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I processi di Tiberio e leges de maiestate

CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua

2.5 Crimen maiestatis e risvolti processualistici

2.5.4 I processi di Tiberio e leges de maiestate

Nella propria persona il Princeps, in quanto detentore dell’imperium, possessore dell’inviolabilità tribunizia e capo della religione di Stato, era un simbolo visibile della potenza e della maestà di Roma, per cui la cospirazione contro la sua vita era considerata alto tradimento. Nel 23 a.C. Tiberio aveva ottenuto la condanna di Fannio Cepione, colpevole di aver cospirato contro Augusto168. Tuttavia, molti punti della lex Iulia de maiestate e della lex

Papia Poppaea, richiedevano un’attenta interpretazione:

ci si chiedeva, ad esempio, se rientravano nell’ambito del

crimen maiestatis anche gli insulti contro le statue o le

immagini. Per quanto fosse necessaria una nuova legge, vi erano dei pericoli latenti che si manifestarono solo in seguito; essa infatti incoraggiava il sorgere di una classe di informatori di professione, i delatores, che venivano ricompensati, se avevano successo, con la quarta parte dei beni del condannato. Fino a quando il Princeps poteva esercitare un’influenza moderatrice, fino a quando si sentiva sicuro e non in pericolo, tutto sarebbe andato bene; ma se egli si fosse sentito insicuro la legge sarebbe diventata uno strumento di terrore.I primi anni del Principato di Tiberio furono testimoni di un certo numero di accuse per tradimento, fatte da alcuni in buona fede, ma da molti altri con intenti speculativi.In questo periodo di transizione Tiberio mostrò moderazione e buon senso e, se consultato, rifiutò risolutamente di accettare accuse futili o di considerare passibili di tradimento i libelli e le espressioni di disappunto sulla sua persona. Questo non risulta, però, dalle pagine degli Annales di Tacito, il quale,

168

141 constatando quale formidabile meccanismo fosse divenuta la legge sul tradimento ai suoi giorni, vide in Tiberio l’autore dell’abuso, come vide nella sua moderazione semplicemente ipocrisia; per tali motivi il suo resoconto non poteva che essere imparziale e negativo. Tacito riferisce i primissimi casi di accuse per

maiestas, affinché gli uomini potessero sapere “da quali

inizi e con quale astuzia da parte di Tiberio, questa forma orribile di distruzione si insinuò nello Stato”: i primi delatori diedero l’esempio di una vita che, rendendoli ricchi e temuti, portava la rovina sugli altri e anche su sé stessi. Egli descrive il caso di Libone Druso molto dettagliatamente, perché fu la prima vittima di un male che corruppe lo Stato, e introduce il caso di Appuleia Varilla con le oscure parole “frattanto la legge sul tradimento stava raggiungendo la sua vera statura”, anche se rivela che Tiberio rifiutò espressamente di accettare un’accusa per maiestas contro di lei169. Nel processo a Libone le testimonianze non sono affatto chiare; le fonti insinuano che egli fu accusato di piani rivoluzionari, cioè di complottare contro l’Imperatore e i due figli, e di pratiche magiche, motivo per cui fu processato dal Senato170.Tacito ritiene che egli fosse un povero sciocco nelle mani di furfanti senza scrupoli e che le accuse fossero state interpretate in modo troppo severo: la prova principale sembra fosse stata un quaderno di appunti in cui segni misteriosi seguivano i nomi di Tiberio, Germanico, Druso e di vari senatori.Poiché la fede nella arti magiche era radicata e Tiberio stesso era vittima delle superstizioni più

169

Ann. I,73,74; II,27,50.

170

In questo periodo infatti si diffuse l’idea che i senatori dovessero essere giudicati dai loro pari, e che invece di ricorrere alla quaestio praetoria, nei casi di

crimen maiestatis, si dovesse ricorrere alla corte senatoria, divenuta tribunale

142 grossolane, Libone si suicidò, convinto che non ci fosse scampo. Tiberio dichiarò allora con giuramento che lo avrebbe perdonato nonostante la sua colpa, se egli fosse vissuto.La sua colpevolezza era infatti considerata certa, come dimostrato non solo da Velleio, ma anche da un passo dei Fasti Amiternini che ricorda la festa decretata per il 13 settembre, giorno in cui i disegni delittuosi di Libone Druso furono scoperti in Senato; inoltre è significativo che il suo processo fosse seguito da un decreto generale che bandiva maghi e astrologi dall’Italia. Più fondamento avevano le accuse del genere perduellio, per cui si puniva chi cospirava contro la pace e il benessere dello Stato: tali furono i processi di Antistio Veto, accusato di aver contribuito, con il re Rhaskyporis, a turbare la pace generale, di Vibio Sereno, accusato di preparare una rivolta in Gallia e di M. Cecilio Cornuto, accusato di complicità. In questo caso Veto fu punito con la normale pena dell’aqua et igni interdictio e quando fu proposta per Sereno una punizione più severa, Tiberio si oppose. Altri due processi, relativi a offese scritte o pronunziate, presentano incertezze maggiori. Il primo caso riguarda un poeta, Clutorio Prisco il quale, avendo guadagnato una buona ricompensa per un’elegia scritta in occasione della morte di Germanico, fu così sciocco da comporre e recitare, quando Druso cadde malato nel 21 d.C., un poema che dimostrava come egli potesse celebrarne anche la morte. Trascinato davanti al Senato, forse con l’accusa di praticare arti magiche, fu condannato a morte. Il secondo caso riguarda Cremuzio Cordo, storico famoso, accusato dagli agenti di Seiano nel 25 d.C. Sebbene Tacito gli faccia pronunciare un’ardente difesa, non è certa l’accusa; probabilmente egli fu condannato per aver celebrato Bruto e Cassio come gli ultimi veri Romani. Alla

143 fine Cordo si suicidò e i suoi libri furono bruciati pubblicamente dagli edili, sebbene alcune copie vennero salvate dai suoi amici.Tuttavia, anche se è possibile osservare un eccesso di zelo da parte di Seiano e troppo poca libertà di giudizio da parte dei senatori, anche se Tacito dipinge a tinte fosche il diffondersi di questo male, molte cose dimostrano che Tiberio tentò di esercitare un’influenza moderatrice; egli poi non considerò mai imputabili di maiestas le espressioni diffamatorie contro la sua persona.L. Elio Seiano era di origine etrusca e, come indica il suo nome, era stato adottato in un certo momento da un membro della gens Aelia. Già all’inizio le sue qualità incontrarono favore, dato che Augusto lo scelse come comites quando Cesare si recò in Oriente nel I a.C.. Nel 14 d.C., per volere di Tiberio, egli divise con il padre la prefettura del pretorio; poco dopo, in occasione della nomina di suo padre a prefetto d’Egitto, egli rimase solo al comando e questa posizione, unita al suo talento, gli diede modo di aumentare il prestigio che già aveva presso Tiberio.La sua posizione di capo della polizia gli offriva grandi vantaggi; inoltre si ritrovò con un’arma formidabile, la legge di lesa maestà, grazie alla quale poteva eliminare i suoi nemici ed avvicinarsi sempre di più al potere. Il primo compito di Seiano fu quello di risvegliare le paure di Tiberio nei confronti di Agrippina, vedova del famoso generale Germanico, e dei suoi figli che, dopo la morte di Druso, amato figlio dell’Imperatore, erano i primi nella lista di successione. Questo era un probabile e reale pericolo, per cui Seiano lentamente abbatté i principali sostenitori di Agrippina con processi per maiestas e fomentò la gelosia di Druso nei confronti del fratello maggiore Nerone, ricordandogli che poteva diventare lui il legittimo successore se non ci fosse più

144 stato il fratello. Agrippina considerò tutte queste azioni un attacco alla sua persona, per cui rimproverò Tiberio e lo supplicò di permetterle di sposarsi nuovamente; tale passo avrebbe, però, portato ad ulteriori complicazioni e per questo Tiberio pose fine alla loro amicizia.Ora Seiano poteva mettere i due l’uno contro l’altro; alcuni, che si dicevano suoi amici, avvertirono Agrippina che Tiberio intendeva avvelenarla e Nerone, provocato, pronunziò espressioni incaute che furono prontamente riferite.Sembra che fatti spiacevoli come questi abbiano spinto Tiberio a ritirarsi da Roma; tuttavia il ritiro fu un fatale errore ed ebbe le più serie conseguenze.Il suo comportamento venne giudicato come una diserzione al dovere, e mentre egli perdeva prestigio sul popolo, il Senato sentiva sottolineata in modo evidente la propria inferiorità e dipendenza dal Princeps. La posizione di Seiano si rafforzò ulteriormente; la fiducia di Tiberio in lui era senza limiti, soprattutto da quando il prefetto gli aveva salvato la vita rischiando la propria. Qualunque cosa dicesse Seiano trovava credito presso l’Imperatore, e questo favorì la manovra contro Agrippina.Un altro suo fautore, Tizio Sabino, venne accusato di cospirazione ai danni di Tiberio e di corruzione dei suoi liberti; nei suoi confronti venne approvata la pena di morte, contrariamente a quanto previsto dalla legge, e l’esecuzione avvenne immediatamente. Per la prima volta era stata decretata la pena di morte per l’offesa di

maiestas, a causa delle espresse paure di Tiberio171. Poco dopo la morte di Livia Augusta, arrivarono dispacci da

171

La narrazione di Tacito fa pensare che queste paure fossero principalmente un’invenzione di Seiano, ma un passo di Plinio il Vecchio suggerisce un punto di vista differente: non è impossibile che Agrippina e suo figlio, se non

personalmente implicati in una congiura, fossero al centro di un complotto, e che vi fosse quindi un certo pericolo (Plinio il Vecchio, op. cit., VIII, 145).

145 Tiberio contenenti amare lamentele contro il carattere e la moralità di Nerone e la “contumacia” di Agrippina; dopo la prima esitazione del Senato, Agrippina e Nerone furono banditi da Roma. Nel 30 d.C. Tiberio, esasperato dalla situazione che si era creata, pensò di suicidarsi; ora bastava che Seiano mettesse da parte Druso e Gaio (Caligola) e l’unico successore possibile sarebbe stato Tiberio Gemello, il nipote sopravvissuto dell’Imperatore, di cui avrebbe potuto facilmente diventare il tutore. Durante l’anno 30 ogni cosa andò bene e la posizione di Seiano divenne ancora più solida. Egli aveva molti sostenitori e aveva rapporti influenti con la maggior parte degli eserciti settentrionali; inoltre Tiberio gli aveva promesso il matrimonio con un membro della famiglia imperiale e lo aveva nominato console, come suo collega, nell’anno 31. Seiano era dunque destinato alla successione; a questo punto, però, i sospetti di Tiberio vennero risvegliati. Quando egli ebbe la certezza del tradimento dell’amico, Seiano venne condotto in carcere e nella stessa sera, quando i senatori videro che i pretoriani erano calmi e che la folla non dava segni di rivolta, venne strangolato. Tiberio decretò che per i seguaci di Seiano la punizione doveva essere spietata, soprattutto dopo la notizia che egli era responsabile della morte di suo figlio Druso. Le interrogazioni dei colpevoli e dei sospetti vennero eseguite con selvaggio rigore e, per la prima volta, Tiberio non mostrò alcun segno di pietà e moderazione; seguì qualcosa di molto simile ad un regno del terrore: si diceva infatti che le prigioni fossero affollate di seianiani172.Si erano dunque realizzati i timori riguardanti le leges de

172

Cook S. A., Adcock F. E., Charlesworth M. P. (a cura di), Storia del mondo antico, volume ottavo, L’impero romano da Augusto agli Antonini, Cambridge university press, Milano, 1978 (traduzione di Gallina A., Lattanzi E., Torelli R., Torelli M.), pagg. 293 ss.

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maiestate, che da questo momento in poi verranno

strumentalizzate dagli Imperatori e dai loro funzionari per raggiungere scopi meramente politici.Nella complessa situazione giudiziaria che caratterizzò il regno di Tiberio, molti furono coloro che, sospettati o ufficialmente denunciati, condannati o ancora in attesa di giudizio, preferirono la morte di propria mano alla vergogna e al dolore fisico e morale. Osservando tale fenomeno attraverso la lettura degli Annales e dell’opera di Dione Cassio, oltre che di Svetonio, Seneca, Plinio il Vecchio e Velleio Patercolo, si possono registrare almeno cinquanta casi di suicidio compresi tra il 14 a.C. e il 37 d.C. . Tra questi, oltre ai tre incerti riguardanti i membri della famiglia imperiale, cioè Agrippina moglie di Germanico e i suoi due figli Druso e Nerone, solo nove non sono riconducibili ad un’azione giudiziaria, tra cui il suicidio di Giulio Florio, capo della rivolta dei Treviri, e Giulio Sacroviro, che comandò la rivolta degli Edui173.Il dato più appariscente di questa analisi rivela dunque che la grande maggioranza dei suicidi registrati per l’età di Tiberio è da mettere in relazione ai processi, che caratterizzarono questo periodo colpendo un buon numero di esponenti della classe dirigente romana, e alla volontà dei condannati di prevenire con il suicidio la condanna. Si possono enumerare, tra questi, ben ventitré casi di imputazione di maiestas, tra i quali spiccano i nomi di Libone Druso, Cremuzio Cordo, peraltro già ricordati nel precedente paragrafo, Asinio Gallo174, Emilio Scauro175, Fulcinio Trione176 e Lucio Arrunzio177. La lettura delle fonti

173

Tac., Ann. 3,40-47. 174

Tac., Ann., 6,23; Sen., Ep., 55,3; 22,4; Dio., 57,2,7; 58,3,1-3; 23,6. 175

Tac., Ann., 6,29,3-4; Dio., 58,24,3-5; Sen. Suas. 2,22. 176 Tac., Ann., 6,38,1; Dio., 58,25,2-4.

177

147 e il confronto tra le diverse testimonianze antiche consentono di stabilire un quadro sufficientemente chiaro e preciso delle circostanze che indussero molti sospettati e accusati a suicidarsi; l’approccio storiografico permette di verificare il limite di un certo tipo di lettura “filosofica” del suicidio in ambito imperiale: applicando infatti in modo generalizzato le presunte categorie della morale stoica, si rischia di incorrere in una serie di luoghi comuni, molto poco scientifici.Bisogna dunque porre una seria obiezione al concetto del suicidio “politico”, quello cioè di ordine puramente ideologico, che rimanda al gesto di personaggi mossi da una forte idealità che con la propria morte si elevarono al di sopra di coloro che avevano causato la dissoluzione dei valori nei quali essi avevano creduto e sui quali avevano basato la loro esistenza. Così fu presentato, com’è noto anche attraverso la Divina Commedia, il suicidio di Catone l’Uticense, divenuto simbolo della libertà e della Democrazia.Il caso di Cocceio Nerva, spinto al suicidio dal disgusto dei tempi e dal rifiuto di continuare ad essere amico di un despota, è l’unico definito esplicitamente da Tacito come suicidio ideologico; da Foscolo in poi Nerva è sempre stato considerato il simbolo della resistenza passiva alla tirannide e dunque il prototipo del suicidio stoico di età neroniana. Tuttavia, confrontando la versione degli Annales con la testimonianza di Dione, il quale ricollega il suicidio di Nerva ad uno scandalo legato alla crisi finanziaria del 33 d.C., si evince che Tacito, scrittore sotto il figlio adottivo dell’imperatore Nerva, nipote del nostro, abbia estrapolato la notizia da tale contesto, creando il falso mito del suicidio del nobile giurista amico di Tiberio.Se in alcuni casi emblematici, come quello di Lucio Arrunzio, i cui discorsi in Tacito esaltano valori per i quali si può

148 sacrificare anche la vita, è possibile ravvisare un’eco delle motivazioni caratteristiche del suicidio ideologico, non si può tuttavia passare sopra al fatto che si trattava di persone già condannate a morte; inoltre i discorsi riportati da Tacito risentono in modo talmente evidente della pessimistica concezione tacitiana dell’Impero, da far sorgere il sospetto che essi siano stati modificati dallo storico in questo senso, cioè in modo che questi suicidi acquisissero l’aspetto idealizzato che ha assunto quello di Cocceio Nerva. Si può dunque concludere affermando che il suicidio ideologico, almeno in riferimento all’età di Tiberio, non esiste. Spesso era, come dice lo stesso Tacito, la stessa asprezza del supplizio capitale una delle motivazioni che spingevano gli accusati a togliersi la vita prima di essere giustiziati:

Tac., Ann. 6,29,1-2: Nam promptas eius mortes metus

carnificis faciebat, et quia damnatis publicatis bonis sepoltura prohibebantur, eorum qui de se statuebant humabantur corpora, manebant testamenta, pretium festinandi.

In questo passo Tacito, a proposito del suicidio di Pomponio Labeone e della moglie, commenta la frequenza dei decessi volontari in quel periodo; egli spiega che il suicidio degli imputati avveniva spesso per due principali motivazioni: la paura del carnefice e la consapevolezza che i condannati a morte non avevano sepoltura e subivano la confisca dei beni, mentre coloro che decidevano la propria sorte godevano del beneficio della sepoltura e del rispetto del proprio testamento.Tale testimonianza è

149 fondamentale per la determinazione delle conseguenze giuridiche del suicidio; è stato infatti constatato che la pratica della confisca dei beni dei condannati era alquanto flessibile e che, tuttavia, dei casi che terminarono con il suicidio dell’imputato menzionati da Tacito, solo tre si conclusero con la confisca del patrimonio o di una parte di esso: quelli di Libone Druso nel 16 d.C., di Cneo Pisone178 nel 20 e di Caio Silio179nel 24. La rarità della confisca post

mortem, prevista per il reato di maestà, potrebbe

confermare la spiegazione della frequenza dei suicidi data da Tacito. Si è giustamente osservato che se gli accusati avessero saputo che il loro suicidio avrebbe comunque implicato la totale confisca dei beni, l’infamia della condanna e il divieto di sepoltura, probabilmente non si sarebbero affrettati nel darsi la morte, ma avrebbero atteso il risultato del processo, nella speranza di salvare la vita e di poter trasmettere la loro eredità ai figli. Sappiamo infatti anche da Dione Cassio180che molti accusati si suicidavano per i motivi proposti da Tacito. Dione descrive in modo particolareggiato la situazione in cui si venivano a trovare coloro che erano condannati a morte e giustiziati.Egli riferisce infatti che erano molti coloro che ricorrevano la suicidio nel caso di accusa per crimen

maiestatis, dato che in tale caso venivano trascinati in

carcere e giustiziati sul posto, oppure venivano scaraventati dalle scale Gemonie dai tribuni o dai consoli, per poi esporne i corpi nel Foro prima che fossero gettati nel Tevere. Le notizie fornite da Dione combaciano perfettamente con la testimonianza di Tacito, tanto da poter ipotizzare l’utilizzo della stessa fonte da parte dei

178

Tac., Ann. 3,8-18; 6,26; Svet., Tib. 52,3; Cal. 2; 3; Vit. 2; Dio. 57,18,9-10; 20,2; Vell. 2,130,3.

179Tac., Ann. 4,18-20; Vell. 2,130,3. 180

150 due storici. La conclusione del passo di Dione contiene, però, un errore di interpretazione; egli afferma infatti che sarebbe stato lo stesso Tiberio a consigliare agli accusati di suicidarsi per evitare la confisca. Questa notizia probabilmente è riferita alla prassi delle epoche successive, come quella di Claudio, durante la quale il suicidio veniva concesso come una sorta di mitigazione della pena. Ma è notoriamente sotto l’imperatore Nerone che i sospettati di colpe contro la sua persona ricevevano l’ordine di uccidersi.Lo stesso Dione afferma in altri passi che Tiberio cercava di impedire che gli accusati si togliessero la vita prima o durante il processo, dimostrando la sua opposizione ad una pratica che, di fatto, ostacolava il regolare corso della giustizia. Per meglio comprendere la norma riguardante le conseguenze giuridiche del suicidio, bisogna far riferimento al periodo immediatamente precedente a quello in cui era in vigore la normativa stessa. L’esame delle fonti più antiche relative in generale al suicidio a Roma, tanto giuridiche quanto letterarie, rivela che non esistevano pene applicabili contro tale atto in sé, anche se il suicidio fosse stato perpetrato prima o durante un processo: la questione a questo riguardo si riduceva alla discussione sulla confisca dei beni del deceduto, non essendo applicabile nessun’altra sanzione. Dall’analisi delle norme repubblicane emerge che si susseguirono continue variazioni ad opera degli Imperatori e dei giureconsulti classici e bizantini. Il principio vigente nella Repubblica è ben rappresentato da alcuni episodi, i quali confermano che la confisca dei beni non era un mezzo di repressione del suicidio, in quanto non colpiva il gesto in sé, ma puniva l’intenzione colpevole del suicida sottrattosi alla legge

151 prima del verdetto o dell’esecuzione181.La norma repubblicana riguardo alla confisca dei beni dei suicidi prevedeva infatti che la confisca poteva avvenire solo se la condanna era pronunciata prima che il colpevole morisse, altrimenti non era possibile continuare il processo né tanto meno prevedere delle conseguenze relative a quest’ultimo.Il suicidio precedente la condanna era dunque assimilato, in alcuni casi, al decesso naturale. Sicuramente esisteva anche nella legislazione successiva