CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua
1.4 Età Augustea
L’introduzione del nuovo regime imperiale non apportò, almeno agli inizi, nessuna modifica riguardo al sistema delle quaestiones perpetuae. Le corti continuarono a funzionare e lo stesso Augusto, fedele al suo programma di mantenere sia pur formalmente in vita le istituzioni repubblicane, mostrò di volerle adottare come organo della giurisdizione ordinaria, riorganizzandole e incrementandone il numero con una serie di leggi.Alcuni tribunali, come quelli per l’ambitus,per la vis, per la
maiestatis e forse anche per il peculato, ebbero nuova
regolamentazione, e furono ridefiniti i caratteri delle infrazioni da essi punibili; altre corti furono create ex novo. La lex Iulia de adulteriis coercendis del 18 a.C., la più rigorosa tra le leggi augustee per la moralizzazione dei costumi, configurò come reato e rese perseguibili davanti ad una apposita quaestio i rapporti sessuali con donne maritate o anche non maritate di onorata condizione sociale, solo tollerando le unioni extraconiugali con donne che non fossero ingenuae et honestae, quali libertine, attrici o prostitute52. Un altro provvedimento della stessa data, la lex Iulia de annona, introdusse una persecuzione pubblica nella materia, politicamente assai rilevante, dei servizi annonari, istituendo una speciale corte permanente contro chi avesse provocato artificiosi rincari nel prezzo del grano o recato impedimenti a navi o marinai addetti al suo trasporto. Accanto a queste leggi Augusto fece votare
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Sulla base di questa legge venne condannata all’esilio anche l’unica figlia di Augusto, Giulia, e venne condannato a morte il suo amante, Iulo Antonio, figlio di Marco Antonio e della sua prima moglie Fulvia. Questa condanna era però stata influenzata anche da ragioni politiche, in quanto si sospettava che Antonio avesse ordito una congiura contro Augusto. A. Massie, AUGUSTO autobiografia, Roma, 1988, pag. 152.
38 la lex iudiciorum publicorum53, costituendo così un vero e proprio codice di diritto criminale che diede definitiva sistemazione a materie discusse quali la forma delle accuse, le excusationes dal munus iudicandi, il numero dei patroni, le dispense dell’obbligo di testimoniare, i rapporti tra i giudici e le parti in causa. Furono anche introdotte talune innovazioni di rilievo; l’album iudicum, come abbiamo già avuto modo di riferire, si componeva, secondo la lex Aurelia del 70 a.C., di tre decurie di senatori, di cavalieri e di tribuni aerarii, e le singole giurie erano formate sorteggiando un ugual numero di persone da ciascuno dei tre raggruppamenti. La decuria dei tribuni
aerarii era stata in seguito soppressa da Cesare, che
riconobbe il diritto di far parte delle giurie solo a senatori e cavalieri. La riforma augustea pose fine a queste oscillazioni affidando il munus iudicandi a tre decurie di cavalieri, e vi aggiunse per le cause di minor importanza, una quarta decuria di ducenarii, cioè di cittadini forniti di un censo di duecentomila sesterzi, la metà del censo richiesto per gli equites54. Ciò ha indotto alcuni studiosi a ritenere che fin dall’età del Principato i senatori siano stati esonerati dalle funzioni di giudici nelle corti giurate; ma la testimonianza delle fonti non autorizza questa affermazione. Infatti Frontino, nel suo trattato sugli acquedotti, ci informa che i curatores aquarum, che appartenevano all’ordine senatorio, potevano far valere il loro ufficio come causa di dispensa dal munus iudicandi, e
53La nostra conoscenza del provvedimento è purtroppo limitata ai frammentari riferimenti che ce ne sono pervenuti attraverso le citazioni di storici e giuristi di età successiva.
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Si presuppone che questa quarta decuria operasse solo nell’ambito delle cause civili. Le informazioni circa tale aspetto della riforma augustea ci sono state tramandate da Svetonio: “ad tris iudicum decurias quartam addidit ex inferiore
censu, quae ducenariorum vocaretur iudicaretque de levioribus summis” (Augusto
39 Plinio il giovane, accennando in una lettera a un pretore che aveva multato un senatore inadempiente, lascia chiaramente intendere che i membri dell’ordo prestavano la loro opera, ancora agli inizi del II secolo, come giudici nei iudicia publica.E’ dunque plausibile pensare che anche dopo la riforma augustea i senatori abbiano mantenuto il diritto di giuria, ma siano stati inclusi nelle tre decuriae
equitum, entro le quali la loro rappresentanza doveva
tuttavia essere poco più che simbolica, dato che ogni decuria si componeva di quasi mille membri nominati a vita dall’Imperatore. Altre norme della lex Iulia furono dirette ad assicurare un miglior funzionamento delle corti. L’età minima richiesta per far parte dei collegi fu abbassata dai trenta ai venticinque anni; e poiché molti rifiutavano l’incarico di giudice si rese necessario permettere che ogni decuria godesse, a turno, di un anno di vacanza e che la trattazione delle cause restasse sospesa nei mesi di novembre e di dicembre. Per evitare poi che le lungaggini processuali ostacolassero un’efficace persecuzione dei crimini, furono aggiunti al calendario giudiziario più di trenta giorni, che in precedenza erano destinati allo svolgimento dei giochi onorari. Sulla base di un’ambigua testimonianza di Dione Cassio, qualcuno ha ritenuto che ad Augusto fosse stato consentito di intervenire con voto decisivo in tutte le corti; ma tale prerogativa, che avrebbe costituito una diretta ingerenza del Principe nella giurisdizione criminale ordinaria e quindi causato l’asservimento delle quaestiones alla volontà imperiale, non sembra compatibile con la prudente politica augustea, né trova adeguata conferma nel testo di Dione Cassio. Appare preferibile quindi l’interpretazione tradizionale, accolta dalla quasi unanimità degli studiosi, secondo cui Augusto aveva solo il diritto, in caso di
40 condanna per un solo voto di maggioranza, di aggiungere il proprio voto a quelli della minoranza per determinare la parità dei suffragi e consentire in tal modo l’assoluzione del reo. Il voto di Augusto venne per tale motivo definito
calculus Minervae, o voto di Minerva, con riferimento al
mitico intervento della dea in favore di Oreste nell’areopago di Atene. Con l’ordo iudiciorumpublicorum, restaurato e rilanciato dal Princeps, sembrò coronarsi un lungo e faticoso percorso sulla strada del principio di legalità55 :crimini, pene e persecuzione discendevano dalla legge. La certezza delle leggi votate dal popolo, con le loro norme incriminatici minuziosamente casistiche e le sanzioni precostituite, e la procedura caratterizzata dal principio accusatorio e da un giudice sottoposto alla legge per quanto concerne l’individuazione del fatto punibile e della pena, costituirono il punto di forza di questo nuovo processo, ma misero contemporaneamente in luce anche il suo punto debole, determinato dal fatto che molti crimini, non ricadendo sotto le previsioni normative, non erano punibili. Illeciti come il furto, le ingiurie o il danneggiamento di beni, davano luogo ad una persecuzione puramente privata, e solo in casi particolari, come accadeva ad esempio per l’ingiuria che si traduceva in lesioni gravi alla persona, erano sottoposti al giudizio di una quaestio. Inoltre la considerazione delle circostanze attenuanti e aggravanti era esclusa, poiché la pena era preordinata stabilmente per ciascun illecito e non vi era
55 Nel quadro complessivo dell’esperienza romana, rispetto al quale si può affermare che nulla vi è di più antiromano del principio nullum crimen sine lege, un’eccezione è rappresentata dal periodo delle questiones perpetuae fino al consolidamento del Principato
F. Milazzo ( a cura di ), RES PUBLICA E PRINCEPS, Vicende politiche, mutamenti
istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano, Atti del convegno
internazionale di diritto romano ( Copanello, 25-27 maggio 1994), A.D. Manfredini, Crimini e pene da Augusto ad Adriano, pagg. 219 ss.
41 quindi possibilità di proporzionarla al grado della partecipazione criminosa. Va ancora rilevato che, con il consolidamento del nuovo ordinamento costituzionale, appariva sempre più chiaro che le quaestiones perpetuae non costituivano un organismo su cui il Principe poteva fare sicuro affidamento. Per tali motivi, accanto al potere punitivo esercitato sotto la legge, si affermò, come già accennato, il potere punitivo del Principe, il cui carattere fondamentale era la forte discrezionalità con la quale veniva esercitato56. Si costituirono infatti, per iniziativa imperiale, nuovi organi di giurisdizione criminale, destinati nel corso del Principato a sostituirsi alle antiche corti giurate; si venne in tal modo formando un diritto penale straordinario, privo delle formalità seguite nei giudizi regolati da leggi e più in linea con la nuova realtà politica, che consentiva la persecuzione di ipotesi criminose non contemplate dalle disposizioni vigenti e permetteva di tener conto di tutta una serie di circostanze che nel sistema dei iudicia publica non era possibile considerare. Questa nuova forma di giustizia criminale, definita correntemente con il nome di cognitio extra ordinem, perché nasce e si sviluppa al di fuori dell’ordo iudiciorum
publicorum, fu esercitata dall’assemblea senatoria sotto la
guida dei consoli, e in più larga e crescente misura dal Principe e dai suoi funzionari57. Il riconoscimento della
56 Un significativo esempio di questa discrezionalità fu la condanna di Ovidio alla relegazione, avvenuta nel corso dell’anno 8 d.C., sulla base di un editto di Augusto. Come è noto, egli fu condannato per aver commesso due colpe: un
error, che non ci è conosciuto e sul quale il poeta mantiene uno stretto e
interessato riserbo, e per aver composto il turpe carmen, cioè l’Ars amatoria. La legge criminale in vigore prevedeva il fatto di consumare un adulterio ed altri fatti volti a trarne profitto, ma non certamente quello di insegnare con la poesia la seduzione
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Già nel corso dell’età repubblicana il Senato era più volte intervenuto nel campo della repressione criminale con misure di carattere straordinario giustificate da condizioni di emergenza. La quaestio disposta nel 186 a.C. per lo scandalo dei Baccanali, i senatusconsulta ultima emanati all’epoca dei Gracchi e di Saturnino, le
42 nuova funzione senatoria fu graduale, e si operò quasi insensibilmente, attraverso l’esplicito o tacito consenso del Principe; si può poi supporre che negli ultimi anni del principato di Augusto la giurisdizione criminale dell’assemblea senatoria fosse già in buona misura stabilizzata. Possiamo quindi affermare che venne proposto nuovamente, dopo la pausa della Repubblica, il dualismo tra giurisdizione e coercizione, tra legge e arbitrio, tra giudici sottoposti alla legge penale e giudici
extra legem, liberi di imputare colpe nuove e di decidere
discrezionalmente la sanzione. Soggetti alla giurisdizione criminale del Senato erano precipuamente gli stessi senatori e le persone di rango senatorio. Si trattava, come è stato giustamente posto in rilievo, di un privilegio di ceto: membri dell’ordo senatorius non dovevano subire il disonore di un processo pubblico dinanzi ad una corte giurata, né essere giudicati da iudices che appartenevano generalmente ad un più basso rango sociale. Nonostante ciò, non bisogna credere che i senatorii abbiano tratto vantaggi sostanziali dall’essere giudicati da una corte di magistrati di pari rango sociale; l’Imperatore, infatti, prendendo regolarmente parte alle sedute dell’assemblea, poteva dirigere e orientare in ampia misura la volontà del collegio, cosa che gli permetteva di essere il vero giudice senza compromettere la “facciata repubblicana del suo
dichiarazioni di hostis publicus pronunciate durante la congiura di Catilina, ne sono gli esempi più noti. Ma è chiaro come in tutti questi casi non tanto sia ravvisabile l’esercizio di un’attività giurisdizionale quanto piuttosto l’attuazione di misure di natura politica, intese ad elidere le garanzie costituzionali dei cittadini ampliando eccezionalmente i poteri repressivi dei magistrati. E’ solo sotto Augusto e i suoi successori che sorge e si sviluppa una vera e propria cognitio senatus, ove l’assemblea dei patres funge da alta corte di giustizia le cui decisioni hanno veste e valore di sentenza
E. Gabba- A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, Volume secondo, L’impero mediterraneo, parte terza, La cultura e l’impero, B. Santalucia, La giustizia penale,
43 potere”58. Ilbeneficium della giurisdizione dei patres, soprattutto se l’imputazione era di crimen maiestatis, si rivelò spesso fatale a quelle persone a vantaggio delle quali era stato concesso. Al riconoscimento della cognitio
senatus contribuirono indubbiamente anche motivi di
carattere pratico, e in particolare l’intento di ovviare alla rigidità dell’ordo iudiciorum publicorum mediante l’introduzione di un procedimento più elastico, che consentiva di perseguire nuove fattispecie non rientranti nella sfera di repressione delle quaestiones, di aggravare o mitigare le pene stabilite per i crimini appartenenti alla competenza delle stesse, di procedere contemporaneamente contro più persone o per più reati. Il procedimento dinanzi al senato iniziava solitamente con una denuncia sporta dall’interessato al console e per suo tramite all’assemblea, e ricalcava per grandi linee il procedimento delle quaestiones, pur essendo caratterizzato da maggiore flessibilità. Naturalmente il Principe, come era libero di far discutere in curia piuttosto che davanti alle corti giurate o al suo stesso tribunale un dato processo, aveva la possibilità di intervenire in maniera determinante in ogni fase della cognitio senatoria, sia impedendo, in forza del ius intercessionis, l’ammissione dell’accusa o l’emanazione della sentenza, sia condizionando di fatto, col dare per primo il suo voto come princeps senatus, la decisione dei patres. Per questa possibilità di giudicare attraverso il Senato, i primi imperatori esercitarono solo occasionalmente una giurisdizione criminale autonoma. Anche se la nostra documentazione al riguardo è scarsa e consiste soprattutto in aneddoti, vi sono plausibili motivi per ammettere che Augusto abbia giudicato in via
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44 straordinaria solo alcuni casi per i quali aveva un particolare interesse e che coinvolgevano persone di rango sociale non elevato59. In età successiva le
cognitiones imperiali, tutte a carattere inquisitorio,
andarono diventando più frequenti e ordinarie. Il relativo procedimento era infatti promosso d’ufficio dal cognitor in veste di accusatore, inquirente e giudice. L’eventuale denuncia (delatio) presentata da un privato aveva il valore di una mera notitia criminis, in quanto l’informatore non assumeva il ruolo di parte processuale. Gli organi giudiziari del sistema cognitorio erano: il tribunale imperiale, costituito dalla sezione giudiziaria del consilium principis, che poteva giudicare in primo ed unico grado o in grado di appello; i prefetti, nei limiti di competenza che saranno più avanti precisati; i governatori provinciali, ai quali spettava, fino all’editto di Caracalla, il ius gladii nei confronti dei provinciali, ma non anche nei confronti dei cives. Per quanto attiene ai criteri ed alle modalità di svolgimento del rito processuale sono qui da sottolineare alcune importanti misure di garanzia dell’imputato, che vennero tracciate dal consilium principis e dalla cancelleria imperiale mediante rescritti: divieto di condannare sulla base di semplici sospetti; insufficienza della confessione non supportata da altre prove; divieto di domande capziose nel corso dell’interrogatorio; commisurazione dell’efficacia probatoria delle testimonianze alla personalità e alla condotta morale del singolo testimone. E’ da precisare, infine, che la pena non era più fissa, ma poteva essere graduata sulla base delle circostanze oggettive del reato, della personalità dell’accusato e del suo rango sociale. In particolare, con riferimento al rango sociale, venivano puniti con pene più lievi gli appartenenti
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45 alle classi più elevate (honestiones), e con pene più severe gli appartenenti alle classi inferiori (humiliores)60. La pena di morte, caduta in disuso per i cittadini in seguito al diffondersi della prassi dell’esilio, venne ripristinata sin dagli inizi dell’età imperiale per nuove fattispecie criminose o anche per i delitti già rientranti nelle ipotesi delle leggi istitutive delle quaestiones, ove le pene legali apparivano eccessivamente tenui. La forma regolare di esecuzione rimase la decapitazione (capitis amputatio), ma alla scure viene sostituita la spada. Il fenomeno si ripercosse anche sul piano terminologico, ove accanto all’espressione poena capitalis, che ormai non indicava altro che l’esilio, si diffuse sempre di più l’espressione
poena capitis, in cui era implicito il riferimento pena di
morte eseguita mediante decapitazione. Per i crimini di maggiore gravità o per quelli commessi dagli appartenenti alle classi sociali più umili, erano previste pene più crudeli, come la crocifissione (damnatio in crucem), l’esposizione alle belve nell’arena (damnatio ad bestias), la vivicombustione. Accanto a queste sanzioni, qualificate per la loro atrocità summa supplicia, le fonti ne menzionano altre, che pur non essendo direttamente privative della vita, la ponevano in serio rischio ed erano quindi assimilate alle pene capitali. Tali erano la condanna ai lavori forzati nelle miniere (damnatio in metallum), ai servizi nelle miniere (in opus metalli), o ad altri lavori accessori, meno gravi e di minor pericolo; la condanna all’esecuzione coattiva di opere pubbliche (damnatio in
opus publicum), che se perpetua implicava la perdita della
cittadinanza; la condanna ad esibirsi nel circo come gladiatori (damnatio in ludum gladiatorum) o a combattere con le fiere (damnatio in ludum venatorium);
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46 la condanna alla deportazione (deportatio), cioè al domicilio coatto perpetuo, solitamente su un isola o in un’oasi del deserto, con perdita della cittadinanza e dei beni: pena, quest’ultima, che sostituì, a partire dall’età di Traiano, l’antica aqua et igni interdictio.L’irrogazione di pene privative della vita o della libertà poneva il condannato nella condizione di “servo della pena” (servus
poenae); egli era cioè privato di ogni capacità giuridica, il
suo matrimonio si scioglieva, i suoi beni erano confiscati e gli era tolto il diritto di ricevere e di disporre per testamento. Accanto alle sanzioni ora menzionate, ne erano previste altre, meno severe, come la relegazione, consistente nel confinamento su un’isola o in una data città o regione, ovvero nel divieto di residenza in determinati luoghi. A differenza della deportazione, che era sempre perpetua, la relegazione poteva anche essere temporanea e non prevedeva la perdita della cittadinanza e del proprio patrimonio. Vi erano poi alcune sanzioni corporali, che spesso accompagnavano la pena capitale, quali il percotimento con i bastoni (fustium ictus) o con le sferze (flagellorum ictus): la prima adoperata per gli
honestiones e la seconda, ritenuta infamante, per gli
schiavi e gli humiliores. Carattere accessorio aveva anche la confisca del patrimonio (ademptio bonorum), che poteva essere parziale o totale61. I reati giudicati dal tribunale imperiale erano i più vari; ci troviamo di fronte a
crimina maiestatis (di regola non commessi dai senatori),
a violazioni della disciplina militare, a delitti contro la pubblica amministrazione. Non erano infrequenti anche i processi contro maghi, astrologi, indovini, quali offensori con la loro pratica della maestà imperiale, in quanto pretendevano di rivelare con arti arcane il futuro
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47 dell’Imperatore e della sua famiglia. Le fonti storiche e memorialistiche confermano l’attività di Augusto giudice: giudice che conosce direttamente crimini legali o che punisce colpe extra legem, che delega al Senato, che prende parte ai iudicia publica, giudice d’appello, anche se le cause d’appello, secondo Svetonio, sarebbero state prontamente assegnate al prefectus urbi e a viri
consulares. Egli però, giudicava di persona raramente; di
solito si faceva assistere da un consilium di senatori e cavalieri, che egli stesso sceglieva per ogni singolo processo nella ristretta cerchia dei suoi amici e comites. Le
cognitiones si tenevano in origine nel Foro, o comunque in
un luogo pubblico a stretto contatto con la folla (ad esempio nel Pantheon o nel portico di Livia)62. L’imperatore presiedeva le sedute e al termine dell’istruttoria interpellava il consilium. I consiglieri esprimevano il loro parere, oralmente o per iscritto, dopodiché il Principe, che non era tenuto attenersi al parere della maggioranza, emanava la sentenza; non di rado Augusto esercitava il potere giurisdizionale aiutando gli accusati con quella lenitas che è stata tanto lodata da Svetonio63. Il fondamento giuridico del potere imperiale di giudicare è controverso. Numerosi scrittori lo ricollegano a questo o a quel potere magistratuale repubblicano di cui l’Imperatore era investito, come la tribunicia potestas64, l’imperium, il potere consolare, ecc. Altri fanno
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Alcune testimonianze relative all’età giulio-claudia ci mostrano, però, come alcuni imperatori, come Claudio e Nerone, in casi di particolare importanza politica giudicarono a porte chiuse, cioè intra cubiculum
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Svetonio, Augusto, 33 64
Dall’autobiografia di Augusto, scritta sotto dettatura da alcuni schiavi, emerge con assoluta chiarezza l’attaccamento del princeps a questa carica magistratuale, alla quale non volle mai rinunciare in particolar modo per il fatto che la persona del tribuno della plebe era considerata sacra, e in secondo luogo perché il