• Non ci sono risultati.

La morte dell'arte, da Hegel all'arte popolare

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La morte dell'arte, da Hegel all'arte popolare"

Copied!
123
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

Corso di Laurea in Filosofia e Forme del Sapere

Tesi di Laurea Magistrale

In

FILOSOFIA DELL’ARTE

La morte dell’arte

Da Hegel all’arte popolare

Relatore:

Prof. Alberto L. Siani

Candidato:

Ilaria Lunardini

(2)

Creare è vivere due volte.

(3)

INDICE

INTRODUZIONE ... 4

Parte I – L’estetica di Hegel e la fine dell’arte ... 9

1. L’arte in Hegel: Fenomenologia ed Enciclopedia ... 9

2. Le Lezioni di estetica ... 12

3. L’arte simbolica: squilibrio e smisuratezza ... 18

4. L’arte classica: bellezza e ideale ... 20

5. L’arte romantica: la libertà dello spirito ... 23

6. Le forme dell’arte romantica ... 25

7. Il carattere passato dell’arte ... 31

8. Arte ideale e arte libera ... 32

9. Conclusioni ... 38

Parte II – L’interpretazione di Arthur Danto ... 41

1. Il mondo dell’arte ... 41

2. La destituzione filosofica dell’arte ... 43

3. La fine dell’arte ... 46

4. Dopo la fine dell’arte ... 51

5. Arte e filosofia ... 55

6. Che cos’è l’arte ... 59

7. Significati incorporati e condivisi... 62

Parte III – Estetica pragmatista e arte popolare ... 66

1. Estetica pragmatista: Dewey e Shusterman ... 66

2. Dewey: esperienza, natura e arte ... 68

3. Arte come esperienza ... 74

4. L’arte e la società umana ... 80

5. Dewey’s Hegel... 85

6. Shusterman e l’estetica pragmatista ... 88

7. Arte e bellezza ... 91

8. L’estetica dell’arte popolare ... 94

9. La cultura di strada: il movimento hip hop ... 100

10. Banksy e l’arte dei graffiti ... 104

11. Il ruolo dell’arte: confronto con Croce e Gramsci ... 107

CONCLUSIONI ... 115

BIBLIOGRAFIA ... 118

(4)

INTRODUZIONE

La libertà non consiste nella qualità della scelta: la libertà è una condizione dello spirito. Per esempio, si può essere socialmente, politicamente, completamente "liberi" e non di meno morire per la sensazione di precarietà, di oppressione, di mancanza di futuro. Per ciò che concerne la libertà della creazione, di questo non si può assolutamente discutere. Senza di essa non può esistere una sola arte. L'assenza della libertà deprezza automaticamente l'opera d'arte, poiché questa assenza impedisce a chi viene per ultimo di rivelarsi nella forma migliore. L'assenza di questa libertà porta a che l'opera d'arte, nonostante la sua esistenza fisica, non esista di fatto. Nella creazione dobbiamo vedere non soltanto la creazione.

(Andrej Arsen'evič Tarkovskij, regista)

La tesi hegeliana del carattere passato dell’arte, conosciuta come morte dell’arte, è tra i temi più discussi nell’ambito della filosofia dell’arte ed è stata oggetto di svariate interpretazioni, nonché fraintendimenti e controversie. Il presente elaborato affronta la fine dell’arte nell’estetica di Hegel e attraverso le interpretazioni di alcuni autori che si sono confrontati con le manifestazioni artistiche del XX secolo, con l’obiettivo di ridefinire il ruolo dell’arte nella società. Il punto di partenza è appunto l’estetica di Hegel, per passare poi all’interpretazione della fine dell’arte da parte del critico d’arte e filosofo Arthur Danto e infine alla prospettiva dell’estetica pragmatista con John Dewey e Richard Shusterman, comprendendo il tema dell’arte popolare e concludendo con un breve confronto con il pensiero di Benedetto Croce e Antonio Gramsci. Nella prima parte dell’elaborato viene affrontata la morte dell’arte partendo dalla collocazione dell’arte all’interno del sistema hegeliano, accennando alla

Fenomenologia dello spirito e all’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio

per poi analizzare il testo delle Lezioni di estetica (secondo l’edizione di H. G. Hotho). La dialettica dello spirito hegeliana si conclude con lo spirito assoluto, che vede la riconciliazione di soggettività e oggettività nelle forme culturali con cui l’individuo dà un senso al mondo in cui si trova e agisce. La prima forma dello spirito assoluto, quella più primitiva e meno sofisticata, è proprio l’arte, in quanto rappresentazione sensibile di un contenuto spirituale. All’interno dell’arte si ha un’ulteriore tripartizione in arte simbolica, classica e romantica: verrà affrontato con particolare attenzione il passaggio dal periodo classico a quello romantico, dove vediamo l’arte acquistare la libertà di esprimere qualsiasi contenuto in maniera legittima, non essendo più legata all’espressione di una verità assoluta, ma all’interiorità dell’individuo. Nell’ultimo

(5)

stadio dell’arte romantica la produzione artistica è libera e la materia diviene indifferente, esteriore, a quella che era l’unità con lo spirito. Da qui lo spirito prenderà coscienza superando l’arte, poi la religione, per arrivare alla filosofia, trovando finalmente l’espressione adeguata. La morte dell’arte non avviene certo in senso letterale: essa assume carattere passato, in quanto viene a mancare la compenetrazione ideale di forma e contenuto che la rendeva espressione adeguata dello spirito. L’arbitrarietà della produzione artistica fa perdere all’arte il ruolo rilevante che rivestiva in epoca classica, ma ad essa rimane la peculiarità di esprimere sensibilmente ciò che dalla filosofia viene espresso concettualmente e la libertà del contenuto apre la strada verso possibilità indeterminate e svincolate da un compito supremo che ne predeterminava il contenuto. Quali sono le conseguenze di un’arte libera? Se essa non esprime più i valori condivisi di una comunità etica, si riduce ad espressione soggettiva fine a se stessa, oppure possiamo ancora definire un suo ruolo fondamentale nella società?

La seconda parte dell’elaborato cerca una risposta a queste domande nell’interpretazione di Arthur Danto e nella sua ricerca di una definizione dell’arte, attraverso un confronto diretto con alcune opere d’arte del XX secolo. L’esito frammentario dell’arte nell’estetica hegeliana sembra rispecchiare proprio il pluralismo che caratterizza l’arte contemporanea, non solo dal punto di vista dei movimenti artistici, ma anche delle nuove forme d’arte. La fine dell’arte in Danto trova un luogo e un tempo nella New York degli anni ’70 ed ha a che fare fondamentalmente con la fine di un paradigma interpretativo della storia dell’arte e con l’inizio di un nuovo modo di produrre arte: si tratta della dissoluzione del modello del progresso rappresentativo, che si basava sulla capacità dell’arte di imitare la realtà. Emblema di ciò è l’opera Brillo Box di Andy Warhol (1964), la cui differenza con la realtà non è una differenza di grado d’imitazione, ma qualcosa che esige un’ulteriore spiegazione. In questo senso, la morte dell’arte avviene tra le braccia della filosofia, ovvero giungendo alla riflessione su se stessa. Si ha uno scenario pluralista, se non addirittura relativista, dove le opere d’arte sono incommensurabili le une alle altre. La conclusione di Danto sembra destituire davvero l’arte dal suo ruolo: la domanda sull’arte non ha più bisogno dell’arte per avere una risposta, ma della filosofia. L’arte è quindi alla fine in quanto è ormai venuta a conoscenza della propria natura, all’interno di un contesto dove regna l’imperativo del fa ciò che vuoi, dove il pericolo è quello di un’arte degradata a mero oggetto di divertimento. Danto però non arriva ad una conclusione così infelice: la sua riflessione continua con la ricerca di una definizione dell’arte che

(6)

renda conto della sua essenza come qualcosa di universale, che si è mantenuta tale dall’antichità fino a quell’arte contemporanea che altri cercano di delegittimare. Questo anche perché, come egli fa notare, il fatto che qualsiasi cosa possa essere un’opera d’arte, non significa che essa lo sia; c’è sempre bisogno di un criterio di distinzione degli oggetti d’arte. Inoltre, se da un lato la riflessione filosofica sembra rendere il soggetto distante dall’opera, dall’altro ha il potenziale di renderlo maggiormente consapevole di ciò che nell’opera viene espresso e del contesto in cui è stata creata, elemento fondamentale nell’interpretazione artistica; di qui l’importanza crescente di una filosofia dell’arte. Nel suo ultimo libro, What art is (2013), egli propone la definizione di embodied meanings, traducibile come significati incorporati, non lontana da quella di Hegel di spirituale sensibilizzato, che fa emergere l’unione indissolubile di aspetto sensibile e contenuto immateriale (nel senso di pensieri e/o emozioni, ecc.), caratteristica fondamentale dell’arte e che, come verrà fatto notare più avanti, la rende una forma culturale importante per la società. Questa definizione è affiancata da quella di wakeful dreams, cioè sogni ad occhi aperti, che ne segnala la possibilità di condivisione con gli altri. La comunicabilità dell’arte è un aspetto cruciale, strettamente collegato al precedente, che la rende un potenziale ponte di collegamento tra culture diverse, o di riconoscimenti degli individui all’interno di una comunità. In generale, entrambe le definizioni mettono in luce ciò che rende l’arte un potente mezzo educativo, come si vedrà con Dewey e infine con Gramsci. Tuttavia, i quesiti prima posti non trovano una soluzione completa nel pensiero di Danto: manca ancora una definizione del ruolo dell’arte nella società.

Quella affrontata nella terza e ultima parte dell’elaborato non è però una filosofia incline a dare definizioni essenzialiste: il pragmatismo di Dewey e poi quello di Shusterman trattano l’arte rapportandola a quella che è l’esperienza umana, con il fine di migliorare quest’ultima. Il pensiero di Dewey sull’arte inizia nel più ampio contesto di Esperienza e natura (1925, II ed. 1929), dove vi dedicò un capitolo a riguardo,

Esperienza, natura e arte (che verrà affrontato assieme ad un suo intervento dallo

stesso titolo nel Journal of the Barnes Foundation). L’arte viene ad essere la compiuta incorporazione dei processi naturali dell’esperienza (che è appunto legata alla natura), in quanto concreta unione di materiale e ideale, derivante dalla trasformazione cosciente delle energie della natura da parte dell’uomo. Ciò trova uno sviluppo definitivo in Arte come esperienza (1934), in cui Dewey vuole appunto ristabilire la continuità tra esperienza artistica ed esperienza quotidiana, la cui separazione è un ostacolo alla filosofia dell’arte. Parte quindi dall’analisi dell’esperienza secondo una

(7)

prospettiva naturalistica, arrivando fino alla nozione estetica di consummation, cioè

perfezionamento dell’esperienza. Nozione che include l’aspetto strumentale dell’arte,

che per Dewey si realizza specialmente nella sua funzione educativa, in quanto potente mezzo di formazione di nuovi modi di percezione, che va a migliorare l’esistenza in generale. L’obiettivo di miglioramento dell’esperienza è lo stesso di Shusterman: la sua estetica pragmatista riprende espressamente quella di Dewey, andando a concentrarsi sulle manifestazioni artistiche della contemporaneità, fino a citare il funk, il rock e il rap. Lo scopo dell’estetica di Shusterman è quello di abbattere la divisione tra arte di tipo elevato come vera arte e arte popolare come futile intrattenimento, dando una legittimazione estetica a quest’ultima e difendendola dalle critiche più influenti. È chiara l’opposizione a quelle estetiche che egli considera elitarie, che fanno del disinteresse la virtù particolare dell’arte: nell’estetica pragmatista troviamo una possibilità di riscatto dell’arte da quella sarebbe una conseguenza negativa dopo la sua

morte, ovvero il poter rispondere solamente all’ideale de l’arte per l’arte. Il tema

dell’arte popolare trova esempi concreti nella cultura di strada dell’hip hop e nell’arte dei graffiti, con un riferimento particolare a Banksy, noto artista senza volto dell’arte contemporanea; entrambe forme d’arte nate al di fuori di quella che è l’arte istituzionalmente riconosciuta, per così dire museale. Con la cultura hip hop si ha la nascita di una rivoluzione culturale in risposta ad una situazione di estremo disagio sociale; di essa fa parte il writing, l’arte dei graffiti, che ha la caratteristica (non sempre, ma spesso e comunque ciò fa parte della sua origine) di voler mandare un messaggio sociale o politico sotto gli occhi di tutti. Il confronto con questi movimenti artistici vuole principalmente mostrare lo stretto legame dell’arte con il contesto sociale da cui emerge e la sua capacità di influire su di esso.

Ultimo e breve confronto è quello tra l’estetica formalista di Benedetto Croce, in aperta polemica con Dewey, e la riflessione di Antonio Gramsci, di portata decisamente più politica, che si ricollega al tema dell’arte popolare affrontato con Shusterman e alla funzione educativa dell’arte, presente anche in Dewey. Con Croce viene messo in risalto l’elemento puro dell’arte, considerando l’atto estetico come compiuto a livello mentale e la sua parte materiale come appartenente alla sfera pratica, rendendo il primo immune da qualsiasi contatto con considerazioni che non siano di natura prettamente estetica. Mentre in Gramsci l’arte viene affrontata nella prospettiva della rivoluzione passiva, partendo quindi da un intento politico-sociale, facendo comunque attenzione a non attribuirle scopi propagandistici. L’inserimento di questi due autori vuole fare da sintesi comparativa rispetto a due modi di concepire l’arte che abbiamo visto essere

(8)

in contrasto: uno riguarda l’arte come avente fine in se stessa, che può essere concepita come rappresentante di ideali immutabili, oppure come un’evasione da una realtà non sempre piacevole, o più negativamente come un futile intrattenimento, che può arrivare ad essere addirittura un’arma di distrazione delle masse, come affermano alcuni autori messi in discussione da Shusterman. L’altro modo di concepire l’arte è invece quello che rientra facilmente nel paradigma migliorista dell’estetica di stampo pragmatista, cioè l’arte come un’attività che ha sì una sua autonomia, ma che ha anche un importante carattere strumentale in quanto potente mezzo formativo, che fa di essa un elemento fondamentale della cultura di una civiltà, a patto che ciò non avvenga in maniera forzata e didascalica. Dunque, sia la definizione di Danto che la connessione con l’esperienza e la definizione di un ruolo dell’arte nella società tramite l’estetica pragmatista sono determinanti, per quanto le due correnti filosofiche non vadano molto d’accordo. La prima serve a mantenere, per così dire, il valore dell’oggetto d’arte in sé, che comunque non prescinde dal suo contesto; lo sviluppo da parte dell’estetica pragmatista serve a collocare questa dignità dell’arte in una società pluralista e caratterizzata dalla libertà dell’individuo, che non è più quella della Grecia classica trattata da Hegel, in cui peraltro non sarebbe realizzabile un’arte davvero libera. Riprendendo il filo conduttore della tesi: la morte dell’arte libera l’artista dal dover rappresentare un contenuto assoluto, ma ciò non significa che essa debba necessariamente essere prodotta sotto il motto de l’arte per l’arte, andando a costituire esclusivamente un ornamento alla vita fine a se stesso. La tesi hegeliana non ha a che fare prettamente con l’arte separata dal suo contesto, tutt’altro: ha a che fare con la società e la condizione del soggetto in essa. In generale, in questo elaborato si vuole mostrare che la domanda riguardante l’arte non si deve fermare alla ricerca di una definizione o di un’essenza dell’arte, ma può arrivare fino alla dimensione sociale in cui l’arte è inevitabilmente inserita e che non può perciò essere ignorata.

(9)

Parte I

L’estetica di Hegel e la fine dell’arte

Es nehmet aber

Und gibt Gedächtnis die See,

Und die Lieb auch heftet fleißig die Augen, Was bleibet aber, stiften die Dichter1.

1. L’arte in Hegel: Fenomenologia ed Enciclopedia

Troviamo una prima trattazione dell’arte da parte di Hegel nella Fenomenologia dello

spirito2 (1807), in quella che egli chiama religione artistica, ovvero il secondo momento dello stadio della Religione. Qui lo spirito è in sé: la coscienza si riconosce nelle istituzioni culturali della comunità. La religione è il modo in cui lo spirito si relaziona con l’Assoluto (col divino) e ciò si manifesta in tre figure: religione naturale (riconoscimento del divino in elementi naturali, ad esempio il sole), religione artistica (il divino è rappresentato nelle opere d’arte) e religione rivelata (il Cristianesimo). La religione artistica è la forma religiosa del popolo greco: nella polis greca l’individuo è libero in quanto in grado di identificarsi con l’universale, cioè come cittadino della

polis in cui riconosce valori appartenenti non solo all’individuo, ma alla società intera.

Si ha qui lo spirito etico, «la sostanza universale di tutti i singoli», che quest’ultimi identificano come «la loro propria essenza e la loro propria opera»3, dunque non avviene un riconoscimento dell’individuo come singolarità libera. Di conseguenza, l’opera d’arte è da intendersi non tanto come produzione di un soggetto, ma come la realizzazione di qualcosa che è patrimonio comune attraverso un tramite tecnico (l’artista). La prima forma d’arte in cui è suddivisa la religione artistica è la forma d’arte astratta: una forma immediata, nel senso di realizzantesi direttamente nella figura esteriore. L’immagine del divino è dapprima racchiusa nel tempio, per poi prendere forma umana nella statua, che mostra sempre una natura fortemente materiale, per poi passare alla dimensione più manifesta e sentimentale dell’inno e infine del culto, dove attraverso il sacrificio l’uomo si sente più vicino al dio. In queste ultime

1 Il mare dona e toglie il ricordo/l'amore fissa i suoi occhi fedeli/Ma ciò che resta, lo fondano i poeti.

(Friedrich Hölderlin, Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano, 1977, traduzione leggermente modificata).

2 Farò riferimento a G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. II, tr. it. a cura di E. De Negri, La

nuova Italia, Firenze, 1973 e a G. Garelli, L’estetica nella Fenomenologia dello spirito, in M. Farina – A.L. Siani, L’estetica di Hegel, Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 49 e seguenti.

(10)

due forme la distanza tra artista e opera è ancora meno evidente, poiché il pubblico esprime in esse la propria devozione in maniera più coinvolgente e diretta. Il linguaggio viene qui ad essere un elemento superiore, poiché non ha bisogno del supporto materiale allo stesso modo di architettura o scultura. La seconda forma di espressione artistica è l’opera d’arte vivente, cioè che si realizza nell’umano: in particolare, nel corpo dell’atleta che partecipa ai giochi olimpici, simbolo di bellezza e vigore. Ad esso si contrappone la furia bacchica, con uno squilibrio che viene compensato nuovamente dal linguaggio, in questo caso attraverso l’oracolo. Arriviamo poi alla terza forma, quella dell’opera d’arte spirituale, che si realizza prima con l’epos e poi con la tragedia e la commedia. L’epica è trasmessa dall’aedo, la cui importanza ancora una volta non è quella di soggetto singolo, ma di rappresentante del popolo, che racconta il suo mondo attraverso le gesta degli eroi e degli dèi. Nella tragedia gli eroi entrano in scena in prima persona, mentre il coro, rappresentante della saggezza popolare, assiste impotente al compiersi del fato. Infine, con la commedia, lo scenario diventa quello dell’uomo comune nella sua quotidianità, mentre lo spirito procede alla ricerca di un modo di espressione più elevato. Il passaggio alla religione rivelata avviene così quando non vi è più la possibilità di alcuna manifestazione sensibile adeguata; l’esteriorità viene superata e lo spirito si rivela attraverso una narrazione sacra.

L’aspetto sistematico dell’estetica hegeliana emerge nell’Enciclopedia delle scienze

filosofiche in compendio4 (uscita in tre edizioni: 1817, 1827 e 1830), dove Hegel

presenta appunto la totalità del suo sistema, suddiviso in questo modo: Scienza della logica, Filosofia della natura e Filosofia dello spirito. Quest’ultima si svolge nei tre momenti dello spirito, che, è bene precisare, non è una figura mistica, ma è lo spirito pensante del mondo e in quanto tale «ferreamente razionale»5. I tre momenti sono:

1. Spirito soggettivo, cioè le manifestazioni proprie della soggettività, considerate astrattamente nell’individuo, prescindendo dal suo legame con la società e le istituzioni in cui è comunque inserito (trattazione di antropologia, fenomenologia e psicologia).

2. Spirito oggettivo, ovvero le forme che rappresentano l’oggettivazione dello spirito nel mondo, quindi la sfera dell’azione umana (diritto astratto, moralità ed eticità).

4 Farò riferimento alla traduzione italiana della parte relativa all’arte presente in A.L. Siani, L’arte

nell’Enciclopedia, ETS, Pisa, 2009.

(11)

3. Spirito assoluto, cioè le forme culturali in cui il soggetto e l’oggetto sono riconciliati, in cui il primo si riconosce nel secondo. Lo spirito rende ora conto solo alla sua eternità e assolutezza, ma senza che vi sia un distacco dal mondo. Si hanno qui le forme culturali, la prassi con cui il soggetto esprime il senso del mondo in cui si trova e agisce.

È appunto nella tripartizione dello spirito assoluto che troviamo l’arte: essa è la sua prima forma espressiva, quella più primitiva, che successivamente passa il testimone alla religione ed infine alla filosofia. L’arte è a sua volta suddivisa in: arte simbolica, arte classica e arte romantica. Mentre nella Fenomenologia l’arte veniva trattata all’interno della religione, adesso le viene riconosciuta autonomia, soprattutto per quel che riguarda certe forme d’arte che non possono essere definite come esclusivamente religiose. L’arte classica in particolare è quella della Grecia antica: in linea con la connotazione grecofila del pensiero del suo tempo, per Hegel la polis greca è la civiltà dove si realizza il bello ideale, ovvero la perfetta rappresentazione della bellezza, nel senso che al suo interno arte, culto religioso e stato formano un’unità senza contraddizioni. Lo spirito di quest’arte bella è lo spirito del popolo, l’artista che la produce è «maestro del dio»6, non conta la sua soggettività, ma l’opera in quanto espressione del dio non contaminata da particolarità soggettiva. L’artista nell’antica Grecia, come vedremo meglio più avanti, non si configura affatto come l’artista genio tipico del romanticismo, libero creatore, ma è un tramite per esprimere sensibilmente i valori spirituali di un popolo e della sua cultura, popolata da miti e credenze religiose. Questa perfetta conciliazione non è invece presente nelle altre due forme, cioè l’arte simbolica, precedente alla classica, dove il pensiero è in un rapporto negativo con la figura, come se la oltrepassasse; e l’arte romantica, dove il divino trova rappresentazione nell’elemento interiore, spirituale, dove quindi l’esteriorità viene ad essere qualcosa di accidentale rispetto al proprio significato.

È chiaro che nel momento centrale, quello dell’arte classica, si ha una conciliazione tra arte e religione, che rimanda appunto alla religione artistica della Fenomenologia. Negli altri momenti, non tanto quello simbolico quanto quello romantico, l’arte ha una certa autonomia, non perché non abbia alcun dialogo con la religione, ma perché il suo ruolo non è definito in funzione di essa. Il passaggio dall’arte alla religione rivelata, come similmente osservato nella Fenomenologia, avviene per la necessità dello spirito

(12)

di esprimersi non più attraverso l’esteriorità sensibile, ma attraverso la forma mediata del pensiero, che troverà definitiva adeguatezza nella filosofia.

2. Le Lezioni di estetica

Prima di iniziare a parlare dell’estetica hegeliana, è doveroso chiarire che Hegel non ha mai scritto una Estetica vera e propria. Il volume Lezioni di estetica, come lo conosciamo, non è un’opera pubblicata da Hegel e tanto meno un compendio da lui redatto, ma una rielaborazione degli appunti presi da diversi uditori durante le sue lezioni berlinesi (1818-1829), a cura di un suo studente, Heinrich Gustav Hotho. Il testo si apre chiarendo subito l’oggetto della trattazione: «Il regno del bello», ovvero «il campo dell’arte»7. Hegel discute quindi le rappresentazioni usuali dell’arte, che

derivano dal suo aspetto più rilevante e problematico: l’arte, in quanto materialità, apparenza, non è degna di essere considerata oggetto di trattazione scientifica. L’apparenza però, afferma Hegel, deve apparire, se non vuole rimanere una vuota astrazione: l’arte ha la sua peculiarità proprio nel fatto che si esprime a livello sensibile, ma questo non la rende una mera illusione. Qui Hegel si oppone alla definizione platonica dell’arte come copia della copia, in relazione all’apparire del mondo sensibile (già di per sé svalutato in quanto copia del mondo delle idee). Certo essa si distingue per il modo peculiare di esprimere la verità, ma vi è sicuramente più vicina di ciò che solitamente facciamo valere come realtà, fermo restando che la vera realtà è ciò che va oltre l’immediatezza del sentire. La verità è frutto di un processo che parte dall’autocoscienza che lo spirito ha di sé e questo fa parte del contenuto dell’arte, che resta tuttavia inferiore al puro pensiero, verso cui l’arte può solo far cenno. Abbiamo qui come una gerarchia che va dalla sensibilità immediata del mondo esterno al pensiero, dove l’arte è collocata in mezzo, in quanto rimando sensibile a qualcosa di più elevato. La conclusione di Hegel è che l’arte si distingue dagli altri modi di apparire della verità non attraverso l’apparenza stessa, ma per il modo in cui appare, che è assolutamente degno di considerazione scientifica (quindi, filosofica, in quanto la filosofia presenta l’interiore necessità dell’oggetto). A questo punto vi è una considerazione importante: l’arte considerata scientificamente (filosoficamente) è solo l’arte libera e non l’arte intesa come ornamento superficiale. L’arte libera ha la suprema determinazione di portare a coscienza «le supreme richieste dello spirito»8 ed

7 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, tr. it. di Paolo d’Angelo, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 3. 8 Ivi, p. 7.

(13)

è quindi prima di tutto indipendente da altri scopi effimeri, così come la religione e il pensiero. Non bisogna qui confondere lo scopo dell’arte con qualcosa di strettamente legato alla rappresentazione del divino in senso religioso, quello che Hegel intende è la rappresentazione dell’assoluto, dello spirito in quanto puro, ciò che di più alto il nostro pensiero può assumere come contenuto e che non sia determinato prettamente dalla materialità della natura né acquisito con coscienza diretta, ma rappresentato nelle forme culturali (arte, religione e filosofia). Dunque l’arte contiene in sé la verità, ma non è il più alto modo di esprimerla, in quanto la presenta in maniera sensibile. Questo, come vedremo meglio più avanti, è l’elemento in cui l’arte muore. Inoltre, sempre anticipando, già nell’introduzione alle Lezioni, si fa riferimento al rapporto meditativo che si ha con l’opera d’arte: noi ci rapportiamo all’arte giudicandola, riflettendoci, e da ciò nasce un interesse filosofico e il bisogno di una filosofia dell’arte.

A partire dall’immediata autoevidenza per cui al mondo vi sono opere d’arte, Hegel discute tre considerazioni. La prima è che il prodotto artistico non è un prodotto naturale, ma creato dall’uomo, da qui la seconda considerazione, cioè che è creato dall’uomo per l’uomo ed è quindi in rapporto con il senso. Infine, l’opera d’arte è qualcosa che ha uno scopo particolare.

Dalla prima considerazione, nascono due posizioni opposte ed estreme, che Hegel critica. Da un lato, si pensa che per creare un’opera d’arte servano delle regole artistiche precise, la conoscenza delle quali porterebbe chiunque a creare una determinata opera, come un’operazione meccanica. Ciò è inconcepibile, in quanto lo spirito «deve determinarsi a partire da se stesso»9, la sua non è un’attività vuota che segue meccanicamente dei precetti per costruire qualcosa di puramente esteriore, ma è un’attività libera. Dal lato opposto, si sostiene che l’opera d’arte sia frutto solamente di ispirazione e talento. Hegel, in disaccordo con entrambe le parti, ammette che sia necessario un certo grado di talento e disposizione dello spirito, ma afferma anche che ciò deve essere accompagnato da un’educazione, una conoscenza. Qualsiasi opera d’arte ha un lato tecnico, del quale l’artista deve avere una certa padronanza, ma oltre all’abilità, egli deve anche avere conoscenza delle profondità dello spirito, da cui trae la materia per la sua opera.

Altro punto di vista criticato da Hegel è quello per cui l’arte, in quanto creazione umana, sarebbe inferiore a ciò che è naturale, che è invece creazione divina. La risposta a ciò sta nel fatto che l’opera d’arte non è solamente qualcosa di materiale, ma a

(14)

renderla tale è proprio il fatto che in essa agisce lo spirito; su questo punto Hegel è chiaro:

L’opera d’arte non è opera d’arte per questo suo lato dell’esser-cosa, anzi essa è un’opera d’arte solo in quanto è qualcosa di spirituale, qualcosa che ha ricevuto il battesimo dello spirito, e presenta qualcosa di spirituale; ossia qualcosa che è stato formato in accordo con lo spirito. Il prodotto artistico dunque viene prodotto dallo spirito ed è per lo spirito, e ha già il vantaggio che mentre il prodotto naturale, quando è vivente, è transeunte, l’opera d’arte è qualcosa che rimane, che dura10.

Inoltre, il divino agisce nella creazione dell’opera e risiede in essa in maniera più elevata rispetto all’immediata esteriorità della natura, perché prodotto attraverso il tramite della coscienza.

La questione successiva riguarda il bisogno dell’uomo di creare arte. Perché l’uomo produce un’opera d’arte? Abbiamo già visto come l’arte sia un modo di venire a coscienza della verità e ciò avviene in maniera sensibile, cioè viene colto attraverso i sensi. A differenza delle cose naturali, che esistono senza averne la coscienza, l’uomo è un essere pensante e cosciente, che ha il bisogno di porre davanti a sé ciò che egli è. E non solo, l’uomo tende anche a modificare il mondo esterno lasciando così la sua impronta sulle cose, come spiega Hegel attraverso la metafora del fanciullo che lancia i sassi nell’acqua per ammirare i cerchi che si formano sulla superficie come conseguenza della sua azione. È da queste tendenze che nasce nell’uomo il bisogno di produrre opere d’arte, che sono quindi frutto della razionalità e non della libera fantasia o dell’illusione (tipici temi romantici).

Come si è potuto vedere fin qui, caratteristica ineliminabile dell’arte è il suo aspetto materiale, che essendo rivolto alla sfera sensibile, porta a considerazioni riguardanti il sentimento. Innanzitutto, per Hegel il sentimento è «l’oscura, indeterminata regione dello spirito», ciò che sentiamo è «oscuro, avviluppato, soggettivo»11, non ha quindi a

che fare con la verità, è qualcosa di soggettivo e indeterminato. L’arte ha invece una determinazione universale, un contenuto oggettivo a cui non si può arrivare certo attraverso un’analisi del sentimento. Anche nel caso in cui vi sia una ricerca del

sentimento del bello, quindi laddove si parla di gusto, vi è una visione sì meno

soggettiva, ma pur sempre superficiale; la stessa cosa vale per il punto di vista del conoscitore, che giudica l’aspetto tecnico e quello storico dell’opera. Entrambi questi ultimi due atteggiamenti sono utili a conoscere l’opera d’arte e a goderne e hanno

10 Ivi, p. 14. 11 Ivi, p. 17.

(15)

certamente a che fare col fatto che l’opera d’arte ha un lato materiale, sensibile, ma non tengono conto della profondità dell’opera.

L’esperienza di un’opera d’arte avviene indubbiamente attraverso la percezione dei sensi, ma ciò non significa che essa venga prodotta solo ed esclusivamente per i sensi: è invece creata per lo spirito, che trova soddisfazione attraverso il materiale sensibile che la compone. In relazione a questo Hegel analizza due modi di rapportarsi agli oggetti sensibili: il desiderio ci porta ad una presa di possesso verso gli oggetti, quindi ad un atto di consumo narcisistico di un singolo verso un singolo. Con le opere d’arte si ha invece un rapporto teoretico, che fa riferimento non al singolo ma ad una dimensione universale. Questo tipo di rapporto non consuma l’oggetto, ma si pone nei suoi confronti in modo libero, si interessa ad esso in quanto tale e non per distruggerlo. Ancora una volta Hegel ribadisce la posizione intermediaria dell’arte, cioè tra il meramente sensibile della natura e il pensiero, in quanto la sua è una materialità che rimanda a qualcosa di ideale, anche se non come nel puro pensiero.

L’arte dunque ha per materiale un sensibile spiritualizzato ovvero uno spirituale sensibilizzato. Il sensibile entra nell’arte come ideale (Ideell), come astrattamente sensibile12.

L’attività dell’artista viene quindi a configurarsi come un’attività spirituale contenente in sé il momento della sensibilità: l’artista crea un oggetto materiale che porta a manifestazione qualcosa di immateriale. È un’attività che si discosta sia da quella meccanica, che da quella scientifica o dal pensiero puramente astratto: quella artistica è un’azione in cui spirituale e sensibile sono inseparati. Perché ciò avvenga, è necessaria la fantasia: essa è la facoltà che rende possibile quest’unità di spirituale e sensibile. Per spiegarlo, Hegel ricorre alla metafora di un uomo che è a conoscenza di come ci si debba comportare, ma non è in grado di spiegarlo attraverso regole generali, ma solo attraverso casi particolari. Dunque abbiamo un contenuto universale, ma esperito attraverso una forma sensibile, particolare. Restando fermi all’aspetto materiale, possiamo assumere che un’opera d’arte non sia altro che imitazione della natura, ma questo per Hegel è limitante e non esaurisce affatto la determinazione suprema ed essenziale dell’arte.

La critica alla definizione di arte come imitazione della natura continua nella discussione della terza considerazione, che afferma che l’opera d’arte ha un suo scopo. Questo non ha a che fare con l’imprimere un ricordo fedele di una rappresentazione di qualcosa che è già presente nel mondo, perché se così fosse l’arte non sarebbe arte

(16)

libera. Questo scopo sarebbe uno scopo soggettivo, cioè quello di voler mostrare la propria maestria, al di là di qualsiasi riflessione. Il valore dell’arte deve invece consistere nel contenuto dell’opera, che è qualcosa di spirituale: lo scopo sembrerebbe quindi essere la rappresentazione di tutto ciò che fa parte dello spirito umano, «rendere intuibile ciò che si trova nello spirito umano in genere, […] ciò che agita il cuore dell’uomo nella sua profondità»13. In questo caso diviene però problematico affermare

che l’arte sussista in quanto rappresentazione di anche tutti i sentimenti più meschini e rozzi dell’uomo. Vediamo emergere in Hegel una concezione apparentemente moralistica dell’arte, egli afferma infatti che «l’arte deve tracciare un discrimine in vista di quel che vuole suscitare»14. Questo discrimine non consiste in una normatività a cui l’arte deve rifarsi per essere tale, ma in una tendenza insita in essa: l’arte non può presentare gli impulsi umani così come sono, in maniera diretta. Il diretto egoismo degli impulsi, che mira al loro soddisfacimento, comporta l’unità immediata dell’uomo col proprio desiderio egoistico, mentre l’arte ha uno scopo superiore in quanto è in grado di mediare quest’immediatezza, ponendola davanti all’uomo. Fa sì che l’uomo prenda coscienza di questa sua unità con la natura, ponendolo di fronte a ciò che egli è, così che possa contemplare i suoi impulsi giungendo alla libertà nei loro confronti. Hegel dà rappresentazione di questa funzione dell’arte attraverso l’immagine del pianto: le lacrime sono come la fuoriuscita del dolore che proviamo internamente. Infatti, aggiunge, anche le condoglianze sono un’usanza che serve ad esternare la sofferenza interiore in modo da porla di fronte a noi e riflettervi sopra. Ciò avviene in forma più alta nell’arte, che in quanto spiritualizzazione del sensibile rende oggettivo ciò che è interiore, infatti

Quando un uomo può comporre una poesia su una propria passione, vuol dire che quella passione non è più così pericolosa per lui15.

Da ciò emerge l’idea che l’arte sia la prima forma di educazione dei popoli. L’arte può infatti presentare dei contenuti educativi, ma dipende dal modo in cui ciò avviene: un’opera che presenta contenuti preesistenti in maniera astratta, senza dare peso all’immagine materiale, ha una finalità di tipo moralistico, non morale. L’opera d’arte è tale proprio in quanto è individuale e concreta nel suo contenuto, la sua materialità non deve fungere solo da accessorio a contenuti già presenti altrove. Lo scopo finale dell’opera d’arte è sempre quello di «rivelare la verità, rappresentare quel che si agita

13 Ivi, p. 27. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 29.

(17)

nel petto umano, e tutto ciò per via di immagini, in maniera concreta»16. L’opera d’arte non è un mezzo per rappresentare uno scopo esterno, ma ha il suo scopo finale in se stessa; tale scopo deve essere qualcosa di concresciuto con l’opera.

Si comprende meglio quanto detto finora con le tre determinazioni del concetto di arte. La prima riguarda l’arte secondo la sua propria natura: il contenuto dell’opera dev’essere suscettibile della forma, poiché non tutti i contenuti possono essere rappresentati artisticamente. La seconda determinazione riguarda sempre il contenuto, ma vale per qualsiasi verità: essa deve essere concreta, laddove concreto significa che può essere pensato come una soggettività individuale. Hegel fa l’esempio di Dio: se pensato come, ad esempio, Uno, è qualcosa di meramente astratto, mentre Dio concepito come persona è soggetto e ciò costituisce il concreto. La terza determinazione mette insieme contenuto e forma: l’opera concreta deve essere il loro punto d’incontro. L’arte è quindi in grado di presentare concretamente il vero nella misura in cui forma e contenuto sono in unità; tale capacità di esprimere il vero non avviene comunque nel modo più elevato, che si ha invece col pensiero.

La tripartizione hegeliana dell’arte è costruita sul rapporto di contenuto e forma appena descritto. Essendo l’arte la presentazione sensibile di un contenuto spirituale, il bello viene ad essere l’esito di questa convergenza, che non è però qualcosa di dato e permanente. Quest’unità, il bello come ideale, quindi manifestazione artistica reale e concreta, è il risultato del percorso che lo spirito compie per raggiungere la coscienza di sé. Il procedere storico dell’arte verrà infatti suddiviso in corrispondenza dei modi in cui questa unione avviene (o meno). In generale, questo equilibrio perfetto di forma e contenuto viene prima cercato, poi trovato ed infine perso. Non trattandosi quindi solamente di una corrispondenza astratta, ma che si realizza concretamente, la tripartizione non è solo sistematica, ma ha anche carattere storico – geografico, procedendo da oriente a occidente e attraversando epoche diverse. I tre momenti in questione sono: arte simbolica, arte classica e arte romantica. Vi è poi il sistema delle singole arti: per ogni momento della triade vi è una forma d’arte che si è sviluppata maggiormente, ma che non elude le altre (il rapporto non è esclusivo), così si collocano: l’architettura nel periodo simbolico, la scultura nel periodo classico e le arti romantiche (pittura, musica e poesia) nel periodo romantico.

(18)

3. L’arte simbolica: squilibrio e smisuratezza

L’epoca dell’arte simbolica è caratterizzata dalla ricerca dell’unità di forma e contenuto, che rimangono quindi separati e indeterminati. Il contenuto non è ancora concreto e compiuto, ma oscuro, e la forma è immediata, entrambi mostrano solamente la loro esteriorità. Questa non è l’arte della bellezza, ma della sublimità: si pensi alle grandi architetture dell’arte orientale e mediorientale, in particolare le grandi costruzioni egizie come piramidi e sfingi. La determinazione fondamentale dell’arte è sempre un contenuto spirituale che appare esteriormente, ma in questo primo stadio non si ha ancora un contenuto pienamente libero, nel senso di conforme alla sua configurazione esteriore. La rappresentazione figurativa è infatti sproporzionata rispetto al contenuto: l’enormità e l’imponenza dei grandi monumenti è una forma squilibrata rispetto allo spirito, che è alla ricerca di se stesso e si sa ancora solo come natura, espressivamente inadeguata. È come se cercasse la propria configurazione sensibile «enfatizzando all’esterno la propria presenza»17, sfociando nel colossale e

nello smisurato.

Essendo la figura esteriore non concresciuta col contenuto, il rapporto tra le due cose è simbolico, cioè si conforma con una struttura di rimando a. Lo spirituale cerca di emergere attraverso una forma non perfettamente adeguata, che quindi può solamente alludere ad esso. La nozione di simbolo collega la dimensione estetica a quella religiosa, con particolare riferimento alla cultura egizia18. L’uomo inizialmente vede

le risposte alle esigenze dello spirito nella natura immediata, venera quindi gli oggetti naturali e il pensiero non è ancora indipendente dalla natura. Si ha la mitologia, ma non ancora il simbolico: esso subentra con una prima separazione della rappresentazione dagli oggetti naturali. Hegel fa riferimento alla mitologia e alle opere d’arte di India e in Egitto: vi è un universale che si esprime sensibilmente, ma in un’arte non libera, dove il contenuto è ancora una rappresentazione generale di elementi naturali (un fiume, una stagione, ecc.). Simboliche sono anche le cosmogonie o le teogonie, che rappresentano l’universale come processo, mutamento (lo scorrere del fiume, il ciclo della vita, ecc.). Abbiamo quindi una figura esistente singola e immediata che viene presa come simbolo di una rappresentazione universale. Non essendoci ancora libera spiritualità, la rappresentazione simbolica del contenuto è imperfetta. Non siamo nel regno del bello, ma in quello del sublime: la forma è

17 F. Valagussa, Il sistema delle arti nell’estetica, in M. Farina – A. L. Siani, L’estetica di Hegel, Il

Mulino, Bologna, 2014, p. 172.

18 Cfr. M. Pagano, Arte simbolica e architettura, in M. Farina – A.L. Siani, L’estetica di Hegel, op. cit.

(19)

smisurata rispetto al contenuto, il loro è un rapporto di disparità, dove il contenuto non riesce a raggiungere la forma. In sintesi, nel simbolico vi è il tentativo di esplicitare un contenuto spirituale ancora non chiaro, che porta quindi l’uomo ad esprimersi riprendendo gli elementi immediati della natura, in una forma che quindi non può far altro che accontentarsi di simboleggiare quel contenuto spirituale.

La forma d’arte che corrisponde al momento simbolico è l’architettura, che rappresenta infatti l’inizio dell’arte e non è considerata da Hegel un’arte propriamente bella. Essa consiste nel dar forma ad un materiale inorganico, ma non allo stesso modo della scultura: il significato spirituale giace infatti esternamente all’opera. Nella sezione dell’Estetica dedicata all’architettura simbolica, Hegel passa in rassegna costruzioni quali la torre di Babele, pagode, obelischi, templi egizi, ecc. che si distinguono nettamente da ciò che è semplicemente una costruzione atta ad uno scopo utilitario, come una capanna o una casa. Anzi, i due generi di costruzioni sono contrapposti: una dimora è qualcosa di conforme ad un fine esterno e nient’altro, mentre un tempio ha in se stesso il suo significato, che è atto ad indicare simbolicamente il contenuto spirituale. Per questo l’architettura simbolica è definita da Hegel autonoma, perché il fine è nell’edificio stesso, a differenza dell’architettura classica e romantica, dove il fine sarà sempre più esterno e separato.

Hegel fa un accenno alla figura umana nel simbolico, cioè più generalmente alla personificazione, affermando che in ciò vi si intravede già il passaggio all’arte classica. La figura umana, infatti è «per sé assolutamente significante» ed «esprime nient’altro che lo spirito stesso»19, motivo per cui si trova ad essere inadeguata nella relazione con oggetti naturali. Ne va addirittura della sua dignità, poiché vi è troppa libertà nella soggettività spirituale per adeguarsi a costituire il simbolico. Nella personificazione, infatti, sono solitamente le azioni di un soggetto e non il soggetto stesso, a significare l’universale di un simbolo (ad esempio le fatiche di Ercole). Quando è il soggetto a fare da simbolo si crea confusione e spesso da ciò consegue che la figura immediata venga venerata come divina, cioè non per le sue azioni, ma direttamente per la sua esistenza (Hegel fa l’esempio del panteismo indiano che venera figure viventi in quanto tali).

A indicare in modo più deciso il passaggio dal sublime all’arte bella è il simbolo egizio: per Hegel l’arte egizia svolge un ruolo cruciale, innanzitutto perché il simbolo in essa include un insieme di simboli, cioè una figura si riferisce a numerose cose diverse,

(20)

creando un intreccio di significati. Questa interconnessione di significati si avvicina alla soggettività, che è in sé molteplice. In secondo luogo, vi è l’intuizione di un regno dei morti, che è per gli egizi come una realtà autonoma dal regno della vita, in cui si muovono i vari personaggi. Negli egizi vi è un’immortalità dell’anima che per Hegel si avvicina molto alla libertà dello spirito in quanto separato dalla naturalità immediata, anche se ciò avviene presso gli egizi solo in maniera astratta e negativa, cioè attraverso la morte e non come libertà concretamente vivente. Non vi è ancora la libertà dello spirito, ma un’intuizione di essa. Nella affascinante cultura egizia vi è una coscienza non ancora matura, che riesce ad esprimersi solo simbolicamente, in una lotta tra spiritualità e naturalità, rimanendo quindi agli albori del cammino dello spirito verso la comprensione di se stesso. La scrittura egizia è il geroglifico, scrittura dall’aspetto enigmatico i cui segni alludono al significato, senza coglierlo adeguatamente. Il passaggio al mondo classico è infatti segnato proprio da un enigma, cioè quello della Sfinge, che non a caso giunge nel mondo greco per essere risolto.

In questo senso la Sfinge appare presso i Greci come colei che pone gli enigmi. La parola più elevata l’egizio non l’ha pronunziata, egli ha avuto soltanto l’impulso verso il vero. […] La Sfinge, dice il mito greco, pone questo enigma: chi è che al mattino cammina su quattro gambe, a mezzodì su due, e alla sera su tre? Edipo risolse l’enigma e mandò la Sfinge a sfracellarsi. Questo mito è il simbolo più alto e costituisce il passaggio al chiarir-se-stessi, allo spirito come libertà20.

Il testimone passa al mondo greco, il cui principio è la soluzione dell’enigma: l’umano.

4. L’arte classica: bellezza e ideale

Nell’arte classica troviamo la perfetta compenetrazione di forma e contenuto: sviluppatesi allo stesso modo, hanno raggiunto la totalità e si identificano alla pari l’uno con l’altro. Mentre nell’arte simbolica vi era ancora una lotta, quindi una mancanza di libertà, nell’arte classica forma e contenuto si corrispondono, dando vita all’ideale dell’arte, che viene collocato storicamente nella Grecia antica, cioè nella cultura della polis greca. L’unità di forma e contenuto non è qualcosa di immediato, ma il risultato di un processo di superamento della mera naturalità da parte dello spirito. Il primo momento come abbiamo visto non era la natura in genere, ma una forma d’arte dove vi è già un accenno di esistenza del contenuto spirituale e che riusciva ad esprimerlo confusamente nella mescolanza di elemento naturale e spirituale. Vi è

(21)

dunque il superamento del simbolico verso una più adeguata figurazione del concetto, dove non vi è spazio per la natura, ma solo per la figura umana. L’arte classica risolve l’enigma della Sfinge ponendo come contenuto assoluto la soggettività spirituale (non ancora la spiritualità del pensiero), a cui viene data forma umana, che è «specchio dello spirito»21 ed è l’unica necessaria e possibile. Vediamo così scomparire le immagini confuse dove spirituale e naturale si confondevano. Infatti, la figura animale (o ibrida umano-animale) tipicamente venerata nell’arte medio-orientale e orientale, si distacca totalmente dalla sfera del divino, viene in questo senso negata e diventa immagine di degradazione22.

Hegel afferma che «l’arte classica è libertà nel contenuto, il suo contenuto è lo spirito nella sua libertà»23. È infatti nell’arte classica che prende vita l’ideale, cioè l’equilibrio

perfetto di forma e contenuto dove lo spirito si manifesta in quanto libero, nella figura a lui adeguata e compiuta. Perciò anche l’artista che produce quest’arte non può che essere un artista libero: mentre l’artista simbolico doveva lottare per il contenuto, ovvero non ne aveva una conoscenza chiara e perciò imprimeva il significato in varie forme, senza darsi limiti (da qui lo stravolgimento e la sublimità di tale arte), l’artista classico esegue ciò che è chiaramente predisposto per lo spirito. È un’arte libera nel senso che dà forma a una materia predisposta, perché parte di una realtà a sua volta predisposta: gli artisti greci, infatti, si rifanno alla religione popolare, dando forma agli dei. Il popolo greco venera l’opera d’arte in quanto tale, senza che vi debba essere un rimando simbolico. Dunque non vi è in realtà un libero arbitrio dell’artista, egli non conta affatto in quanto soggettività, ma per il contenuto assoluto che presenta, che non deve essere in alcun modo macchiato dalla particolarità del soggetto. Lo si apprende chiaramente leggendo ciò che Hegel afferma riguardo alla questione omerica: molti sostengono che Omero non sia mai esistito e che i suoi poemi siano in realtà un insieme di canti di diversi rapsodi. Questa, secondo Hegel, «è la più alta delle lodi», poiché «il cantore sparisce, non si scorge alcuna particolarità del sentimento»24.

La forma d’arte che caratterizza maggiormente questo periodo è la scultura: nelle statue greche prende forma l’ideale del bello. Nel momento simbolico l’architetto costruisce quella che viene ad essere la casa del dio, mentre con la scultura greca si dà forma al dio in maniera perfetta, con essa «lo spirito viene presentato come esso è»25.

21 Ivi, p. 152. 22 Ivi, pp. 156 e 157. 23 Ivi, p. 149. 24 Ivi, p. 286. 25 Ivi, p. 222.

(22)

L’architettura crea al dio uno spazio esterno, mentre la scultura lo configura nello spazio stesso, costituito dal corpo. Quest’ultimo è sì qualcosa di naturale, ma che non rimane semplicemente tale, in quanto è determinato dal concetto. La corporeità non è da intendersi come rappresentante del corpo in genere, ma come qualcosa di determinato, come espressione dello spirituale nel particolare. Il contenuto dell’arte classica è l’individualità spirituale, cioè la figura umana in quanto ideale. Gli dei della cultura ellenica sono appunto individualità spirituali (Atena, Zeus, ecc.), che non hanno a che vedere con potenze naturali. Nella scultura greca vediamo il riposare del dio in se stesso, che viene presentato e venerato nella materialità immediata e chiusa in se stessa. A questa materialità corrisponde l’individualità sostanziale dello spirito, che non si è ancora distinto in se stesso, come sottratto al rapporto con l’altro. L’insuperabile bellezza dell’arte greca è intrinsecamente limitata, proprio per il suo tentativo illusorio di innalzare l’umanità ad una forma ideale priva di imperfezioni, che ha come risultato un fascino manchevole di sentimento interiore26. La scultura è

fissa, priva di mimica, cioè di «espressione della peculiarità, della particolarità, della singolarità, relazione della peculiarità con l’universalità dello spirito»27. Vi è una

rappresentazione che ha configurazione umana, ma senza che vi sia l’umanità intesa in senso empatico. L’arte classica risponde all’esigenza di rappresentare il divino e il rivolgersi all’ideale distoglie lo sguardo dal singolo individuo particolare, celebra l’oggetto in sé conchiuso e compiuto, appunto riposante in sé. La statica beatitudine dell’arte greca è solamente un breve periodo del divenire storico dell’arte, il suo equilibrio di forma e contenuto è effimero e fragile. L’autoreferenzialità della statua greca non è capace di far fronte all’emergere della soggettività umana in quanto tale. Nonostante l’eternità del suo ideale di bellezza, l’arte classica è destinata ad essere sorpassata da un’arte che riesca ad esprimere l’interiorità del soggetto, i cui tormenti non sono facilmente alleviabili da un antropomorfismo privo di difetti.

L’universale trasfigurazione artistica passa dalla quiete dell’ideale alla molteplicità della sua manifestazione, all’esposizione dettagliata degli accadimenti e delle azioni, che diviene umana, sempre più umana28.

Il contenuto va singolarizzandosi e la forma procede verso un rapporto con l’esterno, quindi un rapporto col piacere, da cui si realizza la connessione col soggetto, che trova se stesso nell’opera d’arte.

26 F. Iannelli, Bellezza, ideale, disarmonia, in M. Farina – A.L. Siani, L’estetica di Hegel, op. cit., p.

101.

27 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, op. cit., p. 225. 28 Ivi, p. 170.

(23)

Nel passaggio dal simbolico al classico vi era la fine di una lotta tra forma e contenuto verso la conquista del loro equilibrio reciproco. Col passaggio dal classico al romantico vi è il dissolversi di questo equilibrio, quindi da un lato potrebbe sembrare il ripresentarsi della situazione precedente, ma in questo caso la sproporzione è dal lato del contenuto. Nell’arte simbolica si ha una forma che eccede il contenuto, per l’arte romantica vediamo la situazione opposta. Nell’arte greca la spiritualità soggettiva si presentava come esistenza immediata, come abbiamo visto nella statua del dio, ma ora la presentazione di ciò diviene qualcosa che va oltre la figura. Tale forma sensibile non soddisfa più lo spirituale, che diviene «un mondo per sé» in una realtà esteriore «libera» e perciò «priva di dei»29.

La forma d’arte che secondo Hegel designa questa disgregazione del bello è la satira, presente presso i Romani, dove si ha da un lato il pensiero astratto e dall’altro una realtà priva di pensiero, quindi un momento oppositivo e prosaico. Lo spirito è in collera con la realtà esteriore, il suo ideale non riesce a trovare espressione adeguata. L’equilibrio della bellezza classica si rompe, frantumandosi nella molteplicità delle singole esperienze interiori dell’umano.

5. L’arte romantica: la libertà dello spirito

Per prima cosa è opportuno specificare che l’aggettivo romantica non è un riferimento esclusivo all’arte ottocentesca dei romantici, ma Hegel intende con ciò l’arte cristiana. Il sensibile non è più adeguato a rappresentare il divino, cioè la verità di quella determinata cultura, diventando così qualcosa di puramente accessorio, come lo è appunto l’arte per la religione cristiana, che trova la propria espressione nelle Sacre Scritture. Mentre l’arte simbolica era un’epoca di ricerca del bello, con l’arte romantica si assiste al suo superamento. Avendo raggiunto il suo punto più alto nel periodo classico, ora l’arte va oltre se stessa: l’ideale del bello è qualcosa di perfetto e mai più realizzabile allo stesso modo, ma è inadeguato alla nuova realtà spirituale. «E questa libertà dello spirito è ora quel che costituisce il principio»30: non più la verità assoluta,

ma l’individuo. Non vi è più la divinità ripartita nei suoi caratteri particolari, ma soltanto un dio, che è lo spirito, che appare come esistenza esteriore. La metafora che designa questo apparire è quella della figura del dio, precedentemente una statua priva di luce negli occhi, statica, che ora inizia a vedere, cercando il rapporto con lo

29 Ivi, p. 172. 30 Ivi, p. 174.

(24)

spettatore e collegandosi al resto del mondo. A differenza dell’arte classica, in quella romantica non conta più la bellezza, le sue rappresentazioni fanno spazio al dolore e alla morte. Questi erano prima astratta negazione (in una visione potremmo dire più stoica), mentre adesso prendono un significato profondo, che è strettamente collegato all’anima. Con essa dolore e morte ricevono un riscatto che prima non avevano e l’immortalità assume un senso completamente diverso. La figura umana non è rappresentazione del divino nel modo in cui lo era nell’arte classica: prima si aveva la bellezza della perfetta compenetrazione di forma e contenuto, adesso si ha un contenuto che supera la forma. Dunque la figura umana è rappresentazione adeguata della spiritualità soggettiva solo in quanto lascia trasparire la sua inferiorità rispetto ad essa, poiché l’esteriorità non è più qualcosa di completamente soddisfacente. Il contenuto dell’arte romantica è «l’umanità esistente»31, apparentemente più ristretto

rispetto ad un’arte che esalta gli elementi e i fenomeni della natura. In realtà l’animo umano è un punto in grado di dirigersi verso qualsiasi direzione, abbracciando un’ampia molteplicità di cose. Infatti non si identifica immediatamente col corpo, non si lascia esprimere interamente da esso, anzi l’anima deve dimostrare di possedere la propria esistenza solo in se stessa e non nell’apparenza esteriore. Proprio per questo non ha nemmeno più interesse a idealizzare il corpo, è indifferente all’esteriorità, lascia che la forma sia libera.

È abbastanza evidente che l’arte romantica prenda il suo contenuto dagli elementi della religione cristiana e il suo ideale sia infatti legato all’intimità dell’anima. Così nelle rappresentazioni di Cristo non ha importanza la bellezza classica, e nemmeno la figura naturale sarebbe consona, ma l’artista deve essere abile ad esprimere qualcosa che stia in mezzo tra la bellezza classica ideale e ciò che è meramente comune. In quella che Hegel definisce la cerchia religiosa troviamo quindi le rappresentazioni della storia di Cristo, o della vita di santi e martiri, ma anche dell’amore di Maria, privo di dolore e penitenza. A questo fa seguito la cerchia mondana, con cui cessa l’atteggiamento negativo nei confronti della realtà effettiva e la fede si riversa nel mondo. I temi tipici sono quelli della cavalleria: onore, amore e fedeltà; temi mondani ma non distaccati dalla sfera della religione cristiana. La terza cerchia è quella della soggettività formale, dove troviamo «la soggettività nella sua casualità», cioè nel suo carattere particolare, «che vuole essere così come è». Hegel fa un esempio paragonando le maschere italiane, caratteristiche ma prive di individualità, con i personaggi shakespeariani, come

(25)

Macbeth, la cui connessione tra la personalità e il fato non è determinata e non mira a rappresentare qualcosa di moralmente elevato (egli compie le azioni più disdicevoli per raggiungere il suo scopo). Si può avere anche una soggettività con un animo bello il cui movimento avviene interiormente, la cui profondità ha difficoltà a mostrarsi in una figura precisa. Dopo aver esaurito il compito di diffusione del cristianesimo e degli ideali cavallereschi, la materia diviene quella delle avventure dell’animo in genere. Hegel cita la follia del Don Chisciotte, dove la cavalleria si dissolve nella parodia di se stessa. Subentra così la forma artistica del romanzo, che ha come contenuto l’individuo particolare come soggetto libero, con i suoi ideali. Egli entra in contrasto con il mondo oggettivo, andando inesorabilmente verso un solo epilogo: rassegnarsi ad esso. Hegel non condivide l’esaltazione del romanzo dei suoi contemporanei, esso è la forma con cui l’arte si avvicina alla propria fine. Ciò avviene in modo ancor più evidente nell’opera umoristica, dove l’artista emerge in primo piano assoggettando a sé la materia, dissipandola a vantaggio della propria espressione soggettiva ed esteriore. Nell’ultima fase dell’arte romantica l’artista non è più, secondo Hegel, in unità con la materia da presentarsi: la produzione artistica si emancipa, non è più vincolata dalla rappresentazione del divino, diviene libera e indifferente alla materia, allontanandosi quindi da se stessa come unità di spirito e realtà. Diventa così «arte dell’apparenza»32,

cioè che rende conto soltanto dell’astratta abilità dell’artista nel rappresentare un contenuto che può anche essere designato dall’esterno (ragione per cui secondo Hegel è così diffusa la ritrattistica).

L’arte procede così verso la fine, nel senso che il sensibile non è più la forma adeguata di rappresentazione del divino, cioè di ciò che è vero.

6. Le forme dell’arte romantica

Come ai periodi precedenti corrispondevano architettura e scultura (come forme di maggior sviluppo), al periodo dell’arte romantica corrispondono tre forme d’arte: pittura, musica e poesia. Non è un caso che le forme d’arte peculiari siano ora tre e non una, ciò infatti ha senso dal punto di vista sistematico, perché l’arte romantica è un’arte plurale, frammentata. Con l’architettura avevamo la casa del dio, che rimandava ad esso, con la scultura si erige nel tempio la statua, che coincide col divino; adesso

(26)

abbiamo a che fare con la comunità dei fedeli, la cui fede si esteriorizza frammentandosi nell’intimità di ciascun individuo.

La pittura sfrutta la visibilità come tale, mezzo di presentazione che si determina in colore. Il materiale di architettura e scultura è un materiale visibile, ma non per la visibilità astratta; con la pittura l’arte è per il senso astratto ideale della vista. Va ricordato che Hegel considera in relazione all’arte soltanto i sensi cosiddetti teoretici, ovvero vista e udito, escludendo i sensi pratici (olfatto, gusto e tatto)33. Nella pittura abbiamo la soggettività particolarizzata che appare esteriormente attraverso rappresentazioni formate da figura e sfondo, che si collegano direttamente al sentimento. Il contenuto è particolare, contingente, perciò più ampio rispetto alla scultura: la pittura può rappresentare non solo la figura riposante in sé, ma anche un’azione, un gesto, quindi un sentimento.

Nella pittura vediamo il progressivo distaccarsi dalla rappresentazione dell’assoluto, del divino. L’artista è sempre meno legato alla rappresentazione della religione di un popolo, come invece accadeva nell’antica Grecia. Hegel, a differenza dei suoi contemporanei romantici, non cerca nella pittura una funzione anacronistica di rappresentazione votiva e sacrale della cristianità. Con la Riforma, ciò non è più necessario, infatti egli afferma che «quando un protestante rappresenta Maria, in ciò egli non fa veramente sul serio»34. Questo non perché vi sia una forzata iconoclastia, ma perché le immagini artistiche non sono più il modo esclusivo e veritiero con cui l’individuo diventa cosciente di tali contenuti. Il distacco dell’arbitrio dell’artista dalla materia che presenta è ben visibile nella pittura olandese descritta da Hegel: in essa la la protagonista è la realtà mondana, gli oggetti comuni, che non soddisfano lo spirito in quanto a elevatezza, ma per l’ammirazione dell’abilità dell’artista. Si tratta di oggetti che non portano a coscienza alcun contenuto divino, ma che suscitano interesse solo per la loro apparenza in quanto tale, come nature morte, animali o scene che immortalano la quotidianità.

Viene portato all’intuizione il mutamento, nel suo trapassare assolutamente transitorio; è il trionfo dell’arte sulla caducità. Il sostanziale è per così dire defraudato del suo potere sul transitorio. L’apparenza viene riprodotta nel modo più significativo35.

La soggettivazione diviene sempre più profonda, fino al prevalere dell’interiorità che scalza qualsiasi forma esterna. Nella pittura il contenuto diviene sempre più

33 Ivi, pp. 199-200. 34 Ivi, p. 197. 35 Ivi, p. 195.

(27)

indifferente, si ha così il passaggio all’unidimensionalità dell’arte del suono, dove l’elemento sensibile è per l’udito. Nella musica non vi è più la distinzione tra l’io e il sensibile, la soggettività è completamente coinvolta nello scorrere dei suoni, tanto da essere come rapita. Quest’arte è l’espressione della mutevolezza, della dinamicità e particolarità del sentimento umano. Non si ha un contenuto per sé, ma sentito: «Il senso interno percepisce se stesso ed elabora questo percepire»36, in un dialogo dello spirito con se stesso articolato non più a livello spaziale, ma temporale. Il tempo è definito da Hegel un sensibile negativo37 il cui procedere è un continuo essere e non essere, un costante superarsi che è allo stesso tempo un generarsi. Esso è il mezzo immediato di espressione del sentimento, che non è ancora determinato in se stesso. La musica è distinta in due lati, uno reale, cioè materiale, prodotto dall’oscillazione dei corpi, che possono essere di varia natura (di qui la distinzione degli strumenti musicali) e un lato

ideale, che riguarda il rapporto di queste oscillazioni e con cui si determina la musica

in quanto tale, strutturata attraverso battuta, regole armoniche e melodia. Quest’ultima è per Hegel «la poeticità, l’anima che trapassa in suoni, [...] l’animazione della musica»38 e il suo rapporto con le regole dell’armonia è paragonato ad una lotta tra libertà e necessità, che un abile compositore è in grado di evocare e di combattere. Dunque la musica si realizza nel suono, che è di per sé privo di contenuto, ma lo ottiene secondo Hegel unendosi alle parole. La musica in quanto autonoma è per l’intelletto, non è connessa a nessun contenuto spirituale, quindi non soddisfa pienamente lo spirito. Il passaggio dalla spazialità alla temporalità segna in modo particolare il processo di interiorizzazione e soggettivizzazione delle arti romantiche, dove la musica viene ad essere il punto mediano, di passaggio verso una forma più spirituale. Il suono passa da mezzo di espressione del sentimento a mero segno: diventa parola.

La poesia è la terza forma d’arte romantica e con essa l’elemento sensibile è interamente spiritualizzato. Non si ha più corrispondenza tra figura e contenuto, o meglio si ha una corrispondenza mediata dal linguaggio, il cui segno è in se stesso privo di significato. Essa è infatti l’arte universale, in grado di coprire l’intera estensione dell’animo umano. Con l’arte della parola si raggiunge la massima spiritualizzazione, cioè lo spirito è in essa libero in se stesso, distaccato completamente dal materiale sensibile, cioè dal segno che da solo è privo di valore e ha bisogno dello spirito per essere determinato. Il contenuto della poesia è la rappresentazione e la sua

36 Ivi, p. 257. 37 Ivi, p. 43. 38 Ivi, p. 260.

Riferimenti

Documenti correlati

nel viaggio etnografico non si tratta di abbandonare il mondo dal quale ci sentiamo respinti e di riguadagnarlo attraverso la mediazione di una rigenerazione mitica

13 We constructed this indicator variable equal to one if the individual reported always receiving the allowance as a child or if she received the allowance, but sometimes

The rapidly changing situation has created new needs for knowledge for social work practice and research: what should we know and understand about the life of these children and

Two open response, explanation-type questions were introduced in the 2016 post-test for both Pavia and Trento in order to evaluate the quality of students’ argumentative discourse.

anonymized table and to analyze the risk for any individual in the dataset to be linked to a specific sensitive value when the attacker has got to know the individ- ual’s

Our main goal was to investigate the behaviour of the economy - in terms of reaction to stochastic shocks and welfare analysis - under three alternative fiscal policy rules

The proposed obstacle avoidance algorithm exploits the kinematic information of the vessels operating in the harbour in order to compute the optimal path to reach the target

Quello che questa tesi di dottorato aspira a fare è da un lato dare conto di quello che sta succedendo in questi ultimi anni in questo campo, alla fine di un lungo