CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua
3.4 Dalle amnistie fasciste al Codice Rocco
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, l’Italia si trova di fronte alla difficile sfida della ricomposizione sociale. Il Governo, per ricercarne le basi, così come era avvenuto dopo i conflitti economico-sociali di inizio secolo, sceglie ancora una volta, e in quantità più vistosa, la via della clemenza in materia penale. La stabilizzazione politica, in altri termini, è perseguita non esclusivamente reprimendo le condotte criminose passate, ma prendendo atto che alcuni reati commessi sono scaturiti da situazioni eccezionali, derivanti dall’asprezza del conflitto, e che per questo meritano un trattamento lungimirante e accogliente da parte del potere centrale. In questo clima, ecco il frequente ricorso a decreti d’amnistia per reati militari o commessi da militari, per reati annonari e soprattutto, ai fini del taglio del nostro discorso, per reati politici. Relativamente a questi ultimi, i primi provvedimenti sono emanati nel 1919, e si riferiscono ancora, come nella prima fase dello Stato liberali, non a fattispecie concrete ubicate nel codice penale o in altre leggi, ma a generiche condotte criminose, commesse in occasioni di tumulti e moti di piazza261. L’attenzione del legislatore, dunque, è incentrata in via primaria sulle “cause generatrici del reato, prese in considerazione ai fini della qualificazione della politicità della condotta”262.I
261
Precisamente, in primo luogo si tratta del R.D. 21/02/1919, che all’art. 5 concede il beneficio ai reati commessi in dimostrazioni pubbliche o tumulti determinati da cause politiche o economiche; in secondo luogo, parliamo dell’art. 3 del R.D. 02/09/1919, che si riferisce ai reati perpetrati in occasione di moti popolari, e la cui portata sarà estesa, con il successivo decreto del 05/10/1920, ai delitti contro la libertà del lavoro. Per riferimenti completi, cfr. A.A.V.V., Amnistie,
condoni, indulti. Raccolta cronologica completa dalla proclamazione del Regno d’Italia, Santa Maria Capua Vetere, 1950; Jannitti Piromallo A., (a cura di), Codice delle amnistie, degli indulti e delle grazie, Firenze, 1940.
262 F. Colao , La ricostruzione dogmatica del reato politico attraverso le amnistie, in Studi Senesi, 1982, pagg.. 63 ss.
181 motivi soggettivi dell’agente, in altre parole, divengono criterio primario di selezione dei reati coinvolti nell’amnistia, come da tempo suggerito dai giuristi della scuola Positiva, che rappresentano ora l’orientamento di maggioranza nella scienza penalistica italiana. Non a caso, nello stesso anno dei provvedimenti appena richiamati, viene insediata una Commissione presieduta da Ferri, incaricata di riformare il codice penale Zanardelli. Il progetto partorito dai giuristi, mai entrato in vigore, è chiaramente influenzato dalle idee positiviste263: l’art. 13 del testo, infatti, considera delitti politico-sociali solo quelli “commessi esclusivamente per motivi politici o d’interesse collettivo”. Siamo quindi ad una valorizzazione dei criteri soggettivi dell’antigiuridicità, in totale accordo con le amnistie coeve, e ad un vero e proprio “annullamento degli effetti della legislazione punitiva”264, che accomuna l’Italia ad altri Stati europei. Anche in Francia e in Germania, infatti, con misure diverse, è molto frequente in questo periodo il ricorso a testi di amnistia e indulto, aventi ad oggetto delitti collegati a momenti di grande tensione politica e sociale265. Una coesione
263
Sulle vicende della Commissione, che portarono Carnevale e Stoppato, gli unici due componenti non positivisti, alle dimissioni polemiche contro l’orientamento di maggioranza, v. E. Carnevale , Le basi del progetto di codice penale elaborato
dalla Commissione istituita con R.D. 14/09/1919, in Rivista penale, 1923, pagg.
305 ss.
264 L’espressione è di F. Colao , La ricostruzione dogmatica, cit., pag. 69. 265
Le modalità, come accennato nel testo, sono diverse da Stato a Stato, ma in ogni sistema il ricorso alla clemenza è fenomeno assodato e frequente. In Francia, in media viene promulgato, tra il 1919 e il 1937, un testo di amnistia ogni due anni, e l’emanazione dei provvedimenti è spesso successiva alla commissione di “infrazioni politiche”. In Germania, la tendenza è ancora più forte: durante la Repubblica di Weimar si contano, infatti, circa venticinque provvedimenti di amnistia, ai quali si aggiunge un numero imprecisato di grazie, generalizzate al punto sollevare dubbi di legittimità. Nei provvedimenti tedeschi si verificano anche anticipazioni legislative: i decreti coniano, ad esempio , l’ ipotesi di reato “Landesverrat”, equivalente a tradimento della nazione commesso a mezzo stampa, e ne prescrivono l’amnistia se si è in presenza di un fine politico,
182 assoluta nella clemenza, dunque, e nell’indulgenza verso il cittadino colpito dalla guerra, e suggestionato dalla massa o da ignoti sobillatori; il primo fine del potere centrale, in quest’ottica, è di ricreare le basi del consenso sociale, nel rischio che nel dopoguerra la repressione possa indebolire, anziché rafforzare, l’ordine dello Stato. Tale quadro omogeneo, con tutti gli artefici del diritto improntati verso il medesimo atteggiamento di tolleranza, inizia a spezzarsi con gli ultimi anni di Governo liberale. L’attenzione del legislatore verso l’elemento soggettivo del movente a delinquere ha dilatato molto gli spazi interpretativi dei giudici, che si trovano di fronte un provvedimento potenzialmente idoneo a estendersi a qualsiasi reato. La reazione della Magistratura non consiste in un adattamento pedissequo ai dettami del legislatore, ma si concretizza invece in varie reazioni, per la maggior parte tese a circoscrivere il dettato normativo delle amnistie. Il distacco e l’indipendenza dai dettami del legislatore non è un monopolio della giurisprudenza, anzi è proprio la dottrina, negli ultimi anni di governo liberale, a gettare le basi per un approccio diverso al reato politico da parte del potere centrale. Tra i giuristi i decreti di amnistia non vengono soltanto osannati, ma provocano discussioni e desiderio di cambiamento. Il dibattito intorno alla disciplina dell’istituto porta all’emanazione di due proposte, firmate in tempi diversi dai ministri Mortara e Fera266. I due guardasigilli tentano di abbandonare il criterio per cui il re emana il decreto di amnistia su proposta dell’esecutivo, e vogliono invece affidare il
escludendola per fini personali. Anche qui, un orientamento marcatamente soggettivo e orientato al movente come criterio selettivo dei reati amnistiati 266
Sulla proposta di Mortara, v., A.A.P.P., Camera dei deputati, leg. XIXV, sess. 19191920, doc. n. 285; cfr., inoltre, L. Mortara , Il diritto di amnistia e il
Parlamento, in La riforma sociale, 1895, pagg. 111 ss. Per quanto riguarda, invece,
183 compito di definire il contenuto dei benefici a una legge formale del Parlamento, “configurata in modo sostanzialmente analogo alla disciplina attuale”267. Il tentativo, poi superato dagli eventi storici successivi, è importante perché intende attrarre nella sfera del legislatore le scelte di politica criminale alla base di un provvedimento di clemenza, rendendo l’istituto più democratico. Ma il maggior valore delle proposte richiamate sta nelle discussioni che esse hanno scatenato in dottrina, indicative di come il contesto ideologico e politico stia percorrendo una strada opposta. L’intervento diretto del Parlamento nell’emanare le amnistie comporterebbe, secondo il nazionalista Arturo Rocco, un atteggiamento di debolezza nella repressione dei delitti contro la sicurezza dello Stato268. Di analogo tratto polemico è l’opinione di Escobedo, il quale rimprovera al Governo di ricorrere alla clemenza proprio di fronte al dilagare dei reati sediziosi, considerati “comportamenti che minacciano la società”269. Nella percezione della dottrina dominante, i provvedimenti di clemenza sono, in altri termini, un indebolimento dello Stato nei confronti della criminalità, una potenziale rampa di lancio per reati di “indole antisociale”270,e, negli indirizzi più accesi, “minacce per la difesa sociale”271o addirittura un’indebita interferenza del potere politico nell’attività giurisdizionale. Autore di quest’ultima riflessione è Antonio Calamandrei, che in un suo saggio272 afferma che i benefici governativi
267 G. Zagrebelsky , Amnistie, indulto e grazia. Profili costituzionali, Milano 1974. 268
A. Rocco , L’amnistia e il Parlamento, in L’idea nazionale, 1920. 269
G. Escobedo , Bolscevismo amnistiaiolo, in Giustizia penale, 1920, pag. 661. 270
F. Garofalo , Grazie, amnistie, indulti. Relazione per la Commissione di Statistica
e legislazione, in Dizionario penale, 1921, pag. 4.
271
M. Torre , Punti oscuri e incongruenze nei quattro decreti di amnistia, in Rivista
penale, 1919, pag. 312.
272
184 in pratica vanificano l’indipendenza della magistratura, dal momento che le decisioni di quest’ultima sono annullate dalla volontà dell’esecutivo di obliare determinati reati. In definitiva, l’analisi della penalistica sulle “amnistie della pacificazione” è sempre improntata alla critica, in misura analoga alla giurisprudenza, dei testi legislativi di clemenza. Dalle argomentazioni di giudici e giuristi emerge un concetto radicato di ordine pubblico e nazionale, “costantemente inteso come l’ordine positivo esistente e risultante dalle norme penali poste a tutela dei rapporti della vita sociale”273. In altri termini, lo Stato, come ente concreto, ha diritto di difendere la sua essenza, cioè il territorio, “e le forme in cui questa essenza praticamente si configura”274, in quanto queste si configurano come garanzia della sostanza (del territorio, secondo l’idea della dottrina) e devono, inoltre, presumersi espressione della volontà dei consociati. Ciò posto, è evidente come sia giustificata la punibilità di tutti quei fatti che attaccano tale essenza e tali forme. La logica della difesa dell’ordine e della nazione, dunque, non può che tradursi in scelte di decisa repressione dei comportamenti delittuosi che intendono danneggiarli, e il precipitare degli avvenimenti socio-politici dell’epoca, Marcia su Roma in testa, non farà che accentuare gli intenti punitivi del potere centrale.
273 F. Colao , La ricostruzione dogmatica, cit., pag .90. 274
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