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L’attuale assetto normativo: la natura del potere di selezione delle candidature ed i limiti legislativi a tale potere

PARTITI E SELEZIONE DELLE CANDIDATURE 3.1 Il cittadino come candidato e la selezione delle candidature

3.3 L’attuale assetto normativo: la natura del potere di selezione delle candidature ed i limiti legislativi a tale potere

Dopo aver osservato le origini dell’attuale assetto sulla disciplina relativa alla selezione delle candidature, occorre effettuare una sua ricostruzione. La prima questione da affrontare è qualificare l’attività di selezione delle candidature, dalla dottrina talvolta inquadrata come un vero e proprio “potere di diritto pubblico”. La legislazione vigente207 riserva tale compito ai “partiti o gruppi politici organizzati”, ma questo non vuol dire che si sia in presenza di un’attribuzione costituzionale; la Corte costituzionale, con l’ordinanza 79/2006, ha affermato “che le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee (…) non consentono di desumere l'esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto

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F. Bassanini, Lo statuto democratico dei partiti e le elezioni primarie, in La democrazia dei

partiti e la democrazia nei partiti, cit., pp. 213-214.

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Art. 8 d. lgs. 533/1993 per il Senato; art. 14 d.p.r. 361/1957 per la Camera

dei deputati; art. 11 l. 18/1979 per l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia.

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di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell'ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 Cost.” Perciò, la selezione delle candidature è una mera funzione pubblica che i partiti sono chiamati a svolgere in forza di specifiche attribuzioni loro assegnate mediante norme giuridiche, e lo svolgimento di tale selezione può e deve essere sottoposto a regole di tipo procedurale, che di fatto limitano l’autonomia del partito, e ciò perché tali regole tendono a garantire interessi costituzionalmente rilevanti. Si pensi alla previsione di situazioni di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità. Come è noto, le cause di ineleggibilità ed incompatibilità trovano la propria ratio nella necessità di impedire che il soggetto che aspira alla carica parlamentare versi in alcune situazioni che possano generare interferenze nello svolgimento delle elezioni, condizionando la libertà di voto; in particolare, le cause di ineleggibilità, a differenza di quelle di incompatibilità (che comportano soltanto l’obbligo di opzione fra l’ufficio di parlamentare e quello già ricoperto) dovrebbero comportare non la perdita dell’elettorato passivo, ma la sua sospensione fino alla durata della causa impeditiva. Se il soggetto risulta eletto in costanza di tale causa, l’elezione dovrebbe essere nulla. L’istituto dell’ineleggibilità, che avrebbe dovuto andare ad incidere significativamente sulla selezione delle candidature inducendo i partiti a non candidare coloro che versassero in situazioni di ineleggibilità, non ha tuttavia correttamente operato nel nostro ordinamento: infatti tale condizione deve essere verificata ex post (cioè dopo che le elezioni si sono svolte), per di più da parte dello stesso organo nel quale il candidato è stato eletto208, cosa che ha

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Ancora recentemente si è dubitato della legittimità costituzionale di una situazione normativa in forza della quale “la verifica in ordine al rispetto delle previsioni statutarie o di legge in materia di formazione delle liste elettorali è (…) del tutto preclusa” alla magistratura ordinaria: con la conseguenza di una competizione elettorale che può risultare viziata “dalla presentazione di una lista che non costituisce corretta espressione della volontà degli aderenti alla relativa formazione politica”. Nell’ordinanza di rimessione cui si riferisce la recente sentenza n. 256/2010, il giudice a quo ha rilevato come tale situazione “riceve nell’ordinamento soltanto una “tutela differita”, successiva cioè alla proclamazione degli eletti, secondo quanto disposto dall’art. 83-undecies, del d.P.R. n. 570 del 1960”: tale forma di tutela non sarebbe idonea, secondo il suo giudizio, ad assicurare l’osservanza dei precetti costituzionali contenuti negli artt. 49 e 51 Cost. La Corte costituzionale, rispondendo a tale questione, rileva che per rimediare ad sarebbe necessario un intervento additivo, “diretto alla creazione di una nuova disposizione normativa che attribuisca agli uffici elettorali il compito di provvedere alla verifica che siano state rispettate, da parte dei responsabili dei movimenti politici che formano le liste, le «disposizioni statutarie o di legge in

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reso raramente applicate le misure dettate dalla legge. Proprio per questa ragione è stato adottato il d. lgs. 235/2012 il T.U. delle disposizioni in materia di incandidabilità (c.d. Legge Severino), che ha esteso alle cariche politiche nazionali e sovranazionali le cause ostative alla candidabilità prima previste solo a livello locale. Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale emerge che le cause di incadidabilità costituiscono una specie delle cause di ineleggibilità (sentenza 141/1996); tuttavia, a differenza di queste ultime, che possono generalmente essere rimosse entro un termine predefinito, le cause di incandidabilità precludono la possibilità di esercitare il diritto di elettorato passivo per il tempo previsto dalla relativa disciplina. Inoltre, l’accertamento di tale cause ostative non spetta alle assemblee parlamentari, ma dagli uffici elettorali, in occasione della presentazione delle liste dei candidati209. In effetti la legge Severino è stata adottata proprio al fine di rimediare, almeno in parte, alla cattiva selezione delle candidature effettuata fino a quel momento dai partiti, che spesso e volentieri non solo candidavano individui “equivoci” dal punto di vista dell’ethos pubblica, ma finivano col candidare soggetti condannati penalmente per reati anche di notevole gravità, spesso connessi all’esercizio di pubbliche funzioni (in spregio anche di eventuali Codici etici di cui pure si erano dotati). Non è un caso che la principale novità della legge Severino sia l’incandidabilità per “ a) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale; b) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene

ordine alla presentazione delle candidature ed alla partecipazione del partito politico» alla competizione elettorale”. Si tratterebbe dunque di un intervento di tipo manipolativo non consentito alla Corte, “in quanto non è ravvisabile, nella specie, una soluzione costituzionalmente obbligata sia per quanto attiene al tipo di tutela che dovrebbe essere introdotta a favore dei soggetti interessati, sia per quanto concerne i criteri in base ai quali gli uffici elettorali medesimi dovrebbero decidere le relative controversie interne alle organizzazioni di ciascun partito politico – le cui normative, ove esistenti, potrebbero presentare profili del tutto specifici in relazione alle rispettive loro organizzazioni – sia, infine, quanto al relativo procedimento”. Secondo la Corte, su tali elementi “deve potersi esplicare pienamente la discrezionalità politica del legislatore, data la pluralità delle possibili soluzioni concretamente adottabili (…) quanto al diritto dei cittadini di associarsi liberamente in partiti politici, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”: “tale libertà associativa -conclude la Consulta- trova, del resto, nel momento elettorale la più genuina e significativa espressione, in modo che sia garantita per gli elettori la possibilità di concorrere democraticamente a determinare la composizione e la scelta degli organi politici rappresentativi”. Cfr. E. Rossi. La democrazia interna nei partiti politici, www.associazionedeicostituzionalisti.it/, 2011

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In ciò recependosi indirettamente l’indicazione data dalla Corte costituzionale con la sentenza 256/2010.

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superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale; c) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell'articolo 278 del codice di procedura penale.” In pratica, la finalità è quella di estromettere dal Parlamento tutti coloro che abbiano conseguito una condanna penale passata in giudicato. Tale legge finisce con l’essere piuttosto invasiva con riferimento all’esercizio da parte dei partiti del potere di selezione delle candidature, con riferimento all’individuazione dei candidabili per le elezioni politiche, ed infatti sono stati sollevati dubbi di costituzionalità di vario genere; in particolare, si è osservato210 che la legge è costituzionalmente dubbia con riferimento all’estensione delle cause di incandidabilità ai parlamentari. Infatti, mentre per tutte le elezioni, diverse da quelle per il Parlamento nazionale, l’articolo 51 della Costituzione consente al legislatore di identificare con una certa libertà le cause di limitazione all’elettorato passivo, per le elezioni al Parlamento nazionale vale, quale norma speciale, l’articolo 65 della Costituzione della Costituzione, il quale detta con un elenco tassativo i limiti all’elettorato passivo che il legislatore può introdurre, affermando che “la legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato e senatore”. Le cause d’incandidabilità configurerebbero uno

status di «inidoneità funzionale» all’assunzione di cariche elettive, mentre le

cause di ineleggibilità, servono invece a garantire «la libera ed eguale espressione del voto del corpo elettorale». Se cause di ineleggibilità e incandidabilità non coincidono, è tutto da dimostrare che il legislatore possa trasferire le seconde alle elezioni per il Parlamento. C’è anche chi esprime211 “forti perplessità” ravvisando “vizi di illegittimità costituzionale della previsione” delle cause di ineleggibilità,

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Tali tesi sono riportate nel parere pro veritate di B. Carovita, G. de Vergottini, N. Zanon, depositato presso la presidenza della giunta per le elezioni e le immunità del Senato nell’agosto 2013, nell’ambito del procedimento finalizzato a dichiarare la decadenza da Senatore dell’on. Berlusconi in applicazione della legge Severino, in quanto condannato definitivamente a 4 anni di reclusione per frode fiscale. Il testo del parere si ritrova al seguente indirizzo: http://www.lastampa.it/rw/Pub/Prod/PDF/parere%20ZANON%20-%20CARAVITA%20-

%20DE%20VERGOTTINI.pdf

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G. Spangher, nel suo parere pro veritate depositato in occasione del procedimento sulla decadenza dal seggio senatoriale dell’on. Berlusconi, consultabile al seguente indirizzo: http://www.lastampa.it/rw/Pub/Prod/PDF/parere%20SPANGHER.pdf

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in quanto l’articolo 66 della Costituzione stabilisce che “spetta alla Camera di appartenenza giudicare sui titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. Su queste specifiche osservazioni la Corte costituzionale così come la magistratura212 non hanno avuto modo di pronunciarsi, mentre la Giunta per le elezioni e le immunità del Senato non le ha accolte. Le osservazioni di incompatibilità costituzionale sopra riportate hanno un loro fondamento, ma è da osservarsi anche che le specifiche ipotesi di incandidabilità individuate dalla legge Severino potrebbero fondarsi su norme costituzionali riferite esplicitamente a chi assolve funzioni e cariche pubbliche, quali quelli dell’imparzialità (articolo 97), del servizio della Nazione (articolo 98), della responsabilità (articolo 28), del comportamento secondo “disciplina ed onore” (articolo 54). Quel che è certo, è che la legge è una conseguenza dell’assenza di una forte e consolidata etica pubblica, tanto presso la classe dirigente quanto presso il corpo elettorale. Nei Paesi di antica tradizione democratica e di forte e consolidata etica pubblica non è necessario il ricorso alla forza delle leggi per evitare certe candidature “inopportune”, in quanto sarebbero gli elettori per primi a rifiutarsi di eleggere a cariche pubbliche rilevanti tali soggetti. Un’altra limitazione legislativa in cui è incorsa l’autonomia partitica in tema di selezione delle candidature è data dalla controversa introduzione delle c.d. quote rosa, al fine di garantire le pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive. Istituto di origine statunitense, le azioni positive in materia elettorale sono state per la prima volta previste all’interno delle modifiche intervenute tra il 1993 ed il 1995 nella legislazione riguardante i consigli comunali, provinciali, regionali e le elezioni per la Camera dei deputati. Benché fossero utilizzate a seconda del tipo di elezione tecniche differenti (nessun sesso rappresentato nelle liste dei candidati in misura superiore ad una certa percentuale ovvero candidature maschili e femminili in ordine alternato, con incidenza solo sulla formazione delle liste elettorali o tale da imporre, di fatto, l’elezione di un certo numero di

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La magistratura ha invece avuto modo di pronunciarsi su altri dubbi di costituzionalità attinenti a tale legge, ritenendola costituzionalmente legittima. Cfr. TAR Lazio di Roma, Sentenza 8 ottobre

2013, n.8696 - Pres. Pugliese – est. Arzillo, in

http://www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=9882#.UmZRcfktzyU. Sempre alla giunta per le elezioni ed immunità del Senato, è stato inoltre presentato ricorso contro la legge Severino alla Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo, per violazione del principio di irretroattività della legge penale, di cui all’articolo 7 della CEDU.

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rappresentanti sulla base dell’appartenenza sessuale), tutte queste previsioni sono state ritenute costituzionalmente illegittime dalla Corte costituzionale, con la sentenza 422/1995, per violazione degli articoli 3 e 51 della Costituzione. Proprio per questa ragione si decise di intervenire a livello costituzionale, e così con la l. cost. 2/2001 e la l. cost. 3/2001 si è imposto, rispettivamente alle Regioni a statuto speciale e alle Regioni a statuto ordinario, in riferimento alle inerenti leggi elettorali, di promuovere la parità di accesso tra uomini e donne213. Infine nel 2003 è stata approvata una legge costituzionale che ha inciso sulla lettera dell’articolo 51, 1° comma della Costituzione, aggiungendo il periodo secondo cui “A tale fine (per consentire, cioè, che tutti i cittadini possano accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza) la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. In punto di pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive quindi l’apparato costituzionale è assai avanzato, ma in particolare la previsione dell’articolo 51, di natura programmatica a causa della sua genericità, non ha trovato attuazione in misure concrete. Ci si può chiedere in che misura il nuovo “impianto” costituzionale legittima un intervento legislativo in materia di selezione delle candidature ai fini di garantire le pari opportunità, comprimendo la relativa autonomia partitica in materia. La Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi con la sentenza 49/2003, relativa ad una legge valdostana che aveva sancito l’obbligo di presentare delle liste con la presenza di esponenti di entrambi i sessi: la Corte affermò che “le disposizioni in esame stabiliscono un vincolo non già all’esercizio del voto o all’esplicazione dei diritti dei cittadini eleggibili, ma alla formazione delle libere scelte dei partiti e dei gruppi che formano e presentano le liste elettorali, precludendo loro (solo) la possibilità di presentare liste formate da candidati tutti dello stesso sesso. Tale vincolo negativo opera soltanto nella fase anteriore alla vera e propria competizione elettorale, e non incide su di essa”. In altri termini, sono ammissibili misure intese a promuovere l’eguaglianza di chances ma non rivolte a raggiungere direttamente il risultato

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Più precisamente, la l. cost. 2/2001 parla di accesso alle consultazioni elettorali (con riferimento alla potenzialità del risultato), mentre l’articolo 117, 8° comma della Costituzione, come risultante a seguito della l. cost. 3/2001, parla di parità di accesso alle cariche elettive (con riferimento al risultato). Tuttavia le differenze sono attenuate dal fatto che entrambe le normative hanno come fine dichiarato quello di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi.

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(garantire seggi elettivi alle donne). Mentre il legislatore, con riferimento al sistema elettorale nazionale, è rimasto sostanzialmente insensibile a tale “timida” apertura della giurisprudenza costituzionale alle azioni positive214, si sono avuti progressi a livello di leggi elettorali regionali215. Infatti alcune Regioni, che accolgono un sistema elettorale proporzionale con voto di preferenza, hanno inserito disposizioni che vietano la sovrarappresentazione oltre i 2/3 dello stesso sesso, a pena di sanzioni, e talvolta a pena di inammissibilità delle liste; in Toscana invece non ci sono preferenze, ma liste bloccate, e così si prevede che nessuna lista provinciale possa contenere candidati di uno stesso sesso per oltre i 2/3. La legge però non fissa l’alternanza uomo-donna o viceversa e così facendo permette ai partiti di eludere la previsione normativa, ad esempio candidando le donne in fondo alla lista. In talune Regioni (Sicilia, Campania) si è altresì introdotta la doppia preferenza di genere, per cui l’elettore può esprimere validamente due preferenze, entrambe valide, a condizione che siano destinate una ad un candidato uomo ed una ad un candidato donna. E proprio con riferimento ai vincoli posti dalla legge per l’espressione delle preferenze in ragione del genere, la Corte costituzionale, con la sentenza 4/2010, ha avuto modo di affermare che “sotto il profilo della libertà di voto, tutelata dall’art. 48 Cost., si deve osservare che l’elettore, quanto all’espressione delle preferenze e, più in generale, alle modalità di votazione, incontra i limiti stabiliti dalle leggi vigenti, che non possono mai comprimere o condizionare nel merito le sue scelte, ma possono fissare criteri con i quali queste devono essere effettuate”. Ancora una volta si è riconfermato che l’autonomia partitica nella selezione delle candidature può

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Nel corso dell’approvazione della l. 270/2005 alla Camera dei deputati era stato presentato dalla stessa maggioranza un emendamento che imponeva la presenza nelle liste di almeno il 30 per cento di donne, una successione di tre candidature maschili e una femminile e una sanzione finanziaria per i partiti che non avessero rispettato la norma; tale emendamento fu clamorosamente bocciato a voto segreto a gran maggioranza. Lo stesso non è accaduto con riferimento alle elezioni per il Parlamento europeo e quelle amministrative: con riferimento alle elezioni per il Parlamento europeo l’Italia ha introdotto un sistema di quote con la l. 90/2004. In particolare la legge prevede un sistema elettorale di tipo proporzionale puro con possibilità per l’elettore di esprimere fino a due preferenze per il candidato, e si stabilisce l’inammissibilità di liste in cui non siano presenti candidati di ambo i sessi, con decurtazione dei rimborsi elettorali per le liste in cui vi siano più di 2/3 di candidati dello stesso sesso. Inoltre, con la l. 215/2012, per le elezioni dei consigli comunali dei comuni sopra i 5000 abitanti è stata introdotta la doppia preferenza di genere, nonché la c.d. quota di lista, per cui nessuno dei due sessi potrà essere rappresentato in lista per oltre due terzi del totale dei candidati.

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Ciò nonostante la l. 165/2004 che ha fissato i principi fondamentali in materia elettorale abbia del tutto ignorato il tema della democrazia paritaria.

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trovare vincoli nella legge, se tali vincoli sono fissati a tutela di interessi meritevoli di tutela, quali appunto la parità di accesso alle cariche elettive tra uomini e donne216. Quanto osservato in materia di legislazione elettorale regionale e quote rosa (la cui previsione costituisce un vincolo all’esteso potere dei parti di selezione delle candidature) permette di affrontare un ulteriore problematica: fermo restando che il legislatore ha la possibilità di poter introdurre vincoli circa i soggetti candidabili, a tutela di interessi meritevoli di tutela, ci si chiede a quale legislatore spetti questa competenza normativa, se solo al legislatore statale o anche ai legislatori regionali. L’articolo 122 della Costituzione, novellato dalla l. cost. 1/1999, stabilisce che “il sistema d’elezione ed i casi di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi”. Ora, un’interpretazione latu sensu del “sistema d’elezione” e dei “casi di ineleggibilità ed incompatibilità” potrebbe far propendere per la possibilità di regolamentare anche la procedura di selezione dei candidati, e fissare eventuali vincoli: come osservato217, “sarebbe assurdo separare le due competenze, vista la strumentalità che lega le due consultazioni”. Questa interpretazione, benché controversa per vari aspetti,218 è alla base delle specifiche normative in materia di selezione delle candidature per gli organi elettivi regionali adottate dalle regioni Toscana (l.r. 70/2004) e Calabria (l.r. 25/2004).

3.4 L’attuale assetto normativo: la designazione interna e le primarie negli

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