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I social media nell'ambito del franchising: il caso Cibiamogroup

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in Marketing e Ricerche di Mercato

Tesi di Laurea Magistrale

I SOCIAL MEDIA NELL’AMBITO DEL FRANCHISING: IL CASO CIBIAMOGROUP

RELATORE:

Prof. Annamaria Tuan

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

CANDIDATA:

Claudia Siccardi

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INDICE

INTRODUZIONE 4

CAPITOLO 1 6

IL MARKETING RELAZIONALE NELL’AMBITO DEL FRANCHISING 6

1.1IL MARKETING RELAZIONE 6

1.2IL FRANCHISING 12

1.2.1IL FRANCHISING IN ITALIA 14

1.3LA RELAZIONE FRANCHISOR -FRANCHISEE 17

CAPITOLO 2 20

I SOCIAL MEDIA NELL’AMBITO DEL FRANCHISING 20

2.1NASCITA ED EVOLUZIONE DEI SOCIAL MEDIA 20

2.2L’IMPORTANZA DEI SOCIAL NETWORK PER LE AZIENDE 29

2.2.1I SOCIAL MEDIA ALL’INTERNO DEL SISTEMA DI FRANCHISING 31

2.3IL PROCESSO DI PIANIFICAZIONE STRATEGICA DEI SOCIAL MEDIA 37

2.4I PRINCIPALI SOCIAL NETWORK UTILIZZATI DALLE IMPRESE 43

CAPITOLO 3 45

IL CASO CIBIAMOGROUP 45

3.1CIBIAMOGROUP ED I RELATIVI FORMAT 45

3.1.1CIBIAMO 47

3.1.2LA BOTTEGA DEL CAFFÈ 48

3.1.3VIRGIN ACTIVE CAFÉ 49

3.1.4MONDADORI CAFÉ 50

3.2METODOLOGIA E ANALISI DEI DATI 51

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3.3.1ANALISI DELLO STATO DELL’ARTE 59

3.3.1.1 Lo stato dell’arte relativo a Facebook 59

3.3.1.2 Lo stato dell’arte relativo ad Instagram 66

3.3.1.3 Lo stato dell’arte su LinkedIn 71

3.3.1.4 Lo stato dell’arte su TripAdvisor e Google Recensioni 74

3.3.2ANALISI DEI COMPETITOR 76

3.3.2.1 Analisi dei competitor di cibiamo 77

3.3.2.2 Analisi dei competitor de La bottega del Caffè 91 3.3.2.3 Analisi dei competitor di Cibiamogroup su LinkedIn 97

3.3.3FASE DI TRANSIZIONE 104

CONCLUSIONI 138

BIBLIOGRAFIA 141

SITOGRAFIA 145

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INTRODUZIONE

Le relazioni assumono un ruolo importantissimo all’interno del contesto sociale in generale.

In particolare, nell’ambito aziendale è fondamentale instaurare relazioni stabili con i propri stakeholder, siano essi fornitori o clienti, e mantenerle nel tempo in un’ottica, quindi, di lungo periodo.

Nell’ambito relazionale, infatti, è molto più importante mantenere clienti piuttosto che acquisirne di nuovi.

A tale riguardo occorre sottolineare che il consumatore si evolve continuamente: è un consumatore sempre più attivo e attento a ciò che le aziende mettono in atto. Nell’epoca in cui viviamo assistiamo ad un continuo aumento di persone che utilizzano la rete, in particolar modo i social network; questo ha portato, difatti, ad un cambiamento nel comportamento di acquisto dei consumatori stessi e nel modo in cui questi ultimi si interfacciano con l’azienda stessa.

Il Social Media Marketing compie un passo ulteriore rispetto al Marketing Relazionale in quanto permette di creare una relazione a due vie tra azienda e consumatori cosicché questi ultimi si sentano sempre più coinvolti. I social network, inoltre, favoriscono lo scambio di opinioni dalle quali l’azienda può cogliere degli utili feedback.

L’obiettivo di questa tesi è, appunto, quello di capire i motivi che spingono un’azienda a decidere di entrare sul mondo social e comprendere in che modo vengano prese le decisioni riguardanti i canali su cui essere presenti ed attivi e le strategie che si ha intenzione di intraprendere su questi ultimi. In particolare, sarà analizzato il caso di Cibiamogroup, azienda nel settore della ristorazione veloce che gestisce punti di vendita sia direttamente che in franchising, che da poco ha deciso di entrare attivamente su alcuni dei più conosciuti social network. Il fatto di essere immersa nella realtà aziendale e vivere, quindi, a stretto contatto con gli attori

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principali, ovvero i manager aziendali, mi ha permesso, pertanto, di condurre una ricerca etnografica.

Innanzitutto, nel primo capitolo sarà affrontata la nascita del marketing relazionale, fornendo un breve excursus del passaggio dal marketing tradizionale al marketing relazionale fino ad arrivare al social media marketing. Inoltre, sarà trattata l’importanza che le relazioni rivestono all’interno dei contesti aziendali attraverso la logica di marketing relazionale espressa da E. Gummesson. Per di più, sarà descritto il franchising in generale e particolare attenzione sarà data alla relazione che si instaura tra franchisor e franchisee.

Successivamente, verrà approfondito il social media marketing in senso stretto, andando anche a trattare le principali differenze che esistono tra i social media ed i mass media. L’attenzione sarà, inoltre, focalizzata sulla necessità che le aziende in generale percepiscono relativamente al fatto di essere presenti ed attive sui nuovi mezzi di comunicazione. A tale riguardo, sarà effettuato un focus sull’importanza dei new media all’interno dei sistemi di franchising. Poi, sarà descritto il processo che le aziende intraprendono per definire la pianificazione strategia sui social media.

Infine, sarà affrontato il caso studio relativo a Cibiamogroup. Per prima cosa sarà fornita una descrizione dell’azienda in generale e dei relativi format. Poi, sarà dettagliata la metodologia adottata per analizzare il caso, ovvero attraverso una ricerca etnografica.

Da ultimo, verranno presentati i risultati relativi alla fase di transizione che il Gruppo ha vissuto in seguito alla decisione di essere presenti e attivi sui nuovi mezzi di comunicazione. Sarà, pertanto, presentata sia un’analisi relativa allo stato dell’arte di Cibiamogroup su alcuni dei maggiori social network che una ricerca esplorativa relativa all’attività dei competitor su Facebook, LinkedIn ed Instagram così da avere una maggiore comprensione dell’attuale panorama competitivo. Infine, sarà descritta la social media strategy che Cibiamogroup ha deciso di adottare rispettivamente su LinkedIn, Facebook ed Instagram.

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CAPITOLO 1

IL MARKETING RELAZIONALE NELL’AMBITO DEL

FRANCHISING

1.1 Il marketing relazione

Secondo Gummesson (1994), il marketing relazionale si fonda su tre principi fondamentali: le relazioni, i network e le interazioni.

La relazione genitrice del marketing relazionale è quella tra fornitore e cliente dal momento che l’instaurarsi di una relazione necessita della presenza di almeno due parti; l’insieme di più relazioni definisce un network che può essere più o meno complesso, a seconda delle relazioni che si vanno a creare. Le parti, una volta messe in contatto, iniziano ad interagire tra loro.

Come le altre scienze, il marketing è una disciplina in continua evoluzione.

Seth e Parvatiyar (1995), due dei principali autori del marketing relazionale, hanno sviluppato uno studio sull’evoluzione del marketing relazionale.

Già in epoca preindustriale si poteva parlare di marketing relazionale in quanto l’interazione tra produttori e consumatori era basata su un contatto diretto dal quale derivava un legame emozionale, cosiddetto emotional bonding, che trascendeva lo scambio economico. Gli artigiani producevano beni personalizzati per i propri clienti creando un legame molto forte basato sui concetti di cooperazione, dipendenza e fiducia con l’obiettivo di creare relazioni a lungo termine.

Con l’avvento della produzione di massa e del consumo di massa nell’epoca industriale, si è passati da un marketing orientato alla relazione ad un marketing orientato allo scambio in cui gli attori del mercato focalizzavano la loro attenzione sulle transazioni e sulle promozioni dei beni piuttosto che sulla creazione ed il mantenimento di relazioni di lungo periodo. L’obiettivo, quindi, era solamente quello di vendere in un’ottica di massimizzazione del profitto nel breve termine, senza tenere conto di quello che potrebbe esservi attorno ad un bene o servizio erogato.

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Il marketing tradizionale si sviluppa nella società dei consumi in cui il focus è proprio sul marketing dei beni di consumo. Secondo l’American Marketing Association (1985), il marketing è il processo che consiste nel pianificare ed elaborare una concezione, nel fissare il prezzo, nel promuovere e distribuire idee, beni e servizi per creare scambi che soddisfino gli individui e gli obiettivi dell’organizzazione.

Con l’era postindustriale, invece, i venditori iniziano a rendersi conto della necessità di integrare l’orientamento alla transazione con un orientamento al consumatore mostrando così un maggior interesse verso questi ultimi. Si può, quindi, di nuovo parlare di marketing orientato alle relazioni ed ai clienti in cui i produttori cercano di creare una serie di servizi accessori che consentono di migliorare la relazione con il cliente stesso. Con la rinascita del direct marketing, ad esempio, è possibile andare ad effettuare azioni personalizzate verso il cliente, grazie anche alle nuove tecnologie, in particolare all’Information Technology. Dagli anni ’90 lo sviluppo tecnologico ha, da un lato, reso i consumatori più informati e consapevoli delle loro scelte d’acquisto e, dall’altro, ha permesso ai produttori di raccogliere informazioni sui consumatori riuscendo così a praticare un marketing individuale. Qui si inseriscono, inoltre, i social media che permettono alle aziende di creare relazioni più personalizzate con i propri clienti. L’obiettivo consiste nell’instaurare e mantenere relazioni a due vie a lungo termine in cui azienda e cliente possano interagire quotidianamente, distaccandosi dal concetto di comunicazione ad una via. Si inizia, infatti, a parlare di prosumer ovvero il cliente non è più solo un mero consumatore ma diventa anche produttore.

Quindi, si può affermare che con il marketing relazionale diventa più importante e meno oneroso mantenere una relazione a lungo termine con i clienti piuttosto che acquisirne di nuovi.

Per riassumere, prima degli anni ’20 si parla di era della produzione in senso stretto in cui l’unico obiettivo è quello di creare un buon prodotto per poi venderlo. Poi, con gli anni ’50 si verifica uno spostamento verso il concetto di vendita e di pubblicità ed il consumatore inizia ad avere un ruolo sempre più importante

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permettendo, inoltre, alle aziende di andare a comprendere quali sono i bisogni del consumatore. Dagli anni ’90 in poi, infine, si può parlare di marketing relazionale in senso stretto che consente di instaurare relazioni a lungo termine, creare valore ed avere più vantaggio competitivo. Il focus è proprio quello di mantenere a lungo i clienti piuttosto che acquisirne di nuovi.

Mettendo a confronto il marketing tradizionale con il marketing relazionale, è possibile andare a comprendere le differenze, come illustrato nelle figure seguenti:

Figura 1 - Dal marketing tradizionale al marketing relazionale

Fonte 1 - Sheth & Parvatiyar (1995) The Evolution of Relationship Marketing, International Business Review, p. 400

Osservando la figura n. 1, sull’asse delle ascisse abbiamo, da un lato, competizione e conflitto e, dall’altro, cooperazione reciproca; sull’asse delle ordinate troviamo, da una parte, indipendenza e scelta e, dall’altra, reciproca interdipendenza. Il marketing tradizionale si colloca nel quadrante in basso a sinistra nell’incrocio tra competizione e conflitto e indipendenza e scelta; il marketing relazionale, invece,

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si posiziona nel quadrante in alto a destra nell’intersezione tra cooperazione reciproca e reciproca interdipendenza.

Nella logica di marketing tradizionale, la competizione e l’indipendenza sono considerati dei veicoli che portano ad un vantaggio competitivo dal momento che la possibilità di scegliere i potenziali partner da parte delle aziende fa sì che questi ultimi creino un’offerta competitiva maggiore solo nel proprio interesse; in realtà, scegliere ogni volta i potenziali partner a cui rivolgersi ha un costo da parte dell’azienda. Ecco perché nel marketing relazionale ci si sposta verso la reciproca interdipendenza e la cooperazione reciproca, in un’ottica in cui le aziende cercano di creare relazioni durevoli nel tempo con i propri partner al fine di minimizzare i costi di transazione e fornire una migliore qualità ad un minor costo. Secondo Sheth e Sisodia (1995), infatti, l’obiettivo delle aziende è proprio quello di cercare i partner con cui collaborare per creare un network di relazioni che sia il più efficace ed efficiente possibile. Ci si sposta, quindi, dalle 4P (prodotto, prezzo, promozione e distribuzione) (McCarthy, 1960) alle relazioni R, in particolare alle 30R formulate da Gummesson (1994).

Figura 2 - Cambiamento di paradigma nell’orientamento di marketing

Fonte 2 - Sheth & Parvatiyar (1995) The Evolution of Relationship Marketing, International Business Review, p. 412

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Come si può vedere dal grafico soprariportato, sull’asse delle ascisse abbiamo, da un lato, la distribuzione del valore e, dall’altro, la creazione di valore; sull’asse delle ordinate, invece, abbiamo il risultato da una parte e, dall’altra, il processo. A differenza del marketing tradizionale, collocato nel quadrante in basso a sinistra nell’incrocio tra distribuzione di valore e orientamento al risultato, il marketing relazionale si posiziona nel quadrante in alto a destra in una attività di creazione di valore ed orientamento al processo.

Se nel marketing tradizionale l’orientamento si focalizza su ciò che l’azienda può ottenere dalla singola transazione, nel marketing relazionale, invece, l’orientamento si basa sull’analisi da parte dell’azienda di tutte le fasi che consentono di creare e mantenere le relazioni nel tempo. Inoltre, la creazione di valore fa sì che il cliente diventi coproduttore di valore insieme all’azienda in cui i ruoli del produttore, venditore e consumatore si confondono. Secondo Sheth e Parvatiyar (1995), il marketing relazionale non è, appunto, un insieme di tattiche per attirare clienti ma è un approccio alla gestione del marketing più efficace ed efficiente.

I filoni che hanno contribuito alla nascita del marketing relazionale sono principalmente tre: total quality management (TQM), ruolo cliente – fornitore e Information Technolgy.

Il primo si basa essenzialmente sui concetti di qualità percepita dal cliente e sul modo in cui l’azienda riesce a soddisfare il cliente attribuendo la maggior qualità possibile ai beni ed ai servizi erogati. Un aspetto fondamentale all’interno del total quality management è la qualità relazionale ovvero riuscire ad instaurare un rapporto tra azienda e cliente affinché entrambe le parti siano soddisfatte. Si cerca, quindi, di ottimizzare le relazioni con i consumatori e con le altre attività in modo da non commettere errori; si parla, appunto, di zero defection.

Il secondo fa riferimento al legame tra cliente e fornitore il quale non è più considerato lineare ma interattivo in cui gli attori del mercato interagiscono in una logica bidirezionale.

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Infine, grazie all’information technology è possibile sia stimolare ulteriormente l’interazione tra azienda e cliente che migliorare la qualità percepita dal cliente stesso.

Questi tre filoni abbracciano totalmente il marketing relazionale e si completano tra di loro.

Fondamentale è stato il contributo che Evert Gummesson ha fornito al marketing relazionale. Egli ha analizzato il comportamento dei manager nella loro pratica aziendale attraverso un lavoro di grounded theory iniziato negli anni ‘80.

L’autore ha, quindi, osservato la realtà aziendale studiando congiuntamente anche la letteratura esistente sulle relazioni. Da questo lavoro ha in seguito formulato e definito trenta relazioni che sono da sempre al centro del rapporto imprenditoriale. Tali relazioni variano di importanza a seconda delle imprese e del mercato; per questo ogni azienda dovrebbero comporre un proprio portfolio di relazioni per definire il piano di marketing, passo successivo alla definizione del piano di business più generale.

Per Gummesson, il marketing relazionale non si basa solo su una singola relazione ma su un network più strutturato di relazioni fondato sull’interazione.

Le relazioni hanno proprietà differenti e, sebbene siano numerate, non devono essere considerate in ordine di importanza, eccetto per la prima relazione.

Queste si distinguono in relazioni di mercato e relazioni non di mercato. Le prime, si dividono in relazioni classiche e relazioni speciali; le seconde, rispettivamente, in mega relazioni e nano relazioni. Va precisato che queste relazioni sono interrelate tra loro influenzandosi reciprocamente.

Possono, quindi, essere pensate come una serie di cerchi concentrici; Gummesson ha, infatti, espresso questa logica di marketing relazionale attraverso il disegno di una matrioska in cui il nucleo è formato dalle nano relazioni, per poi passare alle relazioni classiche di mercato, seguite dalle relazioni speciali di mercato fino a giungere alle mega relazioni che compongono il cerchio più esterno.

Le relazioni classiche sono le più tradizionali: la prima è tra cliente e fornitore che è la classica relazione di mercato, poi, aggiungendo un altro attore, si va a creare la

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triade cliente-fornitore-concorrente e poi la terza è quella della rete di distribuzione. Nelle relazioni speciali, invece, si vanno ad analizzare relazioni più specifiche rispetto a quelle classiche, come la relazione tra part-time marketers e full-time marketers. Poi ci sono le mega relazioni che riguardano l’economia e la società in generale. Infine, le nano relazioni trattano tutte le attività interne alla realtà aziendale come il rapporto tra i dipendenti, tra i dipendenti ed il CEO (Chief Executive Officer).

1.2 Il Franchising

Secondo l’art. 1 della legge n. 129/2004 il franchising, anche detto affiliazione commerciale, è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi.

Prima di tale legge in Italia il franchising era privo di una specifica definizione legislativa, a differenza, ad esempio, degli Stati Uniti d’America in cui l’affiliazione commerciale era già stata delineata chiaramente da decenni.

Oggi, il franchising non è più solo un mero rapporto tra partner che stipulano un contratto di affiliazione ma è considerato una strategia di sviluppo e di successo utilizzata da numerose aziende italiane con obiettivi di espansione della rete di franchising ed incremento della notorietà del proprio brand.

Essenzialmente il contratto di franchising si caratterizza per due elementi:

1. L’affiliante, o franchisor, trasmette all’affiliato, o franchisee, l’utilizzazione della propria formula commerciale che include il diritto di sfruttare il know-how, i segni distintivi ed altre prestazioni e forme di assistenza dell’impresa

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franchisor per far sì che l’affiliato possa gestire l’attività con la stessa immagine dell’impresa affiliante.

2. L’affiliato paga un compenso monetario all’affiliante per avere in licenza tali diritti e facoltà impegnandosi a fare proprie le politiche commerciali e l’immagine dell’impresa affiliante sia nell’interesse reciproco tra le parti stipulanti il contratto che nei confronti del consumatore finale. Il franchisee paga, quindi, sia una fee d’ingresso all’azienda affiliante che royalties mensili definite in base ad una determinata percentuale sul fatturato. Inoltre, la comunicazione ha un ruolo determinante all’interno del sistema di franchising in quanto vi è uno scambio di informazioni costante sia tra franchisor e franchisee sia con gli altri attori del mercato quali, ad esempio, fornitori, banche, agenzie di pubblicità, agenzie di grafica.

Il sistema di franchising presenta vantaggi e svantaggi rispettivamente per il franchisor e per il franchisee. Per quanto riguarda il franchisor concedere in licenza il proprio modello di business significa espandere la propria rete di distribuzione, ottenere un incremento nei ricavi, dare maggiore visibilità alla marca e condividere il rischio finanziario ma, allo stesso tempo, potrebbe manifestare delle difficoltà nel motivare i propri franchisee o subire un danneggiamento dell’immagine, del marchio e della reputazione nel momento in cui l’affiliato non rispetti adeguatamente le indicazioni fornitegli dall’azienda affiliante. Dall’altro lato, il franchisee, sottoscrivendo un contratto di affiliazione, ha la possibilità sia di ottenere un modello di business consolidato su cui avviare la propria attività che minimizzare i rischi legati all’avviamento di un’impresa, soprattutto alla luce della situazione del mercato attuale in cui le strategie stand alone sono sempre più rischiose; i benefici per il franchisee sono significativi ma potrebbe incorrere nello svantaggio di dover pagare fee e royalty elevate per vedere riconosciuti tali vantaggi.

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1.2.1 Il Franchising in Italia

In Italia il fenomeno dell’affiliazione si sta progressivamente ampliando.

Secondo il Rapporto Assofranchising Italia 2016, la crescita del fatturato e la crescita del numero dei punti vendita in franchising nel nostro Paese sono due dei principali indicatori sulle reti in franchising operanti in Italia che mostrano un andamento significativamente positivo.

Esaminando i dati della tabella n. 1 riguardanti i principali indicatori del sistema in franchising in Italia negli anni 2015 e 2016, è possibile effettuare un confronto con l’anno 2015.

Tabella 1 - Principali indicatoti del sistema franchising in Italia anni 2015 e 2016

Indicatori Anno di riferimento 2016 su 2015 Differenza

U.d.m 2015 2016 Val.Ass. Val. %

Giro d’affari Mld € 23,306 23,930 + 0,624 + 2,7% Punti vendita in franchising in Italia (pvf) Nr. 50.185 50.720 + 535 + 1,1% Addetti occupati nelle reti (pvf) compreso il franchisee Nr. 187.888 195.303 + 7.415 + 3,9%

Media occupati per punto vendita in

franchising

Nr. 3,74 3,85 + 0,11 + 2,9%

Fonte 3 - Rapporto Assofranchising Italia 2016 – Strutture, Tendenze e Scenari. A cura di Assofranchising in collaborazione con l’Osservatorio Permanente sul franchising Dall’analisi emerge che:

• Il giro di affari delle insegne franchisor operative in Italia è cresciuto del +2,7% rispetto all’anno precedente in cui il peso maggiore è dato dal settore

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food con un’incidenza pari quasi al 40% del totale (GDO food 32,18% e ristorazione veloce 7,49%).

• Il numero di punti vendita in franchising in Italia è aumentato del + 1,1%. • Gli addetti occupati nelle reti, compreso il franchisee, sono quasi 200.000

con una media di occupati per punto vendita in franchising pari a 3,85; il numero degli addetti è aumentato, quindi, del + 3,9% in termini percentuali rispetto al 2015.

• La dimensione media delle reti in Italia, calcolata solo per i punti vendita franchising, è aumentata del + 0,7%.

Va precisato che tali dati devono essere interpretati tenendo in considerazione il contesto socio economico italiano in cui il PIL cresce in maniera ridotta, indice di uno stato di stagnazione dei consumi.

I principali indicatori del sistema in franchising possono, inoltre, essere presi in esame secondo la suddivisione per aree Nielsen ottenendo informazioni dettagliate sulla localizzazione dei punti vendita per ogni regione italiana.

Grafico 1 - Suddivisione per aree Nielsen

36% 19% 23% 22% Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud

Fonte 4 - Rapporto Assofranchising Italia 2016 – Strutture, Tendenze e Scenari. A cura di Assofranchising in collaborazione con l’Osservatorio Permanente sul franchising

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Le aree Nielsen, ideate dall’Istituto di Ricerca per effettuare indagini di mercato, sono così ripartite:

• Area 1 (Nord-Ovest): Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Lombardia. • Area 2 (Nord-Est): Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e

Emilia-Romagna.

• Area 3 (Centro): Toscana, Umbria, Marche, Lazio e Sardegna.

• Area 4 (Sud): Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia.

Il grafico n. 1 mostra come le reti in franchising attive siano maggiormente concentrate nel Nord Italia (54,9%); nello specifico, il Nord-Ovest dell’Italia è l’area con il più alto numero di franchisor (35,7%), seguito dall’area del Centro (23,2%), del Sud (22%) e, infine, del Nord-Est (19,2%).

Per quanto riguarda, invece, il numero di punti vendita in franchising suddivisi per regione (tabella n. 2), la Lombardia è in testa alla classifica con 8.237 punti vendita, seguita dal Lazio (5.889), Sicilia (4.362), Piemonte (2.349) e Puglia (3.532); in ultima posizione la Valle d’Aosta con solo 227 punti vendita. Da quest’ultima analisi si desume come il sistema di franchising stia fondando le sue radici anche nel Sud dell’Italia.

Tabella 2 - Punti vendita in franchising, suddivisione per regione

Regione franchising 2016 Punti vendita in Regione franchising 2016 Punti vendita in

Lombardia 8.237 Sardegna 1.707

Lazio 5.889 Liguria 1.508

Sicilia 4.362 Marche 1.424

Piemonte 4.349 Abruzzo 1.216

Puglia 3.532 Friuli Venezia Giulia 954

Veneto 3.468 Umbria 954

Campania 3.350 Basilicata 634

Emilia Romagna 3.183 Trentino Alto Adige 616

Toscana 2.858 Molise 418

Calabria 1.834 Valle d’Aosta 227

TOTALE PUNTI VENDITA IN FRANCHISING IN ITALIA 50.720

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1.3 La relazione Franchisor - Franchisee

Secondo Morgan e Hunt (1994), il marketing relazionale costituisce un grande cambiamento nella teoria e nella pratica del marketing in cui è importante stabilire, sviluppare e mantenere scambi relazionali di successo tra le parti. Gli stessi autori sostengono che alla base di una buona relazione ci debbano essere impegno e fiducia, cosiddetti commitment and trust.

La fiducia e l’impegno sono due variabili fondamentali della relazione che portano gli attori coinvolti nel rapporto a tenere dei comportamenti cooperativi che favoriscono il successo della relazione stessa.

Secondo Helfert, Ritter e Walter (2002, p. 1127) la fiducia può essere descritta come una convinzione positiva, un atteggiamento o una aspettativa di una parte circa la probabilità che l’azione o i risultati dell’altra parte siano soddisfacenti. Ciò significa che la fiducia, quando presente in una relazione, permette di creare un dialogo costruttivo tra le parti le quali collaborano nella risoluzione dei problemi e delle difficoltà che si vengono a creare.

Secondo Moorman, Zaltman e Deshpanole (1992, p. 316) l’impegno è un desiderio duraturo per mantenere un rapporto di valore. Questa variabile, se presente, fa sì che le parti resistano ad alternative allettanti di breve durata a favore dei numerosi vantaggi che ottengono dal mantenere una relazione nel lungo termine.

Il sistema di franchising può essere visto come una forma di scambio relazionale ed inserito, quindi, all’interno del marketing relazionale.

Secondo Strutton et al. (1995), il franchising è caratterizzato da una relazione continua e complessa a lungo termine in cui ogni singolo scambio ha una rilevanza insignificante rispetto all’importanza implicita di sostenere la relazione stessa. La relazione che si instaura tra il franchisor ed il relativo network di franchisee svolge un ruolo centrale nello sviluppo dell’organizzazione. Infatti, come sostengono Hopkinson e Hogarth-Scott (1999, p. 830), i canali di franchising si basano sulla qualità della relazione per funzionare. La qualità della relazione nell’ambito del sistema di franchising è, appunto, influenzata da diversi fattori tra i

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quali la comunicazione efficace e la leadership; la prima è fondamentale per garantire valori condivisi tra le parti, la seconda svolge un ruolo cruciale nella progettazione della relazione.

Mendelsohn (2004) paragona la relazione di franchising alla relazione figli-genitori sostenendo che il franchisee è come un bambino che entra a far parte per la prima volta del sistema, desideroso di imparare; crescendo, diventa un adolescente che risente del controllo parentale. Questa analogia spiega come il potenziale franchisee, entrando a far parte del sistema di franchising e diventando affiliato, si senta parte di una famiglia. Può capitare, infatti, che il franchisee rimanga all’interno del sistema di franchising nonostante non sia soddisfatto di questo o perché alla base vi è un obbligo contrattuale oppure perché il costo di lasciare il sistema potrebbe essere troppo grande da sostenere.

Da questa relazione, comunque, derivano vantaggi per tutti i membri della rete: per il franchisor, alcuni dei benefici riguardano le risorse finanziare e il capitale umano che l’affiliato gli fornisce; per il franchisee, invece, i benefici sono rappresentati dalla notorietà del marchio, dal supporto fornito dal franchisor, dalla formazione pre e post apertura. Per far sì che tali vantaggi siano percepiti, entrambe le parti devono credere nella relazione e nel fatto che quest’ultima fornisca loro dei benefici permettendogli, quindi, di raggiungere risultati che non avrebbero potuto ottenere singolarmente.

Nel momento in cui il franchisor ed i franchisee intraprendono una relazione di successo, si prefissano degli obiettivi positivi per entrambi. Nonostante ciò, può accadere che si verifichino dei conflitti che possono andare ad incidere sulla relazione rendendola più critica e complessa. Il franchisor, ricevendo delle fee e dei canoni mensili da parte dei propri franchisee, è tenuto contrattualmente a fornire loro una serie di servizi tra i quali la formazione iniziale e continua, la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti o servizi, il supporto pubblicitario e di marketing. A sua volta il franchisee potrebbe valutare i servizi erogati inadeguati e ritenersi quindi insoddisfatto della relazione in generale; di contro, il franchisee potrebbe percepire

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i servizi erogati dal franchisor positivamente, in questo caso la fiducia tra le parti diventerebbe sempre più forte.

Secondo Peterson e Dant (1990), i servizi che l’affiliante eroga sono una delle ragioni per cui sempre più imprenditori decidono di diventare franchisee ed entrare a far parte del sistema.

Si può, quindi, affermare che esistono numerose motivazioni che spingono il franchisor da un lato e i potenziali affiliati dall’altro a creare e ad entrare a far parte di un sistema di franchising instaurando una relazione al suo interno.

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CAPITOLO 2

I SOCIAL MEDIA NELL’AMBITO DEL FRANCHISING

2.1 Nascita ed evoluzione dei social media

Il social media marketing rappresenta un’evoluzione sia del marketing tradizionale che del marketing relazionale.

Secondo Jagdish N. Sheth (2015), i social media rientrano nella prospettiva futura del marketing relazionale.

L’autore propone uno schema in cui spiega come il marketing relazionale possa evolvere in futuro dal momento che la pratica è in continua evoluzione.

Negli ultimi anni si sta assistendo, infatti, ad uno spostamento su due differenti dimensioni del marketing relazionale stesso: si passa, da una parte, dalla share of wallet alla share of heart e, dall’altra, ci si sposta dalla gestione della relazione con i consumatori alla creazione di joint ventures con i consumatori stessi.

Per comprendere, quindi, le future possibilità del marketing relazionale, si ritiene utile analizzare lo schema proposto dall’autore (figura n. 3):

sull’asse delle ordinate, da un lato, si colloca la share of wallet cioè quanto i consumatori rendono in termini monetari per l’azienda quindi il portafoglio che quest’ultima detiene dei propri consumatori e, dall’altro, si posiziona la share of heart ovvero quanto l’azienda può ricavare dai propri consumatori in termini di valore relazionale in un rispetto reciproco; invece, sull’asse delle ascisse si trova, da una parte, la gestione della relazione con i consumatori che ha il fine di acquisire fedeltà e fiducia da parte dei consumatori stessi e, dall’altra, le joint ventures con i consumatori in cui l’azienda non cerca più solo di gestire la relazione con i clienti ma si spinge oltre, creando una connessione sempre più fitta con i consumatori, stimolando una interazione e cercando il loro punto di vista così da inglobare nelle strategie aziendali ciò che questi ultimi desiderano.

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risorse e apporto complementare di tutte le parti le quali hanno un ruolo attivo e proattivo nella relazione. Le imprese, infatti, non sono più in collegamento solo con determinati attori classici di mercato ma, anzi, sono sempre di più inserite in un network più ampio di relazioni formato da un insieme di attori che vanno ad influenzare il comportamento imprenditoriale quali i fornitori, i dipendenti, i competitors, i blogger ed i consumatori stessi.

Con il termine share of heart si intende proprio stringere relazioni nel tempo a livello emotivo, non solo con l’obiettivo di vendere prodotti o servizi ma con l’intento di creare relazioni sempre più connesse e sempre più forti governate da passione e scopi condivisi.

Tutti questi fini possono essere raggiunti grazie ai social media che consentono di trasferire maggiore significato ai prodotti ed alle marche in un’ottica di partecipazione reciproca.

L’uso dei social media ha permesso anche la nascita e la crescita delle brand community, termine coniato da Muniz e O’Guinn (2001) i quali sostengono che l’impatto dei social media sullo sviluppo delle brand community sia stato critico sin dalla fase iniziale. I social media e le brand community sono basati sicuramente sull’interazione che implica, quindi, uno scambio di conoscenze, di opinioni e di percezioni tra i membri; inoltre, permettono agli utenti di essere sia consumatori che produttori di informazioni riguardanti il marchio. Il consumatore moderno, perciò, è sempre più attento e le imprese sono esposte ad una maggiore trasparenza sia online che offline in cui uno dei ruoli svolti dai social media è proprio quello di influenzare la percezione e la reputazione che gli altri consumatori possono avere nei confronti delle imprese stesse. Queste ultime tentano, quindi, di conquistare i consumatori a livello emotivo sponsorizzando le cause sociali cosicché il consumo di prodotti o marchi da parte dei consumatori diventi più significativo.

Con il termine joint ventures con i consumatori si intende, invece, la costituzione di una collaborazione volta alla co-creazione di valore grazie all’impegno reciproco delle risorse e delle capacità complementari; in questo caso, il fondamento della relazione è legato all’interdipendenza reciproca, all’impegno reciproco ed agli

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obiettivi condivisi cosicché sia i consumatori che le imprese accettino l’interdipendenza anziché la dipendenza all’interno del rapporto.

Figura 3 - L’evoluzione futura del marketing relazionale

Fonte 6 - Sheth (2015) The future evolution of relationship marketing, Handbook on research in relationship marketing, p. 6

Pertanto, così come il marketing relazionale è considerato una evoluzione del marketing tradizionale che mette in luce le varie relazioni che si possono creare con i diversi attori del mercato, il social media marketing è visto come un passo ulteriore rispetto al marketing relazionale.

I social media sono considerati come dei canali attraverso cui è possibile instaurare, sviluppare e migliorare le relazioni con i vari stakeholder, i consumatori in modo principale. L’obiettivo finale, quindi, non è quello di comunicare tramite i social media ma di creare il cosiddetto engagement, parola chiave di tutte le attività svolte nell’ambito del social media marketing.

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Nel marketing tradizionale i media principali erano i mass media come la televisione, la stampa o la radio, l’orientamento era push ovvero dall’azienda verso i consumatori costituendo, perciò, una comunicazione ad una via in cui l’uso delle interruzioni era fondamentale per attirare l’attenzione del pubblico.

Poi, con lo sviluppo del Web in generale, le aziende hanno iniziato ad avvicinarsi a questo fenomeno; tuttavia, non si può ancora parlare di social media marketing in senso stretto ma del cosiddetto tradigital marketing che costituisce una fase intermedia in cui sono presenti sia i mass media che i media online centrati sul target di riferimento. In questa fase l’orientamento è ancora push continuando, quindi, a sviluppare attività unidirezionali quali banner pubblicitari o email spam in cui le aziende cercano ancora, attraverso le interruzioni, di attirare l’attenzione dei consumatori.

Infine, spostandoci verso il social media marketing, il cambiamento principale si ha da parte dell’orientamento che non è più push ma pull ovvero comprendere che cosa vogliono i consumatori, cosa vuole il target di riferimento così da instaurare una comunicazione a due vie in cui vi è uno scambio reciproco di informazioni tra le parti e, per attirare l’attenzione dei consumatori, c’è interattività e non interruzione. In questo modo si crea un maggior dialogo, una maggiore partecipazione e condivisione di contenuti da parte degli utenti.

Nel Web 2.0 l’interazione, infatti, avviene a più livelli: uno verso uno, molti verso molti, uno a molti.

Quindi, ciò che cambia sono sia i canali che il tipo di comunicazione effettuata su questi ultimi.

Se i mass media sono mezzi di comunicazione in grado di raggiungere un gran numero di individui, i social media vanno oltre tali limiti e sono definiti da Kaplan e Haenlein (2010, p. 61) come a group of Internet-based applications that build on the ideological and technological foundations of Web 2.0 [i.e. collaborative platforms], and that allow the creation and exchange of User Generated Content ovvero applicazioni basate su Internet e sul Web 2.0 che consentono la creazione e lo scambio di contenuti generati dagli utenti.

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Secondo Cova, Giordano e Pallera (2008), gli strumenti messi a disposizione dal Web 2.0 hanno contribuito a trasformare gli individui da meri spettatori a protagonisti attivi sia all’interno delle relazioni che nella generazione di contenuti. Si può dire, quindi, che i social media rappresentano un cambiamento radicale nel modo in cui la gente apprende, legge e condivide informazioni.

Ogni giorno l’influenza dei social media cresce in modo sostanziale grazie all’aumento del numero di persone che entrano a far parte delle comunità online. A differenza della radio che ha impiegato 38 anni per raggiungere 50 milioni di ascoltatori e la televisione che ha atteso 13 anni per raggiungere 50 milioni di spettatori, Internet ha raggiunto 50 milioni di persone in 4 anni mentre Facebook, il social network più utilizzato al mondo, in meno di 9 mesi ha ottenuto 100 milioni di utenti.

Esistono, quindi, delle differenze sostanziali tra i mass media e i social media, di seguito sintetizzate:

• Proprietà: i mezzi di produzione dei mass media solitamente sono di proprietà mentre i social media sono a disposizione di chiunque senta il desiderio di utilizzarli.

• Formazione professionale: coloro che producono e distribuiscono contenuti sui mass media hanno necessariamente bisogno di formazione e competenze specialistiche; al contrario, i contenuti che vengono creati e condivisi sui social media non sono necessariamente prodotti da “addetti al settore” ma possono essere liberamente pubblicati dagli utenti.

• Time to market: nel caso dei mass media può trascorrere diverso tempo, quantificabile in giorni, settimane o mesi, dal momento di produzione dei contenuti alla loro distribuzione; nel caso dei social media, invece, il momento di creazione di contenuti è, nella maggior parte dei casi, seguito immediatamente dalla loro pubblicazione e condivisione.

• Modificabilità: una volta che i contenuti sono stati prodotti e distribuiti sui mass media, non possono più essere modificati o eliminati; viceversa, i

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contenuti relativi ai social media possono essere corretti in real time grazie all’uso dei commenti o alla possibilità di modificarli direttamente.

• Limiti: a differenza dei mass media che hanno una distribuzione territoriale e temporale limitata, i social media riescono a superare ogni limite geografico o temporale.

Secondo il Digital Report 2017 We are Social, ad oggi più della metà della popolazione mondiale usa Internet con oltre 3,75 milioni di persone online. Per quanto riguarda il nostro Paese, la popolazione italiana attuale è formata da circa 60 milioni di persone, di cui:

• 39,21 milioni di persone utilizzano Internet.

• 31 milioni di persone sono utenti attivi sui social media.

• 76,74 milioni di utenti sottoscrivono un abbonamento per il proprio smartphone o tablet cosicché cresce esponenzialmente la quota di connessioni via mobile.

Grafico 2 - Le piattaforme più attive riguardanti i social media in Italia

Fonte 7 - We are Social, Digital Report 2017, Hootsuite

10,00% 11,00% 15,00% 19,00% 19,00% 25,00% 25,00% 28,00% 33,00% 48,00% 55,00% 57,00% Snapchat Tumblr Pinterest Skype LinkedIn Google + Twitter Instagram Fb Messenger Whatsapp Facebook YouTube

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Per quanto concerne le piattaforme più attive riguardanti i social media, come illustrato nel grafico n. 2, in Italia il canale più utilizzato è YouTube, alla pari di Facebook, con un tasso di penetrazione (che misura la percentuale di popolazione italiana con un accesso sulle diverse piattaforme) rispettivamente del 57% e del 55%. Questi sono seguiti da Whatsapp, Facebook Messenger, Instagram, Twitter, Google +, LinkedIn, Skype, Pinterest, Tumblr e Snapchat.

Marc Prensky nel suo Digital Natives, Digital Immigrants del 2001 definisce le persone che sono cresciute con le tecnologie digitali quali i computer, Internet ed i telefoni cellulari come Nativi Digitali che, quindi, non sono solo cambiati in modo incrementale rispetto alle generazioni passate.

Pertanto, secondo l’autore si è verificata una cosiddetta singolarità ovvero un evento che ha modificato così radicalmente le cose che non vi può più essere alcuna possibilità di ritorno. Tale singolarità è riconducibile all’arrivo e alla rapida diffusione della tecnologia negli ultimi decenni del XX secolo.

La quotidianità dei nativi digitali è estremamente diversa rispetto al modo di vivere giornaliero degli Immigrati Digitali cioè coloro che sono cresciuti senza la tecnologia del Web 2.0.

I nativi non hanno scelto di essere più attivi online giorno dopo giorno ma sono, invece, semplicemente nati in un periodo in cui la società ha adottato queste tecnologie. Viceversa, gli immigrati digitali hanno la possibilità di poter effettuare una scelta: possono decidere fino a che punto spingere il livello di socializzazione nella cultura digitale oppure possono decidere di continuare a difendere il proprio diritto di consultare le informazioni sui giornali o scrivere lettere per mettersi in contatto con altre persone. Perciò, nonostante questi ultimi possano utilizzare le tecnologie in modi diversi rispetto ai nativi, gli immigrati digitali si sentiranno sempre degli outsider in rapporto all’uso della tecnologia e dei social media in generale.

Infatti, secondo il 13° Rapporto Censis le distanze che intercorrono tra i consumi mediatici dei giovani e quelli degli anziani continuano ad essere significative:

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• La quota di giovani appartenenti alla rete al di sotto dei 30 anni, è del 95,9%, a differenza di quella degli anziani al di sopra dei 65 anni che è ferma al 31,3%.

• La percentuale di giovani che usano gli smartphone è pari all’89,4% mentre quella degli anziani è del 16,2%.

• Oltre la metà dei giovani consulta i siti web di informazione, contro appena un anziano su dieci poiché preferiscono tutt’ora informarsi attraverso i canali tradizionali.

Il consumatore attuale è, quindi, sempre più multitasking in quanto vuole avere a disposizione più contenuti possibili nello stesso momento da poter consultare. Un esempio che descrive tale realtà è proprio la grande diffusione ed il conseguente aumento del numero di smartphone e tablet che le persone acquistano e possiedono in questi anni.

Inoltre, il consumatore moderno è sempre più abituato alle pubblicità tradizionali al punto che inizia ad ignorarle o ricorre all’utilizzo di strumenti in grado di eliminarle o nasconderle.

I nuovi media diventano talmente importanti e determinanti nelle decisioni di acquisto dei nuovi consumatori che Jim Lecinski (2011), managing director US Sales & Service di Google, sostiene che si è passati dal First Moment of Truth (FMOT) al nuovo Zero Moment of Truth (ZMOT).

Per decenni i consumatori hanno seguito uno schema mentale classico di marketing basato principalmente su tre momenti: stimolo, scaffale ed esperienza. Il primo momento della verità si verificava proprio all’interno del negozio in cui le persone si recavano per acquistare il prodotto soddisfacendo così il loro bisogno; questo era seguito da un secondo momento della verità che coincideva con l’esperienza. Tale processo era, quindi, lineare e, nonostante le persone ricorressero al passaparola con amici o alla pubblicità tradizionale, il momento della verità aveva luogo all’interno del punto vendita.

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Invece, con l’avvento dei social media si è venuto a creare il cosiddetto Zero Moment of Truth (momento zero della verità) che si interpone tra lo stimolo e il primo momento della verità.

Figura 4 - Il momento della verità

Fonte 8 - Jim Lecinski (2011) Winning the Zero Moment of Truth, p. 17

Durante questo momento le persone raccolgono le recensioni ed ogni tipo di suggerimento che possono trovare online grazie ai social. Questo sicuramente influenza il momento della verità ed il conseguente momento dell’esperienza. Inoltre, il momento dell’esperienza crea un ciclo continuo all’indietro perché nell’attimo in cui il consumatore vive l’esperienza del suo prodotto acquistato può lasciare recensioni online andando così ad influenzare lo zero moment of truth di un altro consumatore. L’esperienza d’uso viene, quindi, solitamente condivisa online per arricchire il momento zero della verità di altre persone.

Infatti, ricerche svolte dall’Istituto Nielsen evidenziano come il 70% delle persone intervistate mette in atto un’azione di acquisto in base alle opinioni dei consumatori postate online. Così, le recensioni diventano la seconda fonte in assoluto di

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reperimento delle informazioni utili per il consumatore al fine di intraprendere la decisione di acquisto; la prima fonte di ricerca di informazioni rimane, comunque, la raccomandazione da parte delle persone vicine ai consumatori. In più, la fiducia che le persone hanno in relazione alle recensioni postate online è molto alta, attestandosi al 68%.

Pertanto, i consumatori moderni prendono la decisione di acquisto ancora prima di trovarsi davanti allo scaffale del punto vendita su cui la merca è esposta.

Si può, quindi, affermare che i consumatori percepiscono Internet come il più essenziale di tutti i media.

2.2 L’importanza dei social network per le aziende

Nella società attuale diventa fondamentale per un’azienda, perciò, essere presente sui social network, non solo in un’ottica di opportunità ma, soprattutto, come esigenza.

I social network, quindi, non rappresentano più una scelta per l’impresa ma, anzi, una necessità. Infatti, al giorno d’oggi essere assenti sui social media è molto più pericoloso che essere presenti. Non esserci è, pertanto, impossibile dal momento che l’impresa è esposta sia ai giudizi che alle discussioni degli utenti; per riuscire a tenere sotto controllo tale problema è importante che le imprese abbiano una strategia coerente per gestire le relazioni con gli utenti così da poter affrontare e superare positivamente eventuali crisi. Secondo una ricerca svolta dal Centro di Ricerca Interuniversitario in Economia del Territorio dell’Università di Milano-Bicocca (CRIET), i principali rischi ai quali può essere sottoposta un’impresa che utilizza i social media sono:

• Compromissione dell’immagine aziendale • Diminuzione della Customer Satisfaction • Mancata acquisizione di prospect

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Inoltre, essere attivi sui social media è un ottimo modo per promuovere il proprio brand, i propri prodotti, i servizi, generare lead attraendo ed acquisendo nuovi clienti sul Web ma è, soprattutto, importante per interagire con il proprio pubblico sia esso composto da clienti effettivi e potenziali, detrattori, concorrenti e finanziatori.

Per di più va precisato che anche le imprese che decidono di non entrare a far parte della Rete devono essere consapevoli che i propri clienti ed anche i propri dipendenti sono presenti e attivi sui social network e possono, quindi, parlare dell’impresa stessa, dei prodotti che offre e dei servizi che eroga.

Sia le imprese che i rispettivi clienti sono, quindi, stati travolti dal Web 2.0 e dal conseguente avvento dei social media che mostrano nei confronti dell’impresa delle grandi potenzialità da cogliere al fine di relazionarsi con il consumatore.

È necessario, per giunta, specificare che le imprese nella realtà attuale non sono più decisori del luogo di ascolto ma, anzi, sono i consumatori ad imporlo.

In merito a questo, Anderson (2006) sostiene che viviamo in un’epoca in cui ogni consumatore ha un megafono. Molti lo stanno usando. E le aziende farebbero meglio ad ascoltare.

Questo sta a significare che le imprese non devono utilizzare i social network soltanto per comunicare in modo unidirezionale ma devono anche saper ascoltare gli utenti così da creare delle comunicazioni persuasive, soprattutto considerando che gli utenti stessi, con le loro interazioni, dicono cosa funziona e cosa no.

A tale riguardo anche Fabris (2008) esprime il suo pensiero affermando che l’ascolto è la premessa per intessere un dialogo, per interrompere quel monologo che dura da sempre e che oggi appare improponibile.

Le imprese devono, quindi, ascoltare le conversazioni che le riguardano nel complesso e, per riuscire nell’intento, devono essere presenti sui canali social così da raccogliere feedback da parte degli utenti. Va sottolineato, inoltre, come questi ultimi abbiano imparato ad ascoltarsi tra di loro cosicché le risposte di cui hanno bisogno arrivano molto spesso da altri consumatori piuttosto che dalle imprese

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della rete pensano, traendo rilevanti feedback, utili per migliorarsi continuamente, che rappresentano un valore aggiunto dato dai social media al mondo business. Pertanto, l’utilizzo dei social network in ambito aziendale ha superato il concetto di canale di comunicazione e si sta configurando come canale di relazione.

Da ultimo, si può affermare, quindi, che non è possibile fare social media marketing senza ascoltare il proprio pubblico.

Le aziende in generale hanno la necessità, perciò, di prendere in considerazione la loro presenza sui nuovi canali di comunicazione per i seguenti motivi:

• I social network sono un fenomeno in continua crescita ed espansione che acquisiscono sempre più importanza nella quotidianità degli utenti e delle aziende

• Dal momento che sui social network sono presenti sia i clienti attuali che, a maggior ragione, i clienti potenziali, l’azienda può riconoscere dei benefici derivanti dalla presenza attiva sui social network in termini di creazione e mantenimento della relazione con i clienti

• Sempre più aziende sono presenti sui canali social tra cui i propri competitor • Le aziende hanno la possibilità di ascoltare quello di cui clienti, dipendenti e concorrenti possono parlare sui social network che sia relativo all’azienda stessa o ai prodotti che offre.

Secondo una ricerca condotta dal CRIET, infatti, le aziende utilizzano sempre di più i social media. Lo studio ha coinvolto 374 aziende operative sul mercato italiano; di queste, 268 si sono dichiarate attive sui canali social. Facebook, tuttavia, rimane il social media più utilizzato, seguito da YouTube e Twitter; crescono, inoltre, LinkedIn passando dal 45% al 64% ed Instagram con una percentuale che aumenta dal 29% al 69% in un anno.

2.2.1 I social media all’interno del sistema di franchising

Come per ogni altro tipo di impresa, Internet ha avuto, e tutt’ora continua ad avere, un grande impatto sul sistema di franchising.

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Se in passato le aziende si affidavano ai mezzi tradizionali di comunicazione come la pubblicità sui canali televisivi o le riviste, oggi gli sviluppi tecnologici e l’introduzione di nuovi mezzi di comunicazione digitali quali i social media hanno trasformato i modi in cui le imprese possono adottare le proprie strategie di comunicazione.

Se grazie ad Internet i potenziali affiliati possono facilmente e a basso costo reperire informazioni riguardanti il franchisor, compilare moduli di domanda agevolmente accessibili così da ridurre i tempi di negoziazione, particolare importanza va, però, assegnata al ruolo che rivestono i social media come Facebook, LinkedIn ed Instagram all’interno delle catene in franchising che consentono al franchisor di differenziare la propria comunicazione.

Nel dicembre 2009 Rozenn Perrigot, analizzando un campione di 408 sistemi di franchising, aveva osservato se ciascuno di essi avesse adottato una presenza su Facebook, prendendo in considerazione solo le pagine create dai franchisor. Dallo studio è emerso che il 21,3% di questi era presente su Facebook, dato rilevante se contestualizzato al periodo in cui è stata condotta la ricerca.

La stessa autrice, poi, nell’autunno del 2015 ha condotto uno studio simile in cui ha preso in esame 500 catene in franchising, andando ad esaminare la loro presenza su LinkedIn. Dall’indagine è emerso che l’81% di queste aveva una propria pagina aziendale sul social network in questione.

Come dimostrano i dati, quindi, i social media assumono un’importanza significativa anche all’interno del sistema di franchising.

Dal momento che social network quali Facebook, LinkedIn ed Instagram offrono statistiche, annunci pubblicitari a pagamento e strumenti per il monitoraggio delle conversioni, molti franchisor hanno compreso quanto i social network possano risultare importanti ed efficaci per la costruzione ed il rafforzamento del marchio aziendale, generare lead ed attrarre potenziali affiliati come strumento di reclutamento.

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Grafico 3 - I social network più efficaci nell’ambito del franchising

Fonte 9 - Franchise Marketing Report 2015, FranConnect

Secondo il Franchise Marketing Report 2015, Facebook è classificabile come il più efficace social network nell’ambito del franchising, soprattutto dal punto di vista del franchisor. Infatti, Nick Powills, Chief Brand Strategist presso No Limit Agency, ha dichiarato che Facebook works in so many ways, not just in building awareness, but in its ability to drive interested parties back to the corporate franchise information sites.

Ogni franchisor, comunque, dovrebbe utilizzare uno o più social network in base agli scopi che vuole raggiungere e, per ognuno di essi, specificare gli obiettivi. LinkedIn, ad esempio, è un’ottima piattaforma professionale che offre al franchisor una vasta gamma di prospettive qualificate tra cui la ricerca di potenziali affiliati.

70,80% 2,10% 6,30% 4,20% 4,20% 2,10% 4,20% 2,10% 2,10%

Facebook Twitter LinkedIn Google + Instagram YouTube None Don't Know Other

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Grafico 4 - Principali utilizzi dei social media da parte delle catene in franchising

Fonte 10 - Franchise Marketing Report 2015, FranConnect

Inoltre, sempre secondo i dati riportati nel Franchise Marketing Report 2015, il branding e la gestione della reputazione rappresentano le ragioni primarie per cui i franchisor utilizzano i social network; queste sono seguite, poi, dalla creazione di un sense of community e dal guadagno di attività ulteriori.

Tra le motivazioni non appare, invece, il fatto che i franchisor utilizzano i nuovi mezzi di comunicazione per ottenere feedback da parte dei clienti. Al giorno d’oggi le aziende hanno la necessità sia di monitorare in modo proattivo tutto ciò che accade nella rete che rispondere alle richieste degli utenti sui social network. Infatti, uno studio condotto da ClickSoftware indica che 3 clienti su 4 raccomandano concretamente un marchio dopo aver ricevuto un servizio di assistenza clienti positivo. I clienti desiderano essere ascoltati: un servizio di assistenza al cliente ben gestito e tempestivo, a prescindere da quanto sia efficace la risoluzione del problema, rende gli utenti più felici. Per questo, i franchisor dovrebbero sfruttare il potere dei social media, ascoltare accuratamente i propri clienti e comunicare con

27% 23% 44% 6% To create a sense of community To win additional business Branding and reputation management Other

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Grafico 5 - Quanto frequentemente le catene di franchising comunicano con i propri clienti

Fonte 11 - Franchise Marketing Report 2015, FranConnect

Infatti, il 40,4% di coloro che hanno partecipato allo studio condotto da FranConnect afferma di parlare con i propri clienti quotidianamente.

Tuttavia, va sottolineato come per le reti di franchising l’utilizzo efficace dei social network sia ancora più impegnativo dal momento che anche un piccolo errore commesso su questi ultimi potrebbe profondamente danneggiare la reputazione ed il successo sia del franchisor che, soprattutto, dei franchisee.

Le scelte di business che il franchisor intraprende portano, comunque, sempre più l’impresa affiliante a mantenere e rafforzare le comunicazioni con i vari stakeholder quali i clienti attuali e potenziali, i dipendenti, i fornitori e gli investitori; in particolare, il franchisor necessita di comunicare con i potenziali affiliati che costituiscono un fattore chiave per la crescita del sistema di franchising.

Inoltre, nel momento in cui il franchisor investe nella creazione della propria presenza attiva sui social media quali Facebook, Linkedin o Instagram, ogni punto vendita, che sia diretto o in franchising, ne trae beneficio.

40% 26% 28% 2% 4% Giornalmente Settimanalmente Mensilmente Trimestralmente Mai

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Secondo degli studi condotti da Perrigot e Kacker nel 2012 e nel 2016, i franchisor presenti sui maggiori social network ricevono da parte dei propri franchisee royalty mensili più elevate rispetto ai franchisor che sono assenti. Infatti, un franchisor sarà incentivato o meno ad entrare a far parte dei social network in base a quanto può recuperare dai guadagni che ottiene grazie all’utilizzo della Rete in modo professionale.

Secondo Goldstein (2010), inoltre, Facebook, Twitter and LinkedIn are perfect platforms to promote upcoming franchise events and talk about company-related news. In altre parole, l’uso di tali piattaforme è fondamentale anche per promuovere eventi, notizie e promozioni aziendali relativi al franchising. Infatti, uno dei maggiori vantaggi che derivano dalla creazione di una fan page aziendale su Facebook o di un account business su LinkedIn riguarda la possibilità di poter pubblicare foto o video relativi ad un evento in corso; soprattutto nel caso del franchising, è importante, ad esempio, scattare foto durante la partecipazione a fiere del settore e contemporaneamente pubblicarle sulla propria pagina: questo, da un lato, permetterà agli utenti che seguono la pagina di conoscere il luogo in cui poter incontrare l’azienda in quel preciso momento e, dall’altro, di presentare l’azienda a potenziali franchisee.

L’uso di questi nuovi mezzi di comunicazione permette, quindi, al franchisor ed al sistema di franchising più in generale di interagire con i propri clienti, siano essi attuali o potenziali, e ricordare loro sia gli eventi in corso che quelli futuri, le fiere del franchising e come raggiungere queste ultime. A tale riguardo, appunto, Facebook e Linkedin consentono di inviare informazioni costantemente.

Inoltre, coloro che gestiscono un’attività in franchising possono avvalersi di una funzionalità messa a disposizione da Facebook: Facebook Locations. Questo strumento permette di raggruppare sotto la pagina centrale del brand le diverse pagine luogo che corrispondono ai punti vendita della catena in franchising distribuiti sul territorio. In termini di valore aggiunto, questa funzionalità permette sia di aumentare la credibilità del marchio che di visualizzare i punti vendita più

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Secondo l’Osservatorio Social Media su vincosblog.it, blog su tecnologie, social media, marketing e relazioni pubbliche a cura di Vincenzo Cosenza, strategist presso BlogMeter, Facebook, Instagram e LinkedIn si collocano tra le prime posizioni riguardo ai social media più utilizzati dagli italiani; in particolare, Facebook conta 30.000.000 utenti mensili in Italia, Instagram 14.000.000 e, infine, LinkedIn 8.000.000. Secondo queste statistiche, quindi, per i franchisor che mirano ad espandere la propria rete ed i propri orizzonti, questo bacino di utenza può rappresentare un grandissimo pubblico a cui rivolgersi.

Si può, pertanto, affermare che gli attori del sistema di franchising sono incoraggiati ad utilizzare i social media per costruire e rafforzare il proprio marchio, relazionarsi con i clienti e possibilmente espandere l’attività aziendale. Tale presenza agevola e migliora un dialogo bidirezionale tra azienda e clienti in generale.

Quindi, si ritiene che una gestione efficace della presenza online da parte dell’impresa franchisor costituisca una componente fondamentale della strategia di sviluppo del proprio franchising. Infatti, come afferma Alisa Harrison, vicepresidente, comunicazione e marketing presso l’Associazione Internazionale di Franchising, social media platforms are quickly becoming an important part of franchise companies’ marketing strategies.

In merito a ciò, anche Gini Dietrich, CEO di Arment Dietrich, società statunitense di comunicazione specializzata in servizi di franchising, sottolinea quanto sia importante entrare attivamente a far parte dei social network per le catene in franchising; Dietrich, infatti, dichiara che if you are not monitoring real-time conversations, if you are not participating in the conversations, you will not have a business in a few years. Social media is not a trend. It is the way we are going to communicate into the future.

2.3 Il processo di pianificazione strategica dei social media

Tendenzialmente, le aziende non approdano direttamente su un piano di strategico di social media ma seguono un passaggio a livelli:

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c’è una fase iniziale di prova in cui le aziende provano ad utilizzare questi strumenti senza aver definito ex ante un piano strategico; poi vi è una fase di transizione in cui le aziende fanno delle valutazioni grazie alle quali riescono a capire quali canali è meglio utilizzare, cercano di finalizzare ulteriormente almeno gli obiettivi che desiderano raggiungere grazie ai social e stabiliscono le metriche che utilizzeranno per misurare i risultati; infine, si passa alla fase strategica in cui le aziende hanno chiaramente definito il piano strategico che hanno intenzione di realizzare, dalla definizione degli obiettivi fino alla misurazione dei risultati.

Perciò, nel momento in cui le aziende decidono di essere presenti sui social media devono, innanzitutto, definire la strategia che si impegneranno ad adottare su di essi. Per riuscire in questo, devono per prima cosa rispondere alle famose 5W (Who, What, When, Where e Why) alle quali si aggiunge How ovvero il come.

Essenzialmente, si parte dal Perché e in questo momento le aziende devono chiedersi perché vogliono essere presenti sui social media; a questa domanda, poi, ne segue un’altra ovvero le aziende si domandano quale sia l’obiettivo finale di tutte le attività di marketing digitale. La risposta a questo quesito è sicuramente contribuire al raggiungimento degli obiettivi di business in quanto tali obiettivi vanno a permeare l’intera struttura e l’intera strategia aziendale; da questi derivano, poi, gli obiettivi per il marketing digitale che l’azienda desidera raggiungere; i principali sono:

• Promozione e branding

• Gestione della relazione con la clientela e service recovery

• Ricerche di marketing, dal momento che gli utenti presenti sui social media, grazie alla loro attività, rappresentano il più grande e spontaneo focus group al mondo. A tale riguardo, difatti, Rick Bendel, Global Chief Marketing Officer presso Wallmart, ha detto che social media is a free, massive focus group, taking place in real time. And it is taking place with or without your permission.

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Una volta definiti gli obiettivi, si passa alla strategia di digital marketing dalla quale deriva un piano operativo che è, a tutti gli effetti, un vero e proprio calendario editoriale; in ultimo, si giunge a pubblicare il post sul social network che, quindi, non è qualcosa che viene diffuso senza delle precise ragioni ma, anzi, è l’ultimo passo che deriva dagli obiettivi di business. Da precisare, per di più, che gli obiettivi in questione devono essere SMART cosiddetti specifici, misurabili, realistici, raggiungibili e con un tempo definito.

Quindi, una volta definito il perché, si passa alla definizione del Chi ovvero chi sono i consumatori dell’azienda e chi è il target che quest’ultima vuole colpire. A questo segue il Quando cioè la definizione specifica del tempo necessario. Poi il Dove ovvero dove l’azienda vuole arrivare con l’uso dei social media. Segue il Cosa che sono le piattaforme sulle quali l’azienda vuole attivare le comunicazioni. Infine, occorre rispondere al Come ovvero cosa serve all’azienda, in termini pratici, per realizzare tutto quello che è stato definito ex ante.

Quindi, per quanto possa sembrare più semplice seguire i propri istinti, la pianificazione strategica sui social media assume notevole importanza in quanto aiuta l’impresa a definire gli obiettivi da raggiungere, le strategie, le tattiche e le azioni necessarie, a misurarne l’efficienza e l’efficacia. Oggi, infatti, le imprese stanno sempre di più destinando risorse ai social media nell’ambito dei propri piani di marketing.

Una volta che le imprese hanno superato la fase iniziale di prova e la fase di transizione, esse approdano, per ultimo, alla fase strategica nella quale viene definita la pianificazione strategica sui social media, fondamentale per programmare le attività di social media marketing con obiettivi e metriche chiari. Il primissimo punto del processo di definizione del piano di social media marketing riguarda l’analisi del contesto competitivo e la definizione delle opportunità principali. Questa fase è molto importante in quanto serve a realizzare un’analisi del settore e dei concorrenti, facendo perciò un’analisi della domanda ed anche del comportamento del consumatore; viene, quindi, effettuata da parte dell’impresa una panoramica a 360°. Uno strumento utile che può venire in aiuto è la Swot Analysis

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