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Arte e bellezza

Parte III – Estetica pragmatista e arte popolare

7. Arte e bellezza

Shusterman mette in rilievo un’altra dicotomia inerente l’estetica, ovvero quella tra due oggetti tradizionalmente trattati da essa: la bellezza e l’arte. La prima sembra avere un fine in se stessa, che la rende autofondata e autogiustificata, per via del fascino che esercita sugli esseri umani. L’arte al contrario ha sempre rappresentato un oggetto problematico, che non ha la propria giustificazione in se stesso, bisognosa perciò di essere sottoposta ad un’analisi filosofica. L’arte addirittura sembra non sussistere senza questo continuo processo di critica e giustificazione – cosa che esclude automaticamente tutte le teorie che considerano l’arte come fine a se stessa. Shusterman riprende la critica di Dewey alla concezione museale dell’arte, che si estende fino al concetto di arte popolare, contro l’illegittima esclusione di questa dal sistema delle arti. Questo potrebbe far pensare ad un conseguente ripudio di quella che è l’arte elitaria in quanto nociva alla società, ma non è affatto così. Shusterman, infatti, precisa che la critica diretta alla concezione dominante di arte non implica il rigetto

181 Ivi, pp. 77 e 78. Troviamo in queste pagine un altro punto di distacco da Hegel, che «privilegiò la

bellezza dell’arte rispetto a quella della natura». Questo perché secondo Hegel qualsiasi forma naturalistica sarebbe stata inadeguata alla rappresentazione dello spirito; la bellezza autentica, in quanto spiritualizzazione del sensibile, è un prodotto dell’uomo e non della natura, anzi ci serve a ricordare che l’uomo non è soltanto natura (Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni di Estetica, op. cit., p. 14). Tuttavia, Hegel non nega carattere di bellezza agli oggetti naturali, ma ne sottolinea la finitezza e l’insufficienza rispetto a quella che è la bellezza realmente libera dell’arte (Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni di Estetica, op. cit., Introduzione di Paolo d’Angelo, p. XXIX).

delle opere sorte nel suo contesto: l’obiettivo non è chiudere i musei, ma ampliarli, fino ad includere quelle che sono le arti popolari182.

L’arte elevata non è stata sempre e solo lo specchio del privilegio e dell’ideologia dominanti in un certo periodo storico, escludendo dal suo riflesso quelle che erano oppressioni e barbarie. Sarebbe falso da un punto di vista storico affermare che l’arte elevata non è mai servita da critica, ma solamente come rafforzamento di uno stato di cose. Non ha senso nemmeno affermare che l’ammirazione delle opere del passato porti alla subordinazione verso l’ideologia che rappresentano. Quello odierno è infatti un contesto pluralista, dove le opere rappresentano varie visioni del mondo che si incontrano e che possono entrare in contrasto l’una con l’altra. Shusterman rileva inoltre che quest’accusa viene fatta verso le opere come fossero responsabili in sé, anziché verso il modo che abbiamo di recepirle e di appropriarcene. Nonostante il suo notevole potere comunicativo, «senza un’intelligenza cui parlare l’arte è muta»183.

Questo perché la modalità di appropriazione delle opere d’arte oggi è prettamente estetica, nel senso del termine che implica la separazione con la prassi e la conseguente neutralizzazione sul piano politico-sociale. L’obiettivo polemico di Shusterman non è l’autonomia dell’arte come tale, ma in quanto costruita basandosi sul suo distacco dalla prassi della vita ordinaria. C’è dunque bisogno di una critica da un punto di vista etico- sociale, diretta non solo alle opere d’arte, ma anche verso quelle istituzioni che ne regolano la ricezione andando a definire il ruolo dell’arte nella società.

Senza dubbio al giorno d’oggi vi è un’accessibilità maggiore all’arte, ma l’idea dell’arte come qualcosa di limitato a una cerchia ristretta di persone continua a sopravvivere; e comunque le modalità di ricezione delle classi meno agiate non sono adeguate (contestualizzando ciò al fatto che Shusterman scrive negli anni ‘90). Un problema ulteriore è che questa distanza delle classi meno abbienti dall’arte elevata viene interpretata come un’inferiorità naturale e non di derivazione sociale ed economica, legittimando la divisione gerarchica tra classi. Per Shusterman la soluzione non si trova nella falsa speranza che anche le classi più basse imparino ad apprezzare l’arte elevata attraverso l’educazione artistica, poiché l’elitarismo artistico ha sempre presentato una distanza dai comuni modi di comprendere e fare esperienza. Ne sono un esempio le avanguardie, che secondo il filosofo hanno fallito nel loro intento di negare la sacralità dell’arte portando nel mondo dell’arte oggetti considerati ordinari e non belli (fa l’esempio di Duchamp). Infatti, questi oggetti non hanno fatto altro che

182 Ivi, p. 94. 183 Ivi, p. 96.

provocare negli individui una certa incomprensione, con conseguente esclusione dal mondo dell’arte, che si riconferma come qualcosa di appartenente ad una cultura elevata. Attraverso l’esempio delle avanguardie si può affermare che l’emancipazione dell’arte non può partire dallo stesso ambiente che ne fa un prodotto distaccato dall’ordinario; anche la critica d’arte e la teoria estetica restano sempre troppo legate a questo sistema per poterlo infrangere. Serve una base culturale alternativa: potrebbe essere proprio l’arte popolare a modificare il concetto di arte verso una maggiore libertà e integrazione con la vita ordinaria. Questo può realizzarsi riconoscendo i prodotti della cultura di massa (film, televisione, musica rock, pop, ecc.) come esteticamente legittimi. Shusterman fa però notare che la cultura di massa è anche lo strumento utilizzato dalla classe dominante per guidare i consumatori, attraverso quello che è un conformismo di massa illuso dal culto del nuovo. In questo contesto, che ricorda i pericoli già messi in luce da Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della

sua riproducibilità tecnica (1936), l’arte elevata va a rappresentare l’eccezione

all’egemonia del denaro, nonostante la sua derivazione di carattere classista184.

Altro punto polemico è l’arte considerata come, riferendosi a Dewey, il salone di

bellezza della civiltà, ovvero l’idea protratta dalla concezione elitaria dell’arte che

quest’ultima sia un mondo a sé in cui rifugiarsi da una realtà sociale misera. In questo modo, si viene a creare una situazione in cui l’evasione nell’illusione artistica ci permette di tollerare una condizione reale ingiusta e deplorevole, che viene così in un certo senso accettata, se non giustificata. Questo rifugio in un mondo dell’arte a sé stante porta a riporre in esso le speranze di un potenziale cambiamento, che finisce per non realizzarsi nella realtà fattuale. Un’arte così intesa, anche quando si fa portatrice di un messaggio di protesta sociale, non genera una vera critica, ma rimane relegata all’espressione e alla fruizione individuale. In generale si può affermare che l’ideologia che i destinatari dell’opera, cioè le classi abbienti, hanno sviluppato per difendere i propri privilegi materiali e culturali, alla fine va a penalizzare loro stessi, dando vita ad un’esperienza mutilata dell’arte. Shusterman auspica quindi una critica d’arte più impegnata a livello politico e sociale, «tale da condurci dall’apprezzamento estetico delle opere individuali alla critica della realtà socio-culturale»185, istituzioni artistiche

comprese.

184 Ivi, pp. 99 e 100. 185 Ivi, p. 101.