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La democrazia interna nei partiti politici italiani

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1

PARTITI E DEMOCRAZIA: IL QUADRO TEORICO DI

RIFERIMENTO

1.1 Democrazia e partiti: un rapporto necessario

“Nessun grande paese libero è stato senza di essi. Nessuno ha mostrato come un governo rappresentativo possa operare senza di essi. Essi creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori.” Chi sono questi “essi” cui allude James

Bryce, in questo passo tratto dalla sua opera dal titolo “Modern Democracies” del 1921? Sono i partiti politici, che ormai sono ritenuti elementi fondanti del costituzionalismo liberaldemocratico, principale strumento per l’esercizio della sovranità popolare. La maggior parte della dottrina politologica e giuridica anzi concepisce i partiti in termini di necessità ed ineluttabilità per poter qualificare un ordinamento come democratico; ancora Bryce: “i partiti sono inevitabili. Nessuno ha dimostrato come il governo rappresentativo potrebbe funzionare senza di loro”.1

E ancora “la democrazia moderna è impensabile salvo che in termini di partiti politici”.2

Queste affermazioni permettono di operare una prima precisazione: i partiti politici sono un prodotto sì, della democrazia, ma di uno specifico tipo di democrazia, la democrazia moderna e fondata su istituzioni rappresentative. La questione è stabilire cosa sia la democrazia. Guardando all’etimologia del termine, com’è noto, si allude al c.d. “governo del popolo”, ma in realtà, come è stato rilevato3, il termine presenta contenuti ben più pregnanti, per cui per democrazia non è da intendersi “qualcosa di vago come “il governo del popolo” o “il governo della maggioranza”, ma un insieme di istituzioni (e fra esse specialmente le elezioni generali, cioè il diritto del popolo di licenziare il governo) che permettano il controllo pubblico dei governanti e il loro licenziamento da parte dei governati e che consentano ai governati di ottenere riforme senza ricorrere alla violenza e anche contro la volontà dei governanti.” E’ questo il concetto di democrazia moderna, o, come la definì Benjamin Constant,

1

Non condivide questa ineluttabile funzionalità dei partiti alla democrazia O. Massari in “I partiti politici nelle democrazie contemporanee”, Editori Laterza, Roma-Bari, 9° ediz., 2004, pp. 19-20.

2

E.E. Schattschneider, Party government: American government in action, New York, Farrar & Rinehart, Inc., 1942, p. 1.

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“democrazia dei moderni”, per distinguerla da un’altra concezione di democrazia, la “democrazia degli antichi”. Infatti nella sua storia la democrazia si è manifestata in due differenti modi: come democrazia diretta e come democrazia indiretta o rappresentativa. Se la democrazia diretta è la forma originaria di democrazia, che trova le proprie origini storiche nell’Atene di Pericle del V secolo a.C.4, è nella democrazia rappresentativa, che si è affermata in America ed Europa per poi diffondersi negli altri continenti tra il XIX e XX secolo, che i partiti hanno trovato la propria origine e ragion d’essere. È stato acutamente osservato5

che “come origine e come concetto il partito politico è quasi universalmente riconosciuto essere un fenomeno tipicamente e squisitamente moderno”. Ma per poter comprendere e giustificare appieno il ruolo dei partiti politici nelle democrazie moderne e per concepirlo in chiave di necessità, è necessario comprendere la loro origine; in altri termini, quando, come e perché sono sorti i moderni partiti politici. Non a caso è opportuno parlare di partiti in termini di modernità: essi non vanno confusi con le fazioni di epoca premoderna. È vero che in dottrina6 si è rilevato come “anche in epoche storiche oramai lontane sono esistiti partiti e […] in ogni comunità politica la lotta per il potere ha condotto alla formazione di gruppi in competizione tra loro”, ma si è specificato che si tratta in tal caso di partiti in senso lato: si tratta in realtà di gruppi formatisi intorno a un capo che lotta per il potere, ad esempio i gruppi di potere che si formarono nelle città greche, e nella Repubblica romana, le fazioni medievali etc… In questi esempi storici, come efficacemente osservato7, il termine “partito” significa “fazione” o “setta”, cioè una parte che minaccia la comunità politica, che costituisce il tutto, di solito con la violenza e le armi. Il partito moderno è invece una parte funzionale alla comunità politica, che da questa viene accettato, come

4

Per poi essere ripresa senza successo nelle fallimentari esperienze della Comune di Parigi del 1871 e delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917, ed essere oggi nella pratica sostanzialmente abbandonata, salvo l’interessante eccezione rappresentata dall’istituto della Landesgemeinden, cioè l’assemblea tradizionale di tutti i cittadini che si riunisce annualmente per deliberare su questioni fondamentali della vita politica, esercitando contemporaneamente potere costituente, legislativo e certe competenze esecutive, e che sopravvive ancora oggi in alcuni piccoli cantoni svizzeri (Glarona, Appenzello Interno).

5

O. Massari, cit., p. 8.

6

P. Ridola, Partiti politici, in Enc. Dir. Vol. XXXII, Giuffré, Milano, 1980, p. 66.

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sua componente interna ed elemento imprescindibile8. Storicamente, è nel XVIII secolo, all’interno del parlamento inglese, che i parlamentari si ripartiscono tra un “partito” di sostegno all’esecutivo e un “partito” di opposizione, i Tory e i Whig. Non è un caso: all’epoca l’Inghilterra, per la sua peculiare storia politica, culturale e sociale, è il paese che anticipa culturalmente e politicamente l’affermazione del pluralismo, e del partito come espressione di questi. Quindi, il fenomeno partitico ha come suoi presupposti le istituzioni politiche del liberalismo, cioè l’esistenza di istituzioni rappresentative ed il concetto di rappresentanza politica, e la visione per la quale i partiti erano espressione spontanea della diversità e della concorrenza delle opinioni politiche. Indicative di questa visione sono le definizione che furono date da Benjamin Constant9 (il partito come associazione di persone che professano la stessa dottrina politica) o Edmund Burke (un partito è un insieme di uomini uniti per promuovere grazie ai loro sforzi comuni l’interesse nazionale sulla base di un qualche principio particolare sul quale essi sono d’accordo). Come rilevato10, l’accento cade sulla esclusiva dimensione

ideale del partito e sulla spontaneità della adesione individuale al vincolo associativo. Emerge un mutamento radicale della teoria tradizionale della legittimazione politica: se nella visione classica la comunità politica non prevede la differenziazione interna delle opinioni, perché qualsiasi differenziazione interna minaccia l’unità del corpo politico, ora invece si prende atto che la società moderna è una società individualistica, di individui aventi opinioni diverse suscettibili di aggregarsi tra loro, originando i partiti. In questa accezione, i partiti costituiscono quasi il riflesso nella vita pubblica di una sfera di “privatezza” e autonomia individuale, la formazione dei partiti non a torto veniva così

8

A dire il vero, è discusso se tale funzionalità sia da apprezzarsi positivamente o negativamente, ferma restando la sua necessità, e non a caso sterminato e assai risalente nel tempo è il dibattito sul ruolo dei partiti (in senso lato) rispetto l’assetto fondamentale della comunità politica; per una ricostruzione sintetica delle varie posizioni che si sono succedute nel tempo circa questa problematica cfr. P. Ridola, L’evoluzione storico-costituzionale del partito politico, http://www.astrid-online.it/--il-siste/studi--ric/ridola_aic2008.pdf. Proprio l’iniziale confusione tra le due accezioni (e corrispettive nature) del termine “partito” è alla base del differente atteggiamento che gli ordinamenti statali assunsero nei confronti dell’affermarsi dei partiti. Per un’elencazione delle singole fasi cfr. P. Ridola, Partiti politici, cit., p.66 e G. de Vergottini, Diritto

costituzionale, CEDAM, Padova, 6° ediz., 2008, pp. 313-314.

9

B. Constant, Cours de politique constitutionelle, II, Paris, 1861, p. 285.

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individuata nell’interesse privato”11

. Ricapitolando, l’istituzionalizzazione della rappresentanza politica e il contesto strutturale del liberalismo entro cui si realizza individuano la matrice istituzionale12 del fenomeno partitico. I partiti nascono come partiti degli eletti, di origine parlamentare, o, usando la terminologia duvergeriana, di origine interna. Sarà questa la natura dei partiti della tradizione liberale ottocentesca13, e questa modalità genetica, nonostante il successivo avvento del partito di massa e i suoi successivi sviluppi, non verrà mai totalmente meno.14 Se il partito politico fondamentalmente coincideva col gruppo parlamentare, chiaramente la sua dimensione istituzionale-organizzativa era minimale o del tutto occasionale, consistendo nel c.d. partito dei notabili, composto da personaggi che in ambito locale godevano di uno status sociale privilegiato e facevano parte dell’establishment. Si trattava poco più di un comitato elettorale finalizzato semplicemente a permettere l’elezione del notabile di riferimento, attraverso il coordinamento e la raccolta del voto avvalendosi delle proprie relazioni personali. Il partito dei notabili era la diretta conseguenza della ristrettezza del suffragio elettorale (la gran massa della popolazione era priva del diritto di voto) e del sistema elettorale utilizzato (di solito maggioritario in collegi uninominali). Era l’occasionale ed instabile legame tra il gruppo parlamentare e il partito dei notabili ad assicurare la presenza nel Paese del partito. Questa forma di partito viene superata con la progressiva estensione del suffragio elettorale, che condurrà i partiti a divenire espressione della maggiore complessità di una società di massa, e per farlo dovranno sviluppare un’organizzazione extraparlamentare permanente e capillare sul territorio: è così che si origina il partito di massa. Quindi il partito di massa nasce all’esterno del parlamento nella fase di estensione del suffragio elettorale e di democratizzazione della vita politica: è un partito

11

M. Minghetti, I partiti politici e la loro ingerenza nella giustizia e nell’amministrazione, Bologna, 1881, p. 71.

12

O. Massari, cit., p.14.

13

Non solo europei, ma anche statunitensi, dove i partiti si originano all’interno del Congresso come partito o caucus del legislativo. Cfr. O Massari, cit., p.14

14

Limitatamente all’esperienza italiana, si pensi al gruppo CCD, nato nella XI Legislatura come costola della Democrazia Cristiana, prima delle elezioni del 1994, alle quali si presentò con un suo autonomo simbolo; o al gruppo del Partito democratico- l’Ulivo, costituitosi all’inizio della XV Legislatura in entrambi i rami del Parlamento, che ha per più versi anticipato la costituzione del Partito Democratico; o da ultimo al gruppo di Centrodestra Nazionale, costituito al Senato nella XVI Legislatura, e presentatosi alle elezioni del 2013 con un suo autonomo simbolo e la denominazione Fratelli d’Italia – Centrodestra Nazionale.

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“societario”, che nasce al di fuori delle aule parlamentari, e che in Europa continentale, i cui Paesi erano caratterizzati rispetto USA e Inghilterra da uno sviluppo istituzionale ritardato, fa emergere politicizzandole le divisioni del tessuto sociale e le fratture economiche, territoriali e religiose prima occultate dalla concezione liberale della rappresentanza parlamentare. In altri termini, il partito di massa europeo si forma sulle fratture sociali preesistenti, politicizzandole; al di fuori del quadro parlamentare compaiono partiti espressione di formazioni di lavoratori, religiose, di categoria, insomma, di cleavages storico-sociali già operanti nella società. Dal punto di vista strutturale, resta da capire cosa connota il partito politico di massa. Si può dire che esso si connota per l’alto numero di iscritti che pagano regolarmente una tessera per finanziare le campagne elettorali e il mantenimento dell’organizzazione, cui partecipano in modo attivo e continuativo, nonché per un alto tasso di ideologizzazione. Sintetizzando15: i partiti di massa risultano “saldamente coesi intorno ad un apparato con accentuati caratteri di professionismo e burocratizzazione, e quindi capaci di un’intensa azione di aggregazione e di mobilitazione collettiva e di un controllo penetrante sulle rappresentanze parlamentari”. Alla luce di questa complessa struttura organizzativa, è chiaro che il partito di massa ha svolto funzioni che sono andate ben oltre quelle puramente elettorali: in questo partito la massa di cittadini prima esclusi dal voto trova “un sistema di valori culturali, un’identità anche simbolica, un luogo di socializzazione e di fraternizzazione, tanto da sviluppare identità collettive”16

. Questa ricostruzione storica si è resa necessaria per giungere ad una serie di conclusioni: non solo la genesi del partito parlamentare dimostra come i partiti siano un prodotto della democrazia rappresentativa17, ma la genesi del partito di massa esprime più di ogni altro dato la necessità funzionale dei partiti rispetto ad una democrazia; i partiti di massa infatti sono la risposta alla necessità di “organizzare, strutturare, motivare, mobilitare, canalizzare il voto e il sostegno popolari nella società”18

. Nella fase dell’estensione del suffragio elettorale, il

15

P. Ridola, Partiti politici, cit., p. 70.

16

O. Massari, cit., p. 65.

17

Sebbene anche l’affermazione per cui i partiti abbiano creato la democrazia non sia totalmente errata, ma veritiera limitatamente a specifici contesti ordinamentali: ad esempio l’Italia e l’Austria del secondo dopoguerra.

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partito diviene struttura di intermediazione e di collegamento tra istituzioni e società (linkage-party), indispensabile mezzo per dar vita a un rapporto stabile ed efficace tra sovranità popolare e istituzioni rappresentative19. I partiti devono avere la capacità, di assumere “un ruolo di intermediazione tra Stato-comunità e Stato-apparato, sull’incerta linea di confine che separa la forma di governo dalla forma di Stato”20

. L’elettorato (e più in generale la società) si costituisce di una massa di cittadini individualmente considerati, ciascuno con le proprie opinioni ed idee; una simile società non può funzionare senza un principio ordinatore al suo interno che semplifichi le scelte collettive in alternative numericamente e qualitativamente possibili. E tale principio ordinatore e semplificatore non può essere rappresentato che dai partiti politici21, i quali svolgono le funzioni minime ed indefettibili di strutturare il voto sulla base di programmi e/o simboli di partito, di selezionare i candidati alle cariche pubbliche etc… E ciò vale anche se la forma “partito di massa”, come ormai sostiene concordemente la scienza politologica, risulta essere superata.22 C’è da chiedersi come avvenga la sintesi delle esigenze indifferenziate manifestate dalla società ad opera dei partiti. In dottrina23 quest’operazione è stata così descritta: “i bisogni presenti nella società vengono <<politicizzati>> attraverso una loro trasformazione in istanze (o issues), a loro volta aggregate ad altre e trasformate in proposte per gli organi

19

E. Rossi, I partiti politici, Bari, Laterza, 2007, p. 9.

20 P. Ridola, Partiti politici, cit., p. 72. 21

In realtà c’è chi sostiene che la semplificazione delle scelte possa avvenire attraverso l’utilizzo di altri strumenti (specifici software connessi al web, potenziamento del referendum, soppressione del divieto di mandato imperativo e del voto segreto etc…), cosa che renderebbe superflui e desueti i partiti, all’insegna di una nuova forma di democrazia diretta o digitale. Della specifica questione ci si occuperà in seguito, nell’analisi dell’organizzazione interna del MoVimento 5 Stelle. A titolo esemplificativo, si rimanda ad un’intervista rilasciata da Gianroberto Casaleggio, ideologo del M5S http://www.beppegrillo.it/2013/07/nuzzi_intervista_casaleggio.html

22

A partire dal concetto di partito di massa come descritto da Duverger, vi sono state varie opere scientifiche successive che hanno riscontrato un mutamento genetico di questa forma partito, portando a razionalizzare il modello di partito pigliatutti (catch-all people’s party ), che si pone sì come mediatore tra Stato e società, ma in senso imprenditoriale, non rappresentando più domande profonde di collettività, ma solo temi contingenti e gruppi sociali eterogenei, con elezioni incentrate più che sulla scelta dei programmi e delle politiche, sulla scelta dei leader. In anni più recenti, come ulteriore evoluzione del partito pigliatutti, è stato elaborato il modello del cartel

party, caratterizzato dall’interpenetrazione del partito e dello Stato, con l’abbandono di ogni

legame con la società. Per un’analisi più approfondita dei vari modelli, cfr. O. Massari, cit., pp. 66 ss. Accanto a ciò, crescente è stata poi l’attenzione intorno alla “personalizzazione” della leadership, e al fenomeno del cosiddetto “partito personale”. A titolo esemplificativo, cfr. E. Rossi, cit., pp.120-121, 123-124.

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rappresentativi.” In questo modo si realizza il circuito democratico: le aspirazioni dei membri della comunità sono recepite dai partiti, che le sintetizzano in istanze o issues nelle sedi istituzionali (in primis il Parlamento, che così diventa mero organo di registrazione della volontà dei partiti), e la sintesi di queste volontà politiche collettive, recepita mediante atti “politici” assunti in tali sedi, esprime la “volontà generale”, che quindi non è risultato della volontà di individui isolati. E’ chiaro a questo punto che la democrazia moderna ha bisogno strutturalmente dei partiti politici: perciò essi sono figli della democrazia.24 In definitiva, nello Stato di partiti, questi operano come fattori di legittimazione democratica nel rapporto tra popolo e direzione politica dello Stato. Ma c’è chi è andato oltre25

, concependo nel “Parteienstaat” una completa identificazione fra governanti e governati. Lo Stato di partiti, nel quale i cittadini sono divenuti per il tramite di questi politicamente attivi, sarebbe improntato ad un assetto di tipo “plebiscitario”, nel quale il processo di decisione politica si esaurisce in una sorta di identificazione tra la “volontà generale” e quella espressa attraverso la dialettica dei partiti. In tal modo le sedi istituzionali divengono meri luoghi di registrazione della volontà dei partiti, e Stato e società civile finiscono col coincidere, in virtù dell’identificazione tra popolo e partiti, che così risultano gli esclusivi canali di partecipazione politica. Questa impostazione non è condivisa dalla maggior parte della dottrina26. Ma se la democrazia moderna, per funzionare, necessità dei partiti politici, il buon funzionamento della democrazia dipende dal buon funzionamento dei partiti, e queste porta ad osservare il modo in cui sono organizzati al loro interno. Infatti i partiti devono essere strumenti con cui i titolari della sovranità possano mantenere un collegamento stabile con le istituzioni rappresentative, oltre il momento del voto; ed in tal senso “ai partiti è richiesto di essere luoghi di

24

Non a caso è spesso utilizzata dalla dottrina l’espressione “democrazia dei partiti politici” per indicare l’attuale sistema delle democrazie parlamentari, specie quella italiana. Qualcuno però preferisce l’espressione “democrazia con i partiti politici”, per sottolineare il ruolo non esclusivo dei partiti nell’esprimere la sovranità popolare. Sul punto, cfr. A. Barbera, La democrazia

<<dei>> e <<nei>> partiti, tra rappresentanza e governabilità, in La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, Bagno a Ripoli, Passigli Editori, 2009, p. 232. Il termine “partitocrazia”

(ideato dal costituzionalista Giuseppe Maranini nel 1949) è invece utilizzato con accezione negativa, concependosi i partiti come corpi burocratici, autoreferenziali, oligarchici, e tuttavia capaci di occupare ogni anfratto della cittadella pubblica.

25

Si allude in particolare al pensiero di G. Leibholz.

26

Per una critica alla tesi di Leibholz, si rimanda a P. Ridola, Partiti politici, cit., pp. 93-94, 100-101.

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ascolto, di dibattito, di elaborazione di politiche, di ricerca di sintesi tra i diversi interessi che a ciascuno di essi fanno capo”27

. Insomma, l’organizzazione interna dei partiti deve garantire l’esercizio effettivo dei diritti politici oltre il momento elettorale. E qui sorge il problema della democrazia all’interno dei parti: ci si chiede se, affinché una democrazia sia effettivamente tale e funzioni efficacemente, sia necessario che i partiti che operano al suo interno e che la sostanziano siano essi stessi organizzati democraticamente, oppure se sia sufficiente che essi concorrano tra loro, nel rispetto delle regole della democrazia, cioè tramite elezioni. Come può sopravvivere una democrazia se i suoi attori principali non sono a propria volta democratici? Quest’ultimo quesito, posto da Piero Calamandrei28 in sede di Assemblea costituente, esplica più di ogni altro il problema dinanzi al quale si trovarono gli stessi costituenti italiani, nel momento in cui si trovarono a dover valutare la necessità di inserire un riconoscimento diretto dei partiti nella normativa costituzionale.

1.2 I partiti politici e l’articolo 49 della Costituzione: la sua genesi

Esiste un riconoscimento diretto dei partiti nella Costituzione, e un richiamo ai partiti politici si ritrova in due disposizioni: nell’articolo 98, che stabilisce una riserva di legge per l’eventuale limitazione del diritto d’iscrizione ai partiti politici29, e soprattutto nell’articolo 49, che costituisce la norma generale sui partiti, definendone finalità e metodo. L’articolo 49 della Costituzione è senza alcun dubbio una delle disposizioni costituzionali che più di altre presenta un carattere chiaramente compromissorio, e nei suoi contenuti, così come si vedrà nella sua successiva attuazione, riflette quella che era la situazione storico/politica interna ed anche internazionale dell’epoca. Proprio per questa ragione, è opportuno ricostruirne nei suoi momenti fondamentali la genesi, anche perché uno dei principali motivi di disaccordo tra i costituenti sul progetto di tale articolo ha riguardato proprio il tema della democrazia interna ai partiti; senza tralasciare le altre questioni, ci si soffermerà prevalentemente su questa tematica. La prima

27

E. Rossi – L. Gori, Premessa, in E. Rossi – L. Gori (a cura di), Partiti politici e democrazia.

Riflessioni di giovani studiosi sul diritto dei e nei partiti, Pisa, Edizioni Plus, 2011, p. 5.

28

P. Calamandrei in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea

Costituente, Roma, 1970, p. 154 ss.

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questione è stabilire per quale ragione i costituenti hanno sentito la necessità di inserire in Costituzione un riferimento diretto ai partiti. La scelta della menzione costituzionale non è così scontata come può sembrare30. Principalmente tale incorporazione nel testo costituzionale si è avuta per una ragione di carattere storico: i partiti politici furono, “attraverso il CLN, prima, e l’Assemblea Costituente poi, i veri “padri della Costituzione”, legittimando così, tutti i poteri, anche quelli di fatto, da essi esercitati prima e dopo l’approvazione della carta costituzionale”31

. Infatti, sotto il regime fascista, non era concepito il confronto tra partiti: vi era un partito unico, il partito nazionale fascista, rigidamente centralizzato e fortemente integrato nell’organizzazione statale, secondo una concezione organicistica. Successivamente al 25 luglio del 1943 riemersero i partiti politici, che già nella clandestinità avevano dato vita ad organismi unitari, e che dopo l’8 settembre costituirono il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). A seguito del patto di Salerno fra la monarchia ed i sei partiti del CLN, questi ultimi poterono designare i membri del Governo. A partire da questo momento i partiti politici diventano gli attori principali della fase provvisoria che si concluderà con l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948, comprese le vicende relative al referendum istituzionale del giugno 1946 e alla contemporanea elezione dell’Assemblea costituente. È stato efficacemente osservato32: “i partiti

di quegli anni hanno una fortissima legittimazione popolare perché sul finire della guerra sono stati vicini ai cittadini più dello Stato. Si sapeva che erano i partiti a far funzionare le aziende locali, non le istituzioni; erano i partiti a nominare i prefetti. Quindi, una grande legittimazione popolare per questo e per il fatto che in quegli anni vi erano fortissime lealtà partitiche. Si era prima democristiani, prima comunisti, prima socialisti che italiani. L’identità più forte era quella partitica.” Fissata la necessità di inserire un riferimento in Costituzione ad una situazione già

30

Ad esempio, in Francia il testo definitivo della Costituzione della IV Repubblica non contemplava alcun riferimento al fenomeno partitico, nonostante durante i lavori preparatori si fosse discusso di includere uno “statuto fondamentale dei partiti” fondato sul principio della pluralità, l’adesione ai valori della Dichiarazione del 1789, la democraticità interna, il controllo sulle fonti di finanziamento.

31

S. Merlini, I partiti politici e la Costituzione (Rileggendo Leopoldo Elia), in La democrazia dei

partiti e la democrazia nei partiti, Bagno a Ripoli, Passigli Editori, 2009, p. 7.

32

G. Amato, in La forma di governo secondo la Costituzione e nella prassi più recente, Tavola Rotonda, Brescia, 12 dicembre 2008, in Il Governo sopra tutto, Gussago, BiblioFabbrica, 2009, p. 56.

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compiutamente giuridica33, i costituenti si trovarono a risolvere un’altra problematica: quale riconoscimento attribuire al fenomeno partitico. Ed è su questo punto che emersero le differenti posizioni in sede di prima Sottocommissione e poi in sede di Assemblea costituente. Furono infatti presentate in sede di prima Sottocommissione due proposte alternative. La prima34, di iniziativa del democristiano Umberto Merlin e del socialista Pietro Mancini era così formulata: “I cittadini hanno diritto di organizzarsi in partiti

politici che si formino con metodo democratico e che rispettino la dignità e la personalità umana, secondo i principi di libertà ed eguaglianza. Le norme per tale organizzazione sarebbero dettate con legge particolare.” La seconda35, presentata dal socialista Lelio Basso, si strutturava in due articoli; il primo articolo affermava: “Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente e

democraticamente in partito politico, allo scopo di concorrere alla determinazione della politica del Paese”. L’articolo successivo specificava: “Ai partiti politici, che nelle votazioni pubbliche abbiano raccolto non meno di cinquecentomila voti, sono riconosciute, sino a nuove votazioni, attribuzioni di carattere costituzionale a norma di questa Costituzione, delle leggi elettorali e sulla stampa, e di altre leggi”.36 Tra i due testi, fu preferito in Sottocommissione quello di Basso: non solo perché redatto in termini più lineari, ma perché il riferimento al “metodo democratico” e al rispetto della “dignità e personalità umana, secondo i principi di libertà ed eguaglianza” richiesto dalla proposta Merlin – Mancini era visto con timore, potendo costituire una possibile base per controlli sull’organizzazione interna e sull’orientamento ideologico dei partiti. Furono soprattutto gli esponenti comunisti ad opporsi37. A dire il vero, questi

33

V. Crisafulli, I partiti nella Costituzione, in Studi per il XX anniversario dell’Assemblea

costituente, II, Firenze, 1969, p. 108.

34

Cfr. Ass. Costituente – Bozze di stampa – Atti della Commissione per la Costituzione vol. II Relazioni e proposte, s.d., Segretariato generale della Camera dei deputati: p. 34 della relazione del deputato Basso Lelio su I principi dei rapporti politici.

35

Eod. loco, p. 34.

36

Lucidamente, Basso giustificava tale previsione dichiarando che l'articolo da lui proposto si inserisce in un evidente processo di trasformazione delle nostre istituzioni democratiche per cui alla democrazia parlamentare, non più rispondente alla situazione attuale, si è venuta sostituendo la democrazia dei partiti già in atto. A titolo esemplificativo, Basso indicava alcune delle competenze costituzionali da attribuire ai partiti, quali la presentazione delle liste elettorali, il diritto di promuovere giudizi davanti alla Corte costituzionale, la difesa delle libertà costituzionali.

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Leopoldo Elia riassume in questi termini le perplessità manifestate dai costituenti comunisti: “In particolare l’on. Marchesi temeva che queste formule potessero essere interpretate a torto anche da

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timori potevano essere riscontrabili anche alla luce della proposta Basso, in quanto lo stesso esponente socialista ebbe a specificare il significato dell’espressione “di organizzarsi liberamente e democraticamente” contenuto nella sua proposta. Il primo avverbio stabiliva la libertà di associarsi in partito politico, il secondo avverbio precisava che tuttavia potevano essere riconosciuti solo quei partiti che avessero natura e struttura democratica. Tuttavia, dopo i timori espressi dagli esponenti comunisti, l’on. Basso preferì attenuare il contenuto e significato dell’avverbio “democraticamente”, con riferimento alla struttura del partito38. Fu così esclusa la necessità per i partiti di aderire a particolari principi ideologici (ovvero quelli affermati in Costituzione) come condizione per il loro riconoscimento. Partendo dalla proposta Basso, la Sottocommissione affrontò poi la questione dello statuto giuridico dei partiti, e nonostante la discussione che ne seguì rivelò un ampio consenso sul punto, anziché formulare un testo si preferì approvare l’ordine del giorno proposto da Giuseppe Dossetti, col quale si ribadì la necessità di affermare in Costituzione “il principio del riconoscimento giuridico dei partiti politici e delle attribuzioni ad essi di compiti costituzionali”, rinviando ad un esame congiunto con la seconda Sottocommissione la determinazione delle condizioni e delle modalità di attuazione di questa esigenza39. Tale riunione congiunta non si tenne mai: all’Assemblea costituente venne perciò presentato l’art. 47 del progetto di Costituzione, che ricalcava la proposta Basso con l’unica differenza che

un governo a base democratica <<per mettere senz’altro il partito comunista fuorilegge>>. Più cauto l’on. Togliatti ipotizzava in astratto l’esistenza di un movimento anarchico e contestava e contestava che gli si potesse negare il diritto di esistere e di svilupparsi <<solo perché rifiuta alcuni dei principi contenuti nella formula in esame>> (e cioè quella dei relatori). Credo che non mi si possa accusare di eccessiva malizia se sostituisco mentalmente al fantomatico movimento anarchico evocato da Togliatti quello più concreto espresso dall’on. Marchesi e cioè il partito comunista.” Cfr. L. Elia, A quando una legge sui partiti?, in La democrazia dei partiti e la

democrazia nei partiti, cit., p. 52.

38

“L. Basso sostenne <<l’affermare che sono ammessi i partiti i quali accettino il metodo democratico della lotta politica implica delle limitazioni, perché presuppone una valutazione in merito alle dottrine seguite dai partiti. Fa presente inoltre che il termine di democrazia ha oggi diversi significati e si presta a diverse interpretazioni. Ritiene che sia preferibile la formula da lui proposta, che non solleva tale questione di interpretazione>>. Inoltre, replicando al Presidente Tupini che riteneva necessaria qualche limitazione a difesa della democrazia, Basso specificava di essere d’accordo col Presidente per quanto riguardava la difesa della democrazia <<ma fa presente che una cosa è dire che i cittadini hanno diritto di organizzarsi democraticamente e altra cosa è accettare il metodo democratico. In base alla formula proposta dal Presidente, domani si potrebbe dire, per esempio, che il partito socialista non adotta il metodo democratico>>.” Cfr. L. Elia, A

quando una legge sui partiti?, cit., p. 53.

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all’avverbio “democraticamente” è sostituita40

la locuzione “con metodo democratico”. Ed è proprio sul significato di “metodo democratico” che si incentra la discussione in Assemblea; dopo una prima sua proposta che preferì ritirare41, l’on. Costantino Mortati presentò in accordo con l’on. Ruggiero, appoggiato dall’on. Moro, una seconda formulazione: “Tutti i cittadini hanno

diritto di riunirsi liberamente in partiti che si uniformino a metodo democratico nell’organizzazione interna e nell’azione diretta alla determinazione della politica nazionale”. La finalità della proposta era chiara: precisare il senso

dell’espressione “metodo democratico” come criterio sia riferito all’organizzazione interna dei partiti che alla loro condotta esterna; per minimizzarne la portata, Mortati presentava il suo come un emendamento “di carattere esplicativo” e “di specificazione”. Nonostante queste cautele, il richiamo da parte di Mortati del fatto che per i sindacati era invece stata prescritta la necessità di un ordinamento interno a base democratica, e l’intervento di Moro, mirato ad escludere controlli sulle finalità e sui programmi dei partiti, il relatore Merlin si dichiarò contrario su tutti gli emendamenti tendenti ad introdurre regimi di riconoscimento giuridico o di controllo sulla vita interna dei partiti. Nonostante in replica alla posizione di Merlin l’on. Moro fece osservare che “è evidente che, se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere indirizzo democratico nell’ambito della vita politica del Paese”, dura fu l’opposizione alle proposte avanzate anche da parte degli onn. Targetti, Laconi42

, Lucifero e Codignola. In risposta a questa dura opposizione, Mortati ritirò l’emendamento, volendo sottrarre la sua iniziativa a sicuro insuccesso, ma l’on. Bellavista lo fece proprio, cosicché esso fu comunque votato per alzata di mano e respinto. Fu perciò approvato il testo dell’art. 47 del progetto di Costituzione, con una lieve modifica: alla formulazione “organizzarsi in partiti” fu sostituita la formula “riunirsi in partiti”, mutato in sede di coordinamento nel più appropriato

40

Probabilmente ad opera del comitato di redazione.

41

“La legge può stabilire che ai partiti in possesso dei requisiti da essa fissati, ed accertati dalla Corte costituzionale, siano conferiti propri poteri in ordine alle elezioni o ad altre funzioni di pubblico interesse”.

42

“In particolare l’on. Laconi vide minacciati tutti i partiti che non fossero al governo, espresse il timore che governo e Corte costituzionale rappresentassero soltanto la maggioranza e infine previde <<un enorme danno per lo sviluppo della democrazia italiana>>. Cfr. L. Elia, A quando

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13

“associarsi”. Tuttavia, come acutamente osservato43, l’articolo 49 fu approvato

con l’accompagnamento di un patto politico tra i maggiori partiti, per il quale (e salvo i divieti della violenza politica e della ricostruzione del partito fascista) il rispetto effettivo del metodo democratico sarebbe stato affidato agli stessi partiti politici ed avrebbe trovato la sua garanzia solo nell’esistenza di un largo pluralismo politico. L’articolo 49 fu così approvato “proprio grazie alla sua

incompiutezza”44. Ma le cause di questa incompiutezza furono molteplici: non è in primo luogo estraneo il contesto politico italiano ed internazionale di quel periodo; gli esponenti comunisti, a partire da Togliatti, temevano sempre più seriamente che il PCI fosse prima posto fuori dal governo e poi dichiarato fuori legge: è l’ombra della “democrazia protetta”45

. In secondo luogo, l’incompiutezza, ma meglio sarebbe dire la limitazione del principio democratico, rivelava “l’esistenza di una non concordanza tra i partiti sul contenuto stesso del metodo democratico: come se ogni partito possedesse, in realtà, una sua idea di democrazia, sia rispetto alle finalità politiche generali [...], sia rispetto alle modalità con le quali i cittadini associati nel partito potevano contribuire a determinarne l’assetto interno e la scelta dei fini”46

. Non esisteva un’idea comune di partito, basti pensare alla profondamente differente organizzazione interna del PCI e della DC, che rifletteva le rispettive ideologie: il PCI presentava un ordinamento interno ispirato al centralismo democratico, mentre la DC presentava un ordinamento interno fondato sulla rigida divisione in correnti. Lelio Basso aveva ragione: all’epoca esistevano differenti modi di concepire la democrazia.

1.3 I partiti politici e l’articolo 49 della Costituzione: i suoi contenuti

Chiarita la (sofferta) genesi dell’articolo 49, si deve procedere all’esame dei suoi contenuti, inevitabilmente partendo dal dato letterale: “Tutti i cittadini hanno

diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Si tratta di una disposizione piuttosto

scarna, laconica, ma in realtà estremamente complessa per i suoi contenuti, come

43 S. Merlini, cit., p. 8. 44 S. Merlini, cit., p. 7. 45

Per questa analisi storico/politica della formazione dell’art. 49, cfr. L. Elia, A quando una legge

sui partiti?, cit., p. 56-57.

46

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14

il dibattito risultante dai lavori preparatori testimonia; è pertanto possibile esaminare la disposizione usando vari approcci. La chiave di lettura che si prediligerà in questa sede sarà quella del significato di tale norma con riferimento alla dimensione organizzativa dei partiti. L’attenzione pertanto si concentrerà inevitabilmente sull’interpretazione del “metodo democratico”, senza tuttavia tralasciare richiami, anche se più generali, ad altri contenuti della previsione in esame. Occorre premettere che l’articolo 49 sarà ora esaminato alla luce delle differenti letture che sono state fornite in dottrina; quanto al modo in cui l’ha inteso il legislatore e il modo in cui l’ha attuato, si rimanda al successivo paragrafo. Una prima osservazione da effettuarsi riguarda la collocazione dell’art. 49: non nel titolo relativo all’organizzazione dello Stato, ma in quello dedicato ai rapporti politici, con conseguente accento posto sul momento associativo nella disciplina del partito politico; quindi, i partiti sono concepiti come libere associazioni dei cittadini, non come soggetti costituzionali, ed è dall’angolo visuale del diritto di associarsi del cittadino che i partiti trovano il proprio ingresso in Costituzione. Tale scelta fu motivata da precisi intenti ideologici, in particolare dal rifiuto del modello organico di partito-Stato proprio dell’esperienza fascista, ed è stata anche questa scelta ideologica alla base della bocciatura degli emendamenti miranti ad introdurre la previsione del riconoscimento della personalità giuridica ai partiti e di funzioni di carattere costituzionale da attribuire ad essi. Una posizione quindi, quella dei costituenti italiani, non di piena costituzionalizzazione dei partiti, quasi fossero parti dello Stato-apparato, ma nemmeno di completa neutralità ed indifferenza della Costituzione formale al fenomeno partitico: “l’insistenza sulla estraneità dei partiti alla organizzazione dello Stato-apparato si poneva pertanto in stretta correlazione con la garanzia della maggiore misura di libertà e di confronto, e con l’esigenza di consentire alla pluralità dei partiti di rispecchiare nel modo più fedele lo spettro delle aggregazioni politiche esistenti nella società”47. In altri termini, i costituenti hanno ritenuto che la più ampia integrazione delle forze politiche nel sistema democratico possa essere garantita non con l’eliminazione dalla competizione elettorale e dal sistema partitico delle formazioni politiche antisistema, ma dalla

47

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15

garanzia della possibilità del libero confronto fra le diverse posizioni politico – ideologiche presenti nella società. L’impostazione ideologica di fondo della Costituzione perciò rifiuta le opzioni di “democrazia protetta” accolte in altre Costituzioni, a partire dalla Legge fondamentale tedesca (Grundgesetz)48. Ora, come riconosciuto in dottrina49, la collocazione dell’articolo 49 tra le norme riguardanti i diritti politici dei cittadini non ne riduce il carattere di “principio di

struttura del sistema”, per cui tale disposizione si ricollega ad altri principi

fondamentali dell’ordinamento repubblicano (quali il principio di sovranità popolare ex articolo 1 e il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica del Paese ai sensi del secondo comma dell’articolo 3) e con le norme sulla

48

La Grundgesetz tedesca concepisce la democrazia tedesca come una “democrazia protetta”, all’insegna di un inserimento dei partiti all’interno del diritto costituzionale in base ad un principio di coerenza con i principi del costituzionalismo liberaldemocratico. Infatti la democraticità è richiesta non solo come requisito dell’azione esterna dei partiti, ma anche come fondamentale principio di organizzazione interna e limite alla libertà del partito di stabilire le finalità e gli obiettivi che ne orientano l’iniziativa politica. Ai sensi dell’art. 21 GG infatti l’ordinamento interno dei partiti deve essere conforme ai principi fondamentali della democrazia e, inoltre, “i partiti che per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti si prefiggono di attentare all’ordinamento costituzionale democratico e liberale, o di sovvertirlo, o di mettere in pericolo l’esistenza della Repubblica federale di Germania sono incostituzionali”. Il controllo sulla costituzionalità dei partiti è affidato al Tribunale costituzionale federale (Bundesvervassungsgericht), che ha adottato in due occasioni una decisione di incostituzionalità, determinando lo scioglimento di un partito neonazista (1952) e del partito comunista tedesco (1956). Si noti come la scelta dell’inkorporation dei partiti nello Stato apparato e di forme di controllo statale sui partiti, totalmente opposta alla posizione di completa neutralità nei confronti dei partiti che aveva caratterizzato l’ordinamento costituzionale weimeriano, non fu tanto dovuta ai partiti politici che parteciparono al processo costituente della Repubblica federale tedesca, ma ai circoli alleati e alla influenza della dottrina costituzionale più liberale della Germania (G. Leibholz). All’art. 21 GG si è data attuazione con la legge federale sui partiti politici (Partengeisetz) che ne disciplina anche il finanziamento. Oltre al caso tedesco, va menzionato almeno il successivo esempio spagnolo: la Costituzione spagnola del 1978, all’articolo 6, non solo definisce i partiti in termini di strumenti fondamentali di concorso alla formazione e alla manifestazione della volontà popolare e di partecipazione politica, qualificandoli come espressione di pluralismo politico, ma richiede che la loro struttura interna ed il loro funzionamento siano democratici. A tale previsione si è data attuazione con la ley orgánica 54/1978, modificata con la

ley orgánica 6/2002, legge quest’ultima che ha introdotto anche in Spagna la possibilità, ad opera

di una sezione speciale del Tribunal supremo, di sciogliere un partito politico quando “esso

appoggi il terrorismo o comportamenti contrari alla Costituzione”, così qualificandosi anche la

Spagna come una “democrazia protetta”. Per ulteriori approfondimenti in materia si veda S. Ceccanti, Spagna, diventa una democrazia protetta? e P.P. Sabatelli, Spagna: La nuova legge sui

partiti: il "caso" Batasuna in www.forumcostituzionale.it. Esistono ulteriori casi di “democrazia

protetta”, si pensi alla Grecia e a numerosi Paesi dell’est europeo. Non si deve però pensare che l’unico modo per realizzare una “democrazia protetta” sia eliminare dal sistema politico i partiti antisistema: al riguardo, cfr. S. Ceccanti, Le democrazie protette: da eccezione a regola già prima

dell’11 settembre, http://www.astrid-online.it/Il-bipolar/Studi-e-ri/CECCANTI-Le-democr-protette-aic.pdf

49

G. Rizzoni, Art. 49, in Commentario alla Costituzione, vol. I (art. 1-54), Utet, Torino, 2006, pp. 981-982.

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16

forma di Governo di cui alla Seconda Parte della Costituzione. Se dunque si volesse qualificare sinteticamente l’articolo 49, si potrebbe dire che è la disposizione che fonda la libertà di associazione politica, un diritto di libertà dei cittadini. E’ necessario sondare i contenuti di questa disposizione, e del relativo diritto che essa sostanzia: la norma stabilisce con precisione a) i titolari (“tutti i

cittadini”); b) i limiti (“per concorrere”); c) la modalità (“con metodo democratico); d) i fini (“a determinare la politica nazionale”). Esaminando negli

aspetti essenziali ciascuno di questi elementi, ci si soffermerà soprattutto sulla modalità (ossia il metodo democratico), che costituisce l’unica (labile) indicazione costituzionale su cui allo stato attuale della disposizione si può fondare un intervento legislativo regolativo della vita interna ai partiti. Occorre innanzitutto chiedersi quale sia il rapporto tra il diritto di associazione di cui all’articolo 49 ed il diritto di associazione di cui all’articolo 1850. Si sono formate due correnti di pensiero: la prima, per cui l’articolo 49 integra, ma non sostituisce, l’articolo 18, e quindi i partiti risultano disciplinati in parte dall’articolo 18 in parte dall’articolo 49; la seconda, per cui l’articolo 49, in quanto norma speciale, esclude l’applicabilità dell’articolo 18 al fenomeno dei partiti. La dottrina prevalente51

accoglie nettamente la prima ricostruzione. Da ciò una serie di conseguenze: se la disciplina dell’articolo 18 presenta una sorta di capacità espansiva anche nella sfera dei partiti, allora la legislazione ordinaria non potrà introdurre per i partiti né limitazioni ulteriori rispetto a quelle previste per la generalità delle associazioni, né normative di privilegio che ne differenzino sensibilmente il trattamento rispetto alle altre associazioni. Ancora, la formazione dei partiti non potrà essere subordinata ad autorizzazione alcuna52. È opportuno procedere adesso all’esame del principio del concorso, inteso sulla base di una prima analisi letterale come la modalità mediante la quale i cittadini associati in partiti sono chiamati a

50

È opportuno riportare il testo dell’articolo 18:

I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.

Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

51

Per un’indicazione degli autori a favore, si veda G. Rizzoni, cit., p. 984. Si veda altresì P. Ridola, Partiti politici, cit., pp. 88-89.

52

Autorevole dottrina ritiene però che questa impostazione non impedirebbe al legislatore, che intendesse disciplinare funzioni di rilievo costituzionale dei partiti, di porre a loro carico un obbligo di registrazione. Cfr. P. Ridola, Partiti politici, cit., p. 89.

(17)

17

determinare la politica nazionale. La dottrina ha tuttavia rilevato come nel contesto dell’articolo 49 il principio del concorso assume un duplice significato: concorso della volontà politica dei cittadini rispetto alla determinazione della politica nazionale, e concorso dei partiti rispetto alla determinazione della politica nazionale; il concorso dei partiti appare strumentale rispetto al concorso dei cittadini.53 Infatti da questo angolo visuale l’articolo 49 va letto in combinato disposto con l’articolo 3, secondo comma, che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono “l’effettiva partecipazione di

tutti i lavoratori all’organizzazione politica (…) del Paese”. I partiti

rappresentano lo strumento che consente la “partecipazione permanente” del popolo a determinare la politica nazionale54, e quindi il concorso (nel suo significato ambivalente) rappresenta una delle “forme e limiti della Costituzione” per l’esercizio della sovranità popolare, ai sensi dell’articolo 1. Tra l’altro, il principio della concorrenza, specie nella sua seconda accezione, presuppone un ulteriore principio, che in realtà informa di sé tutta la disciplina dell’articolo 49, il principio del pluralismo partitico, ovvero presuppone la vigenza di un regime nel quale i diversi orientamenti politico-ideologici possano liberamente confrontarsi e competere55. Anzi, come osservato56, “la regola del <<concorso>> […] postula anzitutto una posizione paritaria nella competizione politica, e cioè l’eguale possibilità di tutte le forze politiche di partecipare alla formazione degli organi rappresentativi ed alla direzione politica dello Stato”57. In altri termini, costituisce un’ulteriore indicazione dei costituenti nel senso del rigetto del modello della democrazia protetta “alla tedesca”. L’espressione più significativa del principio del concorso è rappresentata dalla c.d. eguaglianza delle chance, ossia vi deve essere la garanzia di una parità di posizione dei partiti (e perciò dei cittadini) nella

53

Cfr. G. Rizzoni, cit., p. 988 e P. Ridola, Partiti politici, cit., p. 88.

54

Superandosi la concezione liberale che vedeva il coinvolgimento del popolo (rectius: corpo elettorale, molto ristretto a causa del suffragio limitato) solo mediante il momento elettivo.

55

Ulteriore superamento della concezione liberale: la lotta politica non è più (o meglio non solo) concepita come confronto tra libere opinioni nella discussione parlamentare, ma come competizione per la conquista del potere tra grandi organizzazioni guidate da élites politiche professioniste.

56

P. Ridola, Partiti politici, cit., p. 83.

57

Si vedrà nel successivo paragrafo come la conventio ad excludendum abbia sostanzialmente disatteso questo contenuto dell’articolo 49, con riferimento alla eguale possibilità di talune formazioni politiche di partecipare alla direzione politica dello Stato.

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18

competizione politica, senza che questo presupponga però un diverso ruolo in funzione del consenso elettorale ricevuto. In altri termini, l’eguaglianza delle

chance presuppone una posizione di parità dei partiti, rispetto alla competizione

elettorale, di input, in entrata, nella fase della competizione elettorale che precede il momento del voto, e non di output, in uscita, una volta che, sulla base dei voti espressi, si è determinato il “peso” parlamentare di ciascuna formazione politica. La necessità di garantire la posizione paritaria tra le diverse forze politiche in modo da assicurare a ciascuna di esse eguali opportunità di partecipazione nella formazione degli organi rappresentativi e alla determinazione della politica nazionale trova realizzazione nel nostro ordinamento nei differenti ambiti della legislazione relativi all’attività dei partiti politici: la disciplina del sistema elettorale58, della propaganda politica e dell’accesso ai mezzi di informazione59, del finanziamento pubblico dei partiti, dei gruppi parlamentari. Parlando del principio del concorso come limite al diritto dei cittadini di associarsi in partiti politici, inevitabilmente si deve fare i conti con la modalità espressamente individuata in Costituzione, il metodo democratico, “croce e delizia” di chiunque si approcci alla materia della disciplina sui partiti. Si è visto come i contenuti di tale formula letterale siano stati oggetto di accesa discussione già presso i costituenti, e nonostante ciò (o proprio per questo) i contorni della formula adoperata non appaiono ancora sufficientemente chiari, potendo al più, ricorrendo ai lavori preparatori, cercare di circoscriverne il contenuto attraverso un’attività di “progressivo sfrondamento” di alcuni significati. Ma quest’operazione ha senso solo se nell’interpretazione si sceglie di impiegare un approccio di tipo storico, cioè si ricerca la volontà storica del legislatore; e questo approccio è colto solo da una parte della dottrina. Circa la determinazione del concetto connesso all’espressione “metodo democratico” sono state prospettate tre possibili interpretazioni. In base alla prima interpretazione, con “metodo democratico” si

58

Per una panoramica delle problematica del rapporto tra principio del concorso e sistema elettorale, cfr. G. Rizzoni, cit., pp. 989-990 e P. Ridola, Partiti politici, cit., pp. 86-88, E. Rossi, cit., pp. 15-16.

59

Per una panoramica delle problematica del rapporto tra principio del concorso e la disciplina dell’accesso dei partiti all’informazione radiotelevisiva, P. Ridola, Partiti politici, cit., pp. 85-86. Per un’analisi della disciplina in generale, M. Barone - A. Caravelli - S. Milone - G. Mocavini - I. Tofanini, Partiti e comunicazione politica, in Partiti politici e democrazia. Riflessioni di giovani

(19)

19

intende il rispetto della democrazia procedurale: in tal senso il “metodo democratico” appare intimamente legato alla comune accettazione della diversità delle opinioni e del pluralismo delle formazioni sociali, e quindi al principio del concorso nella sua accezione della parità di chances (legame che sembra confermato dal dato letterale attraverso la lettura dell’unica locuzione “per

concorre con metodo democratico”). In altri termini, i partiti devono rispettare le

regole che in un sistema democratico disciplinano la competizione politica60, astenendosi da ogni forma di azione violenta nei confronti dell’ordinamento democratico o nei confronti degli avversari politici61. In tal senso il “metodo democratico” costituisce un limite di ordine pubblico materiale62

. Se si legge in questa accezione “metodo democratico”, dal contenuto dell’articolo 49 non possono essere desunti limiti ulteriori rispetto a quelli derivabili dall’articolo 18, che vieta a qualsiasi associazione il perseguimento, anche nei metodi e non solo per gli scopi, di fini vietati ai singoli dalla legge penale, e che vieta specificamente alle associazioni politiche, di organizzarsi militarmente. Significative in tal senso sono sul piano della legislazione ordinaria le norme penali di carattere generale che puniscono la formazione di associazioni aventi come fine il sovvertimento violento degli ordinamenti democratici (art. 270 – 270 bis c.p.) o la cospirazione politica (cioè la commissione di delitti contro la personalità interna o internazionale dello Stato: art. 305 c.p.)63. Tuttavia c’è chi ritiene64 che menzionando il “metodo democratico”, si sia voluto imporre ai partiti un limite ulteriore rispetto a quelli desumibili dall’articolo 18, in quanto naturalmente portati a esorbitare da una mera attività di propaganda e persuasione; in tal senso, la valutazione del rispetto del “metodo democratico” non deve limitarsi al mero

60

Tra queste regole Ridola, riprendendo Mortati e Leibholz, cita “le condizioni che assicurano la libertà e l’eguaglianza nella lotta politica, la possibilità di alternanza al potere, la tutela delle prerogative dell’opposizione”. Cfr. P. Ridola, Partiti politici, cit., p. 110.

61

La Corte costituzionale significativamente afferma nella sentenza 114/1967: “in uno stato di libertà, qual è quello fondato dalla nostra Costituzione, è consentita l’attività di associazioni che si propongono anche il mutamento degli ordinamenti politici esistenti, purché questo proposito sia perseguito con metodo democratico, mediante il libero dibattito e senza ricorso, diretto o indiretto, alla violenza”.

62

A. Pace, Il concetto di ordine pubblico nella Costituzione italiana, in Arch. Giur., 1963, pp. 111 ss.

63

Circa i dubbi di costituzionalità di tale disciplina penale rispetto gli articoli 21 e 49 della Costituzione, cfr. G. Rizzoni, cit., p. 990, alla nota 60.

64

(20)

20

riscontro dell’assenza del ricorso a mezzi violenti di lotta politica, ma deve distinguere tra quelle attività dei partiti che sono finalizzate alla diffusione e alla propaganda della propria identità ideologico-programmatica (ammissibili in quanto tutelate nei limiti della libertà di manifestazione del pensiero) e quelle attività con le quali il partito mira ad incidere direttamente nella vita delle istituzioni (ad esempio sullo svolgimento delle elezioni o sul funzionamento delle Assemblee parlamentari65). Alla luce di tale lettura, il “metodo democratico” sottintende che i partiti debbano astenersi da ogni forma di violenza politica, intesa sia come azione violenta, sia come “sabotaggio” degli istituti democratici66

. In base ad una seconda interpretazione, con “metodo democratico” si intende un

limite all’orientamento ideologico dei partiti: le finalità perseguibili dai partiti

sono libere, ma nell’ambito dei principi fondamentali posti a base dell’assetto costituzionale, inteso come insieme di valori su cui si fonda lo Stato. Fondamentalmente, si tratterebbe di qualcosa di simile a quell’obbligo di fedeltà ai valori costituzionali reso esplicito ad esempio nella Legge fondamentale tedesca, e che consentirebbe di operare anche nel nostro ordinamento un analogo controllo. Quest’interpretazione è stata prospettata in particolare da Esposito, per il quale il principio del metodo democratico dovrebbe portare ad escludere dalla competizione politica i partiti che abbiano tra i propri fini prossimi o remoti l’instaurazione di un regime che si ponga come scopo l’esclusione di una parte dei cittadini dalla vita politica, imponendo una qualsiasi dittatura di classe o di ceto. Spia di questo significato sarebbe la XII disp. trans. fin. che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista, da intendersi non come mera disposizione puntuale priva di collegamenti sistematici col resto della Costituzione, ma espressione di un più generale divieto di ogni partito “tendenzialmente o confessatamente totalitario” che persegua “l’instaurazione di dittature o l’abbandono degli oggi

65

E’ un problema che ha rilievi pratici: si pensi all’ostruzionismo parlamentare praticato dai parlamentari radicali negli anni ’70 e ‘80 , o si pensi al caso in cui i parlamentari del Popolo delle libertà avessero dato seguito alle minacce di dimissioni di massa dal Parlamento durante la XVII legislatura. Si tratta di comportamenti idonei a determinare una paralisi delle assemblee elettive.

66

Secondo C. Esposito, nell’accertamento del metodo democratico nell’accezione indicata non si può prescindere, ad esempio, dalla valutazione delle decisioni ufficiali di ciascun partito o dai vincoli di disciplina che esso pone ai propri aderenti o ai propri parlamentari. Cfr. C. Esposito, I

(21)

21

vigenti principi democratici”67

. Quindi, nel nostro ordinamento sarebbe ammissibile una legislazione di controllo sulla democraticità dei partiti68. La maggior parte della dottrina non condivide questa impostazione: si è replicato che i dibattiti svolti in sede di Assemblea costituente confermano la volontà di colpire con la XII disp. trans. fin. non ogni movimento politico totalitario o affine al partito fascista, ma proprio quel partito il quale ripeta l’esperienza storica concretamente vissuta tra il 1919 e il 194369. Perciò la XII disp. trans. fin. ha carattere effettivamente isolato, è un’eccezione alla regola dell’articolo 49, ispirata “all’esigenza di non indulgere nella <<libertà dell’errore>> nei confronti di un’esperienza storica rispetto alla quale il nuovo ordinamento sorto dall’unione delle forze antifasciste si poneva in irriducibile antitesi”70. Tra l’altro, si è già visto come l’impostazione ideologica di fondo della Costituzione è chiaramente orientata al rifiuto di opzioni di “democrazia protetta”. Si è anche sostenuta l’interpretazione in esame di “metodo democratico” attraverso una lettura in combinato disposto dell’articolo 49 e dell’articolo 139: se il regime repubblicano non può essere modificato neppure tramite riforma costituzionale, allora dovrebbero essere vietati quei partiti che propongono fini non perseguibili

67

C. Esposito, op. ult. cit, p. 238.

68

Esposito non si nasconde peraltro i gravissimi problemi implicati dalla necessaria individuazione da parte di un eventuale legislazione ordinaria degli organi e delle procedure che dovrebbero presiedere al controllo sulla democraticità dei partiti e sull’eventuale messa al bando delle formazioni ritenute anticostituzionali.

69

Tuttavia la legislazione ordinaria attuativa di tale disposizione ne ha ampliato la portata applicativa: mentre infatti la l. 1546/1947 riconduceva alla fattispecie della ricostituzione del partito fascista “ qualunque forma di partito o di movimento che, per l’organizzazione militare o

paramilitare o per l’esaltazione o per l’uso di mezzi violenti di lotta, persegua finalità proprie del disciolto partito fascista”, riprendendo in sostanza i limiti dettati in generale dagli articoli 18 e 49,

la successiva l. 645/1952 contempla la più estesa ipotesi di un’associazione o un movimento che “persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista”, non soltanto per l’esaltazione, la minaccia e l’uso della violenza come metodo di lotta politica, ma altresì per alcune ulteriori caratteristiche collegate ad una precisa connotazione ideologica (per il fatto di propugnare la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o di denigrare la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o di svolgere propaganda razzista, ovvero di rivolgere la sua attività all’esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del partito fascista, o di compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista. La giurisprudenza costituzionale ha peraltro ricondotto anche tali previsioni legislative su una linea di stretta applicazione della XII disp. trans. fin. interpretandole come volte esclusivamente a vietare la riorganizzazione del disciolto partito fascista. Cfr. C. cost. 1/1957, 74/1958, 15/1973. La legge è stata peraltro applicata in un’unica occasione, nel 1973, nei confronti del Movimento politico Ordine nuovo.

70

C. Mortati, Costituzionalità del disegno di legge per la repressione dell’attività fascista, in

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22

neppure nelle forme della revisione costituzionale71. Un’interpretazione soft o

light del “metodo democratico” come limite all’orientamento ideologico dei

partiti è rappresentata dalla teoria, già illustrata in precedenza, per cui il metodo democratico vieterebbe ogni tipo di azione preordinata al “sabotaggio” degli istituti democratici, azioni queste che sono qualcosa di meno rispetto agli “atti di violenza politica”, ma anche qualcosa di più rispetto alle “attività di mera diffusione di ideologie e programmi politici”. Procedendo all’esame della terza interpretazione, il “metodo democratico” è concepito come indicazione della necessità di approntare garanzie riguardanti la democraticità interna dei partiti. Questa interpretazione si ricaverebbe dalla stessa funzione dei partiti quali canali di partecipazione democratica dei cittadini: se i partiti non presentano al loro interno un’organizzazione democratica, essi non permettono ai cittadini di concorrere democraticamente alla formazione della politica nazionale, ed anzi, non sarebbero più rappresentativi di gruppi di cittadini, ma diverrebbero mere organizzazioni oligarchiche, se non veri e propri comitati elettorali al servizio di un leader particolarmente carismatico. In questa prospettiva, la problematica della democrazia interna dei partiti si ricollega a quella più generale della democraticità dello Stato, imponendo una serie di standard attinenti ai diritti di partecipazione degli associati che trascendono i requisiti che sarebbero richiesti, da una prospettiva strettamente privatistica, per la tutela delle posizioni individuali endoassociative72. Fermo restando che sul piano dei principi questa interpretazione è più che ammissibile, la dottrina ha rilevato come sia problematica la sua esplicazione in una disciplina di carattere legislativo, perché vi è il rischio che tale intervento si traduca in un’indebita ingerenza dello Stato nella vita interna dei partiti. Infatti un intervento legislativo in materia comporta il superamento da parte dello Stato della sua posizione di neutralità nei confronti dell’istituzione partito, cui corrisponde un’inevitabile limitazione più o meno penetrante dell’autonomia statutaria. Certo, sicuramente sulla base del principio costituzionale si dovrebbero ritenere illegali i partiti retti da organizzazioni autocratiche che di fatto impediscano la libera partecipazione degli iscritti alla

71

V. Crisafulli, op. ult. cit.

72

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