CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua
2.3 Definizione del crimen maiestatis
Il crimen maiestatis rappresenta il più grave tra i delitti politici contemplati dal diritto penale romano, in quanto veniva contestato a coloro che si arrogavano un potere superiore a quello conferitogli dalla costituzione, in violazione della maiestas populi Romani in un primo tempo, e in seguito della maiestas dell’Imperatore.Tale era la definizione del crimen maiestatis, come riportata nelle Pauli Sententiae:
1. Lege Iulia maiestatis tenetur is, cuius ope consilio adversus imperatorem vel
rem publicam arma mota sunt exercitusve eius in insidias deductus est, quive
iniussu imperatoris bellum gesserit dilectumve habuerit, exercitum comparaverit
sollicitaverit, deseruerit imperatorem.
His antea in perpetuum aqua et igni interdicebatur: nunc vero humiliores bestiis
obiciuntur vel vivi exuruntur, honestiores capite puniuntur. Quod crimen non
solum facto, sed et verbis impiis ac maledictis maxime exacerbatur.
2. In reum maiestatis inquiri prius convenit, quibus opibus, qua factione, quibus
hoc auctoribus fecerit: tanti enim criminis reus non obtentu adulationis alicuius,
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sed ipsius admissi causa puniendus est, et ideo, cum de eo quaeritur, nulla dignitas a tormentis excipitur.103
Per ben comprendere tale istituto, bisogna innanzitutto indicare cosa intendevano i Romani per maiestas; naturalmente le definizioni non sono univoche e la loro molteplicità o disparità serve a costruire un campo dottrinale molto vasto che possiamo denominare area concettuale del termine maiestas.La prima definizione della maiestas si fonda necessariamente sull’etimologia di tale termine, della quale sono state proposte varie ipotesi: “Maiestas dicitur quasi maior potestas”, come ripetono in molti (Lear, Gundel) sulla scia di definizioni risalenti, ad esempio, al Vocabolarium di Papia, o “Maiestas idest
maior status”. La declaratio per etymologiam ha in genere
lo scopo di individuare il campo di azione della terminologia alla quale si riferisce, e la parola maiestas non fa eccezione a questa regola. Le “etimologie” che dovrebbero spiegarla la collocano, appunto, nell’area terminologica del potere e, di conseguenza, il crimen
laesae maiestatis viene definito come uno strumento per
perseguire ogni attentato al sistema del potere in quanto tale. Il principio che nasce da tale definizione è quello secondo cui la maiestas è situata in alto e si irradia verso il basso trasmettendosi per luce riflessa anche ad altri soggetti; connesso a questo principio è anche quello secondo cui il crimen maiestatis si commette solo dal basso, qualsiasi sia il grado di gerarchia da cui nasce l’offesa.Infatti, se un soggetto fornito di tale maior
potestas offende un suo subiectus, titolare anch’egli di una
sua maiestas particolare, non commette crimen maiestatis. Da ciò si evince che i valori protetti sono il
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83 potere e la gerarchia, e non la maiestas come attributo di un particolare soggetto. La definizione a base etimologica non è quindi solo un’esercitazione culturale o un contributo alla chiarificazione dei concetti, dato che si presenta in modo evidente come un metodo per la formazione dei concetti ed un’occasione per orientare il loro ruolo nel discorso giuridico. Così introdotte, le ulteriori definizione di maiestas ci appaiono facilmente interpretabili, dato che con esse i giuristi intendono dare una sorta di nozione succedanea dello stesso crimen
maiestatis104. Benedict Carpzov adotta una definizione qualitativa del crimen maiestatis, in un crescendo di attributi terribiles che servono a dimensionare il crimen come gravissimum105. Quindi, per dare adeguato seguito alle premesse, inizia ad analizzare il punto cruciale di tutto il sistema, appunto la nozione di lesa maestà. Il giurista cerca di ridimensionare il versante “honor et dignitas” della maiestas, che aveva il suo fondamento nella concezione liturgica del potere politico, a vantaggio del versante “potestas”, che rappresentava la scelta di fondo della dottrina più politicizzata. Si tratta di specificazioni che rispondono ad una tendenza culturale diffusasi con i primi studi storici sul diritto romano e spesso imperniata sull’uso di auctoritates composite, tra cui Ulpiano, Cicerone e Svetonio, piuttosto incline a dare della
maiestas un’immagine letteraria, sicuramente suggestiva,
104
Essi infatti definiscono con la maiestas l’oggetto della lesione posta in atto con il comportamento criminoso, operando indirettamente una valutazione
concettuale di tale crimen 105
B. Carpzov, Practica nova imperialis saxonica rerum criminalium, parte prima della Quaestio XLI.
Carpzov scrive la sua opera a partire dal 1635, ai margini della grande stagione penalistica del Cinquecento. Qui di seguito verranno riportate definizioni più o meno risalenti a questo periodo, dato che il diritto romano era ancora in gran parte in vigore, e dato che le definizioni dei giuristi latini non erano tali, in quanto non liberamente maturate, da spiegare i caratteri peculiari del crimen maiestatis.
84 ma priva di un apprezzabile contenuto politico.Carpzov articola quindi un discorso alternativo che, senza rinunciare ad alcune precisazioni sull’honor o sulla dignitas che emanano dalla maiestas, pone l’accento sul suo nesso preminente con la potestas; la maiestas non deriva dai titoli di cui si ci può fregiare, né dal timore che si incute agli altri, né dalla virtù, né dalla probità, ma da tre elementi essenziali che definiscono il potere maiestatico. La maiestas deve essere summa, cioè propria di chi “non
agnoscit superiorem praeter Deum “, perpetua, cioè non
deve riguardare coloro che detengono il potere “ad breve
aliquod tempus”, e legibus soluta; quest’ultimo requisito
dipende dal primo, dato che ciò che è sommo e non conosce superiori ad esso, automaticamente non deve sottostare alla legge106. Tale ragionamento soffre di qualche schematicità, ma indica con sicura chiarezza l’opzione per un concetto politico di maiestas al quale ancorare un particolare e ben caratterizzato tipo di lesa maestà. Carpzov aggira con facilità la contraddizione che sembra annidarsi nella sua definizione, derivante dalla esclusione in via teorica di soggetti di maiestas diversi dal
summus Imperator, strutturando un sistema nel quale
esiste una maiestas originaria alla fonte di tutte le altre, che appaiono così riflesse o delegate. L’immagine che Arnold Clapmar offre della maiestas, è legata all’esigenza che tale potere, necessariamente effettivo e provvisto di consenso, sia “legibus armatus” in un ordinamento in cui le leggi siano a loro volta “armorum praedidio
106
“ … neque per excellentiam quondam virtutis et probitatis, quae sine Magistratu, sine Imperio, sine fortunae adminiculo honoratam [maiestas] definienda est, sed per maiestatem ius ipsum, quod in summa potestate consistit intelligendum est ; ut proinde vere ac proprie maiestas dicatur et definiatur summa et perpetua legibusque soluta potestas.”B. Carpzov, Pratica, I, quae.
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servatae”107; nel suo sistema la maiestas dell’Imperator è
garantita dallo ius dominationis. Infine Kirchner, contestata la tendenza riduttiva che definiva la maiestas “ex personali dignitate”, passa ad una concettualizzazione molto concreta: “Maiestas est summa reipublicae
potestas, quam qui statui praeest obtinet in subiectos”108. Risolvendo il problema dello scudo maiestatico di cui si avvalgono i titolari della maiestas non in termini di delega, ma appellandosi ad una sorta di corpo mistico del potere, egli imposta i termini concreti di un sistema di protezione del potere politico fondato sull’ordine e sulla gerarchia. Questi elementi conducono necessariamente ad una riflessione che molti hanno fatto a proposito della nozione romana di maiestas: ordine e gerarchia rappresentano infatti la concretizzazione giuridica di una disuguaglianza tra le varie forze o i diversi soggetti operanti all’interno dello Stato, e sono posti a garantire la perpetuazione di tale disuguaglianza elevata a principio fondamentale e portante dello Stato stesso. In tale prospettiva, la maiestas cessa di essere una qualità per divenire una relazione, ed è proprio su questa trasformazione che si fonda la sua capacità di incarnare il potere, il quale viene ad essere inteso come una relazione tra ineguali109. Gli estremi del
crimen maiestatis110 sono: che l’offeso possegga la maestà, che il delinquente sia suddito della maestà offesa, che l’azione rientri nel titolo di questo delitto. Per ben
107
A. Clapmar, De arcanis rerumpublicarum, Leiden, 1644, cap.10 108
H. Kirchner, Respublica, Disp. II, De protestate maiestatis, thesis 3, 1608 109 M.Sbriccoli,Crimen laesae maiestatis, il problema del reato politico alle soglie
della scienza penalistica moderna , Milano, 1974
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Per comodità nella descrizione del crimen in questione, si fa riferimento a quelle che erano le sue caratteristiche nel periodo del Principato e dell’Impero, dato che tali caratteristiche si sono poi mantenute quasi inalterate, anche in seguito alla caduta dell’Impero, fino al 1800, come attesta il libro del Professore G. Dingli, Elementi del diritto criminale dell’avvocato Giovanni Carmignani, Napoli, 1854, pag. 87.
86 comprendere tali estremi è necessaria, innanzitutto la precisa individuazione del soggetto maiestatico. A questo proposito occorre far riferimento al libro 48 del Digesto, nella parte in cui elenca i frammenti relativi al complesso di iura dal quale deriva la legislazione imperiale. Rispetto al modello repubblicano, di cui la legge Giulia costituiva una riattivazione, opportunamente corredata da integrazioni dovute al cambiamento del regime istituzionale, emergono solo due significative variazioni terminologiche: la progressiva modifica dell’espressione
iniussu populi con l’altra iniussu Principis e la frequente
sostituzione del richiamo al Princeps al posto di Res
Publica e magistratu populi Romani, quali potenziali
soggetti passivi di atti eversivi di vario genere. La presunta sopravvivenza, nel testo di legge augusteo, di espressioni quali populus Romanus e Res Publica non deve essere interpretata come un anacronismo: come è stato autorevolmente osservato dal Pugliese111, lo Stato, dopo il 27 a.C., era ancora qualificato come Res publica, sicché tramare contro il Principe, attentare alla sua incolumità o usurpare l’esercizio dei suoi poteri significava agire
adversus Rem Publicam. L’introduzione di un nuovo
soggetto di maiestas rispecchia perfettamente il primo dei due stadi evolutivi che la concezione e profili repressivi del
crimen maiestatis attraversarono in età imperiale: il primo
livello si colloca appunto nell’età del Principato, quando il Senato cominciò a perseguire a titolo di maiestas i tentativi o i propositi di rovesciare l’assetto politico imperniato sulla figura del Princeps.
Per queste vie il tradimento perse molto del suo originario peso concreto, ma soprattutto la securitas
111 G. Puglise, Linee generali del’evoluzione del diritto penale pubblico durante il
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populi Romani, valore che pure ancora figurava al centro
della famosa definizione ulpianea112, quale bene protetto dallo scudo maiestatico, si avviò a divenire uno storico ricordo.Oggetto della protezione garantita dal sistema repressivo del crimen maiestatis era ormai la persona dell’Imperatore e il suo potere. Successivamente la titolarità della maiestas venne riconosciuta anche ai senatori, agli ufficiali, ai pretori, al consiglio privato del
Princeps e, in generale, a tutti coloro che componevano il
suo seguito. Il valore squisitamente politico della maiestas e della sua protezione penalistica emergono in tutta la loro chiarezza: oggetto e destinatario della protezione è chi impersona, detiene, gestisce il potere politico o una parte di esso in modo legittimo113.Bisogna ora definire chi siano in concreto i destinatari dell’obbligo di obbedienza e fedeltà.Ricorda il Giganti che “subditus naturali iure
tenetur ad obedentiam principi suo”, aggiungendo però,
che “non sic non subditum, qui eam maiestatem revereri
non tenetur cui subditus non est”114. Si tratta di un principio fondato su un ragionamento che è insieme politico e formalistico: da un lato non si può far uscire l’obbligo di obbedienza dal rapporto astratto di soggezione tra il suddito e il suo Princeps, ma dall’altro c’è un relativo e occasionale interesse a garantirsi obbedienza al di fuori della propria sfera di giurisdizione e potere. Giovanni da Imola sottolinea due punti essenziali: occorre piena potestà per punire il reo di lesa maestà, e questa potestà non è piena se il reo non subiacet a chi lo giudica; tutte le eccezioni connesse alle persecuzioni dei
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Dig. 48,4,1 113
M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis, Il problema del reato politico alle soglie
della scienza penalistica moderna,cit., pag. 98.
114 G.Giganti, De crim.maes.maiest., lib I, Qualiter et a quibus committatur
88 dissenzienti politici valgono quando si tratta di subditi, e non di nemici esterni115.Se la potestà maiestatica si arresta ai confini del regno, allora la maiestas non è una qualità intrinseca dell’Imperatore, assoluta e peculiare, perché in quel caso varrebbe contro qualsiasi offensore: il fatto, invece, che è espressione di un rapporto tra dominante e dominato e, in ultima analisi, il segno di un potere reale, spiega la limitatezza all’area di quel rapporto. Nasce, a questo punto, il problema di una precisa definizione di
subiectus. Si è sudditi di qualcuno, affermano i giuristi,
innanzitutto ratione domicilii, seu originis, ma anche
ratione superioritatis, rerum, contractus, officii, iurisdictionis, e, quel che più ci interessa, ratione delicti.Una definizione così articolata osserva due regole
tecniche che ricorrono spesso nelle opere dei giuristi: in primo luogo essa non risponde direttamente alla domanda “subditus quis sit”, come vorrebbe una rigorosa logica definitoria, ma alla domanda “ex qua ratione sit quis
subditus”; in secondo luogo essa concede una grande
possibilità di manovra e di movimento, consentendo di individuare caso per caso la qualità di suddito in capo ad un certo delinquens.C’è da dire, tuttavia, che il principio che restringeva al subditus l’area di incriminabilità rispetto al crimen maiestatis, recava in sé alcune obiettive contraddizioni; si pensi al caso dell’offesa che poteva essere arrecata contro un legatus Principis: per la natura dei suoi compiti infatti, l’ambasciatore era normalmente esposto nei confronti degli stranieri, e la dottrina non poteva non mettere in opera il principio dell’honor
Principis, a pena di vedere del tutto vanificata la
protezione maiestatica che si era voluta accordare ai
nuncii e legati, per evidenti ragioni politiche di sicurezza e
115
89 di prestigio.Un caso simile si poneva per gli exploratores (spie) e, in modo ancora più clamoroso, per coloro che erano stati messi al bando.Posto, infatti, che la condanna al bando presupponeva la perdita della cittadinanza, si poneva il problema dell’assoggettabilità del condannato al sistema dei reati di maestà, ogni volta che poneva in essere comportamenti contrari agli interessi dell’Impero.La soluzione più efficace sembra essere quella di considerarlo hostis con tutte le conseguenze di ciò, o nel trattare la questione de facto, uccidendolo. Si pone quindi il serio problema dell’individuazione di soggetti specifici che possono rendersi rei di lesa maestà, nonché delle circostanze di tale reità, e, naturalmente, possono presentarsi profili di tale individuazione che riportano l’attenzione sulla vasta area delle maiestates
riconosciute.Ognuno dei titolari di maiestas, mentre viene protetto nei riguardi dell’opposizione che può trovare nei suoi sottoposti, è esposto all’accusa di crimen maiestatis ogni volta che non osservi integralmente i suoi doveri di obbedienza e fedeltà verso l’alto: per cui, se si esclude l’Imperatore, tutti gli altri subiecti possono commettere reato di lesa maestà116.
116M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis, Il problema del reato politico alle soglie
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