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La scelta del contraente nei contratti pubblici di lavori.

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Academic year: 2021

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Premessa.

La presente trattazione ha ad oggetto la tematica dei contratti della Pubblica Amministrazione, sotto il particolare profilo della scelta del contraente privato.

In via di prima approssimazione la nozione di “contratto pubblico” indica genericamente le stipulazioni negoziali della P.A. A tale ambito sono tuttavia riconducibili fenomeni diversificati che, pertanto, meritano e necessitano separata considerazione. In quest’ottica, è possibile distinguere tra contratti di diritto comune, contratti di diritto speciale e contratti ad oggetto pubblico. 1

I contratti di diritto comune stipulati dalla P.A. in nulla differiscono rispetto ai contratti ordinari stipulati da qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento giuridico. In tali ipotesi il soggetto pubblico soddisfa i propri bisogni e deve porsi su di un piano di parità rispetto alla controparte privata; per tale ragione, l’ordinamento non giustifica alcuna deroga alla disciplina civilistica normalmente applicabile al corrispondente tipo contrattuale. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’ipotesi in cui la P.A. stipuli un contratto di locazione per scopi non direttamente

1Secondo M.S. GIANNINI, in Diritto amministrativo, III ed, Milano, Giuffrè,

1993, pag. 356, i contratti che concludono le amministrazioni pubbliche si dividono in tre grandi categorie. La prima è quella dei contratti ordinari o di diritto comune (vendite, locazioni, contratti d'opera, somministrazioni), contratti che ciascun soggetto può concludere utilizzando la propria autonomia privata e le conseguenti norme del diritto privato; la seconda è quella dei contratti speciali, ovvero retti da norme del diritto privato speciale; la terza è costituita dai c.d. contratti ad oggetto pubblico, che si collegano in modo strettissimo a provvedimenti amministrativi, dei quali costituiscono un necessario complemento (le convenzioni che accedono a Beni pubblici), o una integrazione, o infine una alternativa di realizzazione (ad es. le convenzioni urbanistiche). In questa concezione i contratti ad evidenza pubblica non formano una categoria come le altre ma sono a se stanti, nel senso che rappresentano esclusivamente una categoria procedimentale, che dal punto di vista sostanziale può essere applicata ai contratti speciali, ordinari o ad oggetto pubblico.

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finalizzati all’attuazione dell’interesse pubblico cui la predetta amministrazione è deputata.

I contratti di diritto speciale, invece, sono fattispecie contrattuali che, in virtù della qualità pubblica di uno dei contraenti, vengono assoggettati ad una disciplina parzialmente derogatoria rispetto a quella ordinariamente applicabile. In tali casi la P.A., esercitando poteri autoritativi, seppur non nella forma tradizionale dei provvedimenti amministrativi ma facendo ricorso all’alternativo strumento negoziale, si colloca su di un piano di parità solo tendenziale con la controparte privata, che giustifica l’appli-cazione, accanto alle ordinarie norme privatistiche, di ulteriori norme pubblicistiche. Esempi di tale tipologia di contratti sono gli appalti di lavori, servizi e forniture, oggi organicamente disciplinati dal codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 163/2006). Infine, i contratti ad oggetto pubblico (talvolta identificati come “contratti di diritto pubblico”) si sostanziano in quelle stipulazioni negoziali aventi ad oggetto beni di cui solo la P.A., nella sua veste autoritativa, può disporre.

Normalmente queste ipotesi negoziali si caratterizzano per la stretta correlazione che presentano rispetto ad un provvedimento amministrativo.

In tale ambito è, pertanto, possibile operare un’ulteriore classificazione tra contratti sostitutivi, ausiliari ed accessivi rispetto a provvedimenti amministrativi.

I contratti sostitutivi di provvedimenti costituiscono oggi (a seguito delle modifiche che la L. n. 15/2005 ha apportato alla legge generale sul procedimento amministrativo, L. n. 241/1990) una categoria generale: l’art. 11 L. n. 241/1990, infatti, sebbene testualmente si riferisca agli “accordi sostitutivi” e non utilizzi l’espressione “contratti sostitutivi”, ne consente l’applicazione a

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prescindere da un’espressa e puntuale previsione normativa, essendo venuto meno l’inciso “nei casi previsti dalla legge”. I contratti ausiliari sono fattispecie contrattuali che possono essere stipulate nell’ambito di un procedimento amministrativo, di cui alcuni aspetti vengono quindi definiti secondo modalità consensuali. Ne costituiscono esempio gli “accordi integrativi” di cui all’art. 11 della L. n. 241/1990.

I contratti accessivi, infine, sono quelli che accedono ad un atto amministrativo e concorrono a disciplinarne gli effetti, instaurando così un legame di tipo unilaterale. Ne costituiscono esempio le concessioni–contratto.

Attivita’ contrattuale della P.A. ed autonomia negoziale

Prima di affrontare nello specifico il tema della presente trattazione, occorre fare un passo indietro.

L’attività amministrativa, in generale, può essere definita come quell’attività con cui al P.A. provvede in concreto alla cura degli interessi ad essa affidati. Nell’esercizio della stessa la P.A. può agire sia mediante atti di diritto pubblico che ricorrere allo strumento negoziale.

L’autonomia negoziale delle pubbliche amministrazioni è un dato pacifico ed acquisito, in quanto esplicazione della libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantita (art. 43 Cost.) a favore di tutti i soggetti dell’ordinamento, in forma singola o associata (art. 2 Cost.).

Dottrina e giurisprudenza infatti hanno costantemente riconosciuto una certa capacità di diritto privato della pubblica amministrazione la quale è quindi autorizzata ad utilizzare strumenti di diritto privato piuttosto che provvedimenti di natura autoritativa. La pubblica amministrazione infatti può concludere ogni tipo di contratto riconosciuto nell’ordinamento. Non sussistono restrizioni di ordine generale alla stipulazione di

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accordi, fatte salve le particolari previsioni relative a specifiche categorie di enti pubblici o a speciali materie. Inoltre, secondo le corti nazionali2, anche alle amministrazioni si applicano le disposizioni generali del Codice Civile e, dunque, anche l’art. 1322, che autorizza le parti a concludere contratti non esplicitamente disciplinati dallo stesso Codice (e quindi contratti atipici, innominati e misti).

Piuttosto il problema è sempre stato quello di definire la natura e i limiti di tale azione privatistica. L’immagine tradizionale della posizione sovraordinata della pubblica amministrazione, espressione della sovranità dello Stato, ha infatti faticato a conciliarsi con le strutture della autonomia privata che presuppongono la formale uguaglianza dei soggetti.3

2Corte di Cassazione, II, n.2624/1984; Consiglio di Stato, V, n. 4680/2001;

TAR Liguria, n. 155/2005

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Agli inizi del secolo scorso, sulla scorta delle riflessioni di Cammeo, la dottrina era orientata a riconoscere l’esistenza di una capacità giuridica speciale della pubblica amministrazione che comportava la distinzione tra un diritto privato comune (applicato ai rapporti tra cittadini) e un diritto privato speciale (applicato ai rapporti tra amministrazione e cittadini).

L’idea della specialità della capacità giuridica della pubblica amministrazione era coerente con la concezione liberale dei rapporti tra autorità e libertà: l’autorità dello Stato garantiva la libertà dei consociati astenendosi dall’interferire con i loro negozi e restando rispetto ad essi in una posizione di distante supremazia. Gli interventi della pubblica amministrazione si risolvevano prevalentemente nella adozione di atti di imperio, esterni all’autonomia dei privati, finalizzati, in forza del principio di legalità, a creare le condizioni materiali perché essa potesse svilupparsi.

La scelta di operare come se fosse un soggetto di diritto privato costituiva una ipotesi non frequente, riconducibile, pertanto, ad un regime normativo speciale. Il progressivo passaggio dalla forma di Stato liberale a quella dello Stato sociale di diritto ha portato al superamento di quelle ricostruzioni. Da un lato la posizione preminente della pubblica amministrazione è stata affievolita dalla distinzione tra attività di governo e attività amministrativa, attuata anche per mezzo della introduzione dei principi di pluralismo e di decentramento amministrativo in forza dei quali è possibile distinguere tra un concetto oggettivo unitario di pubblica amministrazione, intesa come funzione, ed un concetto soggettivo plurale di pubbliche amministrazioni intese come centri di imputazione di potere.

Dall’altro lato lo Stato sociale ha imposto una nuova concezione dei rapporti tra autorità e libertà. L’azione della pubblica amministrazione non può essere soltanto esterna alla libertà dei privati: essa deve intervenire nei processi economici, e ciò perché la sua azione non è funzionale soltanto alla costruzione di un sistema che permetta ai privati di raggiungere i propri obiettivi nel quadro

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La generale possibilità per le pubbliche amministrazioni di far ricorso a strumenti contrattuali è da lungo tempo contemplata dal nostro ordinamento4 e trova la sua originaria regolamentazione nella legge generale di contabilità dello Stato e nel relativo regolamento di esecuzione – approvati rispettivamente con R.D. 18/11/1923 n. 2440 e con R.D. 23/05/1924 n. 827 – il cui ambito applicativo è stato progressivamente esteso dalla giurisprudenza anche alle altre amministrazioni. Dispone infatti che si debba provvedere con contratto “a tutte le forniture, trasporti, acquisti, alienazioni, affitti o lavori riguardanti le varie amministrazioni ed i vari servizi dello Stato” e che la stipula di tutti i contratti che prevedano un’entrata o un’uscita per l’amministrazione debba essere preceduta da una gara, la cui tipologia varia a seconda dell’oggetto.

Negli ultimi anni, le nuove norme sull’attività amministrativa hanno riconosciuto alle amministrazioni la capacità di utilizzare gli strumenti contrattuali in maniera generale: simbolicamente, le riforme legislative hanno stimolato le amministrazioni a perseguire il pubblico interesse attraverso l’applicazione del diritto privato, laddove possibile, con la finalità di razionalizzare e migliorare l’efficienza dell’intero sistema (ad esempio, quando non ci fosse un obbligo per le amministrazioni di agire medianti atti unilaterali sulla base dell’esercizio dei poteri amministrativi). definito dalla legalità; essa è funzionale anche al perseguimento di interessi pubblici definiti dal quadro più generale della costituzionalità.

Il frequente intervento della pubblica amministrazione negli ambiti tradizionalmente occupati dalla autonomia privata ha messo in crisi il modello che voleva la sua azione affidata prevalentemente ad atti autoritativi: si pensi all’azione degli enti pubblici economici che operano esclusivamente per mezzo di attività contrattuali.

L’attività contrattuale non può quindi costituire una ipotesi eccezionale, né la sua disciplina può essere ancora ritenuta speciale se non al prezzo di una evidente forzatura.

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Il primo che ha attirato l'attenzione sull'attività privata dell'amministrazione pubblica è stato l’AMORTH, Osservazioni sui limiti dell'attività amministrativa di diritto privato, in Arch. Dir. Pubbl.,1938.

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La l. 15/2005, di riforma della legge sul procedimento amministrativo, ha inserito, nel corpo dell’art. 1 della l. 241/90, il comma 1-bis, ai sensi del quale «La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente».

Nelle intenzioni del legislatore, il comma 1-bis dell’art. 1 rappresenta una scelta culturale ed istituzionale, prima che tecnica, in quanto «esprime un principio tendenziale dell’attuale ordinamento, in favore del superamento del vecchio dogma che attribuiva alla pubblica amministrazione, in generale, il dovere di agire mediante poteri di imperio ed attraverso atti unilaterali» (relazione Bassanini al d.d.l. S 1281).

La modifica si inquadra nelle moderne tendenze di privatizzazione volte a sottrarre parte delle connotazioni pubblicistiche tipiche dell’amministrare, anche se poi, al comma 1-ter, si ribadisce che qualsiasi attività di rilievo pubblico (da chiunque posta in essere) resta assoggettata alla disciplina ed ai principi che governano l’azione amministrativa. In termini pratici, il comma 1-bis dell’art. 1 della 241/90 non farebbe altro che indicare alle amministrazioni pubbliche un criterio di preferenza dello strumento privatistico tutte le volte in cui esse debbano adottare atti di natura non autoritativa, salvo che la legge disponga diversamente. Per fare qualche esempio, si pensi alla vendita in luogo dell’espropriazione, all’affitto in luogo della requisizione, alla locazione in luogo della concessione di beni pubblici, ecc.

Detto in altri termini “nell’emanazione di atti non autoritativi, l’agire secondo il diritto pubblico deve essere oggetto di espressa previsione normativa; in mancanza, le Pubbliche Amministrazioni

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agiscono secondo il diritto privato, nell’esercizio della riconosciuta capacità giuridica generale”5

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I primi commentatori della l. 15/2005, in ordine all’interpretazione del comma in esame, sono divisi fra quanti ne affermavano la portata rivoluzionaria e quanti, invece, la reputavano una disposizione inutile, sicuramente non innovativa, ma al più ricognitiva della generale capacità negoziale della P.A., prima ricondotta all’art. 11 del codice civile.67

In effetti la pubblica amministrazione continua a perseguire interessi pubblici ma con forme negoziali che quasi mai valgono a sottrarle potestà impositiva (così ad esempio nelle convenzioni urbanistiche).

Nello stesso senso deve intendersi il disposto dell’art. 2 comma 4 del codice dei contratti pubblici D.Lgs. 163/2006 che prevede l’applicazione delle norme di diritto civile ai contratti della pubblica amministrazione nonché l’art. 11, L. n. 241/1990 che consente alle pubbliche amministrazioni di concludere con i privati accordi integrativi o sostitutivi dei provvedimenti amministrativi, rispettivamente con lo scopo di determinare il contenuto dei provvedimenti stessi ovvero di sostituirli. In questi casi, i principi del diritto privato devono essere applicati “in quanto compatibili” e “ove non diversamente disposto”; tuttavia, l’attuazione di tale norma è piuttosto discussa (fatta eccezione per gli accordi urbanistici) essendo invocata, paradossalmente, a sostegno sia della tesi pubblicistica che di quella privatistica. Quindi, in conclusione, è possibile affermare che la pubblica amministrazione sia dotata di una capacità giuridica generale, che

5Si veda R. Garofoli, Compendio di Diritto Amministrativo 2012, Nel Diritto

Editore, pag 156.

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Art. 11 Codice Civile, Persone giuridiche pubbliche “Le province e i comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche, godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”.

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Si veda a tal proposito Caringella F., 2012, Compendio di Diritto Amministrativo, Dike Giuridica, pag. 510.

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goda di autonomia negoziale, che quando essa è parte di negozi di diritto privato si muova nell’ambito dell’ordinamento civile ed infine che vi sia la tendenza legislativa indirizzata ad espandere gli ambiti nei quali l’amministrazione persegue l’interesse pubblico con l’esercizio della sua capacità di diritto privato. Occorre peraltro riconoscere la sussistenza di limitazioni alla libertà d’azione che contraddistinguono il modus operandi degli enti pubblici rispetto a quello dei soggetti privati.

Tra questi limiti è possibile citare i controlli di varia natura cui sono sottoposti tutti gli enti pubblici e finalizzati a valutare la legittimità dell’azione amministrativa e la rispondenza della stessa all’interesse pubblico (ne costituisce un esempio il controllo della Corte dei Conti). Un’ulteriore tipologia di limiti all’attività negoziale della P.A. pervengono dai sempre più ristretti vincoli di spesa imposti dalle disposizioni legislative.8

Ma il limite maggiore che incontra la P.A. nello svolgimento della propria attività di natura privatistica è senza dubbio rintracciabile nel c.d. vincolo di funzionalizzazione al perseguimento del pubblico interesse. Ciò significa che anche nello svolgimento di tale attività, come per qualsiasi atto di natura amministrativa anche autoritativa, l’azione della P.A. non è mai libera nei fini ma vincolata al perseguimento dell’interesse pubblico, che deve perseguire ai sensi dell’art. 97 della Costituzione. E’ sempre connotata dallo stesso limite teleologico che connota anche l’attività provvedimentale e che contraddistingue i soggetti pubblici. Gli atti emanati da tali soggetti, pertanto, non sono mai completamente liberi, come gli omologhi atti privati, ma sempre ubbidienti al limite funzionale della rispondenza all’interesse pubblico.

8Il richiamo è al D.L. 78/2010 nonché ai recenti interventi in tema di Spending

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Così, se per i soggetti privati valgono solo i limiti negativi consistenti nell’obbligo di mantenere l’attività nei confini di liceità, per l’attività contrattuale della P.A. rilevano anche i limiti c.d. positivi ovvero quelli diretti al mantenimento dell’attività nell’ambito dei fini pubblici che l’amministrazione deve perseguire. Nel fissare detti limiti il legislatore può non lasciare alla P.A. alcun margine di apprezzamento (c.d. attività vincolata) ovvero rimettere all’amministrazione stessa un ambito di valutazione più o meno vasto (c.d. attività discrezionale). Ciò che rileva ai fini dell’individuazione del tipo di attività amministrativa, discrezionale oppure vincolata, è la relazione esistente tra attività pubblica e legge.9

Se la dottrina tradizionale (Virga) definisce la discrezionalità come la facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato, altri autori (Giannini) hanno posto in evidenza il momento della ponderazione comparativa di più interessi secondari (pubblici e privati) in ordine ad un interesse primario, quello pubblico specifico fissato dalla legge. Viceversa, laddove sono arretrati gli spazi dei scelta dell’amministrazione, in quanto sono prefissate dal legislatore anche le modalità di azione, si parla di azione vincolata (Casetta).

9Sull’attività discrezionale della P.A. si veda F. Caringella in Compendio di

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PARTE I – INTRODUZIONE

CAP. 1 - PRINCIPI CARDINE SULLA SCELTA DEL CONTRAENTE:

1.1 Principi costituzionali

Essendo i contratti della P.A. atti funzionalmente amministrativi, sono soggetti a tutti i principi generali che governano tale materia, derivanti sia dall’ordinamento comunitario che da quello interno. L’art. 97 della Costituzione sancisce al comma 1 che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità”. Sebbene la norma sia riferita solo al profilo organizzativo, la si ritiene pacificamente estesa anche all’attività della P.A., anch’essa assoggettata alla legge. Da questa norma si evincono due principi fondamentali dell’azione amministrativa: quello di buona amministrazione e quello di imparzialità. Parte della dottrina vi fa discendere altresì il terzo principio costituzionale, quello di legalità.

a) Principio di legalità

Tale principio, pur non essendo esplicitato nella nostra Carta Costituzionale, lo si desume da un’interpretazione sistematica delle disposizioni costituzionali ed impone che il potere speso dall’amministrazione nello svolgimento della propria attività trovi copertura legislativa e venga esercitato in maniera conforme alle disposizioni di legge.

Le principali questioni interpretative che animano il dibattito dottrinario e giurisprudenziale riguardano essenzialmente il contenuto ed il fondamento del principio suddetto.

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Sotto il primo profilo, è possibile declinare l’esistenza di almeno tre diverse concezioni del principio di legalità.10 Secondo una prima accezione si intende il principio di legalità in senso debolissimo, dal momento che la P.A. trova nella legge solo un limite di carattere negativo. Essa può compiere tutto ciò che la legge non le vieti espressamente. Nella seconda accezione che vede il principio di legalità in senso debole o come conformità “formale” del provvedimento alla legge, invece, l’azione amministrativa deve necessariamente trovare nella legge il suo specifico fondamento. Infine, inteso in senso forte o come conformità “sostanziale”, il principio di legalità fungerebbe non solo da limite esterno, ma anche da limite interno dell’azione amministrativa. Infatti la legge avrebbe la funzione non solo di fissare i fini ed il fondamento dell’attività amministrativa (limite esterno), ma altresì le modalità di esercizio della stessa (limite interno), nel senso che la legge detta la disciplina sostanziale cui è chiamata a conformarsi l’amministrazione.

L’altra questione che, tradizionalmente, ha animato il dibattito in ordine al principio di legalità è quella del fondamento del principio medesimo.

Secondo una prima concezione, il principio di legalità sarebbe implicitamente sancito nelle numerose riserve di legge previste dalla Costituzione (artt. 13, 23, 41, ecc. Cost.). In realtà però accogliendo questa impostazione, non si riuscirebbe ad attribuire portata generale al principio di legalità, che sarebbe limitato alle sole materie coperte da riserva di legge (libertà personale, imposizioni personali e patrimoniali, libertà di iniziativa economica, ecc.). Altri autori hanno individuato il fondamento del principio di legalità negli artt. 24 e 113 Cost., che

10Si veda in E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2005,

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assoggettando l’attività della P.A. al controllo dell’autorità giudiziaria, presuppongono che la stessa non possa svolgersi in contrasto con le norme di legge, destinate a fungere da parametro del controllo giudiziario. Altri ancora (FOIS) nell’art. 101 Cost., che prevede il principio della soggezione del giudice alla legge. Da queste norme si ricaverebbe che anche l’attività amministrativa, come quella giurisdizionale, sarebbe soggetta alla legge.

Altra ricostruzione, infine, ritiene che il principio di legalità, troverebbe fondamento nell’art. 97 Cost. In particolare, com’è noto, tale norma, al comma 1, stabilisce che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, ma, se letta in combinato disposto con il comma 2, sarebbe in grado di estendersi all’intero spettro dell’attività amministrativa. Alla legge, in altri termini, sarebbe riservata non solo la disciplina dell’organizzazione amministrativa, ma anche quella delle modalità di esercizio della stessa, dal momento che, implicitamente, la norma segna una sovraordinazione della legge sull’esercizio del potere da parte degli uffici.

Per completezza, è utile ricordare che il principio in questione, scendendo dal piano costituzionale a quello della formazione primaria, è enunciato nella legge 241/90 sul procedimento amministrativo, all’art. 1 «Principi generali dell’attività amministrativa»., in base al quale “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”.

Sul tema del principio di legalità è intervenuta recentemente la Corte Costituzionale con sentenza n. 115 del 7 aprile 2011. La Corte, pronunciandosi sulla legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del d. lgs. 267/2000 (Testo unico degli Enti locali: TUEL), norma che autorizzava i sindaci ad emanare ordinanze, anche contingibili ed urgenti, al fine di prevenire e di eliminare

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gravi pericoli che minacciassero la sicurezza urbana, torna a rimarcare che l’art 97 Cost. istituisce una riserva di legge relativa, allo scopo di assicurare l’imparzialità della P.A., la quale può soltanto dare attuazione, anche con determinazioni normative ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla legge.11

b) Principio di imparzialità

Il citato art. 1 della legge n. 241/1990, «Principi generali dell’attività amministrativa» a seguito delle modifiche apportate dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, recante «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile», dispone: “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”.

Le continue modifiche apportate alla norma in esame dimostrano l’importanza e l’attenzione che ad esso è rivolta dal legislatore.

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Nello specifico la Corte Cost nella citata sentenza afferma “Tale limite è posto a garanzia dei cittadini, che trovano protezione, rispetto a possibili discriminazioni, nel parametro legislativo, la cui osservanza deve essere concretamente verificabile in sede di controllo giurisdizionale. La stessa norma di legge che adempie alla riserva può essere a sua volta assoggettata – a garanzia del principio di eguaglianza, che si riflette nell’imparzialità della pubblica amministrazione – a scrutinio di legittimità costituzionale.” Ed inoltre…“Questa Corte ha affermato, in più occasioni, l’imprescindibile necessità che in ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio non consente «l’assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, che produce l’effetto di attribuire, in pratica, una «totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione (sentenza n. 307 del 2003; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 32 del 2009 e n. 150 del 1982). Non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa.

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L’ultimo intervento normativo ad opera della richiamata legge n. 69/2009 è straordinariamente significativo di ciò.

Nonostante il legislatore del 2005 avesse ritenuto superflua la menzione del principio in esame, dottrina e giurisprudenza hanno continuato a farne applicazione, come se quel principio fosse implicito nella legge stessa. Con la riforma del 2009 però, anche in ossequio al dettato dell’art. 97 Cost. e, forse per una ragione più formale che sostanziale, il legislatore ha esplicitato anche il principio di imparzialità.

Tale principio però trova la sua più importante affermazione all’art. 97 Cost. laddove si afferma che: “I pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione”. Come sopra anticipato, riconosciuta alla disposizione carattere immediatamente precettivo, dottrina e giurisprudenza dominante hanno progressivamente riconosciuto che l’imparzialità, sebbene riferita all’organizzazione, sia un principio pienamente applicabile anche all’attività amministrativa.

Ad onor del vero, l’espressione adottata dall’art. 97 - “Amministrazione” – può essere intesa sia nell’accezione soggettiva di Amministrazione-Organizzazione che in quella oggettiva di Amministrazione-Attività (Corso).

L’imparzialità organizzativa impone, in primo luogo, un assetto organizzativo dell’amministrazione avulso da pressioni di parte, perché un’amministrazione parziale difficilmente potrebbe realizzare un assetto imparziale di interessi. L’imparzialità ‘organizzativa’ la si riscontra dunque nella distinzione politica-amministrazione che si può effettuare nella PA; difatti le due componenti convivono, non troppo pacificamente, quali anime nel medesimo corpo, della PA, ed il principio di imparzialità

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consentirebbe una gestione concorrente, corretta ed unitaria, nella gestione “dell’indirizzo politico” (Vespertini).

Chiaramente tutto questo non significa creare un’amministrazione acefala ed apolitica, quanto piuttosto di evitare che essa si traduca in mero apparato strumentale a servizio della maggioranza, ponendola in posizione subalterna alla politica. Quanto detto significa piuttosto, come esplicitato perfettamente da autorevole dottrina (Giannini), “eliminazione della politicità”, quale fronda di parzialità latente o, forse, talvolta anche troppo tristemente esplicita.

Il canone della imparzialità non esige affatto che l’amministrazione si sottragga e quindi non si uniformi all’indirizzo politico, poiché, rievocando Barile, “la pubblica amministrazione è sempre parte”12

. Imparzialità vuol dire assenza di indebite interferenze, ma ciò non significa che l’amministrazione sia priva di orientamento di fondo. Infatti, come sopra esposto richiamando illustre dottrina, l’amministrazione è certamente parziale, nel senso che l’interesse pubblico affidatole dalla legge rappresenta la direzione obbligata verso la quale muovere, senza che ciò smentisca il principio di cui in commento.

Ma così definita, in negativo, cioè per quello che non deve essere o per come non deve manifestarsi, l’imparzialità è equidistanza, mero “divieto di favoritismi” (Giannini), e si collega direttamente al principio di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Cost.

Oltre a questa accezione meramente negativa, il principio di imparzialità ha anche valenza positiva. Bisogna partire dal presupposto che le amministrazioni pubbliche sono per loro natura

12 Si veda BARILE, Il dovere di imparzialità della pubblica amministrazione, in

AA.VV. Scritti Giuridici in memoria di Pietro Calamandrei, Vol IV, Cedam, Padova, 1958, 203.

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“parziali”, essendo portatrici di interessi pubblici al cui perseguimento la loro attività è finalizzata. Definita in positivo, pertanto, l’imparzialità si riscontra nell’“identificare e valutare tutti gli interessi coinvolti, sicché la scelta risulti il frutto di una esatta e completa rappresentazione e ponderazione di tali interessi” (Nigro). La P.A. dovrà, in tal senso, cercare di massimizzare l’interesse pubblico cui è per legge finalizzata, contemperandolo con gli ulteriori interessi, pubblici e privati, coinvolti in modo che il risultato finale si mostri coerente e consapevole di tale valutazione complessiva. In altre parole, non si tratta di porre sullo stesso piano l’interesse pubblico e gli altri interessi coinvolti, ma di effettuare una ponderazione degli interessi contrapposti.

In questa prospettiva, non si può che rilevare che la sede principale nella quale si manifesta tutta l’importanza del principio di imparzialità è il procedimento amministrativo ed in particolare la fase dell’istruttoria, la quale, essendo volta all’accertamento dei fatti e dei presupposti nonché all’acquisizione e valutazione degli interessi, è il momento più “esposto” ad ingiustificate ed indebite interferenze (es. necessità di terzietà del responsabile del procedimento ed assenza di conflitto di interessi).

E’ possibile individuare la differenza tra principio di imparzialità, proprio delle amministrazioni classiche, e principio di neutralità proprio delle autorità amministrative indipendenti. I due termini anche se simili ed usati spesso in modo promiscuo, indicano due concetti diversi. Infatti l’imparzialità, come visto sopra, non nasconde il fatto che le amministrazioni siano “di parte”, ed esprime l’esigenza che l’amministrazione nell’agire al fine di perseguire l’interesse pubblico primario, che costituisce l’obiettivo di fondo, si comporti nei confronti dei destinatari dell’agere amministrativo senza dar luogo a discriminazioni

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arbitrarie. Neutralità invece, indica terzietà ed equidistanza dai vai interessi coinvolti che pertanto risultano posti tutti sullo stesso piano, compreso quelli pubblici.

c) Principio di buona amministrazione

Il principio di buona amministrazione che impone che l’amministrazione agisca nel modo più adeguato e conveniente possibile non è meramente rivolto alla consacrazione del principio di non discriminazione irrazionale al cospetto di situazioni equivalenti, bensì riguarda la necessita di agire in modo adeguato e conveniente. Si tratta di un criterio cui ispirare l’organizzazione dei pubblici uffici.

La precettività immediata di tale principio, sebbene individuato dall’art. 97 della Costituzione tra i canoni giuridici fondamentali che regolano l’organizzazione ed il funzionamento della pubblica amministrazione, non è stata unanimemente riconosciuta in dottrina ed in giurisprudenza che gli riservano scarsa attenzione. All’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione si riteneva che il principio di buona amministrazione non avesse efficacia cogente13; viene considerato semplicemente come indicazione che il costituente aveva dato al legislatore ordinario in materia di organizzazione amministrativa.

Le cause di questa circostanza devono essere ricondotte da un lato alla carente attenzione, da parte degli studiosi del diritto amministrativo, per i temi dell’organizzazione pubblica; dall’altro, al ripudio della rilevanza giuridica di tutti quei concetti non immediatamente ricompresi nel novero dei più tradizionali canoni di indirizzo dell’attività amministrativa, intesa nella sua accezione legalistico-formale; al più tale concetto veniva inglobato nel

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Si veda F. Manganaro, Principio di legalità e semplificazione dell’attività amministrativa. I. Profili critici e principi ricostruttivi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000,19, il quale sostiene che “le prime interpretazioni del testo costituzionale individuano, …, nel buon andamento un principio del merito amministrativo”.

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significato giuridico di imparzialità dell’azione amministrativa, con rinuncia al proposito di individuazione di una specifica autonomia concettuale.

Solo elaborazioni più moderne hanno saputo approdare ad una concezione più ampia, capace di considerare rilevante sotto il profilo giuridico l’aspetto organizzativo dei pubblici uffici, valorizzando la necessaria correlazione tra momento strutturale e momento funzionale dell’azione pubblica: come a dire, finalmente, che un’azione efficace, tempestiva, proporzionata, non può che costituire il frutto di una organizzazione (momento statico) ispirata a monte a tali criteri.

In questa linea una rilevanza decisamente particolare assunse la pronunzia dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 1972, con la quale fu rilevato che ove fosse "legislativamente posto un sistema organizzativo che renda possibile, anche solo in astratto, di non onorare i principi del buon andamento e della imparzialità, le norme del sistema stesso non possono essere ritenute costituzionalmente legittime".

La percezione diffusa dell’esigenza di un’amministrazione in grado di assolvere effettivamente i propri compiti, quale strumento di sviluppo e di tutela della persona piuttosto che come intralcio alla realizzazione di diritti e interessi dei singoli, ha condotto fra l’altro alla emanazione della legge sul procedimento amministrativo, la l. n. 241 del 1990, normativa cardine sul procedimento amministrativo, che sancisce all’art. 1, come successivamente modificato, che “L’attività amministrativa … è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario”. In tal modo, se l’imparzialità riceve un esplicito richiamo, il

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principio di buon andamento trova invece ingresso nella legge fondamentale sull’esercizio dell’attività amministrativa in modo mediato, solo cioè attraverso la canonizzazione dei suoi importanti corollari, economicità ed efficacia14

.

A partire da tale legge, il principio di buon andamento, impone adeguatezza e convenienza dell’azione amministrativa orientata al raggiungimento di risultati efficienti. Si ritiene, infatti, che esso si fondi sui criteri delle c.d. tre “e” vale a dire i criteri di economicità, efficacia ed efficienza, i quali vengono mutuati dal linguaggio aziendalistico.

Da alcuni anni a questa parte, esigenze di razionalizzazione della spesa pubblica e di un suo migliore utilizzo assegnano al buon andamento significati ulteriori e diversi rispetto a quelli in cui normalmente si declina ed esprime . In modo particolare si è andata attuando una profonda rivoluzione dello stesso modo di concepire l’azione del potere pubblico, che da esercizio di attività meramente conforme al dettato legislativo, è andata e, deve andare, a rispondere ad esigenze differenti che possono genericamente essere definite come potremmo definire di “attenzione al risultato”. In altre parole, il principio di buon andamento ha spinto oggi a ritenere l’amministrazione responsabile, non solo esclusivamente della legittimità del proprio operato, ma anche dei risultati raggiunti15.

Può allora riconoscersi che l’importanza attribuita al risultato amministrativo costituisce l’innovazione più profonda del modo di

14Sebbene la L. 241/90 e ss.mm.ii. menzioni l’economicità e l’efficacia, si

ritiene anche implicitamente considerata l’efficienza. Nel dettaglio:

- Economicità indica l’ottimizzazione dei risultati in relazione ai mezzi a disposizione;

- Efficienza indica il rapporto tra risorse impiegate rispetto alla consistenza degli obiettivi da conseguire;

- Efficacia indica invece il rapporto tra obiettivi da conseguire e risultati conseguiti.

15Sul principio in esame si veda: G Napolitano, Manuale di Diritto

Amministrativo 2008, Halley Editrice, pag 37; F. Caringella Compendio di Diritto Amministrativo 2012, Dike Giurudica, pag 52-54.

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concepire giuridicamente l’attività amministrativa; ed è tale da modificare il modo stesso di amministrare, il modo cioè in cui i funzionari intendono la loro azione. In altri termini il risultato è la capacità degli enti di soddisfare le esigenze in vista della cui tutela essi sono stati istituiti: insomma è una forma di espressione del buon andamento sancito dall’art. 97 Cost.

1.2 Principi comunitari posti a tutela della concorrenza.

a) quadro generale

La rilevanza economica della spesa pubblica per l’approvvigionamento di beni e servizi, e quindi per il settore degli appalti pubblici, negli Stati dell’Unione Europea, si caratterizza per la movimentazione di ingenti risorse economiche. Nel 2008, come rileva il Rapporto Monti del 9 maggio 2010, Una nuova strategia per il Mercato unico - Al servizio dell’economia e della società europea, pt. 3.4, il valore degli appalti pubblici banditi (e monitorati) nell’UE ammontava a circa 2.155 mld. di euro, pari al 17-18% del PIL dell’Unione. Tale dato è sufficiente per comprendere la motivazione che sta alla base di un ampio interesse a livello europeo nel settore preso in esame: gli appalti pubblici da sempre svolgono un ruolo importante nei risultati economici globali dell’Unione europea e la dimensione della domanda pubblica rappresenta decisamente un fattore centrale nell’orientare l’offerta di prodotti e servizi.

Si tratta pertanto di un settore strategico da sempre al centro degli interessi delle istituzioni comunitarie e intensamente regolamentato al fine della garanzia della effettività della sua apertura e del suo assetto concorrenziale. 16

16

A tal fine si osserva come già nel 1996, agli albori del lungo lavoro di preparazione che sarebbe poi sfociato nella revisione delle diverse direttive elaborate agli inizi degli anni 2000, si poteva leggere nel Libro Verde – Gli appalti pubblici nell’Unione Europea – Spunti di riflessione per il futuro,

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E tale interesse, oggi più che mai, complice la crisi internazionale, alla vigilia di nuovi ed importanti interventi riformatori del settore è ribadito nella Comunicazione della Commissione “Europa 2020 - Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva” ove si sottolinea nuovamente come la politica in materia di appalti pubblici debba garantire un uso più efficace dei fondi pubblici e i mercati degli appalti pubblici debbano essere mantenuti aperti a livello di UE.

b) Principi dei Trattati

Secondo l’opinione prevalente in dottrina, accanto, se non al di sopra della nostra Costituzione Repubblicana, si pone ormai infatti una vera e propria costituzione, almeno economica, europea. Al di là dell’insuccesso della costituzionalizzazione dei Trattati, esistono delle disposizioni di fonte europea, che prevalgono sulle fonti nazionali, con il solo limite, almeno secondo la nostra Corte, dei principi costituzionali.

proposta del Commissario M. Monti, al punto 2.3, tra gli obiettivi della politica dell'Unione in materia di appalti pubblici: “…l’azione comunitaria

nel settore considerato, i cui obiettivi fondamentali rimangono immutati: predisporre le condizioni di concorrenza necessarie affinché gli appalti pubblici siano aggiudicati senza discriminazioni, pervenire ad un'utilizzazione razionale del pubblico denaro attraverso la scelta dell'offerta migliore, rendere accessibile ai fornitori un mercato unico che offra importanti sbocchi e rafforzare così la competitività delle imprese europee. È indispensabile realizzare una politica europea efficace in questo settore se si vuole che il mercato unico: generi una crescita sostenuta a lungo termine e crei occupazione; favorisca lo sviluppo di imprese in grado di sfruttare le possibilità offerte dal mercato unificato più vasto del mondo e di sostenere efficacemente la concorrenza su mercati globali; consenta al contribuente e all'utente di usufruire di servizi pubblici di migliore qualità e a minor costo. I poteri pubblici e le imprese di servizi pubblici dell'Unione europea spendono ogni anno circa 720 miliardi di ECU in beni e servizi, ammontare che rappresentava nel 1994 l’11,5% del PIL dei 15 Stati membri ovvero, in altri termini, l’insieme delle economie belga, danese e spagnola, cioè quasi 2000 ECU pro capite. In ragione dell’entità degli appalti pubblici europei, la messa a punto di sistemi d'acquisto efficaci può determinare notevoli risparmi per i governi e quindi per i contribuenti. Considerazioni di tale natura sono particolarmente importanti nel quadro delle politiche di riduzione dei disavanzi pubblici dettate dai criteri di convergenza fissati dal trattato di Maastricht”.

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Queste disposizioni di rango superprimario, riguardano specificamente la sfera economica e tendono innanzitutto a creare un mercato che di volta in volta è stato definito come comune, unico o interno.

Le disposizioni del Trattato di Roma, istitutivo della comunità economica europea, poi il Trattato di Maastricht, Comunità Europea, ed infine il Trattato di Lisbona, Unione Europea, sono applicabili a tutta la sfera dei contratti pubblici, incluse le concessioni. Portata applicativa più ridotta ma ampiezza di contenuti hanno invece, i vari testi di diritto secondario nel frattempo approvati.

Sebbene il trattato CEE non menzioni esplicitamente gli appalti pubblici, le sue norme costituiscono obblighi fondamentali di portata generale che le amministrazioni aggiudicatrici sono tenute a rispettare nell’aggiudicazione di tutti gli appalti, anche di quelli che, in ragione del loro valore economico si situano al di sotto della soglia di applicazione delle disposizioni specifiche stabilite dalle direttive. Tale centralità deriva dallo sforzo interpretativo teso ad allargare, sia in via normativa che giurisprudenziale, il raggio d’azione dei principi fondamentali dell’ordinamento comunitario. La fonte principale di provenienza europea in materia di contratti pubblici è stata individuata nell’allora art. 6 del Trattato CEE, art. 12 trattato CE ed ora art. 18 TfUE il quale fissa il divieto di discriminazione in base alla nazionalità. Vi sono inoltre la libertà di stabilimento (articoli 52 e seguenti), il principio della libera prestazione dei servizi (articoli 59 e seguenti). Infatti, data l’importanza anche quantitativa dei public procurement, le garanzia delle libertà di circolazione nel settore, hanno una chiara rilevanza.

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Per comprendere tale percorso espansivo17, bisogna considerare il lungo processo che ha preso avvio negli anni settanta. I primi interventi 18 sono effettuati mediante direttive impostate, secondo lo stile tipico di quel periodo, in modo essenzialmente “negativo” e volte soprattutto alla eliminazione delle barriere interne e delle restrizioni costruite dai limiti presenti nelle varie legislazioni nazionali.19

Ma è solo con gli anni ottanta che, maturata la consapevolezza della rilevanza dal punto di vista economico delle risorse impiegate per la realizzazione di lavori e per l’acquisizione di forniture di beni e servizi, si sente la necessità di orientare “positivamente” la politica comunitaria in tale materia con la finalità di creare un mercato effettivamente aperto, privo di discriminazioni e caratterizzato pertanto dalla concorrenza. Secondo la Commissione, le cause principali dell’insuccesso della normativa fino ad allora predisposta rispetto all’obiettivo dell’apertura del mercato europeo degli appalti pubblici vanno individuate nel comportamento sostanzialmente elusivo delle regole tenuto dagli Stati membri, e consistente nell’inosservanza degli obblighi di pubblicità, attraverso la sottostima dei valori effettivi e la frammentazione degli appalti, sì da sottrarli all’applicazione della disciplina comunitaria, nell’abuso del ricorso alle procedure di aggiudicazione non concorrenziali, ammesse dalle direttive solo a determinate condizioni, e

17Il quadro normativo comunitario è ben descritto da Sandulli M.A. nel

Trattato sui Contratti Pubblici, 2008, Vol I, I Principi in generale, I contratti pubblici, I Soggetti, Sez. I, L’oggetto, pag 8 e ss..

18

La prima direttiva europea in materia è la direttiva 71/305/CE, concernente gli appalti pubblici di lavori.

19Le direttive emanate in tale periodo vengono definite di prima generazione ed

hanno obiettivi di armonizzazione minima. In tal senso si esprime la prima direttiva europea in materia che è la Direttiva 71/305/CEE del Consiglio, del 26 luglio 1971, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici, pubblicata nella GU L185 del 16 agosto 1971.71/305/CE.

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nell’utilizzazione a fini protezionistici degli standard tecnici nazionali. Nel Libro Bianco sul completamento del mercato interno presentato al Consiglio nel giugno 1985, la Commissione sottolinea l’esigenza assolutamente prioritaria di procedere alla revisione delle direttive, proponendo di estenderne l’ambito di applicazione ai settori in precedenza esclusi ed ai servizi. Tra la seconda metà degli anni ’80 e i primi anni ’90 viene quindi emanata una seconda ondata di direttive, allo scopo di completare la disciplina in riferimento a tutti i settori degli appalti pubblici e di dare quella effettività giuridica all’azione comunitaria che è invece mancata nelle prime direttive.20

La terza fase dell’evoluzione del diritto comunitario, coincide con la ‘codificazione’ delle regole sugli appalti pubblici, alla quale si giunge nel 2004 con le direttive unificate 2004/18/CE per i settori ordinari e 2004/17/CE per i settori esclusi (cd. direttive di terza generazione), alle quali si aggiunge infine la direttiva 2007/66 (c.d. direttiva ricorsi).

Questi interventi, rispetto al corpus normativo previgente, si propongono tre obiettivi primari: semplificazione per razionalizzare le precedenti disposizioni talvolta troppo dettagliate; flessibilità per rispondere alle esigenze dei committenti pubblici che lamentano un’eccessiva rigidità delle procedure; modernizzazione per tener conto delle nuove tecnologie, soprattutto nel campo dell’elettronica e in considerazione del graduale processo di liberalizzazione del

20Trattasi delle cc.dd. direttive di seconda generazione: direttiva 92/50/CE

(servizi), 93/36/CE (forniture), 93/37/CE (lavori) e 93/38/CE (settori speciali). Queste direttive, dal contenuto estremamente specifico e dettagliato, che sono rimaste in vigore fino al 31.1.2006, segnano il superamento della politica dell’armonizzazione minima: il quadro normativo è integrato con disposizioni dettagliate, le quali, non solo riducono sensibilmente i margini di differenziazione e discrezionalità degli Stati membri ma, in ragione di questa loro formulazione, acquisiscono talvolta natura auto-applicativa divenendo direttamente efficaci negli ordinamenti nazionali decorso il termine per il recepimento (cd. direttive self-executing).

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mercato dell’energia e degli altri settori speciali. Le finalità perseguite vanno oltre, per così dire, quelle dell’armonizzazione rafforzata e coincidono con un’inerziale spinta verso l’uniformazione e l’unificazione alla quale concorre massicciamente l’azione interpretativa della Corte di Giustizia con un ormai “cospicuo “digesto” di pronunce”.21

In conclusione, la generazione di direttive sugli appalti pubblici in oggetto, le direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, come sopra esposto, è il prodotto di un lungo processo avviato nel 1971 con l’adozione della direttiva 71/305/CEE, e mira principalmente ad assicurare agli operatori economici il pieno godimento della libertà fondamentale della concorrenza negli appalti pubblici, attraverso l’instaurazione di procedure trasparenti e non discriminatorie. Infatti, se vogliamo individuare la ratio della disciplina sugli appalti pubblici dell’ordinamento comunitario, almeno fino a questo periodo storico, questa è da ricercare nella finalità di creare condizioni di concorrenza effettiva nell’attività contrattuale dei soggetti pubblici con l’obiettivo di rendere possibile l’esplicazione delle libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi stabiliti dal Trattato UE e dei principi fondamentali di parità di trattamento, di non discriminazione, di reciproco riconoscimento, di proporzionalità e di trasparenza, che vi derivano e che sono posti a tutela del principale valore: la concorrenza.

b.1 Recenti aspetti evolutivi e i nuovi principi c.d. “sociali”

Il quadro normativo esistente, fino a questo punto descritto, è stato profondamente modificato, o meglio integrato, con nuove direttive

21

Si veda in A. Massera, 2012, Lo stato che contratta e che si accorda, Plus Pisa, pag. 47.

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che possiamo chiamare di “quarta generazione”22

. Infatti, il 28 marzo 2014, sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea le tre nuove direttive comunitarie in materia di contratti pubblici. Si tratta della 2014/23/UE, che disciplina - per la prima volta a livello europeo - le concessioni, della 2014/25/UE, che sostituisce la direttiva 2006/17/CE in materia di appalti nei settori c.d. esclusi (energia, acqua, trasporti e servizi postali), e della 2014/24/UE, che subentra alla direttiva 2006/18/CE sugli appalti nei settori ordinari.

Entrate in vigore il 17 aprile 2014, le direttive sono il frutto di un iter normativo iniziato a dicembre 2011 con una serie di proposte della Commissione Europea, a loro volte nate dal lungo confronto da quest’ultima avviato nel 2010 con le altre istituzioni europee, gli stati membri e, in generale, tutti gli operatori del settore, al fine di garantire la massima partecipazione nel processo decisionale e di individuare le criticità del sistema attuale e le possibili soluzioni.

A partire dalla Comunicazione della Commissione Europea 3 marzo 2010, con la quale sono stati definiti gli obiettivi strategici per il 2020, è stato tutto un susseguirsi di proposte, pareri, libri verdi e comunicazioni in materia di contratti pubblici; il rinnovamento del sistema degli appalti pubblici appare infatti una questione di grande attualità sia nel contesto nazionale sia nel contesto europeo.

Si arriva così alla definitiva approvazione delle direttive da parte del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea, avvenuta il 26 febbraio 2014. Le tre direttive dovranno essere recepite dagli stati membri entro il 18 aprile 2016.

22

Per un‟analisi d‟insieme, anche del processo formativo delle nuove direttive, si rinvia a C. E. GALLO, a cura di, Autorità e consenso nei contratti pubblici

alla luce delle direttive 2014, Giappichelli Editore, Torino, 2014; D. Del

Vescovo, Le nuove direttive in materia di appalti, concessioni e settori speciali, in Amministrativamente .com, Fascicolo n. 3-4/2014.

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Le molteplici novità introdotte a livello europeo, non tutte di agevole interpretazione ed applicazione, appaiono aver fortemente rinnovato i principi ispiratori e generali della materia.

Infatti, la situazione economica europea, l’humus, che ha prodotto l’intervento normativo in oggetto, ha chiaramente reso necessarie azioni dirette a contribuire al superamento della crisi, all’interno di una strategia europea più ampia, “per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”23

.

Del resto infatti, come già sopra evidenziato, nell'Unione Europea gli appalti pubblici rappresentano un’alta percentuale del PIL e, pertanto, devono costituire un fattore essenziale per ridare slancio alla crescita in tempi di crisi economica, ma anche per perseguire ulteriori obiettivi, ritenuti fondamentali, quali di tutela ambientale, la protezione sociale e il sostegno all’innovazione, l’attuazione di politiche di contenimento e riqualificazione della spesa pubblica nonché il miglioramento della qualità e dell’efficienza delle prestazioni ritenute essenziali.24

Così, una delle principali novità della nuova normativa europea consiste nell’introduzione, tra i principi generali, dell’obbligo per gli Stati membri di adottare le misure appropriate per garantire che, nell’esecuzione dei contratti, gli operatori economici rispettino gli obblighi vigenti in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro stabiliti dal diritto dell'Unione, dal diritto nazionale, dai contratti collettivi o dal diritto internazionale in

23 Comunicazione della Commissione Europea 3 marzo 2010, intitolata

«Europa 2020: Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva».

24 Si veda in proposito come già nel “Libro Verde sulla modernizzazione della

politica dell’UE in materia di appalti pubblici. Per una maggiore efficienza del mercato europeo degli appalti”, adottato nel 2011, venivano aggiornati gli obiettivi del sistema europeo degli appalti includendo e confermando il ruolo essenziale per il contenimento della spesa pubblica, il perseguimento delle finalità sociali ed il contrasto di fenomeni di corruzione diffusi nel settore.

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materia di ambiente, sociale e del lavoro, di cui agli allegati alle Direttive.

Si tratta di quanto statuito, rispettivamente, dagli articoli 18, paragrafo 2, della Direttiva appalti, dall’articolo 30, paragrafo 3, della Direttiva concessioni e dall’articolo 36, paragrafo 2, della Direttiva settori speciali.

La ratio appare evidente: riconoscere alle esigenze ambientali, sociali e di tutela del lavoro un ruolo cardine nell’intera disciplina contrattualistica. Ciò, peraltro, è chiaramente in linea con il ruolo strategico che il mercato dei contratti pubblici ha nella realizzazione delle principali politiche europee.

Ne consegue che la disciplina dei contratti pubblici, oggi ancor più che in passato, non può essere vista esclusivamente sotto la lente dell’economicità in senso stretto o della sola concorrenza, ma anche attraverso quella della tutela ambientale, sociale e del lavoro.

Pertanto, i singoli principi che devono ispirare gli Stati membri devono osservare nella fase di aggiudicazione possono suddividersi in due sottoinsiemi: da un lato, quei principi che non devono minare o limitare la concorrenza; dall’altro, i nuovi principi qualitativi, di tutela ambientale, sociale e del lavoro che guidano le direttive di c.d. “quarta generazione”25

.

L’introduzione, tra i principi generali, dell’obbligo per gli Stati membri di adottare le misure appropriate per garantire l’integrazione dei requisiti in materia ambientale, sociale e del lavoro nelle procedure di gara nonché nell’esecuzione dei contratti, e far sì che gli operatori economici rispettino detti

25 Si veda il considerando 37: “è particolarmente importante che gli Stati

membri e le amministrazioni aggiudicatrici adottino misure pertinenti per garantire il rispetto degli obblighi in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro che si applicano nel luogo in cui i lavori sono eseguiti o i servizi forniti e derivanti da leggi, regolamenti, decreti e decisioni, adottati sia a livello nazionale che dell’Unione, e da contratti collettivi purché tali norme, nonché la loro applicazione, siano conformi al diritto dell’Unione”.

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obblighi stabiliti dal diritto dell’Unione, dal diritto nazionale, dai contratti collettivi o dal diritto internazionale, rappresenta una delle novità della nuova Direttiva.

Il considerando 40 specifica che il rispetto di tali obblighi deve essere valutato, nell’applicare i principi generali, dalle Amministrazioni aggiudicatrici nelle diverse fasi delle procedure d’appalto. Il principio in argomento trova declinazione nell’ambito di diversi istituti disciplinati dalla direttiva dove viene fatto un espresso rinvio all’articolo 18, paragrafo 2, con conseguente necessità di definire in sede di recepimento la rilevanza e le conseguenze delle eventuali violazioni rispetto alla specifica fase della procedura di affidamento.

L’Europa promuove, da un lato, gli acquisti sociali, il cd. Socially Responsible Public Procurement, ovvero la scelta delle amministrazioni di effettuare operazioni di acquisto non strettamente incentrate solo sui requisiti economici, ma anche dando un peso rilevante all’impatto sociale, economico ed ambientale del contratto e, dall’altro, spinge agli acquisti verdi, il cd. Green Public Procurement, affinchè mediante gli appalti si realizzi la promozione e lo sviluppo sostenibile del territorio. Appare pertanto evidente che il legislatore opera un bilanciamento tra concorrenza ed esigenze socio-ambientali-occupazionali, con l’effetto di far prevalere le seconde sulla prima e che più generalmente l’intero sistema normativo in materia di contratti pubblici opera ancor più un continuo bilanciamento di interessi tra loro contrapposti: economicità, parità di trattamento, qualità, concorrenza, tutela delle esigenze socio-ambientali ed occupazionali.

b.2 Principi a tutela della concorrenza

Venendo alla esplicazione dei principi posti a tutela della concorrenza è possibile fare le seguenti considerazioni.

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Il principio di non discriminazione ed il principio di parità di trattamento

Tra i principi che l’ordinamento comunitario impone di rispettare nella aggiudicazione degli appalti pubblici e nell’affidamento dei contratti vengono in considerazione in primo luogo il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, unitamente alla parità di trattamento. La matrice concettuale di entrambi viene ravvisata nel principio generale di uguaglianza. Nella comunicazione della Commissione della Comunità Europea del 29 aprile 2000 si legge infatti che «il principio generale di uguaglianza, di cui il divieto di discriminazione a motivo della cittadinanza è solo un'espressione specifica, è uno dei principi fondamentali del diritto comunitario. Questo principio impone di non trattare in modo diverso situazioni analoghe, salvo che la differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata». Pertanto la portata del principio di uguaglianza nel diritto comunitario risulta affermata tanto con riferimento ai profili di carattere formale - nel senso della eliminazione delle discriminazioni fondate su opinioni politiche o religiose, sesso, cittadinanza- quanto in relazione a profili sostanziali, imponendo di non considerare in modo diverso situazioni analoghe, salvo che via siano obiettive ragioni giustificative.

La Commissione inoltre, nel documento in esame, in merito al principio di parità di trattamento specifica che lo stesso «vieta non solo le discriminazioni palesi a motivo della cittadinanza, (. . .) ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, abbia in pratica le stesse conseguenze. Il principio di parità di trattamento implica, in particolare, che le regole del gioco siano conosciute da tutti i potenziali concessionari e si applichino a tutti nello stesso modo…l'osservanza del principio di parità di trattamento esige non soltanto la fissazione di condizioni d'accesso non

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discriminatorie all'attività economica, ma altresì che le autorità pubbliche adottino ogni misura atta a garantire l'esercizio di tale attività».

Tale principio infatti assume rilevanza sia dal punto di vista sostanziale che dal punto di vista formale. Nel senso sostanziale implica la fissazione ed il mantenimento di requisiti di aggiudicazione uguali per tutti gli operatori economici, sia per quanto concerne le condizioni di presentazione delle offerte che sotto il versante dei requisiti di valutazione da parte dell’amministrazione. Il rilievo formale della parità di trattamento invece va collegato all’osservanza dei principi di trasparenza e di pubblicità, suoi corollari, che assumono, ad avviso delle fonti comunitarie, valenza strumentale rispetto ad esso, mettendo i partecipanti in condizioni di poter valutare in anticipo le proprie chanches partecipative in relazione ad un determinato affidamento.

Il principio in esame trova applicazione durante l’intero arco di svolgimento della procedure di gara in quanto il carattere discriminatorio di disposizioni o comportamenti posti in essere in un singolo momento della procedura potrebbe vanificare l’effetto antidiscriminatorio perseguito attraverso le altre fasi.26

Il principio di trasparenza e di pubblicità.

I principi di trasparenza e di pubblicità assumono un rilievo centrale nella materia presa in considerazione, ponendosi in stretta connessione con il rispetto dei canoni di non discriminazione e parità di trattamento.

26

Si veda Conclusioni Avvocato Generale Colomer, 5 giugno 2001, punto 29.Affinché questa uguaglianza sia effettiva e la discriminazione rimanga realmente fuori dagli appalti pubblici, non è sufficiente porre criteri obiettivi di partecipazione e di aggiudicazione, ma occorre anche che la loro applicazione sia basata sulla pubblicità. Questo deve avvenire a partire dal bando di gara, passando attraverso i capitolati d'oneri e concludendosi nella fase di selezione propriamente detta, sia nelle procedure aperte sia in quelle ristrette.

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Si è già osservato, infatti, come i principi di trasparenza e pubblicità assumano una valenza complementare rispetto al principio di non discriminazione in base alla nazionalità ed alla parità di trattamento, in quanto garantiscono che gli atti della procedura siano conoscibili ed accessibili.

La citata comunicazione della Commissione evidenzia la correlazione tra il principio della trasparenza ed il principio della parità di trattamento, di cui mira ad assicurare l'effetto utile garantendo condizioni di concorrenza non falsate. Sottolinea inoltre che il principio di non discriminazione sulla base della nazionalità implica un obbligo di trasparenza al fine di permettere all'amministrazione aggiudicatrice di garantirne il rispetto.

Afferma che «la trasparenza può essere garantita con ogni mezzo appropriato, compresa la pubblicazione, in funzione e per tenere conto delle specificità del settore in questione. Siffatte forme di pubblicità contengono, in generale, le informazioni necessarie affinché potenziali concessionari possano decidere se sono interessati a partecipare alla procedura (ad esempio, criteri di selezione e di attribuzione, ecc.), ivi compreso l'oggetto della concessione nonché la natura ed estensione delle prestazioni attese dal concessionario».

Il principio di proporzionalità

In termini generali il principio di proporzionalità impone che l'Amministrazione adotti la soluzione idonea e adeguata, comportante il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti, e si risolve, in sostanza, nell'affermazione secondo cui le autorità non possono imporre, sia con atti normativi che con atti amministrativi, obblighi e restrizioni alle libertà del cittadino in misura sproporzionata, e cioè superiore a quella strettamente necessaria per il raggiungimento dello scopo che l'autorità è tenuta a realizzare, previo bilanciamento dei vari interessi coinvolti e

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