestio ne prevedesse e disciplinasse l’impiego. Sopraggiunto il giorno dell’udienza, si procedeva prima alla costituzione della giuria, e poi al dibattimento. Ai fini della costituzione della giuria, i pretori urbani compilavano, anno per anno, una lista di giudici (album indicum). I criteri di compilazione dell’albo, contenente almeno quattrocentocinquanta nomi, e le modalità di estrazione dei nomi dei giudici furono oggetto di aspri contrasti politici. Per quanto attiene alla composizione, i contrasti s’incentrarono essenzialmente sulla ripartizione del munus iudiciarium (ufficio di giudice) fra le diverse forze politico-sociali, cioè tra senatori e cavalieri, con la temporanea integrazione dei tribuni erari. Per quanto attiene alle modalità di estrazione, Silla sostituì al precedente metodo, introdotto dalla lex Acilia

repetundarum, che premiava il potere di scelta

dell’accusatore, il metodo del sorteggio (sortitio), che prevedeva l’estrazione di un numero di nomi pari al doppio dei membri della quaestio, il cui numero oscillava tra trenta e cinquanta; successivamente, l’elenco dei nomi sorteggiati veniva ridotto della metà con le alternative

reiectiones (ricusazioni) dell’accusatore e dell’accusato. Il

dibattimento (altercatio), diretto e moderato dal

44

Ibid.

45

Era considerato “index” colui che, avendo partecipato all’ideazione e (o) alla realizzazione di reati associativi, come l’alto tradimento, la congiura contro lo stato e i suoi organi o l’avvelenamento collettivo, contribuisse a svelarne le trame eversive dietro promessa d’impunità: “index est autem qui facinoris cuius ipse est

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32 presidente della giuria, verteva su prove, soprattutto testimoniali e documentali, addotte dall’accusatore e dall’accusato, rispettivamente a carico e a discarico. La rilevanza e l’efficacia dei mezzi probatori, tenuto conto dell’idea retorica della prova come prova globale, dipendevano, in concreto, dalla capacità di ciascuna parte di interpretarli e utilizzarli in funzione della dimostrazione delle proprie asserzioni (confirmatio) e della confutazione delle asserzioni dell’avversario (refutatio). Circostanza questa, che induceva le parti ad avvalersi dell’assistenza tecnica di esperti advocati. A tal fine è utile precisare che la materia probatoria costituiva oggetto specifico della retorica, cioè dell’arte o tecnica della persuasione, e ,più precisamente, del suo genus iudiciale, ovvero della retorica giudiziaria.Erano, infatti, prove in senso retorico tutti gli elementi (argumentationes), di fatto o di puro ragionamento, di cui poteva servirsi l’oratore per dimostrare la veridicità del proprio assunto46. Il dibattimento si chiudeva con le arringhe conclusive delle parti o dei loro avvocati. Subito dopo il presidente chiedeva ai membri della giuria se ritenevano esaustiva

l’altercatio. Qualora più di un terzo dei giudici affermava

“sibi non liquere”, cioè di non avere maturato un proprio convincimento, il dibattimento veniva rinnovato (ampliatio). In caso contrario si procedeva alla votazione, caratterizzata da segretezza, con la quale ciascun giudice esprimeva il proprio convincimento circa la colpevolezza o l’innocenza dell’accusato, scrivendo su una tavoletta C (=condemno) o A (=absolvo). Il presidente non partecipava alla votazione, ma si limitava a proclamarne il risultato di assoluzione o di condanna. In caso di condanna si applicava, in base al principio “damnatio est iudicum,

46

(33)

33

poena legis”47, la pena prevista dalla legge istitutiva della quaestio. Per alcuni crimini di natura patrimoniale, come le repetundae e il peculatus, alla condanna seguiva un procedimento estimatorio (litis aestimatio), diretto a determinare l’ammontare delle restituzioni o, comunque, del danno e quindi della pena.La damnatio iudicum non era suscettibile di provocatio ad populum, giacché la legge istitutiva implicava il deferimento alla giuria del potere comiziale di “iudicare vel multam irrogare”. L’assoluzione dell’accusato non comportava alcuna sanzione a carico dell’accusatore in buona fede; solo nel caso in cui quest’ultimo avesse proposto un’accusa dolosa (calumniae causa) sarebbe stato chiamato a risponderne dinanzi alla quaestio dello stesso crimen per il quale aveva promosso l’accusa.La legislazione del basso Impero apporterà in materia una sensibile modifica, al preciso scopo di scoraggiare la nominis delatio.L’accusatore risponderà di crimen calumniae non solo in caso di accusa dolosa, ma anche in caso di accusa infondata o non sufficientemente provata. Con riferimento alle figure criminose, che furono introdotte da leges publicae populi

Romani nel corso della lunga crisi, occorre distinguere fra

crimini afferenti alla competenza di una singola quaestio, che erano la maggiorparte, e crimini perseguibili dinanzi a

quaestiones diverse, come il crimen calumniae, o

addirittura fuori dal sistema delle quaestiones, come il

plagium. Il primo gruppo comprendeva, come già

accennato, crimini politici e crimini comuni. Inoltre, con la lex Tullia de ambitu del 63 a.C., l’esilio divenne una pena capitale a tutti gli effetti. Il sistema così descritto non era però l’unico vigente nel mondo romano nel periodo della Repubblica. Esso riguardava, sotto l’aspetto personale,

47

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34 solo i cittadini romani e, sotto l’aspetto territoriale, solo Roma, l’Italia, e le coloniae civium Romanorum dedotte in territorio provinciale. Se il crimine risultava commesso da un non cittadino, oppure anche da un cittadino, ma nel territorio provinciale non compreso in una delle suddette

coloniae, quel sistema non si applicava.Il potere di

accertare se la persona indicata come autrice del delitto l’aveva realmente commesso e di irrogare, occorrendo, la pena a suo carico spettava allora, a Roma e in Italia, a vari magistrati, mentre nelle province al governatore di ciascuna provincia. Perché il magistrato si occupasse del delitto non era necessaria nessuna accusa, anche se spesso un accusatore esisteva, e il magistrato rimaneva, comunque, libero di svolgere le opportune indagini e di raccogliere gli elementi di prova a carico o a favore dell’accusato. Deve tuttavia ritenersi che il magistrato non potesse irrogare la pena senza pronunciare una regolare condanna, e che non potesse pronunziare una condanna se non in seguito ad un regolare e pubblico processo, in cui l’accusato potesse difendersi. Il magistrato era inoltre assistito da un consilium, di cui doveva ascoltare il parere prima di poter emettere la sentenza. Molto interessante, a proposito dello svolgimento di tali processi, è l’opinione del Kunkel48, il quale ha dimostrato che una pena non poteva essere inflitta all’accusato se non attraverso un regolare processo, che esigeva la presenza, accanto al magistrato, di un consilium da lui nominato. La funzione di tali consilia non era però tale da poter essere equiparata alle giurie delle quaestiones perpetuae, benché anch’esse di regola chiamate consilia. Il magistrato infatti soleva pronunciarsi secondo il parere del suo consilium, ma, contrariamente all’opinione del Kunkel, non risulta che, in

48

(35)

35 linea di diritto, fosse vincolato a seguirlo.Il consilium era inoltre composto dalle persone che il magistrato riteneva discrezionalmente di chiamare a sedere in esso, essendo guidato da criteri di opportunità politica e non da regole giuridiche, come quelle che sono note per la composizione delle giurie e che, fra l’altro, tendevano a salvaguardare l’imparzialità dell’organo giudicante49. Occorre poi tenere presente che in momenti di particolare tensione politica le garanzie legali, che erano state a poco a poco costruite a tutela dei cittadini romani e degli stessi stranieri, furono per lo più messe da parte. A varie riprese infatti il Senato, per opporsi alle minacce e ai pericoli provenienti dagli avversari politici (da Caio Gracco a Catilina), credette di poter legittimare l’uccisione senza regolare processo di veri o presunti rivoltosi mediante il senatusconsultum

ultimum, con il quale ingiungeva ai consoli di operare in

tutti i modi ritenuti necessari, compresa l’uccisione di cittadini non condannati, per la salvezza dello Stato.Ancora più gravi furono le disposizioni di leggi straordinarie, fatte votare sotto la minaccia della forza, con le quali venne conferito a capi politici (prima a Silla, poi ai triunviri del secondo triunvirato) il potere di procedere alle proscriptiones, ossia alla compilazione di lunghe liste di nemici politici a cui chiunque poteva togliere la vita, ricevendo per questo un premio, e i cui

49

Mentre deve ammettersi l’esistenza di una connessione storica tra questo

consilium e la giuria delle quaestiones perpetuae, connessione rispecchiata

dall’identità del termine con cui entrambi gli organi normalmente venivano indicati, non si possono tuttavia chiudere gli occhi sui peculiari caratteri della giuria, quali sono attestati già dalla lex repetundarum e confermati dai dati successivi. Essi fecero in modo che l’istituzione della giuria costituisse una svolta decisiva rispetto al precedente consilium, sia quanto a limitazione della

discrezionalità magistratuale, sia quanto a riconoscimento alle parti di garanzie e di diritti

G.Pugliese, Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il

(36)

36 beni erano soggetti a confisca. Considerato in tutti i suoi aspetti, il sistema penale romano alla fine della Repubblica era dunque meno legalitario e più ricco di chiaroscuri di quanto esso non appaia guardando solo alle leggi istitutive delle quaestiones perpetuae e alla loro applicazione attraverso iudicia publica a Roma e in Italia. Ciò non impedisce tuttavia di vedere in queste leggi e nella relativa applicazione il nucleo di quel sistema penale50. In seguito il processo delle questiones venne regolato da una lex

iudiciorum publicorum augustea del 17 a.C., che stabilì la

forma e la procedura in cui si svolgevano i iudicia publica; ma ormai con Augusto gli si andava ponendo accanto una giurisdizione del Principe e un’altra del Senato51.

50

Ibid.

51Anche in questo caso il primo cambiamento avviene in occasione di un crimen

repetundam, per il quale il senatusconsulto Calvisiano del 4 a.C., riportato in calce

al quinto editto di Augusto ai Cirenei, stabilisce una procedura più snella davanti al Senato, attribuendogli la competenza a giudicare, per mezzo di una

commissione di cinque membri tratti dal suo ordine, su alcune ipotesi di concussione precedentemente rimesse alla quaestio de repetundis

G. Pugliese Carratelli (a cura di ), Optima hereditas, Sapienza giuridica romana e conoscenza dell’ecumene, cit., pagg. 3-86.

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1.4 Età augustea

L’introduzione del nuovo regime imperiale non apportò, almeno agli inizi, nessuna modifica riguardo al sistema delle quaestiones perpetuae. Le corti continuarono a funzionare e lo stesso Augusto, fedele al suo programma di mantenere sia pur formalmente in vita le istituzioni repubblicane, mostrò di volerle adottare come organo della giurisdizione ordinaria, riorganizzandole e incrementandone il numero con una serie di leggi.Alcuni tribunali, come quelli per l’ambitus,per la vis, per la

maiestatis e forse anche per il peculato, ebbero nuova

regolamentazione, e furono ridefiniti i caratteri delle infrazioni da essi punibili; altre corti furono create ex novo. La lex Iulia de adulteriis coercendis del 18 a.C., la più rigorosa tra le leggi augustee per la moralizzazione dei costumi, configurò come reato e rese perseguibili davanti ad una apposita quaestio i rapporti sessuali con donne maritate o anche non maritate di onorata condizione sociale, solo tollerando le unioni extraconiugali con donne che non fossero ingenuae et honestae, quali libertine, attrici o prostitute52. Un altro provvedimento della stessa data, la lex Iulia de annona, introdusse una persecuzione pubblica nella materia, politicamente assai rilevante, dei servizi annonari, istituendo una speciale corte permanente contro chi avesse provocato artificiosi rincari nel prezzo del grano o recato impedimenti a navi o marinai addetti al suo trasporto. Accanto a queste leggi Augusto fece votare

52

Sulla base di questa legge venne condannata all’esilio anche l’unica figlia di Augusto, Giulia, e venne condannato a morte il suo amante, Iulo Antonio, figlio di Marco Antonio e della sua prima moglie Fulvia. Questa condanna era però stata influenzata anche da ragioni politiche, in quanto si sospettava che Antonio avesse ordito una congiura contro Augusto. A. Massie, AUGUSTO autobiografia, Roma, 1988, pag. 152.

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