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L’«illustrissimo bastardo» di Casa d’Este: don Alfonso di Montecchio (1527-1587) : vicende di un principe malnoto, tra episodi di committenza artistica e strategie mecenatesche

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Scuola Dottorale di Ateneo

Graduate School

Corso di Dottorato Interateneo in Storia delle Arti Ca’Foscari-IUAV- Università di Verona

Dottorato di ricerca in Storia delle Arti XXVI ciclo

2015

L’«illustrissimo bastardo» di Casa d’Este: don Alfonso di

Montecchio (1527-1587).

Vicende di un principe malnoto, tra episodi di committenza e strategie

mecenatesche

Tesi di Dottorato di

Andrea Marchesi

matricola 955900

Settore scientifico disciplinare di afferenza L-ART/02

Coordinatore del Dottorato Tutore del Dottorando

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Ma il ricercare e il pubblicare i documenti non basta; bisogna ancora saperne fare buono e giudizioso uso,

affinché servano a rischiarare, non a confondere la verità. E questa conoscenza non si acquista che dopo

lungo, vario e assiduo studio che avvezzi l’occhio a ben vedere, e l’intelletto a ben giudicare. G.MILANESI, Dell’erudizione e della critica nella storia

delle belle arti, in «La Nuova Antologia», v. I, fascicolo III,

1866, p. 447.

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Sommario

INTRODUZIONE 1

CRITERI DI TRASCRIZIONE E ABBREVIAZIONI 18

CAPITOLO I Laura Dianti, «moglie di fede, e di virtù perfetta» 22

I. 1 Le omissioni della gender history 22

I. 2 Sulle tracce dei Boccacci, alias Dianti: ipotesi di una metonomasia 26

I. 3 Voci e testimonianze da uno sconosciuto dossier seicentesco 32

I. 4 L’ascesa sociale di Laura, tra elargizioni e nobilitazioni ducali 38

I. 5 Laura Dianti tra le Belle della storia dell’arte 42

I. 6 Laura tra le Sante? Riflessi della Dianti nella figurazione devozionale 51

I. 7 I ritratti di Tiziano e di Dosso 59

I. 8 Laura Dianti, ovvero Laura d’Este 72

CAPITOLO II «Nato veramente di questo glorioso sangue»: il principe don Alfonso d’Este 78

II. 1 Questioni di bastardaggine 78

II. 2 I testamenti del duca Alfonso I d’Este 81

II. 3 Laura e Alfonso: matrimonio in articulo mortis e la sparizione dei pacta sponsalia 85

II. 4 I primi spazi di Laura: la palazzina della Rosa 94

II. 5 Quando nacquero gli Alfonsini: Ferrara e le sue traversie geopolitiche 100

II. 6 Laura e la paideia dei figli: precettori e modelli culturali 106

II. 7 Ancora sugli studia humanitatis degli Alfonsini, tra letteratura, musica e danza 116

II. 8 L’avvio della carriera militare: don Alfonso sul campo di Mühlberg (1547) 123

II. 9 Il matrimonio con Giulia Della Rovere 128

II. 10 L’agognata figliolanza e la pronosticante Genitura di Luca Gaurico 136

II. 11 «Bastardo», ma diplomaticamente indispensabile: le missioni in terra francese 142

II. 12 Don Alfonso familier alla corte dei Valois, tra onori e onorificenze (1556-1558) 149

II. 13 Capitano generale e conseiller della Corona (1567-1568) 157

II. 14 Escursioni nelle terre di Fiandra (1566-1568) 160

II. 15 In attesa di un erede: prime apprensioni per le sorti del Ducato di Ferrara 166

II. 16 L’ultimo amore di don Alfonso: Violante Signa 170

II. 17 Una dinastia al bivio: il protagonismo di don Alfonso nel dramma successorio 173

CAPITOLO III Alla corte di don Alfonso. Patronage ed episodi di committenza artistica 186 III. 1 L’archivio come thesaurus principis: il patrimonio documentario di don Alfonso 186 III. 2 La corte del marchese: forma, consistenza e peculiarità 193 III. 3 Dai Bevilacqua agli Este: il palazzo degli Angeli e i primi interventi dosseschi 199 III. 4 Un’altra fabbrica dossesca per gli «Alfonsini»: l’osteria dell’Angelo 209

III. 5 Pittori e commedie a palazzo negli anni ’40: la familiarità dei Dossi con gli Alfonsini 218

III. 6.1 Laura Dianti domina della corte degli Angeli e la sua presenza nelle fonti letterarie 224

III. 6.2 Matronage e maternage di Laura, dentro e fuori le mura: il Verginese 227

III. 6.3 Matronage e maternage di Laura, dentro e fuori le mura: il convento di S. Agostino 231

III. 7 Le imprese di Ruggero dipinte da Battista Dossi: l’ariostismo di don Alfonso 237

III. 8 I tredici arazzi con la Istoria di Enea 245

III. 9.1 Don Ercole-Ulisse vs don Alfonso-Enea: l’arte strumento di rivalsa intrafamiliare 251

III. 9.2 Il palazzo di Copparo, specchio della magnificentia di Ercole II: cronologie sospette 253

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III. 11 Fiamminghi e fiamminghismo: il caso di Luca d’Olanda 268

III. 12 Luca d’Olanda e le «Historie d’Olimpia» dipinte per don Alfonso 285

III. 13 Don Alfonso apparatore e «inzegnero» di tornei cavallereschi 295

III. 14 Isola «luoco molto delizioso», «di bellissima vista e di grandissimo piacere» 309

III. 15 Un principe disegnatore e «scienziato nell’arti della Matematica» 328

III. 16 La morte di un principe, il tramonto di un’epoca 336

ALLEGATI

ALLEGATO A

Indice dei fondi documentari modenesi afferenti ad Alfonso d’Este di Montecchio 343 ALLEGATO B

Laura e le lettere 357

ALLEGATO C

Ne l’infermità del signor don Alfonso d’Este 364

APPENDICI DOCUMENTARIE

APPENDICE I La dimora urbana di don Alfonso «sula via deli Anzeli» 367

APPENDICE II Pittori e intarsiatori nell’«Isola di Sua Eccellenzia» 480

APPENDICE III Inventari e «robe di guardaroba dell’Isola» 496

APPENDICE IV Gli orefici di don Alfonso 546

APPENDICE V Sensali e agenti d’arte 565

APPENDICE VI «Carte e libri da disegnare» per don Alfonso 571

APPARATO ICONOGRAFICO 574

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INTRODUZIONE

«Avvertite ciò che fate, perocché potrebbe avvenire che la Casa vostra desiderasse che vi fosse Don Alfonso».1

Se solo fosse stato accolto con adeguata prestezza, questo laconico e icastico monito avrebbe probabilmente deviato il corso di una storia.

Al rinnovo dell’investitura ducale del 1539, Ercole II d’Este (figlio di Alfonso I e Lucrezia Borgia) riuscì ad ottenere dal pontefice Paolo III il vincolo della concessione «pro se, et legitimis, et naturalibus per lineam masculinam a præfato Alphonso descendentibus»,2 quindi ai soli discendenti maschi legittimi e naturali per linea di primogenitura, finché ve ne fossero stati: una clausola davvero costrittiva, capace di rompere una consuetudine irregolare nella modalità successoria che per quasi centocinquant’anni portò nella Ferrara estense la trasmissione del patrimonio e del titolo signorile principalmente tra fratelli, legittimi o meno (pratica, invero, ammessa dalla stessa Santa Sede se nella bolla del 1501, sottoscritta da Alessandro VI, si includevano tranquillamente «omnes praefati Herculis Ducis descendentes»).3 Solo la sagacia diplomatica e l’acutezza politico-istituzionale tipiche della sua energica caratura, indussero papa Farnese a preavvisare «apertis verbis» il duca Ercole dei probabili svantaggi che la continuità dinastica avrebbe ricavato da quell’atto di riforma, concepita e sostenuta unicamente in seno alla Casa d’Este per depotenziare ad ogni costo la presumibile concorrenza nelle logiche di patrilignaggio di un altro esponente della famiglia e, di conseguenza, ottenerne la marginalizzazione dalla struttura parentale. Agli occhi di Ercole II l’insidia aveva sorprendentemente le fattezze di un fanciullo a lui consanguineo, poco più che undicenne all’epoca dell’emanazione della bolla farnesiana: don Alfonso, primo frutto dell’unione morganatica di Alfonso Id’Este e Laura Dianti, figlia di un berrettaio (Tav. I e II).

1V.PRINZIVALLI, La Devoluzione di Ferrara alla S. Sede secondo una relazione inedita di Camillo Capilupi, «Atti della Deputazione ferrarese di Storia Patria», X, 1898, pp. 199-200.

2 L.A.MURATORI, Delle Antichità Estensi. Continuazione, o sia Parte Seconda, Modena, Stamperia Ducale, 1740, p. 421.

3 J. F. BESTOR, Bastardy and Legitimacy in the Formation of a Regional State in Italy: the Estense Succession, «Comparative Studies in Society and History», XXXVIII, 1996, 3, pp. 549-585.

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L’autorevole «avvertite ciò che fate» pronunciato da Paolo III non sortì alcun effetto, tanto più che l’atteggiamento persecutorio del duca a danno della memoria storica del fratellastro favorì e alimentò, nel corso dell’ultimo quarantennio di dominio estense, quella cornice di smarrimento politico e di incertezza istituzionale sapientemente e abilmente sfruttata da un successivo pontefice, non proprio benevolo nei confronti della causa dei sovrani ferraresi: quel Pio V Ghislieri, promulgatore della fatidica bolla Prohibitio alienandi et infeudandi civitates et loca

Sanctæ Romanæ Ecclesiæ del 29 marzo 1567, con cui – trasportando il problema della legittimità della nascita nell’ambito del delicato problema successorio dei feudi della Chiesa – si negava agli illegittimi il subentro e insieme vietava nuove investiture, senza possibilità di revoca o di eccezione. Il pontefice romano escludeva, così, dal rinnovo dell’infeudazione ecclesiastica non solo tutti i figli illegittimi ma anche quelli successivamente legittimati al di fuori del matrimonio per sola volontà paterna, avocando alla sua autorità la possibilità della legittimazione. Il concerto di tutte quelle insuperabili riserve giuridiche portò all’epilogo storico della devoluzione ob lineam

finitam, marchiata come infausta «lagrimevol tragedia» da Ludovico Antonio Muratori:4 con la morte nell’ottobre del 1597 del duca Alfonso II, privo di figliolanza nonostante tre matrimoni contratti, Ferrara passò nel gennaio del 1598 sotto il governo della Chiesa, chiudendo definitivamente un capitolo di oltre tre secoli di civiltà che le fecero guadagnare posizioni di primazia sullo scenario europeo. Se Ercole II non avesse fatto scomparire le carte comprovanti l’avvenuto matrimonio tra il padre e la Dianti,5 don Alfonso sarebbe risultato il naturale capostipite di una linea in grado di preservare le sorti del Ducato, la cui perdita risulta ex post un autentico fallimento con radici endogene, imputabile all’irremovibile fermezza di un altezzoso e miope esponente della casata.

Nel paesaggio della storiografia estense, il 1598 può essere considerato un iconema semantico, deviante e a volte ostativo. All’ombra dello sfregio politico e dell’enorme dépaysement stilistico e cronologico del patrimonio formale dell’Umanesimo provocato dalla devoluzione, sulla città ex

4 L.A.MURATORI, Delle Antichità Estensi, cit., p. 415. 5 Vedi cap. II, pp. 90-91.

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capitale pare essere disceso il silenzio, destinato a scivolare oscuro verso i secoli a venire, rimanendo tuttavia a lungo acceso sull’orizzonte un sentimento del passato che in altri luoghi dell’Italia rinascimentale si chiamerà «encomio della Patria». Il sentimento inevitabilmente più diffuso era quello dell’elegia: elegia della grande leggenda storica, malinconia di quel tramonto millenaristico intervenuto a fine secolo, mestizia d’un presente ormai privo dell’araldica esaltazione cortese, della sua scena urbana e del suo teatro intellettuale.

Ferrara si appresta a specchiarsi in una nuova dimensione, nella luce del silenzio e del suo mito. Per tre secoli abbondanti, dagli strali seicenteschi dell’antiromano canonico Ubaldini agli urbani vuoti metafisici decantati poeticamente e pittoricamente da D’Annunzio e De Chirico – passando per l’immagine desolata della solinga, quanto «vasta e spaziosa», città per «gatti turchini» che Charles de Brosses immortalerà nel suo viaggio italiano del 1739 –,6 numerosi furono i laudatores

temporis acti in cerca delle ultime lacrimæ rerum della cultura estense.

Ben è noto quanto la nostalgia e l’ossessione per la riedificazione del mito arrechino pericolose deformazioni nei filtri ermeneutici della disciplina storiografica, con gli annessi rischi di restituzioni parimenti distorte e letture lontane da una selezione informata dai necessari requisiti di veridicità o, comunque, di imparzialità, e quindi tendenti a caricare di eccessiva importanza fatti e protagonisti invero non meritevoli di certa preminenza. Nel caso ferrarese, la forza perdurante di talune tradizioni fu tale che proprio nel corso dell’Ottocento, quando le ricerche documentarie traevano vigore dallo scrupolo positivistico, nacquero i folli mitologemi biografici di alcune personalità della stagione antica, tutti accomunati da una marcata predilezione per gli aspetti attinenti alla sfera psicosessuale: si passa da Nicolò III, il «gallo di Ferrara», consegnato alla storia per le «octocento donzelle» inseguite e circuite «al di qua e al di là del Po»,7 al dramma sentimentale sfociato in fratricidio mal riuscito di due uomini di Chiesa, Ippolito e Giulio,

6 «Vasta, perché è grande e deserta; spaziosa perché vi si può passeggiare assai comodamente in magnifiche strade

tracciate con la squadra, di una lunghezza impressionante, larghe in proporzione, e sulle quali cresce la più graziosa erbetta del mondo. Peccato che la città sia deserta; non per questo è meno bella; ma non tanto perché abbia magnifici palazzi, bensì perché non ce ne sono di brutti. In genere, sono tutti di mattoni e abitati da gatti turchini: per lo meno, altro essere vivente non vedemmo alle finestre»: C. DE BROSSES, Lettres familìeres écrites en 1739 et 1740, Paris,

1799 (trad. it. Viaggio in Italia. Lettere familiari, Bari-Roma, Laterza, 1973, pp. 171-172). 7 L.CHIAPPINI, Gli Estensi. Mille anni di storia, Ferrara, Corbo, 2001, p. 110.

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entrambi infatuati della stessa fanciulla, e si finisce – toccando l’apice – con la leggenda delle «donne nere», in primis Lucrezia Borgia e Marfisa d’Este, entrambe mosse da famelica andromania, attraversate da quelle fantasiose pulsioni omicide intercettate dalla vis imaginativa di prosatori e musicisti che contribuirono a diffondere una memoria intrisa di stereotipate amenità, ancora circolanti.8 Accanto alle vite romanzate, o psicobiografie, nell’arco di quasi un secolo fiorirono percorsi di ricerca monotematici sull’âge d’or estense, confluiti in autentiche pietre miliari della storiografia, il cui stesso ascendente non ha certo facilitato il progresso degli studi: rimanendo nel campo della civiltà figurativa e architettonica, penso al peso dell’aura sacrale depositatasi attorno a opere quali La Regia Galleria Estense di Venturi (1882), Le «Delizie

Estensi e l’Ariosto. Fasti e piaceri di Ferrara nella Rinascenza, di Gianna Pazzi (1933),

L’officina ferrarese di Roberto Longhi (1934) o il Biagio Rossetti architetto ferrarese, di Bruno Zevi (1960).

Il carico evocativo delle disiecta membra (letterarie e artistiche) del fulgido passato ha alimentato quella mitopoiesi gravante su un panorama storico in realtà molto più articolato negli accadimenti e affollato di figure ancora sconosciute, le cui voci giacciono imprigionate in documenti insondati, parzialmente cancellati o soggetti all’arbitrarietà delle interpretazioni, o comunque in parte resi opachi dallo stesso gioco delle esegesi: don Alfonso d’Este è uno di quei personaggi apolidi, simbolo degli evidenti limiti di una storiografia che predilige accentuare la personificazione della storia della Signoria nelle figure dei suoi ‘principi maggiori’, relegando nella pressoché totale afonia uomini e donne appartenuti ai rami minori della frondosa prosapia atestina, nell’errato convincimento che i gusti di un singolo regnante potessero uniformare i comportamenti e le scelte di tutti gli altri esponenti, quasi fossero incapaci di tracciarsi un proprio ruolo diplomatico, di sviluppare politiche mecenatistiche autonome, coltivare gusti personali o attuare prassi collezionistiche diverse rispetto al modello vigente nella corte principale del dominus.

8 Nella sua Lucrèce Borgia (1833, seguita a ruota dal melodramma di Donizetti), Victor Hugo fece di Ferrara lo scenario di una tragedia della lussuria, incentrata sul personaggio di una Lucrezia efferata al punto di avvelenare il figlio, pur di spegnerne i sentimenti d’orrore di fronte alle nefandezze materne (G.VENTURI, Una leggenda nera

estense: Lucrezia Borgia, in Il castello per la città, a cura di M. Borella, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 2004, pp. 117-125).

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Nel novero degli studi che nel corso degli ultimi cento anni si sono occupati delle narrazioni biografiche riguardanti i componenti della famiglia d’Este, è possibile constatare che uno dei profili meno delineati è proprio quello del principe don Alfonso, personalità silente, semplicisticamente derubricata nel sottoinsieme roco dei bastardi dinastici, raramente evocata nelle discussioni tra cultori di vicende estensi, così come altrettanto rare sono le sue apparizioni negli indici nominali che, di norma, affollano le pagine finali di scritti di argomento storico o di cultura artistica. Indubbiamente anche il fronte ferrarese ha beneficiato, durante gli ultimi tre decenni del secolo scorso, di quell’interesse all’indagine sulla civiltà cortigiana dell’Italia cinquecentesca scaturito all’indomani della nascita del Centro Studi «Europa delle Corti» (fondato nel 1976), che favorì una vera e propria stagione di crescenti e fortunate imprese di esplorazioni documentarie presso gli archivi dinastici delle piccole, medie e grandi Signorie d’antico regime (specie, della galassia padana).9 Ponendo lo sguardo sul quadro delle edizione delle fonti atestine inerenti alle vicende storico-artistiche e collezionistiche del Cinquecento, non si può tacere il notevole rilievo euristico delle indagini archivistiche sollecitate dai tre concomitanti eventi che animarono Ferrara nel 1985, ossia la mostra celebrante il sesto centenario della costruzione del principale monumento cittadino, il Castello di San Michele,10 e quelle di natura monografica dedicate al pittore Sebastiano Filippi, alias Bastianino, e a Torquato Tasso, entrambi presentati come testimoni e interpreti del tramonto di un’epoca;11 come nel caso fiorentino – con la rassegna medicea di Palazzo Vecchio del 1980 e il convegno internazionale indetto in occasione del centenario della Galleria degli Uffizi –,12 anche nel contesto estense gli studiosi cominciarono a legare l’iniziativa artistica alla contemporaneità sociale, i problemi figurativi al mercato, alle

9 M.FANTONI, La corte, in Le parole che noi usiamo. Categorie storiografiche e interpretative dell’Europa moderna, a cura di M. Fantoni e A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 109-141: 124.

10 Ferrara, Castello Estense, 27 aprile-18 agosto 1985: si veda il relativo catalogo Il Castello. Origini, realtà, fantasia, a cura di P. Portoghesi e F. Bocchi, Ferrara, Corbo, 1985.

11 Bastianino e la pittura a Ferrara nel secondo Cinquecento, Catalogo della mostra (Ferrara, settembre-novembre

1985), a cura di J. Bentini, Bologna, Nuova Alfa, 1985; Torquato Tasso tra letteratura, musica, teatro e arti

figurative, Catalogo della mostra (Ferrara, settembre-novembre 1985), a cura di A. Buzzoni, Bologna, Nuova Alfa,

1985.

12 Palazzo Vecchio: committenza e collezionismo medicei, Firenze, Electa, 1980; E.ALLEGRI,A. CECCHI, Palazzo

Vecchio e i Medici, Firenze, SPES, 1980; Gli Uffizi quattro secoli di una galleria, Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, settembre 1982), a cura di P. Barocchi e G. Ragionieri, Firenze, Olschki, 1983.

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iniziative di collezionismo e alla committenza. Negli anni Novanta e nel primo decennio del corrente secolo, i fondi dell’Istituto modenese sono stati perlustrati da molti ricercatori italiani e stranieri, consapevoli che dall’interrogazione di quel materiale cartaceo sarebbero giunti elementi utili per conoscere, definire, risolvere e confutare acquisizioni di saperi e teorie storiche sulla corte degli Este, comprese quelle di natura politico-istituzionale con gli studi di Chiappini, Folin e Guerzoni;13 sul versante delle dinamiche culturali e artistiche (a parte l’imponente silloge documentaria composta da Adriano Franceschini,14 che si arresta però al 1516) ci si è mossi (e si continua a farlo, tuttora) per filoni monotematici incardinati sul fagocitante ‘personaggio maggiore’ della stirpe, quasi sempre di sesso maschile: se la magnificentia aedificandi di Ercole I trova riscontri documentali nelle opere di Charles Maria Rosenberg e Thomas Tuohy,15 il

patronage del figlio Alfonso I è stato indagato a più riprese da Alessandro Ballarin e da Vincenzo Farinella,16 mentre le strategie collezionistiche dei nipoti – i fratelli Ercole II e il cardinale Ippolito II –, sono note grazie alla pluriennale perlustrazione della corrispondenza epistolare intercorsa tra Ferrara e le corti di Francia, condotta da Carmelo Occhipinti con barocchiana acribia;17 per quanto riguarda gli ultimi Estensi del periodo pre-devolutivo, la figura di Alfonso II

13 L.CHIAPPINI,La Corte Estense alla metà del Cinquecento. I compendi di Cristoforo di Messisbugo, Ferrara, SATE, 1984; ID.,Gli Estensi, cit.; M.FOLIN,Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico Stato italiano,

Roma-Bari, Laterza, 2004; G.GUERZONI, Le corti estensi e la devoluzione di Ferrara del 1598, Modena, Archivio

Storico-Assessorato alla Cultura e Beni culturali, 2000.

14 A.FRANCESCHINI, Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale. Testimonianze archivistiche. Parte II, tomo

II: dal 1493 al 1516, Ferrara, Cassa di Risparmio di Ferrara, 1997.

15 T. TUOHY, Herculean Ferrara. Ercole d'Este, 1471-1505, and the invention of a ducal capital, Cambridge,

Cambridge University Press, 1996; C.M.ROSENBERG, The Este monuments and urban development in Renaissance

Ferrara, Cambridge, University Press, 1997.

16 Mi riferisco ai novi volumi complessivi che Ballarin ha dedicato nel tempo alla signoria di Alfonso I d’Este: ID,

Dosso Dossi. La pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I, regesti e apparati di catalogo a cura di A. Pattanaro e V. Romani, Cittadella (Pd), Dipartimento di Storia delle Arti Visive e della Musica, Università di Padova, 2 voll. 1994-1995; ID, Il Camerino delle pitture di Alfonso I, 6 voll., Cittadella (Pd), Dipartimento di Storia delle arti visive e della musica dell’Università di Padova-Regione del Veneto, 2002-2007. Di pari pregnanza scientifica è la recente e poderosa monografia di V.FARINELLA, Alfonso I d’Este, le immagini e il potere: da Ercole de’ Roberti a

Michelangelo, Milano, Officina Libraria, 2014.

17 C. OCCHIPINTI, Carteggio d'arte degli ambasciatori estensi in Francia (1536-1553), Pisa, Scuola Normale Superiore, 2001. La centralità politica del cardinale Ippolito II è chiaramente recuperabile dai recenti studi a lui dedicati, tra cui: ID., Giardino delle Esperidi. Le tradizioni del mito e la storia di Villa d’Este a Tivoli, Roma, 2009;

Ippolito II d’Este, cardinale, principe, mecenate, Atti del convegno (Tivoli, 13-15 maggio 2010), a cura di M. Cogotti e F.P. Fiore, Roma, De Luca, 2013.

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signoreggia negli scritti di Jadranka Bentini e Francesco Ceccarelli,18 mentre Cesare, figlio del nostro protagonista, ha trovato finalmente spazio nei recenti contributi di Barbara Ghelfi.19 Indubbiamente, decenni di approfondimenti storiografici hanno generato una composita bibliografia onomastica, frequentemente sorretta dai felici esiti di preliminari indagini archivistiche, degne della migliore tradizione documentaria del positivismo ottocentesco; eppure, di Alfonso marchese di Montecchio non v’è alcuna trattazione significativa, tanto che nel florilegio di saggi pubblicati in occasione del quinto centenario dell’Addizione Erculea, le vicende storiche del suo palazzo sul quadrivio rossettiano degli Angeli non sono state indagate col tramite delle fonti conservate presso l’Archivio di Stato di Modena, nonostante fosse noto dal tempo del

Compendio historico di Marco Antonio Guarini (quindi 1621) che la residenza confluì nell’allodio dinastico all’indomani del 1598.20

L’«illustrissimo bastardo» nacque il 10 marzo del 1527, proprio quando il connétable di Borbone si stava muovendo a capo della torma di trentacinquemila mercenari poliglotti che, di lì a poche settimane, avrebbero messo a ferro e fuoco la Roma di Clemente VII; in quel frangente, a Ferrara, Ludovico Ariosto sottoponeva il Furioso ad una capillare revisione stilisticolinguistica propedeutica alla dimensione peninsulare della terza edizione del 1532, così come Dosso Dossi nel datare la pala appena allocata nella cappella della famiglia Delle Sale, nella cattedrale, licenziava una delle migliori testimonianze pittoriche frutto di quel felice combinato di tonalità coloristiche tizianesche e vibrazioni raffaellesche trasmesse dalla vicina Mantova, subito dopo l’arrivo di Giulio Romano nell’autunno del 1524; Alfonso spirò nella notte del 2 novembre 1587, a pochi mesi di distanza dalla dipartita di due mentori collezionisti, Francesco I de’ Medici e

18 In L’impresa di Alfonso II. Saggi e documenti sulla produzione artistica a Ferrara nel secondo Cinquecento, a cura di J. Bentini e L. Spezzaferro, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1987, specie alle pp. 71-90; F.CECCARELLI, La città

di Alcina. Architettura e politica alle foci del Po nel tardo Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1998.

19 B.GHELFI, Tra Modena e Roma. Il mecenatismo artistico nell’età di Cesare d’Este (1598-1628), Firenze, Edifir, 2012.

20 Mi riferisco al saggio di A.M. FIORAVANTI BARALDI, Palazzo Bevilacqua, Rossetti, Pallavicini, detto il

Quartierone, in Ferrara 1492-1992. La strada degli Angeli e il suo Quadrivio. Utopia, disegno e storia urbana, a cura di B. Bassi et alii, Ferrara, Gabriele Corbo Editore, 1992, pp. 155-167: qui la studiosa contempla solo fonti ferrarese e bolognesi, di natura cronachistica e notarile.

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Guglielmo Gonzaga, nel tempo in cui i disegni del genovese Bernardo Castello contribuivano a diffondere il successo dell’edizione illustrata di un altro glorioso poema di matrice estense, la

Gerusalemme liberata del Tasso, da poco uscito dall’ospedale ferrarese di Sant’ Anna. Dunque, già queste due semplici coordinate biografiche (1527 e 1587) sarebbero sufficienti per evocare lo straordinario contesto storico, politico, artistico e letterario – locale e nazionale – entro cui si mosse attivamente il personaggio: quel sessantennio vide sia la coda del tormentato periodo delle guerre d’Italia culminato nell’affermazione della supremazia asburgica, sia i fermenti di riforma della Chiesa e della gerarchia ecclesiastica sfociate nell’imposizione dell’ortodossia tridentina; fu anche l’epoca delle «genealogie incredibili»,21 della scienza cavalleresca, della «stabilità crescente»,22 mutatasi poi in «preponderanza spagnuola» che permeò tanto gli assetti geopolitici dell’Italia degli antichi Stati,23 quanto gli usi e consuetudini socioculturali degli stessi prìncipi nostrani, pronti a dismettere le mode filogalliche e abbigliarsi á la page di «nero costume», perché spinti da aristocratico stimolo emulativo verso la maiestas di quel codice iconico portato in auge dalla prassi vestimentaria di due grandi sovrani, Carlo V e il figlio Filippo II,24 così ben documentata nei ritratti ufficiali di Tiziano, Antonio Moro, Sánchez Coello, Cristóbal de Morales o Sofonisba Anguissola.

Marchese di Montecchio dal 25 ottobre 1562, «spirito magnifico di sottilissimo ingegno»,25 «pratico nell’arti di Matematica e di militari speculazioni»,26 eroe della battaglia di Mülhberg e di Saint-Denis, generale di Carlo IX di Valois, cavaliere dell’Ordine di San Michele, membro del «privato Consiglio» della corona di Francia, nonché principe peripatetico, disegnatore e collezionista in grado di incidere con la propria impronta le dinamiche politico-culturali

21 Famoso termine che lo storico Roberto Bizzocchi coniò per il titolo di un suo fortunato studio: vedi ID, Genealogie

incredibili: scritti di storia nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 1995.

22 Cioè il periodo compreso tra il 1545 e 1563, secondo C. DONATI, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 93.

23 A distanza di decenni, rimane insuperata la ricerca curata da Romolo Quazza, Preponderanza spagnuola

(1559-1700), Milano, Vallardi, 1950.

24 Sul sistema della moda italiana nell’età del dominio spagnolo, cfr. da ultimo A.QUONDAM, Tutti i colori del nero.

Moda e cultura del gentiluomo nel Rinascimento, Costabissara (Vicenza), Angelo Colla Editore, 2007.

25 Così viene definito nell’Orazione del cavalier Lionardo Salviati delle lodi di donno Alfonso d’Este, recitata

nell’Accademia di Ferrara per la morte di quel Signore, in Ferrara, Stamperia di Vittorio Baldini, 1587, cc. n. nn. 26 Ibidem.

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dell’ultimo cinquantennio di Signoria estense a Ferrara: perché don Alfonso non ebbe la medesima fortuna letteraria di altre personalità coeve a lui paragonabili, quali i «gran capitani» Ferrante e Vespasiano Gonzaga o Emanuele Filiberto di Savoia?

Le ragioni di un plurisecolare silenzio costituiscono l’ubi consistam di questa dissertazione, che non può avviarsi senza rilevare un presupposto fondamentale: gli storici hanno (incredibilmente) ignorato a lungo un soggetto dall’immensa memoria scritturale, affidata alla più vasta e meglio custodita serie documentale conservata presso l’Archivio di Stato di Modena, uno dei più organici depositi dinastici d’Italia; in cinquecento anni di progressione genealogica, nessun esponente di Casa d’Este non afferente alla sfera ecclesiale può vantare il patrimonio archivistico del cadetto, composto da 479 registri rilegati e da oltre tremila carte sciolte.27

Reticenza e renitenza storiografiche palesano la propria ingiustificabile illogicità già dinanzi alla dimensione quantitativa di questo thesaurus chartarum, riflesso della prolificità diplomatico-amministrativa di una corte politicamente importante e numericamente autorevole, guidata dal ‘semplice’ bastardo generato da un’unione ‘non conveniente’ in quanto non ipogamica, su cui si sono riversate riprovazioni sociali, giuridiche e culturali, di ieri e di oggi, che hanno contribuito a scavare quel contesto di noncuranza, poi mutata in vera damnatio memoriae, tanto attorno alla figura di Alfonso quanto a quella della madre, Laura, anch’essa detentrice di un primato mai còlto dagli studiosi: il corpus dei suoi documenti distribuiti in altri fondi supera di gran lunga quello accorpato di tutte le blasonate duchesse della Ferrara del XVI secolo.28

Citando Laura Dianti affiora la seconda premessa della ricerca, che non può prescindere dall’includervi i significati insiti nella posizione ambigua di questa donna, oscillante tra pruriginosa concubina ed enigmatica uxor, soffocata da tre imponenti biografie femminili a lei prossime, quali quelle di Lucrezia Borgia (sua predecessora nel talamo nuziale), di Renata di

27 Vedi cap. III, p. 191 e Allegato A, p. 343. Considerando la differente auctoritas legata alle funzioni svolte in seno alla Curia romana e per conto di essa presso la corte francese dei Valois, solo i cardinali Ippolito II e Luigi d’Este possono vantare un giacimento documentale più vasto, attestato per entrambi (secondo una stima approssimativa dello scrivente) attorno ai seicento registri e oltre settemila carte sciolte.

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Valois-Orléans (figlia di un re e sua nuora acquisita) e di Isabella d’Este, «la prima Donna del Mondo»,29 sic et simpliciter (oltreché sua cognata): tuttavia, l’unica tra le consorti estensi ad essersi meritata l’effigie di Tiziano e, ciononostante, ancora assente tra i minuziosi paragrafi che riempiono gli women’s studies di questi ultimi tre decenni.30

Un presunto spurio e, di riflesso, la sua humble mère occuperanno dunque gli spazi del presente studio o, meglio, a parlare saranno le deduzioni scaturite dalla messe di informazioni esclusive portate alla luce, che hanno contribuito ad integrare e riconsiderare ampiamente le argomentazioni già anticipate dallo scrivente in altre sedi, qui debitamente segnalate: è opportuno sottolineare che la mia frequentazione dell’archivio modenese iniziò tredici anni fa, così come l’incipit del rintracciamento delle serie cartacee alfonsinee occorre farlo risalire al 2007, e a distanza di oltre sette anni non può considerarsi compiuto, anzitutto per cause di forza maggiore. Credo sia doveroso ricordare che la linearità programmata e auspicata del percorso di ricerca intrapreso a partire dall’autunno del 2010, nell’ambito dell’esperienza dottorale, si è arrestata all’indomani degli eventi sismici che hanno colpito le terre di Ferrara e Modena, nel maggio del 2012. In via precauzionale o per effettivi danni strutturali, la maggior parte degli istituti archivistici, bibliotecarî e museali delle due città emiliane è stata sottoposta a provvedimenti di totale inagibilità, che – di fatto – hanno precluso per mesi il pubblico accesso e, con esso, la possibilità di portare a compimento la serie di plurimi accertamenti là avviati: inaccessibile per un semestre, l’Archivio estense risulta ancora parzialmente godibile, essendo molti fondi ricoverati in locali staticamente compromessi o comunque raggiungibili con percorsi dichiarati impraticabili.31

29 Attingo dal titolo del catalogo della fortunata, e ormai ventennale, mostra viennese «La Prima Donna del Mondo».

Isabella d’Este, Fürstin und Mazenatin der Renaissance, a cura di S. Ferino-Pagden, Wien, 1994.

30 Per citare solo un paio di titoli della bibliografia più recente, il suo nome non compare né in Donne di potere nel

Rinascimento, a cura di L. Arcangeli e S. Peyronel, Roma, Viella 2008, né all’interno del saggio curato da Concetto

Nicosia, Le «Dame» della famiglia, in Gli Este a Ferrara. Una corte nel Rinascimento, Catalogo della mostra (Ferrara, marzo-aprile 2004), a cura di J. Bentini, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana, 2004, pp. 28-29.

31 Al momento della stesura della presente tesi (agosto 2014), anche la Galleria Estense ubicata nel Palazzo dei Musei risulta inaccessibile: la sperata riapertura è prevista nel maggio del 2015. Per un resoconto sui danni patiti dall’Archivio Estense, vedi. E. FREGNI, Un difficile assestamento, «Quaderni Estensi», 2012, IV, pp. 19-21; L.

BELLINGERI, Effetti collaterali, ivi, pp. 11-16 (entrambi gli articoli sono leggibili tramite la versione on line della

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Nei confronti dell’argomento che custodisce, questa ricerca non ha pretese esaustive e totalizzanti. La ricognizione documentaria – specie se di vaste proporzioni – è scientificamente soggetta a una precisa variabile interna, che i compianti maestri Chiappini e Franceschini mi rammentavano ogniqualvolta riscontravano nel mio volto espressioni di sconforto, insito al volgere improduttivo di intere giornate trascorse a ridosso di filze e codici manoscritti: la psicosi della «atemporalità», che può condurre l’esaminatore di carte ad intraprendere vie d’indagine apparentemente percorribili con agio, salvo poi rivelarsi sconfinate per l’esponenziale propagazione di traiettorie ingenerate dal bisogno compulsivo di convalidare l’attendibilità di indizi e informazioni tramite continui controlli e incrociamenti. Ebbene, non è poi così remoto il rischio dell’insuccesso nelle ricerche circoscritte da una precisa tempistica, che deve tener conto anche di altre false malie annidate nel modus operandi del ricercatore, poiché – come recentemente ammonito da Georges Didi-Huberman –,

ogni volta che proviamo a costruire un’interpretazione storica – o una «archeologia» nel senso di Michel Foucault –, dovremmo stare attenti a non identificare l’archivio a nostra disposizione, fosse pure prolificante, con i fatti e le gesta di un mondo di cui esso restituisce solo qualche vestigia. È caratteristica dell’archivio la sua lacuna, la sua natura fatta di tanti buchi. Ora, spesso, le lacune sono il risultato di censure consapevoli o involontarie, di distruzioni, aggressioni, autodafé.32

In aggiunta, altrettanto insidiose sono le entusiastiche sopravvalutazioni mosse dal ragguaglio celato in una polverosa carta venuta alla luce per la prima volta dai «sepolcreti archiviali»,33 il cui presunto carattere di pura immediatezza spinge, spesso, a considerarla come un vettore di verità aprioristica, inducendo non di rado chi se ne faccia interprete e divulgatore ad una sorta di esaltazione retorica, di agiografia facile, di minuta e calligrafica narrazione del passato: ossia quella «histoire événementielle» che in nome del civico eruditismo si dimentica di connettere il proprio «particulare» ai contesti storici più larghi. È ben vero che la storia locale spesso si esercita su questioni erudite minori, ovvero su tematiche «microstoriche», ma – come sosteneva Giorgio

32 G. DIDI-HUBERMAN, L’archivio brucia, in Storia e narrazione. Retorica, memoria, immagini, a cura di G. Guidarelli e C.G. Malacrino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, p. 53.

33 A.BIONDI, Adolfo Venturi. Situazioni e figure di una gioventù modenese, in Gli anni modenesi di Adolfo Venturi, Atti del convegno (Modena, maggio 1990), Modena, Panini, 1994, pp. 37-42: 39.

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Chittolini –, «l’importanza di un tema non si misura certo dalla sua immediata riconducibilità ai vari fili rossi della storia universale».34 Tale assunto è riconoscibile nell’agire di quanti, nell’arco di oltre un secolo, hanno delineato una metodologia della ricerca difficilmente ignorabile per chi, come lo scrivente, è stato educato ad ispirarvisi e a nutrire quanto possibile le radici genetiche, affettive e professionali che penetrano nella realtà socio-topografica che originò quella maniera di «intendere e fare» storiografia. Per configurare il debito che la storia dell’economia, dell’arte, dell’architettura, dell’urbanistica e delle società d’antico regime mantengono nei confronti del

Weltanschauung, del metodo storicistico ottocentesco, basterebbe pensare alle straordinarie raccolte documentarie di Antonino Bertolotti, del Gaye, di Gaetano Milanesi, di Carlo D’Arco o di Giuseppe Campori.

In ambito emiliano pesa l’essenza, ancora magistrale, dell’epigrafica riflessione incisa dall’autore sulle prime pagine della Regia Galleria Estense:

Mi posi all’arduo compito, e ricercai principalmente nell’Archivio di Stato di Modena, nei carteggi e ne’ libri di spese ducali, notizie riferentesi all’arte ed agli artisti; raccolsi tutto quanto mi veniva fra mano, conoscendo come una notizia, insignificante alla prima, possa divenire poi, colla scoperta di nuovi documenti, il filo d’una ricerca, o il vincolo di differenti notizie, o una solida base all’induzione. A poco a poco le notizie si raggrupparono, si classificarono, si rischiararono reciprocamente.35

Questo fu lo spirito metodico adottato dal giovane Adolfo Venturi, promotore in Italia degli studi dell’arte in senso scientifico, durante quel vasto lavoro quadriennale (1878-1882) di indagine diplomatica rivolta a riconsegnare anima storica alle antiche raccolte estensi, confluite nella galleria moderna di palazzo dei Musei a Modena. Con tutto il suo fecondo carico di rigore documentaristico, quel testo ancora oggi costituisce un punto imprescindibile per l’euristica archivistica applicata agli studi di taglio storico-artistico, indispensabile per ricostruire, rintracciare o ricomporre i segni dell’identitaria civiltà culturale e figurativa ravvisabile nel

background di collezioni e aggregazioni artistiche vilipese, smembrate o disperse nei secoli.

34 G.CHITTOLINI, A proposito di storia locale per l’età del Rinascimento, in La storia locale. Temi, fonti e metodi

della ricerca, Atti del convegno (Pisa, 9-10 dicembre 1980), a cura di C. Violante, Bologna, Il Mulino, p. 122. 35 A.VENTURI, La Regia Galleria Estense, Modena, Toschi, 1882, pp. 9-10.

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Penetrare oggi l’insondato corpus di carte di Alfonso d'Este, alcune delle quali ancora fascinosamente preservate da inviolati sigilli di ceralacca o da annodature di spago intonso, non è azione pretestuosa perseguita al fine di denunciare le (molte) incompletezze del metodo di studio positivistico, al quale dobbiamo il recupero documentario e critico dell’intera tradizione culturale estense della Rinascenza; tanto meno pretenziosa laddove la messe di nuovi elementi argomentativi spinga ad avanzare, senza esitazioni, un quadro correttivo e completivo nella storiografia dell’arte figurativa ferrarese: semplicemente, tenendo fede all’adagio virgiliano «antiquam exquirite matrem», è un’occasione fortunata, ma non fortuita, per sondare «le forme di una memoria»,36 in grado di promuovere lo studio di un repertorio di nuove fonti, proposte più come strumento di lavoro, non un punto di arrivo ma di partenza, da cui far proseguire la ricerca in altre direzioni, nell’ambito delle riflessioni sugli svariati aspetti della civiltà estense a Ferrara durante il XVI secolo.

Altresì, il presente lavoro vorrebbe non configurarsi come cammeo, o come ritratto biografico vincolato al descrittivismo che trascura il coevo paesaggio istituzionale, ferrarese, italiano ed europeo. Sappiamo quanto i vari aspetti della vita di uno Stato confluiscano nella documentazione diplomatica: corrispondenze, percorsi biografici, ruolo di segretari e ambasciatori, relazioni sulle corti estere, controversie per confini e questioni giurisdizionali, personalità dei duchi, mecenatismo, relazioni con i mercati dei beni di lusso e degli oggetti d’arte, e altro ancora. Una ripresa, con gli strumenti critici e interpretativi oggi a disposizione, di quei giacimenti diplomatici che pure avevano attirato in altri momenti gli storici, non potrebbe che arricchire la nostra conoscenza sulla poliedrica realtà del Ducato estense e sulla rete delle sue relazioni con i piccoli stati padani, e con gli altri potentati. Il fondo archivistico del marchese di Montecchio, vero e proprio trésor de chartes, è uno strumento formidabile che ci riconsegna le molteplici sfaccettature, ancora ignote alla letteratura, di una corte intesa come sede simbolica del potere, istituzione economica, teatro della ritualità politica, fulcro della produzione culturale e del

36 A. EMILIANI, Le forme della memoria, in Gonzaga. La Celeste Galleria. Le raccolte, Catalogo della mostra (Mantova, settembre-dicembre 2002), a cura di R. Morselli, Milano, Skira, 2002, pp. 9-16:9.

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mecenatismo artistico, punto di incrocio tra potere e religione, centro di progettazione di modelli di comportamento, elemento di coesione nell’apparire dei vari gruppi sociali in una chiave nodale tra produzione e consumi.

L’utilizzo della committenza e del mecenatismo come leva dell’auctoritas non era dunque una prerogativa esclusiva del duca. Anzi, lo studio dei processi e dei rapporti di produzione, strutturazione e legittimazione delle forme di dominazione politica e simbolica facenti capo ad un esponente cadetto, o comunque al vertice di una corte minore, consente di comprendere meglio i caratteri di un’epoca e, conseguentemente, di aggiornarne (quando non confutarne) le letture esegetiche fiorite negli ultimi quattro decenni.

Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, Luigi Spezzaferro sottoponeva alla comunità scientifica un assunto in forma di quesito, poi mutatosi per la sua apoditticità in pietra miliare nella successiva storiografia:

E se per ipotesi accettassimo che – è proprio vero – nella Ferrara della seconda metà del ’500 l’interesse per le arti figurative e l’architettura fu assai minore di quello che qui invece si ebbe per altre arti e che fu proprio questo uno dei motivi per cui la cultura artistica ferrarese di questo periodo è inequivocabilmente meno rilevante a quella prodotta in altri centri? Sarebbe veramente questa un’ipotesi immediatamente smentita da un elenco lungo e per via di ulteriori studi sicuramente allungabile di opere allora commissionate e realizzate?37

Inventari, mandati di pagamento, quietanze, corrispondenze epistolari, note di spesa, dettagli cronachistici e memorialistici riguardanti don Alfonso restituiscono un quadro di elementi sufficienti a costruire valutazioni che consentono di discostarsi dalla lettura monofocale dello studioso romano, e da tutte quelle tendenti a considerare la Ferrara dell’ultimo quarantennio del Cinquecento come un centro politicamente paralizzato dalle gravi ripercussioni che l’impotentia

generandi del suo duca stava profilando sul futuro prossimo della capitale, realtà ormai periferica priva di presa culturale e afona di cultura figurativa.

Indubbiamente l’odore del crepuscolo che si stava formando attorno al «ceppo vecchio» della famiglia in via di deperimento traspariva tra le righe di molti carteggi diplomatici, ma parimenti

37 L.SPEZZAFERRO, «Perché per molti segni sempre si conoscono le cose …». Per la situazione del lavoro artistico

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chiara è la vitalità controbilanciante della forma di sovranità alternativa rappresentata dall’«illustrissimo bastardo», portatore salvifico di una strategia dinastica con linguaggi intrisi di valore politico e simbolico che superano la sfera privata per assumere una dimensione pubblica: insomma, un protagonista che merita un adeguato risarcimento, che qui si tenterà di delineare.

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C

RITERI DI TRASCRIZIONE

Il compendio di testificazioni archivistiche riportate nell’intertesto dei capitoli, nelle note in calce e – soprattutto – nelle appendici finali della presente ricerca, viene proposto quale strumento di supporto allo studio intrapreso sulle vicende storiche, artistiche e collezionistiche qualificanti il patronage del principe don Alfonso d’Este. Considerata la vastità della mole documentaria ancora esistente, la trattazione argomentativa non ha pretese di esaustività tanto che lo stesso assetto delle trascrizioni è il prodotto di un metodo selettivo basato sull’estrapolazione di dati dal contesto originale (di cui viene sempre indicata la segnatura che ne identifica l’odierna collocazione), dettato da presunte (e discutibili) esigenze di praticità espositiva, ben diverse – quindi – dalle finalità di uno studio puramente diplomatistico o paleografico. Al fine di rendere più agevole la lettura e la comprensione del testo ci si è avvalsi del metodo interpretativo che prevede l’aggiornamento dei segni diacritici (ad eccezione della cediglia nella lettera «c», mantenuta inalterata), la normalizzazione della punteggiatura e lo scioglimento delle abbreviazioni nelle corrispettive forme piene senza l’uso di alcuna parentesi (es.: «m.ro» in «maestro», «suprascripto» per «sup.to»), eccezion fatta per i valori monetali, le unità di misura e di peso che rimangono di norma in contrazione (solamente il rischio di confondere «libbra» per «lira» o «pertiche» con «piede» ha indotto ad indicare lo scioglimento di «l.a» in «libbra» e «p.e» in «pertighe»). Si è inoltre proceduto all’uniformazione nella forma aggregata delle grafie di «poi ché» in «poiché», «per chè» in «perché», «a gli» in «agli», «in van» in «invan», «tutta via» in «tuttavia», «o ver» in «over».

La «j» è mutata in «i», la «y» rimane invariata mentre risultano soppresse le lettere superflue, come la «h» in forma non ausiliare all’inizio o all’interno della parola (ad es. in «hora», «haver», «luogho») o la «t» di «et» davanti a consonante; convertita in «z» la «t» del gruppo «ti» seguito da vocale e la «u» semiconsonantica è tramutata in «v» (tali adattamenti non valgono per le trascrizioni dei passi in latino e per i titoli dei registri o di opere letterarie).

L’uso della maiuscola rispecchia l’assetto offerto dalla fonte: interventi di adeguamento sono stati comunque apportati in ogni capoverso e dopo ogni punto fermo, per i nomi di persona e di luogo indicati con minuscola nel testo originale.

Scempiamenti e raddoppiamenti sono stati rispettati, mentre si è deciso di convertire la numerazione romana con le cifre arabe, a parte nei casi in cui l’eterogenea cartulazione ha imposto una trascrizione dei numerali conforme al modello.

Il (sic) giustificativo ricorre laddove gli errori ortografici non sono imputabili alla trascrizione.

Si è posto l’accento grave sulla «a» e sulla «o» prive della «h» iniziale per le forme del verbo avere: «à» per «ha», «ò» per «ho».

Ulteriori convenzioni

<…>: lacuna nel testo per guasto meccanico del supporto cartaceo (abrasioni o evanescenza dell’inchiostro, bruciature, macchie irrimediabili, perforazioni da infilzatura).

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(?), (abc ?): parola non decifrata o di difficile interpretazione. [abc]: mio intervento nel testo.

[…]: trascrizione non integrale della fonte. [***]: spazio bianco lasciato dallo scriptor. Presentazione dei documenti

Le testimonianze scritte che compongono le specifiche argomentazioni tematiche vengono presentate secondo un ordine cronologico mediante (quasi sempre) la precisazione dell’anno, della data e del mese. Tutti i documenti seguiti dalla sola indicazione di collocazione archivistica riportata secondo le abbreviazioni concordate, sono da considerarsi inediti: in caso contrario si indicherà il riferimento bibliografico.

Elenco delle abbreviazioni

ASBo Archivio di Stato di Bologna

ASCFe Archivio Storico del Comune di Ferrara ASFe Archivio di Stato di Ferrara

ASFi Archivio di Stato di Firenze ASMn Archivio di Stato di Mantova ASMo Archivio di Stato di Modena ASTo Archivio di Stato di Torino ASVe Archivio di Stato di Venezia

BAFe Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara BEMo Biblioteca Estense di Modena

AdC Amministrazione della Casa

AdF Agenzia di Ferrara

AdP Amministrazione dei Principi

AFP Amministrazione Finanziaria dei Paesi

AG Archivio Gonzaga

ANA Archivio Notarile Antico ApM Archivio per Materie ASE Archivio Segreto Estense

BS Borsa Segreta

CD Camera Ducale

CdC Computisteria della Camera CeP Castalderie e Possessioni

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CSV Cassa Segreta Vecchia FeV Fabbriche e Villeggiature LCD Libri Camerali Diversi MeF Munizioni e Fabbriche MS Mandati Sciolti in filza UdM Ufficio del Mese b./ bb. busta/ buste c./ cc. carta/carte

doc./ docc. documento/documenti ms./ mss. manoscritto/manoscritti

n. n./ n. nn. non numerato-a/non numerate-i p./ pp. pagina/pagine

reg. registro

∆ scudo (moneta)

† o + «crose», «crosara», «crosiera»: simbolo utilizzato nei documenti riguardanti le attività di muratori, falegnami e carpentieri per indicare la tipica forma geometrica presente in muri, volte, soffitti, pavimenti, solai, porte, armadi e altri manufatti lignei. Non c’è, quindi, alcuna relazione con il segno dell’obelus o crux desperationis, adottato dai diplomatisti in sede di edizione critica di un testo per segnalare parole indecifrabili o lacune inemendabili.

s. d. senza data

s. e senza editore

s. l senza luogo

r/ v recto/verso

vol./ voll. volume/ volumi

Moneta

£ lira marchesana, o marchesina: moneta di conto, non reale, di 20 soldi, a loro volta suddivisi in 12 denari

ANTICHE MISURE FERRARESI

Misure di lunghezza metri

Pertica = 10 piedi 4,038544

Braccio (per panni e tele) 0,673607

Braccio (per la seta) 0,634358

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Oncia = 12 punti 0,033654

Misure di superficie

Piede quadro 0,163098 mq

Tavola o pertica quadra = 100 piedi quadri 16,30985 mq

Biolca = 6 staia 0,652393 ha

Moggio = 20 staia 2,1746454 ha

Staio = 4 quarte 0,1087322 ha

Quarta = 4 mezzette 0,0271831 ha

Mezzetta 0,0067957 ha

Misure di capacità per aridi litri

Moggio = 20 staia 621,858400 Sacco = 4 staia 124,371680 Staio = 4 quarte 31,092920 Quarta = 4 minelli 7, 773230 Minello = 4 scodelle 1,943307 Scodella 0,485827

Misure di capacità per vini litri

Mastello = 4 secchie 56,784200 Secchia = 10 boccali 14,196050 Pesi chilogrammi Centinaio = 100 libbre 34,513730 Libra = 12 oncie 0,345137 Oncia 0,028761 Quarta = 2 ottave 0,007190 Carato = 4 grani 0,000180 Grano 0, 000045

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CAPITOLO I

Laura Dianti, «moglie di fede, e di virtù perfetta»

I. 1 Le omissioni della gender history

mperocché, oltre è i cinque figliuoli che egli aveva avuti di Lucrezia Borgia sua Donna, ne aveva ancor due altri maschi d’una sua amica chiamata Laura, la quale, poi che ruppe la continenza, che per essere egli molto robusto et atto al generare, gli era ancora nociva, et molesta, aveva egli impetrata et ottenuto vergine con buona grazia dal padre di quella, povero, et bassissimo artefice, a questo fine massimamente, che giudicava non esser cosa onesta, né sicura per lui macchiare con gli stupri et con adulterij le famiglie onorate de’ cittadini. Questa poi finalmente, come quella che per gli onesti costumi suoi, per la dignità della presenza et per esser molto generativa, corrispondeva maravigliosamente all’animo suo, tenne egli come sua Donna, et ebbene due figliuoli maschi, chiamati amendue da il suo nome Alfonsi.1

Il passo tratto dalla traduzione quasi coeva che il fiorentino Giovan Battista Gelli fornì alla Vita di Alfonso I d’Este stilata da Paolo Giovio,2 contiene una delle innumerevoli certificazioni letterarie del rapporto affettivo che univa il duca vedovo – maturo ma ancora vigoroso – alla giovane madre dei suoi due ultimi figli maschi.

Ed ecco l’interrogativo: fu Laura una semplice concubina o arrivò alla dignità di legittima consorte mediante contrazione di regolare matrimonio, magari segreto, secondo le norme in vigore prima del Concilio di Trento?

La questione fu dibattuta appassionatamente nella prima metà del Seicento dalle cancellerie modenesi di Cesare e Francesco I d’Este, poi ripresa nel primo ventennio del secolo successivo, precisamente sul principio dell’anno 1700, quando il duca Rinaldo richiamò dall’Ambrosiana di Milano il giovane e brillante bibliotecario vignolese Lodovico Antonio Muratori onde affidargli

1 P. GIOVIO, La vita di Alfonso da Este duca di Ferrara, tradotta in lingua toscana da G. Gelli fiorentino, in G. GIRALDI, Commentario delle cose di Ferrara et de’ principi da Este, Venezia, appresso Gio. Battista e Gio. Bernardo

Sessa, 1597, pp. 146-147.

2 Paolo Giovio liber de vita et rebus gestis Alfonsi Atestini Ferrariae principis, Firenze, Torrentino, 1551, p. 57: «Prospexit quoque Alphonsus quod exactae felicitatis extimari poterat, nominis sui sobolem multiplici, cum ex sua tum filli Herculis prole, ad posteros longissime propagari. Nam preter quinque liberos ex Borgia uxore susceptos, etiam duo mares ex Laura concubina sustulerat. Hanc enim abruto celibatu, qui sibi ad dandam liberis operam aeque prono et valido noxius erat et molestus, a non invito patre, plebeio opifice, virginem acceperat; vel ob id precipue quod neque decorum neque tutum sibi iudicabat honestas civium familias stupris ac adulteriis dedecorare. Verum eam demum probis pudicisque moribus, et statae formae dignitate ad genium respondentem, et a felici foecunditate commendatam, legitimae uxoris loco habuit, et geminos ex ea filios de nomine suo Alphonsos appellavit».

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l’incarico di archivista ducale, o più esattamente di «Prefetto del Ducale Archivio Segreto»,3 figura quanto mai indispensabile per affrontare i cavillosi contesti di rivendicazioni in materia di diritti feudali e di possessi allodiali che contrapponevano la Chiesa, da un lato, ed Impero ed Estensi, dall’altro, per il dominio su Comacchio.

I termini erano chiarissimi: se Laura fosse stata effettivamente e legalmente sposata da Alfonso, la sua discendenza risultava legittima e conseguentemente la linea, che, dipartendosi da lei attraverso il figlio Alfonso arrivava a don Cesare, non era infecta e doveva considerarsi pertanto passibile di successione. Gli avvocati della Santa Sede sostennero a spada tratta che di matrimonio non si poteva parlare poiché non fu celebrato, mentre quelli imperiali ed estensi appoggiarono con tutte le scritture e gli argomenti a disposizione la tesi contraria.

A distanza di decenni, la perdita di Ferrara venne vissuta sul piano ideale dai signori di Modena e Reggio quale irrimediabile frattura con il tempo di una perfezione del dominio cui le arti e le lettere avevano conferito uno spessore ineguagliabile, modello supremo per le altre corti italiane ed europee. La faticosa ricerca di una radice di legittimità nella discendenza da Laura Dianti che Muratori media dalle opere di letterati, cronisti, poeti, notai e cosmografi contemporanei, la dice lunga sul rovello circa le ragioni dinastiche del casato e i suoi sviluppi, non sempre eccelsi, che costarono la cessione di Ferrara al papa, nel 1598.

Ripercorrere in questa sede tutte le prove e le dimostrazioni contenute nelle dieci tesi distribuite nelle oltre cento pagine delle Antichità Estensi non è cosa possibile,4 oltreché inopportuna; tuttavia vale la pena approfondire meglio una considerazione emersa qualche tempo fa negli studi di Laura Turchi,5 secondo cui la forsennata ricerca di quei fatidici pacta sponsalia indusse Muratori a selezionare principalmente documenti dal forte contenuto giuspubblicistico, usati strumentalmente per fini giurisdizionali, che restituiscono, però, l’immagine fioca di una donna senza voce,

3 F.VALENTI, Archivio di Stato di Modena, Archivio Segreto Estense. Sezione «Casa e Stato»: inventario, Roma, Ministero dell’Interno, 1953, p. XXXII.

4 L.A.MURATORI, Delle Antichità Estensi. Continuazione, o sia Parte Seconda, Modena, Stamperia Ducale, 1740, pp. 406-530.

5 L.TURCHI, Matrimoni e memoria genealogica fra tardo medioevo ed età moderna (genealogie estensi, secc.

XV-XVII), estratto da Lo Stato di Modena: una capitale, una dinastia, una civiltà nella storia d’Europa, Atti del convegno (Modena, 25-28 marzo 1998), Roma, MIBAC, Direzione Generale per gli Archivi, 2001, pp. 801-832: 826.

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scorporata dai circostanti accadimenti storici e sconnessa dai rapporti con i personaggi a lei contigui. La prova più lampante della destoricizzazione biografica sta nel fatto che l’erudito annalista di Vignola pone sotto la lente dell’onomatomania singoli versi di componimenti poetici evocanti il nome di Laura, mentre sorvola velocemente sulle «memorie che restano di lei»,6 celate nel patrimonio documentario che lui stesso stava indagando in veste di archivista, come se le congetture pedantemente coniate sull’aggettivazione utilizzata dai verseggiatori contemporanei nel predicato d’onore anteposto al nomen veicolassero una realtà maggiormente rivelatrice, e più veritiera, rispetto a quella ricordata dalle informazioni manoscritte nella sua documentazione. Sideralmente lontano dalla gender history, il metodo di ricerca muratoriano si fonda su una lettura patrilineare del sistema di potestà dinastica che non lascia molto spazio alla posizione familiare delle donne, intese come oggetto o soggetto di rapporti di potere. È relativamente recente l’interesse che la storiografia ha riposto sul ruolo che ricoprivano le signore nelle famiglie principesche e nel sistema di relazioni incentrato sulla corte.7 Certo, la trattatistica politica cinque-seicentesca nonché la nutrita serie di biografie dedicate alle principesse o le opere di sintesi sulla storia di singole famiglie regnanti, stese nei secoli dell’ancien régime o in periodi di tempo a noi più vicini, hanno accordato adeguato spazio a quelle donne, ma in questi testi esse sono sovente considerate l’anello debole di una struttura di governo complessa – quale poteva essere quella che si riconosceva nella corte e nell’intera famiglia regnante – e, soprattutto, persone dal profilo biografico evanescente, o, meglio, circoscritto per la maggior parte negli ambiti della vita affettiva. Di conseguenza, in una letteratura sovrabbondante, ripetitiva, aneddotica e spesso di dubbia qualità, che per alcuni personaggi giunge fino ai nostri giorni, la vita delle nobili si dipana tutta all’ombra del padre, del marito o del figlio, fatta di ubbidienza alle regole imposte dal cerimoniale,

6L.A.MURATORI, Delle Antichità, cit., p. 436.

7 Il versante bibliografico che nell’ultimo quindicennio si è occupato delle «Great Women» può essere ben rappresentato dai seguenti titoli: Committenza artistica femminile, a cura di S.F. Matthews-Greco e G. Zarri, «Quaderni Storici», 104, anno XXXV, fascicolo II, agosto 2000; Donne di palazzo nelle corti europee. Tracce e forme di potere

dall’età moderna, a cura di A. Giallongo, Milano, Unicopli, 2005; Regine e sovrane. Il potere, la politica, la vita

privata, a cura di G. Motta, Milano, Franco Angeli, 2002; M.T. GUERRA MEDICI, Donne di governo nell’Europa

moderna, Roma, Viella, 2005; sulla varietà di relazioni tra genere e potere, cfr. J.MUNNS,P. RICHARDS, Gender,

Power and Privilege in Early Modern Europe, London, Longman, 2003; Donne di potere nel Rinascimento, a cura di

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di sottomissione ai dettami di un inesorabile ragion di Stato, di ossequio a decisioni altrui che ne determinano il destino. Non fu questo il caso né di Isabella d’Este, come dimostra la sua ipertrofica bibliografia, né (in parte) della cognata Dianti: dai suoi documenti trapela, infatti, una condizione esistenziale tutt’altro che improntata sulla remissività, bensì su una matura consapevolezza del ruolo politico di domina a capo della propria consorteria con una buona intraprendenza economica che si fondava sulla gestione autonoma degli appannaggi, in grado di supportare anche politiche di

matronage artistico e di filantropia sociale non indifferenti, e del tutto sconosciute.8

A dimostrazione degli ambigui effetti coercitivi che la deferenza verso alcuni lavori storiografici determinò sul progresso graduale della ricerca, basti pensare che a distanza di quasi trecento anni dagli approfondimenti di Muratori non solo nessuno studioso ha varcato la soglia dell’Archivio di Stato di Modena al fine di avvicinarsi ai settanta registri di Laura con l’intento di interrogarli con altri filtri ermeneutici, ma nemmeno ci si è premurati di riconsultare in maniera sistematica quei pochi regesti modenesi citati nella stessa silloge muratoriana: non lo fecero né Campori, né Venturi e – in anni più recenti – nemmeno Giulio Righini,9 Angelo Bargellesi-Severi,10 Sonia Pellizzer e Tito Manlio Cerioli.11 Quanti si sono occupati di lei hanno attinto prevalentemente dalle pagine delle Antichità Estensi, accontentandosi di aggiungere esigue notizie, di frequente imprecise perché fondate su tarde trascrizioni non verificate nei testi originali.12

Ad oggi, la vita e la storia di questo personaggio sono ancora contrassegnate da evidenti lacune, cominciando dalla data di nascita, congetturabile intorno all’inizio del XVI secolo,13 e dal suo vero cognome, poiché «chi la dice di famiglia Boccacci, altri Dianti, altri Eustochi».14

8 Vedi cap. III, pp. 224-237.

9 G.RIGHINI, Due donne nel destino di Casa d’Este. Marchesella degli Adelardi, Laura Dianti, Ferrara, Deputazione Ferrarese di Storia Patria, 1964.

10 A.BARGELLESI SEVERI, Due donne nel destino di Casa d’Este: Marchesella Adelardi e Laura Dianti. Recensione, Ferrara, Rotary club, 1965.

11 T.M.CERIOLI, Laura Dianti: la donna oltre la storia, «Bollettino della Ferrariae Decus», XXIII, 2007, pp. 217-225. Non si dà conto di alcuna indagine documentaria nella bibliografia inclusa nella «voce» Laura Dianti curata da Sonia Pellizzer, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, 1991, pp. 660-661.

12 C’è chi confuse, addirittura, la donna con un’ortolana: V. PRINZIVALLI, La Devoluzione di Ferrara alla S. Sede

secondo una relazione inedita di Camillo Capilupi, estratto dagli «Atti della Deputazione ferrarese di Storia Patria», X, 1898, Ferrara, Tipografia sociale, 1898, p. 198.

13 L’indicazione del 1503 avanzata da Vittoria Romani come anno certo di nascita della Dianti, non ha, per ora, alcun fondamento documentario: V.ROMANI, Sui disegni dei due Dossi, in Dosso Dossi e la pittura a Ferrara negli anni del

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