• Non ci sono risultati.

CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua

2.5 Crimen maiestatis e risvolti processualistici

2.5.2 Le pene

Ogni Res Publica si pone delle regole e delle leggi che cerca di fare rispettare in tutti i modi ai suoi membri, ai quali garantisce protezione e integrazione nelle strutture sociali almeno fino al momento della trasgressione. La violazione delle leggi e l’infrazione delle regole, minacciano infatti l’ordine sociale e mettono in discussione la validità e la legittimità del potere centrale; per questo motivo vanno punite e represse. Colui che si poneva in aperto contrasto con le leggi della società veniva isolato, sradicato dal tessuto sociale, sentito e soprattutto fatto sentire come “altro” al resto della comunità, perché in questo modo, rimossa qualsiasi possibilità di identificazione fra il trasgressore ed il cittadino, la comunità stessa potesse essere d’accordo con una sua eventuale condanna a morte. Eseguire una condanna capitale, summum supplicium, come giustamente sostiene J. M. David, era una cosa difficile e delicata. Era necessario che il gruppo volesse o accettasse che uno dei suoi membri gli fosse strappato e messo a morte. Un’organizzazione del consenso come questa era molto faticosa poiché implicava delle idee e dei rituali che concentravano sull'espulsione di uno solo la crisi collettiva e la sua soluzione. Nel mondo romano, come in qualsiasi civiltà antica e moderna, parlando della pena di morte, sono fondamentali due concetti strettamente interdipendenti: la pubblicità e l'esemplarità. Nell’Urbe l’obiettivo di rendere pubblica una condanna a morte fu pienamente raggiunto poiché i magistrati repubblicani (i

tresviri capitales, che controllano il regolare svolgimento

dell'esecuzione, ma soprattutto i tribuni della plebe) giudicavano e talvolta eseguivano la sentenza

118 direttamente nel Comitium, ovvero nel centro politico della città. Da questo punto erano ben visibili il Mamertino con il sottostante Tullianum, il carcere di Roma, e la rupe Tarpea, i luoghi che dal IV secolo a.C. servivano per eseguire le esecuzioni capitali. L’organizzazione del consenso non si fermò alla convocazione dell'assemblea nel Foro per assistere all'eliminazione del trasgressore, ma si attivava prima, fin da quando i littori, dietro ordine del magistrato, arrestavano l’accusato. Sul piano sanzionatorio, il regime del crimen maiestatis si configurò come del tutto eccezionale rispetto ai principi normalmente applicati nella repressione di altri reati, considerati comunque gravi.Innanzitutto, una vasta gamma di disposizioni non applicabili ad altre fattispecie criminose, di fatto incentivava e agevolava delazioni e accuse di lesa maestà, e apprestava strumenti idonei, come abbiamo anche avuto modo di vedere nel precedente paragrafo, ad una rapida identificazione del colpevole, alla efficace acquisizione di prove e infine a punire il condannato e i suoi eredi in modo esemplare.Le XII tavole prevedevano, per i rei di lesa maestà, la pena di morte, come risulta da un frammento di Marciano contenuto nel Digesto (D., 48,4,3):

Lex duodecim tabularum iubet eum, qui hostem concitaverit quive civem hosti

tradiderit, capite puniri. Lex autem iulia maiestatis praecipit eum, qui maiestatem

publicam laeserit, teneri: qualis est ille, qui in bellis cesserit aut arcem tenuerit

119

aut castra concesserit. Eadem lege tenetur et qui iniussu principis bellum gesserit

dilectumve habuerit exercitum comparaverit: quive, cum ei in provincia

successum esset, exercitum successori non tradidit: quive imperium exercitumve

populi romani deseruerit: quive privatus pro potestate magistratuve quid sciens

dolo malo gesserit: quive quid eorum, quae supra scripta sunt, facere curaverit.

In seguito, l’originaria pena capitale fu commutata nella pena dell’aqua et igni interdictio, letteralmente l’interdizione degli elementi essenziali della vita pronunciata contro chi doveva essere bandito dalla comunità romana. Alla base di questo supplizio, vi erano quasi sicuramente origini religiose, nel senso che l’aqua et

igni interdictio non era che una manifestazione secondaria

della sacertà, o devoluzione del reo agli dei, intendendosi perseguire non la sua morte, ma la sua esclusione dalla comunione di vita con i consociati.Non era quindi una vera e propria pena, ma un provvedimento di autorità dei magistrati, e come tale divenne molto presto una pena connessa all’exilium. Il cittadino romano, infatti, esercitando il ius exulandi poteva trasferirsi in un’altra città stretta a Roma da accordi internazionali che riconoscevano questo diritto; in questo modo egli poteva evitare la condanna alla pena capitale in un giudizio penale a suo carico, pronunciato dalle assemblee popolari.Con il tempo, i comizi iniziarono ad astenersi dal

120 pronunciare la condanna a morte se il cittadino comunicava al popolo l’intenzione di ricorrere al ius

exulandi, purché egli esercitasse questo diritto prima che

fosse ultimata la votazione150. Si ammetteva inoltre che il reo potesse esulare anche a condanna pronunciata, presumendosi in ogni caso la sua esiliazione151 ; ogni condanna capitale equivaleva, quindi, all’esilio, ma lo Stato si garantiva l’effettivo allontanamento del reo ingiungendo a tutti i cittadini di non dargli ospitalità.Per l’esule era prevista la perdita della cittadinanza, la confisca dei beni e, se rientrava in territorio romano, la morte. Questa pena non veniva applicata se il reo di maiestas era un soldato; i traditori erano infatti degradati, torturati e infine puniti con la morte, perché venivano considerati nemici e non militari; i loro beni erano poi confiscati152.Con l’instaurarsi del regime imperiale, l’aqua

et igni interdictio fu sostituita dalla deportatio, come

risulta chiaramente dalle fonti giustinianee, attraverso alterazioni apportate ai testi classici153. Dalle fonti giuridiche risulta che in età Severiana venne ripristinato il rigore dell’originaria pena capitale, per gli honestiones nella forma della decapitazione, per gli humiliores nella forma della vivicombustione o dell’esposizione alle fiere, che avevano sostituito in tale epoca la pena del culleus.La decapitazione prevedeva che il condannato, legato ad un palo, fosse prima atrocemente flagellato, quindi fatto sdraiare a terra e decapitato con una scure154.La durata

150

Cfr. Polyb., 4, 14, 7

151 Cfr Sall., Bell. Cat., 51,21 – 22 – 40; Liv., 25,4,9 152

M. Carcani, Dei reati delle pene e dei giudizi militari presso I Romani, Napoli, , 1981.

153

Dig, 48,13

C. Gioffredi, “AQUA ET IGNI INTERDICTIO”, in “Novissimo Digesto Italiano”, diretto

da A. Azara e E. Eula, Torino, 1957, pag. 205

154 La decapitazione tramite la scure (securis), simbolo del potere del magistrato, è la più antica forma di esecuzione capitale.

121 nei secoli di questo tipo di condanna, principale strumento di epurazione nelle crudeli proscrizioni ordinate da Silla nell'anno 82 a.C., è testimoniata dal fatto che essa veniva utilizzata ancora in epoca imperiale, anche se in tale epoca la scure fu sostituita dal gladium.L’esposizione alle fiere prevedeva la lenta e dolorosa morte delle vittime, straziate dalle belve feroci o dalla ferocia di qualche carnefice; la pena era resa ancora più esemplare dal fatto che, sulle gradinate dell'anfiteatro o, nelle province, anche dei teatri, tutto il popolo assisteva a questo crudele rito di morte.Lo spettacolo del corpo che soffriva era per il potere dell’Imperatore una dimostrazione di forza e di efficienza. L'assolutismo imperiale non aveva così bisogno di ratifiche da parte del popolo, come avveniva nello stato repubblicano, e poteva modificare sensibilmente il rituale dell'esecuzione, senza suscitare reazioni di protesta. Prevista per i non liberi e ovviamente per tutti gli stranieri passibili di pena di morte, l’esposizione alle fiere, secondo le testimonianze, venne usata per la prima volta da L. Emilio Paolo nel 167 a.C. per punire i disertori macedoni dell'esercito romano, dopo la vittoria sul re Perseo. Durante gli spettacoli offerti per celebrare la vittoria il proconsole fece infatti schiacciare i condannati dagli elefanti. Nel 146 a.C., per celebrare il suo trionfo sui Cartaginesi, Scipione l’Emiliano espose alle belve del circo uomini colpevoli dello stesso reato ed anch’essi stranieri. La damnatio ad bestias venne utilizzata sempre più frequentemente in età imperiale per la sua spettacolarità, dovuta anche al fatto che venivano impiegati animali feroci importati dagli angoli più remoti del Mediterraneo. La vivicombustione, oltre ad essere una delle pene più antiche nell’ambito della legislazione romana, rivestiva una valenza simbolica e sacrale del tutto simile a quella

122 del culleus: l'incenerimento nel fuoco rappresentava la distruzione assoluta del crimine e del colpevole, dunque il grado estremo di purificazione. In ciò il fuoco era infatti assimilabile alla funzione dell’acqua nella pena del parricida; entrambi i supplizi raggiungevano il medesimo scopo, cioè impedire allo spirito malvagio del colpevole il ritorno tra i vivi. Il rogo era previsto anche dalle XII Tavole per l’incendiario, che doveva morire nello stesso modo in cui aveva compiuto il suo crimine, ma vide la sua utilizzazione più ampia nell’età repubblicana come punizione militare per traditori e disertori. Tale crudele procedura era diffusissima in età giulio-claudia, soprattutto sotto Nerone, il quale aggiunse nuovi e sadici orrori al supplizio, facendo indossare ai condannati la tunica molesta, cioè una tunica spalmata di pece ed intrisa di liquido infiammabile, che rendeva la vittima una torcia vivente. Avidio Cassio, un secolo dopo, non fu inferiore a Nerone in quanto a fantasia perversa nei supplizi; uccideva infatti le sue vittime legandole a diverse altezze su di un palo sotto cui veniva acceso un fuoco: il condannato posto più in basso moriva bruciato dalle fiamme, quello a metà altezza asfissiato dal fumo, e l'ultimo per lo sfinimento fisico provocato dalla posizione innaturale. La vivicombustione fu, in ogni epoca, una delle pene più applicate: essa era, infatti, fra i summa supplicia uno dei più atroci e dolorosi, anche perché spesso il fuoco veniva mantenuto basso in modo che la sofferenza del condannato fosse prolungata. Come tutte le condanne a morte, anche la crematio comportava l’interdizione dalla sepoltura: i resti del cadavere, che generalmente non veniva mai interamente distrutto dalle fiamme, erano gettati in fosse comuni situate fuori dalla città. La pena

123 del rogo conobbe il suo periodo di massima diffusione nel basso Impero e soprattutto sotto Costantino155.

155A. Catelli, La pena di morte, in “Grandi tipologie della morte nel mondo romano”, http://web.tiscali.it/acatelli/tipo.html, 2001

124