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Fine ottocento : in Italia e in Europa

CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua

3.3 Fine ottocento : in Italia e in Europa

La “simpatia liberale e romantica verso il delinquente politico”239non poteva non avere una traduzione normativa nella legge fondamentale italiana di fine ‘800 per quanto riguarda il diritto penale. Il codice Zanardelli del 1889, infatti, recepisce in pieno le indicazioni dottrinarie e gli approcci legislativi e giurisprudenziali sopra richiamati, e prevede, per la categoria di delitti in esame e per qualunque reato ad essa connesso, il privilegio del divieto di estradizione. La questione è molto complessa, per il dibattito e la successione legislativa cui ha datoluogo nel XX secolo in Italia. Per ora, è importante sottolineare che, nel codice, è ormai riconosciuto il valore dell’estradizione come istituto indispensabile alla certezza del diritto e alla cooperazione tra i popoli. La regola, che implica la consegna del reo, da parte dello Stato in cui si trova, allo Stato del “locus patrati delicti”240, è quindi costantemente seguita, ma in questo caso subisce una eccezione: alla repressione del reato commesso “si sostituisce un trattamento di tutela del delinquente politico, nella convinzione che occorra evitare che la reazione al crimine da parte dello Stato offeso possa, nella specie, degenerare in un giudizio parziale”241.In altri termini, se il reato di cui lo si accusa è politico, l’imputato che risiede in Italia non viene considerato un delinquente,

“ma unicamente un dissidente, (…), una vittima della mancata libertà d’opinione politica”242, e per questo viene

239

G. Quintero , La nuova immagine del reato politico, cit., pag. 3 240

U. Aloisi ,N. Fini , voce Estradizione, in Novissimo digesto italiano, vol. VI, Torino, 1960, p.1007. Cfr. anche R. Palamara, Rapporti penali interstatuali, in

Quaderni della giustizia, n. 31, 1984, pagg. 4 ss.

241

D. Manzione , Vecchie e nuove prospettive nei rapporti tra reato politico ed

estradizione, in Cassazione penale, 1985, pag. 218

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173 protetto e non rispedito nel luogo della repressione penale. La protezione, inoltre, è assoluta e illimitata: nel codice Zanardelli mancano, infatti, norme che “chiariscano

expressis verbis la portata del concetto di delitto politico, né risulta espressamente definita la portata della vasta area dei reati connessi, fatta egualmente ricadere sotto il divieto di estradizione”243.

Si ripropone, quindi, a distanza di secoli, il problema del contenuto della locuzione “reato politico”: il legislatore dell’epoca ha rinunciato a conferirlo, sia nel tenore letterale del Codice che nei veri Regi Decreti di amnistia e indulto, dove sono contemplate fattispecie tra loro diverse. Conseguenza di quest’omissione sono le inevitabili critiche della dottrina244, e una rischiosa deriva verso l’arbitrio dei giudici, destinato a dominare in caso di lacuna legislativa245. Se l’Italia non si preoccupa di definire l’ambito di politicità dei reati, e non riempie di contenuti e limiti il suo atteggiamento di clemenza, lo stesso non si può affermare per altri Stati Europei. Le legislazioni d’Europa, nel corso dei decenni, conservano il principio del doppio binario tra delinquenza politica e delinquenza comune, e adeguano le loro disposizioni a questa premessa teorica e criminologica, negando più o meno ovunque l’estradizione per i reati contro lo Stato. Tuttavia,

243

M. Chiavario, Rapporti tra reato politico ed estradizione, pag. 88.

244 P. Barsanti in Del reato politico, cit. pag. 297, è il primo a temere la mancanza di una definizione legislativa del delitto politico come causa di incertezza nella dottrina e di arbitrio nella pratica; per questo, censura il sistema seguito dal nostro legislatore.

245 E’ la tesi del A. Crivellari., in Il Codice penale per il Regno d’Italia interpretato, Torino, 1890, pag. 488. L’Autore, tuttavia, si distingue per l’ottimismo, auspicando interventi giudiziari “coscienziosi” e contributi “illuminati” da parte della dottrina. Molto meno fiducioso nella magistratura è invece Carfora F., in voce Delitto

politico, cit., pag . 838: il giurista è convinto che sulla questione “si debba lasciare

quanto meno è possibile all’arbitrio del giudice, specie considerando che la dottrina in questa materia non è punto pacifica, e non può servir di guida al giudice”.

174 col tempo ci si accorge che l’applicazione indiscriminata di tale principio potrebbe vanificarne la portata garantista, atteso che il nobile movente ideologico, privo di contorni e di limiti, poteva essere applicato a qualunque tipo di reato, purchè commesso con una finalità politica, e poteva inoltre “ben convivere, nell’animo del reo, con

motivazioni più laide, se non costituire per queste ultime un utilissimo schermo protettivo”246. Ecco quindi che le esperienze giuridiche europee, dopo aver garantito i dissidenti politici, si sono mosse, da fine ‘800 ai primi decenni del secolo scorso, “per ritagliare certe ipotesi

destinate a essere sottratte all’area del divieto”247.

Il caso più eclatante è senza dubbio quello del Belgio, sia in un senso che nell’altro. Nel 1833, a soli tre anni dalla conquista dell’indipendenza, il primo re dei Belgi Leopoldo I di Sassonia emana per il suo popolo la legge sull’estradizione, nella quale traduce stabilmente “l’istanza di trattamento privilegiato del reato politico, che

era già andata maturando sul piano delle relazioni internazionali”248. Con l’art. 6 di tale legge, infatti, il Belgio si assume il divieto di estradare ogni persona imputata di un delitto politico, nonché di fatti connessi a quel tipo di reati. Una prescrizione assoluta e indeterminata, accolta ed imitata in Italia 46 anni dopo nel Codice Zanardelli. Proprio in Belgio, tuttavia, dopo pochi anni arriva il primo contraccolpo: una legge del 1856 viene infatti ad integrare la normativa del 1833, introducendo quella che passerà

nella terminologia corrente come “clausola belga” per

246

M. Micali , La regolamentazione del reato politico nell’impianto codicistico, in www.lexfor.it, sezione Approfondimenti di diritto penale, area tematica “La

natura politica del reato tra norme costituzionali e disposizioni codicistiche”, pag.

2.

247D. Manzione , Vecchie e nuove prospettive, cit., pag.218 248

175 antonomasia. Dal divieto di estradizione, mantenuto comunque in vigore, “si viene ad eccettuare, specificamente ed inderogabilmente, l’attentato contro il Capo di Governo o di Stato straniero – o contro membri della sua famiglia – quando questo costituisca una forma particolarmente grave di omicidio”249.L’eccezione, scatenata dalla volontà di dare risposta all’attentato appena compiuto contro Napoleone III, porta comunque ad isolare un’area, seppure piccolissima, di fattispecie; e sarà proprio da questa cristallizzazione che prenderanno le mosse le legislazioni di altri Stati d’Europa.Degno epigono dell’esperienza belga è sicuramente l’approccio al problema dato dalla Svizzera, con la legge sull’estradizione del 1892. Tale normativa, dopo aver confermato il divieto di estradare per reati politici, presenta delle precisazioni, diverse e più organiche rispetto al Belgio. “l’estradizione – secondo l’art. 10 della legge elvetica – sarà tuttavia concessa, anche quando il colpevole alleghi un motivo o uno scopo politico, se il reato per cui è richiesta costituisca in via principale un delitto comune”. Il provvedimento svizzero si muove, dunque, su due fronti: da un lato riafferma il principio del doppio binario di giurisdizione (e di repressione) per la criminalità comune e la delinquenza politica, con trattamento privilegiato per quest’ultimo. Dall’altro lato, tuttavia, non assistiamo nella legge a una copertura totalizzante del privilegio, né tantomeno a una esplicita estensione del divieto ai reati connessi, come appariva nella originaria lettera della “clausola belga”. Al contrario, nella “clausola svizzera” vi è “piuttosto la preoccupazione di ridurre il campo, altrimenti troppo

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176 ampio, della politicità”, e lo strumento utile a tal fine è individuato nella possibilità, lasciata al giudice, di “discernere il carattere principale o prevalente di alcuni reati, che appaiano ad un tempo comuni e politici”250. Tutto questo, nelle intenzioni del legislatore e nella prassi degli anni a venire, porterà ad una esaltazione del ruolo valutativo della magistratura, che restringerà o amplierà la portata del divieto, cercando un bilanciamento, auspicato dal legislatore, tra esigenze di difesa sociale ed esigenze di garanzia individuale”251. Ancora più indicativa della tendenza a cercare l’equilibrio tra regola ed eccezioni, “fermo restando il principio generale della politicità come

causa ostativa dell’estradizione”252, è la legge francese sull’estradizione del 1927. Nel provvedimento si ravvisa la volontà di ampliare il più possibile il raggio del divieto di estradizione, che opera “quando il crimine o delitto ha un carattere politico ovvero risulta dalle circostanze che l’estradizione è richiesta per uno scopo politico”253. Eppure, anche nella legge francese è vivo lo scrupolo di porre un freno all’estensione illimitata del divieto: nel caso di reati commessi nel corso di un’insurrezione o di una guerra civile, l’estradizione deve essere concessa se i comportamenti posti in essere consistano in “atti di barbarie odiosa o di vandalismo vietati dalla legge di guerra”. In una visuale analitica e chiara “nella descrizione

250 Anche le ultime due citazioni sono tratte da M. Chiavario , Rapporti, cit., pag. 84.

251

Sulle premesse teoriche dei limiti al divieto di estradizione, cfr. D. Manzione,

Vecchie e nuove prospettive, cit., pag. 219. In linea di massima, i giudici svizzeri

avranno un atteggiamento di maggiore cautela nei confronti di chi si dichiara delinquente politico, pretendendo un regime di protezione, mentre

l’orientamento sarà più comprensivo nella tutela dei dissidenti stranieri, soprattutto dopo l’affermarsi di regimi totalitari in diverse parti del mondo. 252

M. Chiavario, Rapporti tra reato politico ed estradizione, cit., pag. 85. 253

Dai lavori preparatori della legge, poi, si evince chiaramente che si è voluto tener conto, nel parlare di politicità, in primo luogo del motivo e dello scopo dell’agente; segno evidente di un allargamento della nozione.

177 dell’ambito della regola e delle eccezioni”254si inquadra una legge ancora più recente, quella tedesca del 1929. Il provvedimento da un lato vieta l’estradizione per reati politici o per fatti di reati connessi, inserendosi nel solco della tradizione europea; dall’altro lato, la legge sull’estradizione riesce dove altre esperienze avevano fallito, cioè inserisce nel testo una serie di descrizioni tipizzate, volte a definire e a circoscrivere la politicità del reato, lasciando di conseguenza poco spazio ai motivi e agli scopi soggettivi per delinquere, nonché all’arbitrio dei giudici. Nel contesto della legge, è considerato reato politico l’attentato al Capo dello Stato o contro un membro del Governo, contro i diritti civici in occasioni di elezioni, o contro il buon andamento delle relazioni con l’estero. Siamo quindi ad una previsione dettagliata e a una rigida disposizione di confini legislativi, con fattispecie protette e, residualmente, comportamenti lasciati all’estradizione e alla repressione. Nel quadro comparatistico richiamato, emerge dunque una duplice tendenza: da un lato, si tende a ridurre l’ambito di operatività della tutela del “delitto politico”, attraverso fattispecie, di importanza crescente, non coperte dai privilegi di legge; dall’altro lato, le eccezioni e i limiti legislativi non arrivano a smentire il principio ispiratore dell’epoca: la tutela del delitto politico ancora come faccia “nobile e romantica” del reato comune. Gli ordinamenti liberali, sia pure nella diversità delle soluzioni concrete, tendono ancora a comprendere, accogliere e considerare una risorsa il dissidente politico, e a nobilitarne l’animo eversivo per coinvolgerlo nelle esperienze democratiche. Unica, e grave, eccezione a tale tendenza è l’atteggiamento degli stati europei per quello che riguarda

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178 il dissenso e i delitti d’ispirazione anarchica. In un tale ambito, infatti, gli orientamenti dei legislatori, dei giudici e delle correnti dottrinarie d’Europa sono concordi nella repressione accesa delle diverse impostazioni teoriche dell’anarchia, e di conseguenza della “spoliticizzazione”255 delle fattispecie criminose agli anarchici imputabili. Il delitto anarchico, così come argomentato dalla dottrina256, presenta un fine politico estremamente preciso e diretto; si atteggia, in particolare, a protesta contro le istituzioni nel loro insieme, contro l’essenza del potere. E’ quindi un reato teso non ad una sostituzione di potere, ma a una sua eliminazione, e una volta raggiunto lo scopo immediato subito l’atto esaurisce la sua carica politica, non tendendo ad ulteriori conseguenze pratiche. Se queste prerogative, nel secondo dopoguerra, hanno sempre portato i nostri giuristi e giudici ad auspicare ed applicare circostanze attenuanti per i delitti anarchici, prestando attenzione alla loro componente sociale e umanitaria257, all’epoca di cui trattiamo una tale ispirazione era considerata senza dubbio un flagello da eliminare proprio per il suo carattere distruttivo. Gli anarchici, non proponendo una forma di governo nuova e diversa rispetto a quella attaccata, erano visti come nemici di tutti i Governi, e le loro violazioni di legge non avevano, nella percezione degli Stati, assolutamente nulla di politico258; chiara conseguenza, il trattamento dei loro delitti come reati comuni, per i quali

255

Il termine è di F. Colao, I confini del politico: il caso degli anarchici, in Politici e

amnistia, cit., pag. 10.

256 Per tutti, cfr. A. Marinelli, Il delitto politico, cit., pagg. 86 ss. 257

Secondo G. Pedio., in Il delitto anarchico, in Giurisprudenza comparata della

Cassazione Penale, 1953, I, pag. 32, “il militante anarchico non viola mai la norma

per un interesse o un fine egoistico”. 258

Nel 1911, G. Pessina , redigendo la voce Delitto politico in Enciclopedia

giuridica italiana, Milano, pag. 693, ebbe a giudicare l’anarchia “una forma

morbosa della delinquenza, che erroneamente si vorrebbe larvare ritenendola e qualificandola politica”.

179 procedere in ogni caso alle procedure di estradizione. Tecnicamente, la strategia repressiva fu perseguita in modo peculiare in Italia, con la prassi dei rappresentanti della pubblica accusa di processare i seguaci di Bakunin e Proudhon del reato di “associazione di malfattori”. Una tale imputazione presentava dei vantaggi in termini di rigore repressivo e annientamento ideologico: in primo luogo, era di competenza non delle Corti di Assise, ma dei Tribunali, composti di soli giudici professionali, “come tali più sensibili alle direttive e agli orientamenti governativi”259, che erano tesi a presentare gli anarchici soltanto come volgari eversivi. In secondo luogo, l’associazione di malfattori aveva anche il vantaggio di escludere i condannati dalle varie amnistie politiche susseguitesi nel tempo. Tutti i regi decreti che amnistiavano reati politici, infatti, escludevano espressamente il beneficio per i reati connessi con quelli di associazione di malfattori. I giudici della Corte di Cassazione Penale fecero poi di tutto per ampliare questo effetto di esclusione oltre la sua “naturalità”, ricorrendo anche a chiare manipolazioni delle norme delle amnistie260. Una vera e propria strategia persecutoria, nella quale lo Stato presume la pericolosità di alcuni soggetti, e dei loro comportamenti dissidenti.

259 E’ l’opinione di A. Santosuosso, Politicità, cit., pag. 16. 260

Per tutti, basti citare il caso più clamoroso, quello dell’amnistia del 1896. Il provvedimento era esteso a tutti i condannati per i non meglio specificati “fatti di Lunigiana”, a meno che non si fossero macchiati di omicidio. La Cassazione non applicò il beneficio agli affiliati della setta anarchica della Lunigiana, che erano stati condannati solo per eccitamento ala guerra civile. La motivazione della Corte, che, secondo A. Santosuosso, op. cit., sembra provenire “più da un rapporto di polizia politica” che da un organo giudicante di tal rango, giustifica l’esclusione con il fatto che, dall’incitamento degli anarchici, si erano scatenati degli scontri tra alcuni facinorosi (diversi dagli imputati) e una pattuglia dei carabinieri, nel corso dei quali aveva perso la vita un milite. Alla faccia della personalità della responsabilità penale…

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