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II. 11 «Bastardo», ma diplomaticamente indispensabile: le missioni in terra francese

II. 13 Capitano generale e conseiller della Corona (1567-1568)

Il quadro geopolitico marcatamente filospagnolo instauratosi nella Penisola all’indomani del trattato di Cateau-Cambrésis, non segnò ex abrupto, la fine dei rapporti estensi con il re Cristianissimo. Il ‘peso della tradizione’ e i numerosi interessi ancora intercorrenti tra il ducato di Ferrara e le terre galliche, garantivano la continuazione degli scambi e della buona amicizia che da secoli legavano i due Stati. La relazione al Senato dell’ambasciatore veneto Giovanni Michiel, resa nel 1561 al ritorno dalla sua legazione in Francia, disegna efficacemente il quadro dei rapporti intrafamiliari:

Ferrara [appellativo del cardinale Ippolito II d’Este], nella confidenza, non si distingue da’ Francesi naturali, non solo perché sia nato (come vostra serenità sa) di madre francese, e allevato in Francia, per li molti onori e gran dimostrazioni avute in quel regno, ma per li molti interessi che ha, essendo pensionario del re come è di cinquantamila franchi all’anno, oltre le terre che possiede in Normandia, per denari prestati più tempo fa dal duca Alfonso suo avo al re Francesco; ma (quello che più importa) per essere creditore con la corona di più di un million e centomila scudi, de’ quali ne sono più di secentomila di denari contanti, prestati al passar di monsignore di Guisa. S’aggionge di più l’interesse della casa sua, che senza l’appoggio e protezion di Francia, per li grandi utili che cova, resteria povera: intendo, così per la persona del cardinale (che di beni di chiesa gode più di cencinquantamila franchi l’anno, quali ha da sperare che passino per la maggior parte in don Luigi suo nipote), come per li intertenimenti che hanno dal re li signori don Francesco e don Alfonso fratelli, suoi zii, e cavalieri dell’ordine: in modo che, quando il duca non fusse Francese per elezione, gli conviene esser tale per obbligo: e per obligato lo stimano e tengono li Francesi.277

Anche negli anni successivi, gli avvenimenti francesi continuarono a coinvolgere direttamente la famiglia del duca di Ferrara. Dopo la morte di Enrico II (1559), la moglie Caterina de’ Medici dovette fronteggiare in veste di reggente i contrasti religiosi che minavano la convivenza fra i

276 Almeno così recita l’attestazione di avvenuta ricezione del collare, ritrovata nel corpus documentario di don Alfonso: «Noi Henrico per la gratia di Dio Re di Francia et di Pollonia certifichiamo tutti a chi apparterrà che’l Signor Hercole Rondinello gentiluomo del nostro carissimo et amatissimo zio il Signor Duca di Ferrara ha consignato in mano nostra il collaro dell’ordine di San Michele, ch’era del già Signor Don Alfonso d’Este, del quale gli ha dato carico il Signor Don Cesare d’Este suo figlio per riportarcelo in testimonio di che noi habbiamo signato il presente di nostra propria mano per serargli di scarico in ogni occasione ove bisognerà. A Tours alli 18 marzo 1589» (ASMo, Archivio per Materie, Ordini equestri, Toson d’oro, Ermellino, S. Michele, b. 6, fascicolo «Ordine di San Michele in Francia, 1469-1589»; una ricevuta coeva è presente anche in CeS, b. 356, sottofascicolo 1981.VII/13).

277 Relazione dell’eccellentissimo Giovanni Michiel, ambassador de ritorno dalla sua legazione del 1561, in Relations

des ambassadeurs vénitiens sur les affaires de France au XVIe siècle, éd. par M. N. Tommaseo, I, Paris, 1838, pp. 456- 458.

cattolici e i calvinisti in piena ascesa tanto tra le fasce popolari e borghesi della società, quanto tra le ramificazioni parentali della stessa casa reale: non è vano ricordare che tra le consorterie più esposte nella difesa del cattolicesimo il primo posto spettava a quella del duca Francesco di Guisa, marito di Anna d’Este, deceduto proprio nel corso della prima guerra di religione (aprile 1562- marzo 1563) che lo vide avversario di Antonio di Borbone, capo del partito ugonotto.278

Lo scoppio del secondo conflitto tra le due fazioni, nel 1567, spinse Carlo IX di Valois a chiedere il soccorso da oltreconfine di milizie guidate da alcuni principi italiani, tra cui Emanuele Filiberto di Savoia e don Alfonso d’Este, distintosi valorosamente nella battaglia di Saint-Denis (20 novembre 1567).279 La retorica bellica conseguente a quel successo militare consegnò il nome del nostro protagonista alla galleria dei grandi bellatores cinquecenteschi, esaltati secondo i dettami dell’ethos nobiliar-feudale come strateghi difensori della Chiesa e della fede.280 Nel fondo «Casa e Stato» dell’Archivio Estense di Modena è emerso, infatti, il decreto di elevazione di Alfonso a «Capitano generale della Maestà Cristianissima», sottoscritto a Torino dal duca di Savoia, in nome di re Carlo, esattamente un mese dopo il vittorioso fatto d’armi (20 dicembre). Il ragguardevole provvedimento contiene ulteriori istruzioni rivelatrici del lustro e della credibilità transpeninsulare del quarantenne marchese di Montecchio:

Lo creamo et deputiamo Capitan Nostro Generale di detta cavaleria con la possanza auttorità et preheminenze che a tal grado si convengono et che sogliono haver gl’altri Capitani Generali. Per tempo preghiamo la Maestà Christianissima in cui servitio vien il predetto, et li Principi, Signori, et altri ministri di lei a quali spettarà et a li Signori Colonelli et officiali minori et maggiori, et soldati di dette compagnie ordiniamo che accettando et rispettando gl’uni et riverendo et osservando gl’altri, il predetto Illustrissimo Signor Don Alfonso lo riconoscano et tengano per nostro Capitan Generale di detta gente et respettivamente ciascuno sottoposto al carigo d’esso signore per quanto a lui appartiene obedisca a gl’ordini suoi come a li nostri proprij.281

Alfonso rimase a Parigi ancora per qualche mese, nell’arco del quale continuò a riscuotere manifestazioni di stima da parte dagli esponenti della Corona, tanto da essere nominato membro

278 S.GUARRACINO, L’età medievale e moderna. Dalla società feudale allo Stato assoluto, Milano, Mondadori, 1993, p. 545.

279 P.LITTA, Famiglie celebri d’Italia, Milano, 1819, III, tav. XV; C.MAGONI, I gigli d’oro, cit., p. 108.

280 A. JOUANNA, La noblesse française et les valeurs guerrieres au XVI siécle, in G.A.PEROUSE,A. THIERRY,A. TOURNON, L’homme de guerre au XVI siécle, Saint-Étienne, 1992, pp. 205-227.

del Conseil particulier,282 composto da una trentina di persone, tra cui la regina, la regina madre, i fratelli del sovrano, i principi del sangue (Borbone, Navarra, Condé, Montpensier, La Roche-sur- Yon), il cardinal di Lorena, il connétabile de France e il duca di Guise; l’accesso a personalità forestiere era precluso, all’infuori di due sole eccezioni italiane: Emanuele Filiberto di Savoia, in forza della sua posizione di consorte di Margherita di Valois (ultimogenita di Francesco I), e il duca Alfonso d’Este, figlio di Renée e quindi discendente dalla lignée des Valois-Orléans. 283 La tregua seguìta agli scontri del 1566-1567 fu di breve durata, e le avversioni che dividevano la società francese tornarono a riaccendersi con virulenza, così come la guerra tra partiti nobiliari stava cedendo il passo al conflitto religioso vero e proprio con la rivolta degli ugonotti contro la Corona. Oltretutto, la questione aveva assunto una dimensione politica internazionale, con lo schieramento a fianco dei cattolici di Filippo II di Spagna, mentre i calvinisti potevano contare sull’appoggio di alcuni principi tedeschi e di Elisabetta I d’Inghilterra.284 L’ostilità reciproca assunse toni sempre più fanatici: per ambedue le parti gli «eretici» costituivano una minaccia alla purezza della comunità e la difesa dalla contaminazione reciproca legittimava sempre più la forza purificatrice della violenza, tramite massacri ed eccidi espiatori. Dinanzi al progressivo rigonfiamento del clima bellico tra le due fazioni, che di lì a poco sarebbe deflagrato con l’eccidio perpetrato a danno degli ugonotti nella notte del 23 agosto 1572 (la cosiddetta strage di San

Bartolomeo),285 don Alfonso decise di ritirarsi da quell’aspro campo di contese e abbandonare definitivamente la Francia, non prima – però – dall’aver messo in sicurezza in appositi bauli da soma il «magnifico presente» che il re volle donargli al momento del commiato, consistente nel «ricchissimo vasellamento» fuggevolmente menzionato da Salviati, ed effettivamente registrato nei mastri cartacei:

282 Il prestigioso riconoscimento viene così ricordato da Leonardo Salviati: «Nel qual spazio con la’ntegrità del suo animo, con la saldezza del suo giudicio, con la dolcezza de’ suoi costumi, de’ suoi modi, delle graziose maniere sue, non solamente de’ gentil’huomini, e de’ signori, e de’ Principi, l’applauso, e l’affezione, ma del Re stesso, e della Reina madre, e di ciascun de’ fratelli di esso Re l’amore, e la confidenzia, e per cotal modo si guadagnò, che infin del privato consiglio di sua Maestà fu eletto: dignità, e uficio, al quale in quel Regno non s’ammette di forestieri, se non gran Principi, confidentissimi della corona» (Orazione del cavalier Lionardo Salviati, cc. n. nn.).

283 C.MAGONI, I gigli d’oro, p. 98.

284 R.AGO,V.VIDOTTO, Storia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 85. 285 Ivi, p. 86.

Argento che donò il Re Cristianissimo al Signor Nostro Illustrissimo, qualle ha consignato a meser Andrea guardarobiero il sudetto Illustrissimo Signor Nostro.

Una nave alla regale tutta adorata con il suo coperto, n. 1, pesa la nave onze 65, il coperto onze 35 ½. Una ghiera da acqua tutta doratta con arme e imprese de Sua Signoria Illustrissima, n. 1, pesa onze 131. Dua bacilli tutti adorati lavorati con arme e imprese del predeto Signor, n. 2, una pesa onze 68, uno pesa onze 68 ½.

Dua bocalli lavorati con due mascarine ch’accompagna tutti adorati n. 2, pesan onze 46.

Due bacilli schieti tutti adorati con l’arme e imprese de Sua Signoria Illustrissima, n. 2, uno pesa onze 68, uno pesa onze 64.

Una ghiretta a beco d’anara con una mascarina de dietro ch’accompagna detti bacili, n. 1 pesa onze 23. Sei taçe grande adoratte de quelle due quali due hanno il coperto e tutte hanno arme e imprese de Sua Signoria Illustrissima, pesano onze 180.

Dodeci tace da bevere tutte adorate lavorate con li suoi coperti n. 12, pesano onze 240.

Due fiaschi grandi forniti con cadene tutti adorati con arme e imprese di Sua Signoria Illustrissima, pesan onze 72.

Candelieri n. tri adorati quali àno torcini cavandossi servono per candelotti con arma e impresa de Sua Signoria Illustrissima in peci n. sei computà li torcini che se cavano, n. 3, uno onze 25, uno onze 24, uno onze 24.

Uno salatino tutto adorato con il suo coperto con arme di Sua Signoria, n. 1 pesa onze 16 ½.

Due altri salini simili senza coperto con arme e imprese di Sua Signoria Illustrissima, uno de onze 15 uno de onze 14.

Due ovarolle piccole adoratte con tre bisse per piede ciascuna, n. 2 onze 7 ½. Il supradetto argento àno tutta la sua cassa de curamo fudrato de panno verde. Butiglie de stagno n. otto e fiasconi grandi n. due de stagno in due cassette, n. 10.286

Il rientro in Italia non fu immediato: in diverse missive spedite da Parigi al nipote duca, tra aprile e maggio del 1568, Alfonso rende noto il desiderio di «passare per Fiandra solo per vedere quei paesi»,287 evidentemente mai visitati con lo spirito del curioso viaggiatore, nemmeno in occasione della fugace impresa antiturca che lo portò a solcare le terre ungheresi appena due anni prima, nel settembre del 1566.