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L’età tardo imperiale

CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua

2.5 Crimen maiestatis e risvolti processualistici

2.5.3 L’età tardo imperiale

Sparito l’ordo iudiciorum e divenuta d’uso generale la

cognitio dell’imperatore e dei suoi funzionari, la strada era

ormai aperta a una completa unificazione del regime della repressione criminale e al definitivo passaggio dal sistema accusatorio al sistema inquisitorio. La persecuzione dei reati è ora interamente rimessa agli organi dello stato. Essa ha per unico presuppposto il personale convincimento del funzionario circa l’esistenza a carico dell’inquisito di elementi sufficienti per trarlo in giudizio : convincimento che può essersi formato vuoi attraverso la conoscenza diretta del fatto criminoso, vuoi in seguito a denuncia di privati o ad informazione degli ufficiali subalterni, di cui spetta a lui apprezzare l’attendibilità e il valore. Nelle fonti si parla ancora di accusatio ,ma non si tratta più dell’ accusatio di un tempo, presupposto necessario per il promovimento dell’azione penale, bensì di un mero atto informativo, inteso ad attivare l’ inquisitio dell’organo giudicante, cui spetta d’ufficio il compito di promuovere il processo. La denuncia da parte dell’accusatore è utile ma non indispensabile, assolvendo unicamente l’esigenza di facilitare l’acquisizione della

notitia criminis da parte degli organi preposti alla

repressione. Corrispondentemente all’affermarsi del sistema inquisitorio, l’antico principio della pubblicità dei processi venne a subire notevoli restrizioni. Nonostante gli sforzi di alcuni imperatori ( primo fra tutti Costantino) intesi a riaffermare, l’obbligo di giudicare pubblicamente, la pratica delle cognitiones segrete prese sempre più piede. Importanti innovazioni si ebbero anche per quanto riguarda la forma degli atti. L’uso di redigere processi verbali delle dichiarazioni dei testimoni e delle varie

125 attività dibattimentali, già noto al processo dinanzi alle corti giurate, ma generalizzatosi soprattutto nella pratica delle cognitiones , stante l’esigenza di conservare al giudice d’appello la documentazione delle prove e delle ragioni esaminate nel primo grado, trovò in quest’epoca definitiva affermazione . La legislazione postclassica non apportò modificazioni sostanziali alle figure di reati già individuate nell’epoca precedente, ma ne estese ulteriormente le relative fattispecie, facendovi talora rientrare anche delle ipotesi estranee allo spirito e allo scopo delle antiche disposizioni. Si può riscontrare, in particolare, la tendenza ad estendere la tutela anteriormente riservata alla persona del principe a vari aspetti dell’apparato statale. Vennero progressivamente attratti sotto i termini e le sanzioni della lesa maestà il compimento di sacrifici e cerimonie pagane, l’uso delle carceri private, il falso nummario, il turbamento dell’ordine pubblico a seguito di dispute teologiche, la cospirazione a danno di alti ufficiali dello stato. Le sanzioni furono generalmente aggravate, e in particolare la pena di morte fu applicata con una frequenza e una ferocia del tutto ignote al precedente diritto156.Le fonti letterarie attestano una serie di deviazioni dalle procedure ordinarie, note anche attraverso i testi giuridici. Con riguardo a numerose accuse di magia e veneficio, specificatamente ricondotte al crimen maiestatis,

Ammiano descrive in modo efficace la peculiare organizzazione dei tribunali straordinari e le misure adottate nel suo tempo per garantire, mediante un sistema di controllo diffuso, una repressione il più possibile esemplare. Particolarmente significativo a tal proposito, è il resoconto di Ammiano sulle direttive

156

126 imposte da Valente al proconsole d’Asia, perché perseguisse presunte pratiche magiche come crimen

maiestatis; egli riferisce, ad esempio, di una donna che era

solita guarire, senza malizia, la febbre intermittente con un carmen, processata e condannata dopo che, con il consenso dello stesso proconsole, era stata chiamata a casa sua per guarire la figlia157. Valente interveniva spesso nei processi per lesa maestà, avocando a sé i procedimenti ed emettendo sentenze, sulla base delle relazioni presentate dai suoi inquirenti; quando non poteva intervenire personalmente affidava i casi agli organi competenti in via ordinaria, ma esigeva che questi non deludessero le aspettative imperiali e che assumessero quindi un comportamento conforme alla sua volontà158. Analogo era stato, d'altronde, il comportamento di Costanzo, il quale, sempre secondo Ammiano, si sarebbe fatto costantemente carico di controllare che non fossero introdotte deroghe al rigore della disciplina da parte di funzionari troppo indulgenti:

“Addebatur miserorum aerumnis, qui rei maiestatis

imminutae vel laesae

deferebantur, acerbitas eius et iracundia suspicionesque in huius modi cuncta

distentae. Et siquid tale increpuisset, in quaestiones acrius exsurgens quam

civiliter, spectatores apponebat his litibus truces, mortemque longius in puniendis

157

Amm. 29,2,22 ss 158

Amm. 29.1.18, 27,38. . A conferma di ciò, Ammiano afferma: “Illud quoque ferri

non poterat, quod cum le gibus lites omnes quaestionesque committere videri se vellet, destinaqtisque velut lectis iudicibus negotia spectanda mandabat, nihil agi contra libidinem suam patiebatur”.

127

quibusdam, si natura permitteret, conabatur extendi, in eius modi controversiarum partibus eiam Gallieno ferocior”. (Amm. 21,16,9).

Il comes sacrarum largitionum Ursulo fu addirittura sottoposto ad inchiesta per aver prosciolto lo schiavo Dano, denunciato per la sottrazione dalla tomba di Diocleziano di una veste di porpora, e per aver condannato a morte, sulla base delle leggi vigenti, i suoi accusatori (che sotto tortura avevano ammesso la macchinazione), in quanto colpevoli di calunnia159. Inoltre Costanzo ricorse, in alcuni casi, all’istituzione di corti di giustizia a carattere straordinario, inviando, quando non poteva partecipare personalmente al processo perché si svolgeva in un luogo troppo distante, funzionari di sua fiducia investiti di deleghe speciali di giurisdizione160.I processi dell’epoca di Valentiniano I, tra il 370 e il 375 d.C., furono contrassegnati da una costante attrazione dei fatti di veneficio e magia nell’ambito della lesione maiestatica, dovuta, in parte, anche all’aperto contrasto tra l’Imperatore e il Senato. In questi casi l’Imperatore non solo ricorse a misure contrarie al regime ordinario, ma anche alle disposizioni da lui stesso emanate, mettendo in atto una rigorosa persecuzione di personaggi aristocratici e appartenenti alla classe senatoria. L’obiettivo cui erano rivolte queste deviazioni procedurali era quello di affidare i casi a funzionari di fiducia, sottraendoli ai giudici competenti: ad esempio, venne esteso l’ambito di giurisdizione del praefectus annonaeMassimino,

annoverato da Simmaco tra quei mali iudices che avevano

159 Amm. 16,8,3 ss 160

128 perseguitato la classe senatoria. A Massimino venne conferito lo ius gladii, per consentirgli di giudicare su un’accusa di avvelenamento depositata presso l’ufficio della prefettura urbana, al posto del prefetto urbano Olibrio161. Il fatto provocò la reazione del vicarius urbis Aginazio, indignato per non essere stato investito da Olibrio dell’istruzione delle cause; ma, come risposta, Valentiniano nominò vicarius Massimino e prefetto urbano Ampelio, disponendo la competenza del nuovo

vicarius a giudicare nei processi contro gli esponenti della

classe senatoria162. Grazie ai suoi nuovi poteri, Massimino condannò a morte due senatori e il procuratore della zecca, accusati di veneficio; inoltre, Serico e Asbolio, anch’essi accusati di avvelenamento, furono convinti a denunciare gli altri complici con la promessa che non sarebbero stati puniti con il ferro e il fuoco. Massimino li fece poi uccidere a forza di violenti colpi di piombo, rispettando così la promessa163. Tali procedure erano con evidenza contrarie alle stesse direttive enunciate da Valentiniano, come risulta da CTh. 9.2.2 (365 d.C.), CTh 9.40.10 (367) e CTh. 9.16.10 (371):

Impp. Valentinianus et Valens aa. Valentino consulari piceni. Quisquis fuerit,

quem crimen pulsat, quem negotium tangit,

comprehensum eum iudex sub

custodia constituat atque ita vel causae meritum vel personae qualitatem ad nos

161 Amm. 28,1,8-10 162 Amm. 28,1,22;32 163 Amm. 28,1,29

129

referat, vel, si longius fuerimus, ad illustres viros praefectos praetorio, sive ad

magistros militum, si militaris fuerit persona, ne sub specie vel verae vel

ementitae dignitatis facinora dilabantur. Dabimus enim formam, quam

unusquisque iudex sequetur in eo, qui reus fuerit inventus. Interim ille, qui in

suspicionem venerit negotii criminalis, cuiuscumque honoris esse dicatur,

comprehensus ex officio non recedat. Dat. xi kal. feb. Mediolano Valentiniano et Valente aa. Conss. (CTh. 9,2,2).

Imppp. Valent., Valens et Grat. aaa. ad praetextatum pf. u. Quoties in senatorii

ordinis viros pro qualitate peccati austerior fuerit ultio proferenda, nostra

potissimum explorentur arbitria, quo rerum atque gestorum tenore comperto, eam

formam statuere possimus, quam modus facti

contemplatioque dictaverit. Dat. viii. id. oct. remis, Gratiano a. i. et Dagalaipho conss. (CTh. 9,40,10).

Idem aaa. ad Ampelium praefectum urbi. Quia nonnulli ex ordine senatorio

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maleficiorum insimulatione adque invidia stringebantur, idcirco huiusmodi

negotia urbanae praefecturae discutienda permisimus. Quod si quando huiusmodi

inciderit quaestio, quae iudicio memoratae sedis dirimi vel terminari posse non

creditur, eos, quos negotii textus amplectitur, una cum gestis omnibus

praesentibus adque praeteritis ad comitatum

mansuetudinis nostrae sollemni

observationi transmitti praecipimus. dat. viii id. dec. Gratiano a. ii et Probo conss.(CTh. 9,16,10).

Il complesso di misure straordinarie, varate in occasione delle vicende processuali descritte, sembra trovare la sua giustificazione nella volontà di colpire il dissenso espresso dall’aristocrazia senatoria, ancora in gran parte legata al paganesimo, nei confronti dell’autorità imperiale, tanto nell’ambito politico quanto in quello religioso.Anche il significativo ampliamento della fattispecie di lesa maestà ai fatti di magia e avvelenamento funzionò come un astuto espediente tecnico per eliminare gli appartenenti ai ceti superiore che si dimostravano particolarmente pericolosi per la stabilità del potere imperiale o che potevano oscurare con il loro prestigio il potere centrale. Nel complesso, dalla testimonianza di Ammiano Marcellino, si ricavano gli elementi di un programma politico e giuridico complesso, volto ad esercitare un controllo di stampo repressivo sulle élites ostili, perseguito soprattutto con la

131 pratica delle delazioni pretestuose164.I sempre più marcati tratti repressivi, che abbiamo visto connotare l’età tardo imperiale, sono ravvisabili nel processo criminalistico anche con riferimento alla libera testimonianza, la quale subì infatti, nei secoli IV-V d.C., un sostanziale peggioramento, cui non corrispose, però, un peggioramento nell’ambito civilistico. Fino al II secolo d.C. il teste, anche se citato, non era obbligato a comparire in giudizio, ad eccezione di alcuni tipi di processo criminale, non poteva essere sottoposto a restrizione della libertà personale e deponeva in assenza di ogni costrizione; in particolare non era assoggettabile a quaestio per

tormenta. Il mutamento di tale condizione può essere

individuato già in D. 48,18,15 (Call. l. 5 de cogn.):

Ex libero homine pro testimonio non vacillante quaestionem haberi non oportet.

De minore quoque quattuordecim annis in caput alterius quaestionem habendam

non esse divus pius maecilio rescripsit, maxime cum nullis extrinsecus

argumentis accusatio impleatur. Nec tamen consequens esse, ut etiam sine

tormentis eisdem credatur: nam aetas, inquit, quae adversus asperitatem

quaestionis eos interim tueri videtur, suspectiores quoque eosdem facit ad

mentiendi facilitatem.

164

132 Il primo periodo del frammento suscita qualche incertezza in ordine al valore da attribuirsi all’espressione ex libero

homine, mentre appare sicuramente più agevole la lettura

della parte successiva del passo, da cui è quindi più opportuno partire. Riguardo al minore di quattordici anni, Antonino Pio aveva previsto che non si dovesse ricorrere alla quaestio del minore stesso, testimone di accusa contro una seconda persona, soprattutto quando l’imputazione non era retta da alcun indizio esteriore. Tuttavia, a ciò non conseguiva che si doveva credere ai minori, anche senza il ricorso ai tormenta, poiché l’età, se li preservava dall’atrocità della quaestio, li rendeva anche più sospetti a causa della loro facilità a mentire. La disposizione antoniniana si riferiva all’ambito processualcriminalistico, e ciò si desume da almeno due elementi: il rilievo generale che all’epoca la tortura fosse riservata principalmente ai processi penali e il fatto stesso che la disposizione sia inserita nel libro 48 del Digesto, nell’ambito di un contesto processualcriminale. Il

principium espresso da tale norma è il divieto di ricorso

alla quaestio per tormenta in presenza di una testimonianza, resa da una persona non minor, non vacillante165 e quindi affidabile, per l’atteggiamento mantenuto dal testimone nel corso della deposizione. Il seguito del frammento induce a pensare che tale divieto sia stato enunciato da Callistrato a tutela di un soggetto determinato, come confermato dall’uso dell’avverbio quoque, il quale ha evidentemente la funzione di parificare, nell’esenzione dalla tortura, il liber homo con il

minor. Ne consegue che l’espressione ex libero homine

165Cft. A. Forcellini, Lexicon totius latinitatis, IV, 1940, pag. 899, per il quale vacillare significa “translate est inconstantem esse, labare, dubitare”

133 indicherebbe l’ambito soggettivo di applicazione del divieto. Resta da accertare se l’esenzione dalla tortura riguardasse qualunque uomo libero suscettibile di essere interrogato in un processo ove fosse stata resa una testimonianza non vacillante.Lo stretto legame esistente tra il principium e il seguito del frammento fa ritenere che il liber homo dovesse essere un testimone, forse solo d’accusa, anche se l’assenza di una specificazione potrebbe far pensare al testimone in generale, e che si trattasse dello stesso autore della testimonianza non vacillante, la quale avrebbe reso superfluo il ricorso alla

quaestio166. Callistrato perseguiva dunque il fine di indicare i limiti entro i quali l’istruttore di un giudizio criminale poteva ricorrere ai tormenta nell’interrogatorio del testimone libero; d’altra parte il richiamo al rescritto dell’imperatore Antonino Pio lascia intendere che Callistrato non si limitasse a esprimere un’opinione giurisprudenziale, ma riportasse la legge a quel tempo vigente.Agli inizi del III secolo, quindi, la possibilità per l’istruttore di torturare l’uomo libero la cui testimonianza gli era sembrata incerta corrispondeva ad una regola giuridica anche se, dato il carattere aperto della norma, nella prassi si ricorreva certamente ad un’ampia discrezionalità nell’applicare tale regola.La tortura appariva quale strumento utilizzabile solo quando si nutriva il sospetto della falsità o della reticenza del teste, che per questo motivo poteva anche essere condannato come colpevole di falsa testimonianza.

166

Bisogna escludere infatti che il liber homo potesse essere un teste diverso da quello non vacillante o l’imputato, in quanto sarebbe stato non poco strano che bastasse una sola testimonianza non vacillante a escludere l’utilizzo della quaestio in un processo criminale, tanto più che in età giustinianea alcuni testimoni liberi (gli humiliores) erano sempre assoggettabili alla tortura.

134 Nello stesso De cognitionibus di Callistrato (Call. l. 4 de

cogn.) si rinvengono, però, affermazioni che anticipano

una nuova concezione:

Testium fides diligenter examinanda est. Ideoque in persona eorum exploranda

erunt in primis condicio cuiusque, utrum quis decurio an plebeius sit: et an

honestae et inculpatae vitae an vero notatus quis et reprehensibilis: an locuples vel

egens sit, ut lucri causa quid facile admittat: vel an inimicus ei sit, adversus quem

testimonium fert, vel amicus ei sit, pro quo testimonium dat. Nam si careat

suspicione testimonium vel propter personam a qua fertur ( quod honesta sit) vel

propter causam ( quod neque lucri neque gratiae neque inimicitiae causa fit), admittendus est. (D. 22,5,3 pr.).

Il giurista afferma che non si dovevano ammettere a testimoniare persone della cui sincerità si aveva motivo di dubitare. Tra i motivi di sospetto Callistrato indica, in primo luogo, la bassa estrazione sociale del testimone, poi la cattiva condotta di vita precedentemente osservata, la povertà e infine l’amicizia o l’inimicizia nei riguardi della parte in causa. Il tenore del passo fa ritenere molto probabile che il giurista esprimesse in proposito un’opinione personale, camuffandola da orientamento deontologico per i giudici.In ogni caso, emerge chiaramente l’esigenza di disporre di testimonianze sincere nei giudizi, più rare tra il II e il III secolo d.C. a

135 causa dell’aggravarsi della situazione economica, che rendeva gli uomini maggiormente disposti a vendersi per denaro.Il peggioramento della situazione del testimone libero, consistente nella su assoggettabilità alla tortura, conseguiva al perseguimento di tale esigenza, la quale corrispondeva al desiderio di far sì che il processo rispondesse al suo fine istituzionale di accertamento della verità.Sulla base di questa convinzione, Callistrato afferma che gli individui di condizione sociale non elevata sono per natura bugiardi e perciò non ammissibili alla testimonianza o, se ammessi, assoggettabili alla tortura a causa della loro presunta inaffidabilità.Ancora sul ricorso, in età severiana, alla quaestio per tormenta nei riguardi del testimone libero è significativo l’esame di D. 48,18,1, 9-10 (Ulp. l. de off. proc.):

Sed nec libertum torqueri in patroni caput constitutum est. Nec fratrem quidem

in fratris imperator noster cum divo patre suo rescripsit, addita ratione, quod in

eum, in quem quis invitus testimonium dicere non cogitur, in eum nec torqueri

debet.

Ulpiano riferisce di un rescritto, verosimilmente emanato sotto Severo e Caracalla, con il quale si stabilì che non si doveva torturare il testimone ai danni del proprio fratello, per la generale ragione che il testimone non doveva essere torturato ai danni di quella persona contro la quale egli non poteva essere costretto a testimoniare invitus.Il giurista si riferisce alle cause di esenzione dall’obbligo di

136 testimoniare che, formatesi nell’ambito dei iudicia publica, vennero poi utilizzate anche nelle cognitiones, almeno criminali; si deve quindi escludere che Ulpiano, in questo passo, intendesse riferirsi ai processi civili. Gli Imperatori, già a partire da Marco Aurelio, avevano escluso il ricorso alla tortura per gli appartenenti alle classi più elevate della società; tuttavia, la necessità di estendere le esimenti relative all’obbligo di testimoniare all’assunzione della testimonianza per tormenta, proprie di un sistema processuale che non prevedeva la tortura dei liberi, dimostrerebbe la tendenza a vedere nella tortura lo strumento ordinario per l’interrogatorio del teste. Agli inizi del IV secolo la concezione implicita del De cognitionibus di Callistrato venne attuata, come risulta da D. 22,5,21,2 (Arch. Char. l. sing. de test.) e da D. 48,18,10 pr. e 1 (Arch. Char. l. sing. de test.):

Si ea rei condicio sit, ubi harenarium testem vel similem personam admittere cogimur, sine tormentis testimonio eius credendum non est (D. 22,5,21,2);

De minore quattuordecim annis quaestio habenda non est, ut et divus pius

caecilio iuventiano rescripsit.

Sed omnes omnino in maiestatis crimine, quod ad

personas principum attinet, si ad testimonium

provocentur, cum res exigit, torquentur (D. 48,18,10 pr. e

137 Arcadio Carisio scrive probabilmente nel IV secolo d.C.; dalle sue parole si ricava che gli individui di bassa condizione sociale non dovrebbero essere ammessi alla testimonianza, evidentemente in quanto considerati del tutto inaffidabili; tuttavia, quando la loro testimonianza è necessaria, non gli si deve credere se non sono prima stati torturati. Il giurista attesta poi la persistenza del vigore della disposizione di Antonino Pio, per cui non si poteva assoggettare a tortura il minore di quattordici anni, ma aggiunge che in caso di maiestas la quaestio per tormenta costituiva strumento ordinario d’interrogazione dei testimoni, a prescindere dal loro status di liberi o servi, dalla loro condizione sociale e anche dalla loro età. Da questo passo risulta evidente il cambiamento, almeno a livello di diritto ufficiale, circa la percorribilità della tortura quale strumento d’interrogazione del testimone libero. Tale mutamento è poi ribadito da una serie di costituzioni imperiali, dove si disciplina l’uso della quaestio in fattispecie particolari (es. CTh. 13,9,3 anno 380) o si esentano dalla tortura testimoni appartenenti a classi privilegiate della società, come quella dei presbiteri (CTh. 11,39,10).In queste costituzioni si rintracciano poi altri aspetti indicativi del peggioramento della condizione del testimone libero, come risulta chiaramente da CTh. 9,37,4 (Impp. Arcadius et Honorius):

Abolitionem invito reo, postquam fuerit officii custodiae traditus, intra dies XXX

accusatori petenti dari permittimus, post hoc tempus, nisi reus consentiat,

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censemus non esse tribuendam. Si vero ingenuos aliquos, velut testes criminis

petitos ab accusatore, deductos esse constiterit, solam custodiae iniuriam tolerasse,

qui testes dicantur esse, non conscii, eorum ab accusatore sumptibus

consulendum est. Quod si ingenuorum, licet plebeiorum, corpora fuerint laesa

verberibus tormentisque vexata, abolitionem, etiam duarum partium consensu

petitam, iubemus vigore iudicum denegari, et crimen propositum, cuius examen

tormentis iam coeperat, agitari, nec ante a iudice dimitti, quam in reum, probato

crimine, vindicetur, aut in accusatorem pari forma sententiae damnatio referatur.

Il frammento fa parte di una costituzione emanata a Ravenna dall’imperatore Onorio.Il legislatore mirava ad offrire una garanzia, in caso di abolitio, cioè di ritiro