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Madri immigrate. Strategie di conciliazione tra lavoro e famiglia

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA

Corso di Laurea magistrale

(ordinamento ex D.M. 270/2004)

in Lavoro, Cittadinanza sociale, Interculturalità

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

MADRI IMMIGRATE

Strategie di conciliazione tra lavoro e famiglia

Relatore:

Prof. Fabio Perocco

Correlatrice:

Prof.ssa Giuliana Chiaretti

Laureanda:

Ambra Chiarotto

Matricola 825137

Anno Accademico

2012-2013

 

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Non sapevano che che era impossibile,

così lo hanno fatto. Mark Twain

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Ringraziamenti 1

Introduzione 3

Capitolo 1 – Donne immigrate e mercato del lavoro 11

1. Uno sguardo alle dinamiche globali 11

2. La condizione lavorativa delle donne immigrate nei Paesi europei 17 3. Donne immigrate in Italia: composizione e tendenze occupazionali 20

Capitolo 2 – Conciliazione tra lavoro e famiglia. Quali implicazioni per le

donne immigrate? 35

1. Il quadro europeo 35

2. La questione della conciliazione alla luce delle migrazioni internazionali 41 3. L’impatto delle politiche di conciliazione in Italia 46

3.1 L’accesso ai servizi per l’infanzia 61

3.2 Il ricongiungimento familiare come strumento di conciliazione per le

famiglie immigrate 64

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3. La provincia e la città di Padova: immigrazione e servizi 83

Capitolo 4 – Lavoro e famiglia tra rappresentazioni e realtà 87

1. Il progetto migratorio 87

2. Il lavoro retribuito: realtà, rappresentazioni e mutamenti 94

3. Le dimensioni della vita familiare 113

3.1 La maternità e la cura dei figli 113

3.2 Le responsabilità di cura verso i genitori anziani e altri familiari 125

3.3 Lavoro domestico, tempo libero e tempo per sé 130

Capitolo 5 – Strategie di conciliazione 137

1. L’impatto degli strumenti legislativi a sostegno della conciliazione 138 2. L’accesso ai servizi per l’infanzia, scolastici ed extra-scolastici 146 3. L’organizzazione della cura dei figli e le strategie informali 152 4. Bisogni e percezioni intorno alla questione della conciliazione 162

Conclusioni 167

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Ringraziamenti

Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno contribuito a sostenermi e accompagnarmi in questo percorso.

Un grazie, innanzitutto a mio figlio, che con la sua fantasia, i suoi sorrisi, ma anche i suoi capricci, riempie la mia vita di gioie e nuove sfide, fa da specchio alle mie forze e alle mie debolezze e fa crescere in me sempre nuove consapevolezze;

A mio marito, che con la sua pazienza, il suo amore e la sua musica sa riempire di poesia la mia vita;

A mio padre, mia madre, Mariagrazia che nel corso degli anni, ognuno a proprio modo, mi hanno sempre supportato e hanno saputo credere nelle mie possibilità;

A Franca, Gustavo e a nonna Rina che mi hanno fatto sentire parte di una grande famiglia;

Ad Elena, Enrica, Giuseppina con le quali ho condiviso idee, progetti, passioni, momenti di ansia e di gioia, rendendo questi ultimi anni di università i più speciali;

Al mio relatore prof. Fabio Perocco, per i suoi preziosi consigli e per avermi offerto, insieme con gli altri professori, nuove chiavi di lettura per leggere e capire la realtà che mi circonda;

E, non ultime, a tutte le donne che hanno condiviso con me le loro storie e le loro esperienze e senza le quali questa ricerca non sarebbe stata possibile. Le Vostre storie hanno saputo trasmettermi una forza e una determinazione da cui prendere esempio.

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Introduzione

La crisi economica che ha colpito gli Stati Uniti e i Paesi europei, a partire dal biennio 2007 2008, in Italia ha generato un brusco calo dell’occupazione all’interno del mercato del lavoro, seppure in maniera non omogenea tra le diverse fasce della popolazione. Sono stati più colpiti i lavoratori uomini e i giovani mentre si è assistito ad un incremento dell’occupazione femminile sebbene per lo più in lavori a bassa qualifica, “atipici” e tendenzialmente concentrata nel settore dei servizi (Istat, 2013a).

Da un punto di vista sociale, la crisi economica, le trasformazioni in atto nell’ambito dell’organizzazione del lavoro – contrassegnate dall’estendersi a tutti i settori economici delle caratteristiche di precarietà e di flessibilità – unitamente al progressivo ritiro delle politiche di welfare a sostegno dei cittadini e alla terziarizzazione dell’economia, contribuiscono all’aumento delle disuguaglianze tra i gruppi di popolazione agli estremi della scala sociale e alla tendenza ad una graduale polarizzazione della società. Ne consegue un peggioramento della qualità di vita dei lavoratori delle fasce di reddito medio-basse e lo sviluppo di ampie quote di popolazione in maggiori condizioni di vulnerabilità economica e sociale.

All’interno di questo quadro tendenzialmente negativo, s’inserisce l’impatto che la crisi economica ha avuto sull’occupazione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati presenti nel Paese e che accresce la loro posizione di svantaggio economico e sociale. Questa posizione di svantaggio va analizzata alla luce delle politiche migratorie, della posizione che la popolazione immigrata occupa nel mercato del lavoro italiano e della loro esclusione totale o parziale ai diritti di cittadinanza. Laddove le politiche migratorie tendono ad ancorare la posizione giuridica delle cittadine e dei cittadini immigrati e il conseguente accesso ai diritti

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di cittadinanza principalmente al possesso di un lavoro formale, è evidente che un’analisi sull’impatto della crisi economica su questo settore della popolazione diventa ancor più rilevante per i risvolti sociali che questo comporta. Inoltre, la stesse politiche si traducono in discorsi pubblici che legittimano la presenza dell’immigrato solo in quanto lavoratore, con un forte impatto sulle rappresentazioni sociali e sulla stessa percezione di sé degli immigrati nel paese d’immigrazione. A questo si aggiunge il motivo economico quale principale motore di spinta alla migrazione delle persone, anche quando si accompagni ad altre cause. Di qui, quindi, l’importanza che il lavoro per il mercato tende ad assumere nella vita dell’immigrato.

Diverse analisi statistiche (Fondazione Leone Moressa, 2012; OECD, 2013) mostrano come in Italia il calo del tasso di occupazione abbia colpito in misura maggiore la popolazione immigrata rispetto a quella autoctona. La maggiore esposizione alle fluttuazioni dell’occupazione risale al ruolo che gli immigrati occupano all’interno del mercato del lavoro: essi, infatti, rappresentano quel bacino di forza lavoro a cui le strutture produttive nazionali fanno ricorso in periodi forte sviluppo economico ma costituiscono anche i primi lavoratori ad essere espulsi dal mercato o risospinti nell’informalità, in fasi di retrocessione (Taran, 2011).

Dai dati sull’occupazione emergono, però, delle differenze di genere sostanziali. I tassi di occupazione sono calati per i lavoratori immigrati uomini poiché inseriti in quei comparti del mercato che hanno subito un maggiore ridimensionamento con la crisi (edilizia, manifatture) ma sono aumentati per le lavoratrici immigrate che rimangono segregate nel settore dei servizi. Quest’ultimo dato va di pari passo con la crescente offerta di lavoro nel settore dei servizi assistenziali e di cura determinata da tre fenomeni fondamentali: la cronica debolezza del welfare a sostegno dei bisogni di cura dei cittadini, la crescente domanda di cura causata dall’invecchiamento della popolazione e le crescenti esigenze di conciliazione a fronte dell’aumento della partecipazione al mercato delle donne autoctone.

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Le donne immigrate che partecipano al mercato del lavoro sono donne che migrano per sostenere economicamente le proprie famiglie rimaste al paese d’origine, donne ricongiunte che decidono di integrare il reddito familiare o che ne esprimono la necessità in seguito alla perdita del lavoro da parte dei coniugi ma anche donne che nel corso degli anni d’istruzione hanno maturato l’idea del lavoro quale strumento per accedere alla sfera pubblica e ai diritti civili. Sono spesso donne che intraprendono percorsi di emancipazione attraverso il lavoro e la migrazione.

E’ proprio a questa parte della popolazione immigrata che si è deciso di dedicare la propria attenzione in questa ricerca, partendo dall’ipotesi che la loro crescente partecipazione al mercato del lavoro in concomitanza con la crisi dell’occupazione maschile, apra spazi di riflessione su come si costruisca la questione della conciliazione all’interno delle famiglie immigrate nel paese d’immigrazione. Seppure si sia consapevoli che negli ultimi anni sia diffusa l’idea che la questione della conciliazione non vada tematizzata solo come una questione di genere, si è ritenuto che nella realtà quotidiana pesino ancora sulle donne le maggiori aspettative in termini di responsabilità di cura e di organizzazione del lavoro familiare. Per questo motivo si è scelto di concentrare maggiormente l’attenzione su di loro, pur non trascurando i processi di negoziazione che le coinvolgono all’interno delle famiglie.

Diverse ricerche sociologiche sul tema delle migrazioni femminili (Chiaretti, 2004; Ehrenreich, Hochschild, 2004) hanno messo in luce il ruolo determinante delle donne immigrate nel permettere alle donne occidentali di conciliare i tempi di lavoro con i tempi della famiglia, costituendo un bacino di forza lavoro a basso costo a cui affidare parte delle responsabilità del lavoro familiare. Ma quali strategie mettono in atto le donne immigrate stesse per conciliare i due ambiti? Se la letteratura italiana ed europea che segue l’approccio del transnazionalismo ha messo in luce le pratiche di cura delle donne migranti attraverso i confini nazionali, è stato ancora poco approfondito come la questione della conciliazione si evolva a seguito del ricongiungimento dei familiari o

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quando la famiglia venga costituita nel paese d’immigrazione. L’impegno nel lavoro retribuito delle donne immigrate diventa sempre più strategico per il sostentamento delle proprie famiglie e nel contempo le porta ad affrontare problematiche di conciliazione tra i tempi e gli spazi del lavoro e quelli della vita familiare che non possono essere ridotte esclusivamente a quelle che toccano anche le donne autoctone, per almeno tre ragioni. Innanzitutto alla luce delle migrazioni internazionali e delle diverse fasi che affrontano le famiglie immigrate nel corso del processo migratorio, il tema della conciliazione non può essere trattato solo come una questione che inerisce i tempi del lavoro per il mercato e i tempi per il lavoro familiare ma necessita di considerare anche la dimensione spaziale ovvero i luoghi dove si svolge il lavoro remunerato e quelli dove si trovano dislocati i diversi membri della famiglia. In secondo luogo, anche quando la famiglia immigrata convive nel paese d’immigrazione, l’esposizione alle politiche sociali e agli strumenti preposti dal legislatore per la conciliazione può essere molto diversa per le donne autoctone e quelle immigrate, a causa dell’accesso stratificato ai diritti sociali e civili in base a requisiti di nazionalità, di residenza e di anzianità di presenza sul territorio e al collocamento delle donne immigrate nel mercato del lavoro in tipologie lavorative prive o con scarse tutele. Infine, le donne immigrate sono portatrici di molteplici universi culturali e simbolici che influenzano le culture e le pratiche della cura, i contratti di genere e intergenerazionali all’interno delle famiglie, universi che in parte si scontrano, in parte si mescolano ai modelli culturali presenti nel nostro paese, arricchendo di complessità lo spettro della realtà sociale e delle strategie di conciliazione.

Partendo da queste considerazioni e pensando che l’argomento sia di estrema rilevanza per aprire un dibattito sull’accessibilità dei diritti di cittadinanza alle donne immigrate, è stata condotta una ricerca qualitativa che ha coinvolto donne di diversa nazionalità. Consci che la questione della conciliazione si costruisce in modi differenti attraverso le fasi della migrazione e le fasi di vita, si è scelto di limitare le interviste a madri immigrate, lavoratrici, conviventi in Italia con i rispettivi nuclei familiari. La scelta di concentrare l’attenzione sulle

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esperienze delle madri è dettata dall’ipotesi che sia proprio con la maternità e la nascita dei figli che si sviluppino le prime esigenze e difficoltà di conciliazione tra impegno sul mercato e responsabilità di cura. Pur non trascurando le pratiche di cura transnazionali, si è scelto di approfondire in che modo le madri immigrate sviluppino le proprie strategie nel paese d’immigrazione per poter meglio cogliere l’impatto delle politiche presenti in quest’ambito in Italia e poter ancorare così questi risultati a quelli già ampiamente sviluppati dalla letteratura sul transnazionalismo (Hondagneu-Sotelo, Avila, 1997; Parreñas, 2005; Boccagni, 2009; Bonizzoni, 2009; Vianello, 2009).

Il primo capitolo è dedicato all’analisi della posizione delle donne immigrate nel mercato del lavoro. Dopo una sintetica lettura di quelli che sono i fenomeni globali che investono l’epoca in cui viviamo e che vedono le donne come protagoniste nelle trasformazioni del mercato del lavoro globale e nelle migrazioni internazionali, si è portata l’attenzione al contesto italiano attraverso la descrizione della composizione della popolazione immigrata femminile e delle tendenze occupazionali che la riguardano.

Nel secondo capitolo si delineerà in che termini la questione della conciliazione sia stata sviluppata nell’ambito del discorso europeo e quali sfide, oggi, affrontano le politiche europee di fronte a tre fenomeni fondamentali che incorrono a modificare i bisogni di conciliazione della popolazione, ovvero l’invecchiamento della popolazione, il calo della fecondità e le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro. Inoltre, si tenterà di delineare in che termini la questione emerga a fronte di un altro fenomeno caratterizzante la nostra epoca, quello delle migrazioni internazionali. Spostandoci, poi, sul contesto italiano individueremo gli strumenti formali introdotti in Italia a supporto della conciliazione e la relativa accessibilità delle famiglie immigrate a tali strumenti, alla luce della loro posizione nel mercato del lavoro e del loro accesso stratificato ai diritti cittadinanza. Si sosterrà la tesi che anche il ricongiungimento familiare debba considerarsi uno strumento di conciliazione per le famiglie immigrate poiché permette loro di riportare la questione ad un problema di equilibrio tra i

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tempi del lavoro e i tempi per la famiglia e non più anche tra gli spazi. Questo capitolo costituisce il quadro di sfondo entro il quale introdurre la lettura dei risultati della ricerca qualitativa.

Il terzo capitolo introduce la ricerca qualitativa che è stata svolta, presentando le ipotesi di partenza, gli obbiettivi prefissati e la metodologia utilizzata. Inoltre, si descriveranno le caratteristiche generali del gruppo delle donne intervistate e le peculiarità del territorio (la provincia di Padova) dove è stata condotta la ricerca.

Il quarto e quinto capitolo saranno dedicati all’esposizione dei risultati della ricerca, volta a dare voce alla pluralità delle esperienze soggettive delle donne immigrate intervistate. Nel quarto capitolo, partendo da una concezione della conciliazione che non si sviluppi solo entro i due ambiti del lavoro remunerato e del lavoro familiare, si è cercato di approfondire quali rappresentazioni guidino l’azione delle donne immigrate intervistate e in che modo queste s’incontrino e si scontrino con le pratiche reali, in quattro sfere che riempiono i tempi della vita quotidiana: il lavoro remunerato, la cura dei figli e verso altri familiari, il lavoro domestico, il tempo libero e il tempo per sé.

Nel quinto capitolo, si pone l’attenzione sulle strategie di conciliazione attuate dalle madri intervistate per rimanere presenti sul mercato del lavoro e insieme poter assolvere alla proprie responsabilità di cura verso i figli. Tra le strategie attuate, emerge la centralità delle pratiche informali sia di negoziazione sul lavoro sia di organizzazione e condivisione della cura tra i generi e le generazioni all’interno della famiglia estesa ma anche attivando relazioni di solidarietà con altre persone non legate da vincoli di parentela. Ancora, si descriverà in che termini il problema della ricerca di un equilibrio tra sfera del lavoro remunerato e sfera privata e familiare sia percepito dalle intervistate.

Infine, nelle conclusioni si proporranno alcuni campi d’azione su cui si pensa sia necessario che le politiche intervengano per garantire la possibilità anche alle donne immigrate di conciliare la presenza sul mercato e la presenza nella vita familiare, partendo dall’idea che non introdurle all’interno di un

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discorso pubblico sulla conciliazione contribuisca a negare loro la possibilità di accedere al range dei diritti di cittadinanza.

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1.

DONNE IMMIGRATE E MERCATO DEL LAVORO

1. Uno sguardo alle dinamiche globali

Prima di concentrare la nostra attenzione sulle dinamiche occupazionali delle donne immigrate in Italia, è opportuno soffermarsi sulle tendenze globali del mercato del lavoro femminile in cui tali dinamiche rientrano, al fine di avere un quadro più approfondito dei processi contemporanei che si sviluppano nell’epoca della globalizzazione e del capitalismo flessibile ed entro i quali s’innestano i percorsi lavorativi e di vita delle donne immigrate e non, definendo un sistema di profonde disuguaglianze tra di esse.

A partire dagli anni ’90, di fronte al passaggio dal fordismo al post-fordismo e ai processi di globalizzazione, sono molteplici gli studi femministi che in più direzioni hanno posto in evidenza che il mercato del lavoro mondiale è interessato da processi di femminilizzazione (McDowell, 1991, Pollert, 1996; Sassen, 1998). Già in quegli anni venivano teorizzate ed analizzate le conseguenze socio-strutturali che la massiccia entrata delle donne nel mercato del lavoro stava producendo.

Osservato da un punto di vista quantitativo, il concetto di femminilizzazione

del lavoro designa l’aumento progressivo della partecipazione delle donne al

mercato al lavoro. A livello mondiale dal 1998 al 2008 il tasso di occupazione femminile rispetto alla popolazione è aumentato di 1,2 punti percentuali, mentre il rispettivo tasso maschile è diminuito di 1,1 punti percentuali. Nel 2008, su oltre tre miliardi di persone occupate al mondo, 1,2 miliardi erano donne (40,4%), la maggioranza delle quali impegnate nel settore agricolo, dei servizi e dell’economia informale (ILO, 2009). Ad oggi, la crisi economica globale ha portato ad una inversione di questa tendenza, distruggendo a livello mondiale 13

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milioni di posti di lavoro per le donne (ILO, 2012) ed aumentando nuovamente il gap occupazionale tra i due sessi. E’ da rilevare, però, che esistono forti differenze a livello regionale. Infatti, prendendo in esame i dati sulla situazione occupazionale europea, osserviamo che i tassi di occupazione maschile e femminile sono calati entrambi nel 2009 e nel 2010, ma mentre per gli uomini vi è stato un calo di 2,7 punti percentuali rispetto al 2008, per le donne il calo è stato di 0,9 punti percentuali nello stesso periodo (Eurostat, 2011). Sempre a livello europeo, nel periodo tra il 2000 e il 2010 il tasso di occupazione maschile è diminuito dal 70,8% al 70,1% mentre il tasso di occupazione femminile nello stesso periodo è aumentato dal 53,7% al 58,2% (Ibidem).

Il concetto di femminilizzazione del lavoro ha però una propria valenza anche dal punto di vista qualitativo. Gli studi femministi hanno messo in luce come le caratteristiche proprie del lavoro femminile come la precarietà, l’allungamento degli orari di lavoro e i bassi salari siano stati estesi a tutto il lavoro salariato, anche quello maschile. La flessibilità e la precarietà diventano caratteristiche generalizzate delle prestazioni lavorative nelle moderne economie dei servizi dei paesi avanzati. Oltre a rappresentare gli strumenti attraverso i quali abbattere il costo del lavoro, costituiscono anche le condizioni fondamentali per sostenere il processo di svalorizzazione globale del lavoro e per ridisegnare i rapporti di forza e di potere tra i lavoratori e le imprese, rendendo i primi sempre più fragili, privi di tutele e piegati alle esigenze delle organizzazioni produttive.

In Occidente, nel passaggio da un’economia basata sulla produzione industriale ad un’economia trainata dalla produzione di servizi, si è assistito al trasferimento di metodi e ritmi di flessibilità produttiva già sperimentati nel settore industriale ed estesi poi al settore terziario (Head, 2003). La produzione flessibile non è un modello del tutto nuovo di organizzazione del lavoro, ma rappresenta anzi una riproposizione del modello taylorista in una versione più serrata, con ritmi più veloci e un più alto grado di controllo, che si è estesa dalle fabbriche fino ad arrivare al mondo dei servizi - soprattutto grazie allo sviluppo delle tecnologie informatiche (Perocco, 2012a).

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Si assiste così allo sviluppo di rapporti e condizioni di lavoro caratterizzati da precarietà, frammentarietà, gratuità di parte delle prestazioni, allungamento degli orari, velocizzazione dei ritmi e dequalificazione. Queste caratteristiche dell’organizzazione del lavoro parlano anche di logiche del lavoro femminile trasferite all’interno del lavoro salariato che “non possiede più confini di tempo e di dedizione” (Morini, 2010, p. 59) poiché il lavoratore è costretto in una condizione di asservimento alle esigenze delle imprese. Un mercato del lavoro siffatto guarda con crescente interesse alle donne quale bacino di manodopera a cui attingere sia per il tipo di prestazioni svolte che per la possibilità di ridurre il costo del lavoro1.

Secondo le interpretazioni femministe, questo nuovo ordine di genere andrebbe riducendo le differenze tra uomini e donne sia ai livelli alti sia a quelli bassi della scala sociale. Le disparità di genere si ridurrebbero ai livelli occupazionali più bassi poiché i processi di flessibilizzazione e precarizzazione tenderebbero a relegare entrambi i sessi in lavori di servizio e marginali; diminuirebbero ai livelli più alti perché aumenterebbe la partecipazione delle donne a carriere privilegiate della nuova economia. Inoltre, questo processo produrrebbe un altro mutamento, nei termini di una maggiore disuguaglianza di classe tra le donne, migliorando le condizioni di poche e peggiorando le condizioni della gran parte (Barazzetti, 2007). La storia ci mostra che ancora oggi persistono forti differenze di genere a tutti i livelli ma nel contempo palesa che si stanno accentuando le disuguaglianze tra le donne; disuguaglianze che, se estendiamo il nostro sguardo al resto del mondo e ai processi innescati dalla globalizzazione, sono non solo di classe ma anche di nazionalità. Profonde sono le disparità tra donne dei paesi ricchi e dei paesi poveri, tra le donne che migrano dal Nord e dal Sud del mondo e tra le donne all’interno degli stessi paesi, stante il                                                                                                                

1 I dati internazionali fotografano questa tendenza delle donne ad essere attratte dal settore dei servizi: nel 2012, a livello globale, un terzo delle donne era impiegato nell’agricoltura, quasi la metà nei servizi e un sesto nell’industria (ILO, 2012). Nelle economie più avanzate più dell’85% delle donne sono impiegate nel settore terziario e nei paesi in via di sviluppo è stata osservata la tendenza delle donne a muoversi dal settore agricolo a quello dei servizi (Ibidem).

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processo di globalizzazione della polarizzazione sociale interna. Ai livelli più bassi troviamo le donne che migrano dai paesi più poveri, sulle quali gravano nel mercato del lavoro, non solo le discriminazioni legate all’appartenenza di genere e di classe ma anche le discriminazioni legate all’appartenenza nazionale.

Il fenomeno della femminilizzazione del lavoro risulta strettamente connesso ad un altro processo che caratterizza l’epoca in cui viviamo ovvero la

femminilizzazione delle migrazioni, che rappresenta anche una delle tendenze più

significative delle migrazioni contemporanee. Le stime delle Nazioni Unite (2008) parlano del 49% di donne migranti al mondo al 2008 rispetto alla popolazione migrante a livello globale (UN DESA, 2010). Verosimilmente a questa percentuale va sommata anche quella dei movimenti non documentati che sfuggono alle statistiche. Le donne hanno un peso importante in diversi tipi di migrazione, un peso che in epoca contemporanea è cresciuto enormemente. In particolare dagli anni ’60, le donne hanno giocato un ruolo di primo piano nei movimenti migratori per lavoro (Castels & J. Miller, 2009).

In proposito S. Sassen (2002) mostra l’esistenza di una “relazione sistemica” tra la femminilizzazione del lavoro salariato e la femminilizzazione dei movimenti migratori. Secondo l’autrice, le moderne economie capitalistiche hanno trovato nell’immigrazione e nel trasferimento delle proprie strutture produttive – in particolare industrie e uffici – all’estero nei paesi in via di sviluppo, due modalità attraverso le quali poter reclutare manodopera a basso costo e contrastare le richieste dei lavoratori organizzati nei propri paesi. Inizialmente all’interno delle strutture produttive offshore dei paesi del Nord del mondo, le donne del Sud del mondo trovano impiego come forza lavoro salariata flessibile e a basso salario. Successivamente, spinte ad emigrare2 nei paesi più ricchi alla ricerca di migliori condizioni di vita, vengono reclutate in quelle                                                                                                                

2 Moltissime sono le ragioni che spingono le donne a emigrare dai propri paesi d’origine: la povertà, le guerre, i sistemi di redistribuzione della terra, il debito; a fianco a queste motivazioni economiche ve ne sono altre di ordine diverso, come hanno messo in luce recenti studi: la volontà di svincolarsi da strutture patriarcali e discriminatorie nei confronti delle donne, di fuggire da matrimoni segnati dalle discordie e dalle violenze fisiche perpetrate nei loro confronti oppure per

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strutture produttive che non possono essere spostate all’estero (ad esempio ospedali o ristoranti) e in quella nicchia del mercato del lavoro a bassa qualificazione e remunerazione che si sviluppa nelle moderne economie del servizi ed è particolarmente visibile nelle città globali. Tutte quelle attività - dal lavoro domestico, di accudimento, di assistenza nelle case private ai servizi di ristorazione, lavanderie, imprese di pulizie e quant’altro - che permettono alla classe medio-alta di sostenere un dato stile di vita e alle donne occidentali di conciliare lavoro salariato e lavoro familiare, richiamano manodopera immigrata. In questo scenario, le donne migranti diventano centrali nelle “geografie della sopravvivenza” (Sassen, 2004), ovvero in quei circuiti di sopravvivenza innescati e alimentati da governi, strutture internazionali e traffici illegali, per fronteggiare i contraccolpi della globalizzazione sui paesi più poveri (Ibidem).

L’analisi di Sassen ha il pregio di mettere in luce che i processi di ristrutturazione economica in atto a livello globale producono la formazione di un’ampia offerta di lavoratrici nei paesi in via di sviluppo e di un’ampia domanda di queste nelle moderne economie dei servizi.

Qui, s’introduce un’altra dinamica strutturale, particolarmente evidente nel caso italiano: la crescente domanda di lavoratrici immigrate nel settore domestico e di cura a fronte dell’aumento occupazionale delle donne dei paesi avanzati e del progressivo ritiro delle politiche di welfare, accelerato dalle misure restrittive e di contenimento della spesa pubblica attuata dagli stati nazione a fronte della crisi economica. Il vuoto di cura lasciato dalle donne che intraprendono la carriera lavorativa trova sempre meno supporto da parte dei sistemi di welfare statali e nelle politiche tese a conciliare i tempi per il lavoro con i tempi per la cura, sebbene con forti differenze da paese a paese. A questo si aggiunge la mancanza di un’equa distribuzione dei carichi del lavoro familiare tra i generi, una meta ancora distante da raggiungere; nelle ricerche sul tema emerge la tendenza dei nuovi padri ad una maggiore attenzione soprattutto alla cura dei figli (che però si limita per lo più al gioco o all’intrattenimento) ma permangono forti differenze di genere nei tempi dedicati alla famiglia e al lavoro domestico che possono essere

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attribuiti a chiusure a livello culturale sia in ambito familiare che nell’ambito delle organizzazioni lavorative ma anche a difficoltà legate a condizioni di lavoro sempre più pressanti (Murgia, Poggio, 2011).

Assistiamo così al parallelo aumento della domanda di lavoro salariato di donne immigrate, che diventano vere e proprie sostitute nelle attività di riproduzione delle donne della classe medio-alta del Nord del mondo. Colf, babysitter, assistenti familiari, assistenti sanitarie emigrate dai paesi più poveri riescono a trovare con maggiore facilità lavoro in questo settore3. Il loro servizio a basso costo permette alle donne dei paesi avanzati e alle loro famiglie di migliorare la propria qualità della vita e agli Stati occidentali di ridurre conflitti, tensioni e contraddizioni derivanti dai mutamenti nel sistema familiare e nei processi di produzione economica, fungendo così da veri e propri fattori di regolazione sociale (Chiaretti, 2005)4.

A quali costi per le donne immigrate? Sono molte le ricerche, a partire da quella di Ehrenreich e Hoschschild (2004), che mettono in evidenza sotto diversi profili le ambivalenze vissute dalle donne immigrate. Sotto il profilo lavorativo, esse sono segregate in questo settore del mercato del lavoro mal retribuito, segnato da precarietà, estrema flessibilità degli orari, contratti di lavoro svantaggiosi se presenti e con ben poche prospettive di aspirare ad un tipo di lavoro diverso, magari quello per cui hanno studiato nel proprio paese d’origine. Nel contempo è questo lavoro che permette a molte di loro di intraprendere un percorso di “emancipazione”, di migliorare le condizioni di vita dei propri                                                                                                                

3 La tendenza ad entrare in un questo settore del mercato del lavoro non è data solo dall’ampia domanda ma un’importante funzione è svolta anche dai network, da quelle reti sociali che connettono gli individui immigrati in precedenza con coloro che rimangono nel paese d’origine. In questo senso, i network funzionano come veri e propri circuiti di reclutamento e di inserimento nel mercato del lavoro del paese d’immigrazione (Castel, Millers, 2009).

4 La crisi economica porta con sé nuovi scenari di vulnerabilità anche per le donne occidentali. Infatti, guardando al caso italiano, sempre più famiglie si trovano nella situazione di dover scegliere tra un reddito in più, quasi sempre quello della donna, o il care. La bassa fecondità porta ad avere famiglie sempre più lunghe e strette dove i carichi di cura verso i figli e verso gli anziani si fanno sempre più onerosi, sulle spalle di un solo figlio, o più spesso di una sola figlia, e i costi di sostituzione del lavoro domestico con il lavoro per il mercato rischiano di non essere sostenibili, per molti neppure attraverso il servizio delle donne immigrate (Negri, 2006). Di fronte a questa eventualità, si delinea lo scenario di un possibile ritorno della donna all’interno delle mura

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familiari nel paese di origine e di mettere in discussione impostazioni di tipo patriarcale all’interno delle proprie famiglie, facendo valere il peso delle proprie decisioni e trasformandole in capifamiglia (Chiaretti, 2005). Sotto il profilo della vita personale e degli affetti, Hoschschild (2004) parla di un imperialismo invisibile in cui amore e accudimento sono diventati il “nuovo oro” sottratto dai paesi del Sud del mondo e trasferito nei paesi del Nord del mondo. Le donne che migrano debbono separarsi dai propri figli per accudire i nostri, dai propri anziani per curare i nostri; figli e anziani che a loro volta, rimasti nei paesi d’origine, vengono accuditi da altre donne della famiglia o a pagamento, in una “catena globale del lavoro di cura” che pesa sulle spalle delle donne dei paesi più poveri, in un gioco di produzione di disuguaglianze e di svalorizzazione del lavoro di cura di cui le stesse donne dei paesi più ricchi diventano – indirettamente e collettivamente - complici inconsapevoli.

2. La condizione lavorativa delle donne immigrate nei Paesi europei

A partire dal biennio 2007-2008, la crisi economica che ha colpito i paesi dell’OCSE ha determinato la perdita di numerosi posti di lavoro in modo diseguale tra i lavoratori se teniamo conto del genere, dell’età, della nazionalità e del livello d’istruzione. Per quanto riguarda le popolazioni immigrate, in molti paesi si è assistito alla dispersione dei progressi raggiunti nel decennio precedente alla crisi. In altri, la crisi economica ha esacerbato le tendenze e i gap, già visibili nel periodo precedente, tra lavoratori nativi e lavoratori immigrati (OECD, 2013). I lavoratori immigrati rappresentano quella fetta di popolazione che entra nel circuito della produzione solo in periodi di maggiore sviluppo economico: ne consegue che sono gli ultimi ad essere assunti, quando ce n’è bisogno, e i primi ad essere rilasciati dal mercato del lavoro quando la domanda si contrae (Taran, 2011). Molti di loro, di fronte al rischio di cadere in disoccupazione con la conseguente perdita del titolo di soggiorno e nell’urgenza di sostenere le proprie

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famiglie, si trovano nelle condizioni di dover accettare qualsiasi tipo di lavoro a qualsiasi condizione; questo alimenta il fenomeno del sotto-inquadramento5, il conseguente peggioramento delle retribuzioni, della precarizzazione e delle condizioni lavorative (Perocco, 2012b). Parallelamente i governi europei hanno ulteriormente inasprito le politiche migratorie, rendendole più restrittive e selettive, diminuendo le quote per ingresso per lavoro e continuando così ad alimentare il fenomeno strutturale dell’immigrazione undocumented; quest’ultimo, unitamente all’aumento della disoccupazione, porta molti immigrati a trovare impiego nell’economia sommersa e informale, in condizioni di estrema vulnerabilità e abuso e privi di alcuna protezione. I settori nei quali prevale il lavoro informale sono quello agricolo, dell’edilizia, del lavoro domestico e di cura di bambini e anziani nelle case private ovvero quei segmenti di mercato in cui i lavoratori immigrati sono sovra-rappresentati rispetto a quelli nativi (Taran, 2011).

Ora, all’interno di questo quadro generale, la condizione delle lavoratrici immigrate porta con sé delle peculiarità. Infatti, l’impatto della crisi economica risulta differenziato tra i gruppi interni alle popolazioni immigrate: sono stati maggiormente colpiti i giovani e i lavoratori con una bassa qualificazione mentre per le donne e i lavoratori qualificati l’impatto è stato più attenuato (OCSE, 2013).

In base ai dati di International Migration Outlook (OCSE, 2013), mettendo a confronto il tasso di partecipazione al mercato del lavoro delle donne tra il 2008 e il 2012, si osserva che la crisi ha portato molte di loro (sia native che immigrate) a rientrare nel mercato del lavoro in quasi tutti i Paesi dell’OECD6. Seppure le difficili condizioni del mercato del lavoro e le limitate opportunità in alcuni paesi non abbiano permesso che l’incremento di partecipazione delle donne si                                                                                                                

5 Si distinguono due tipi di inquadramento, professionale e occupazionale; per sotto-inquadramento professionale s’intende l’sotto-inquadramento in professioni in cui il livello di competenze richiesto è inferiore al titolo di studio; per sotto-inquadramento occupazionale, l’inquadramento in livelli inferiori rispetto al compito effettivamente svolto (Perocco, 2012). 6 In Grecia, Danimarca, Portogallo, Germania e Austria l’incremento dei tassi di partecipazione sono più alti per le donne immigrate che per quelle native. In altri paesi come l’Italia, la Francia e l’Inghilterra la crescita è stata modesta e in molti casi minore per le donne immigrate rispetto a quelle native. Solo in Slovenia, Norvegia, Svizzera e Irlanda la partecipazione femminile alla forza

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traducesse in maggiori tassi di occupazione, laddove la crisi economica ha ridotto notevolmente i posti di lavoro, l’occupazione femminile ha registrato un calo decisamente contenuto rispetto agli uomini.

Nella maggior parte dei paesi, seppure le donne native mantengano un vantaggio in termini occupazionali rispetto alle donne immigrate, questo divario è andato riducendosi. Inoltre, si registrano minori perdite di lavoro per le donne immigrate rispetto ai colleghi uomini e in due terzi degli stessi paesi, i tassi di occupazione delle donne immigrate sono più alti che nella prima metà del decennio7.

Ancora, assistiamo ad un incremento del peso delle donne nei movimenti migratori per lavoro e tendono ad aumentare le famiglie immigrate supportate dal reddito della donna (Taran, 2011). Molte donne immigrate, a fronte dello stato di disoccupazione degli uomini delle loro famiglie, si sono affacciate sul mercato del lavoro per integrare il reddito familiare e per salvaguardare il permesso di soggiorno seppure trovando spazio per lo più in settori e in mansioni a bassa qualificazione, in particolare quello dei servizi (Perocco, 2012b).

Le ragioni dell’aumento della partecipazione femminile immigrata al lavoro salariato sono da ricercarsi nella diversa distribuzione dei lavoratori e delle lavoratrici immigrati tra i segmenti del mercato del lavoro anche rispetto alla popolazione autoctona. I settori in cui sono maggiormente presenti i lavoratori immigrati maschi ovvero l’edilizia, le manifatture ma anche le attività commerciali quali hotels e ristoranti rappresentano i segmenti di mercato maggiormente colpiti dal calo delle occupazioni. Il settore dei servizi, invece, in cui le lavoratrici immigrate sono sovra-rappresentate rispetto a quelle native, ha registrato dal 2008 ad oggi un notevole incremento d’impiego. E’ proprio in questo settore che nei paesi dell’OECD si è registrato tra il 2007 e il 2012 il maggiore impiego di immigrati in Europa: 218.000 posti di lavoro sono stati creati in attività domestiche in qualità di “datori di lavoro di personale domestico”,                                                                                                                

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206.000 nelle “attività di cura residenziali” (rappresentano 27% del totale dei posti di lavoro in questo settore), 175.000 posti di lavoro nel settore dei servizi educativi (OECD, 2013). Alla luce di questi dati, si riconfermano e si accentuano con la crisi economica le tendenze occupazionali delineate a livello globale che vedono la presenza femminile immigrata sempre più centrale nel mercato del lavoro ma segregata nel settore dei servizi e della cura.

3. Donne immigrate in Italia: composizione e tendenze occupazionali

In Italia, a differenza di altri paesi europei, i primi movimenti migratori hanno avuto carattere femminile. Fra le prime ad arrivare nel corso degli anni ‘60 e ‘70 vi furono le donne provenienti dall’Eritrea, da Capo Verde, dalle Filippine, seguite poi da coloro che provenivano dai paesi latino-americani. Queste donne partivano spesso con un progetto migratorio individuale di tipo emancipatorio e si avvalsero in molti casi delle catene migratorie attivate dagli ordini religiosi o dalle chiese, trovando impiego nel settore del lavoro domestico. Queste presenze si consolidarono nel corso degli anni ‘80 e ‘90 insieme all’arrivo delle donne cinesi, ma anche ad egiziane, tunisine, marocchine a seguito di ricongiungimenti familiari; e ancora cingalesi, senegalesi e ghanesi. Nel corso degli anni ‘90 approdano in Italia anche le donne colombiane e nigeriane (spesso coinvolte nel traffico della prostituzione) insieme ad altre provenienti dall’Est Europa come albanesi, rumene e polacche che trovano impiego, ancora una volta, per lo più nel settore domestico e di cura (Silva, 2003; Giove, 2008; Tognetti Bordogna, 2012).

Ad oggi, i dati nazionali dell’Istat sul Censimento della popolazione straniera al 9 ottobre 2011 rilevano la presenza di circa 2 milioni e 147 mila donne straniere in Italia, pari al 53,3% dell’intera popolazione straniera residente. Dal 2002, in cui le donne immigrate residenti risultavano essere circa 761.000, l’incremento della loro presenza è stato costante di anno in anno confermando che il processo di femminilizzazione delle migrazioni interessa anche in nostro paese.

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In generale, le donne straniere risiedono principalmente nell’Italia Settentrionale e Centrale: il 34,8% vive nelle regioni dell’Italia Nord Occidentale, il 26,7 % in quelle Nord orientali e il 24,4 % nell’Italia Centrale (Istat, 2012a).

Tabella n. 1 - Popolazione straniera residente in Italia divisa per sesso e ripartizione geografica. Valori assoluti e percentuali sul totale degli stranieri.

Popolazione straniera residente in Italia

Ripartizioni geografiche Maschi Femmine Totale Femmine

Italia 1.881.639 2.147.506 4.029.145 53,4 Italia Nord-Occidentale 679.549 746.922 1.426.471 52,4 Italia Nord-Orientale 517.018 574.325 1.091.343 52,6 Italia Centrale 444.087 524.265 968.352 54,1 Italia Meridionale 168.177 219.115 387.292 56,6 Italia Insulare 72.808 82.879 155.687 53,2

FONTE: Elaborazione su dati Istat, Il censimento della popolazione straniera, pubblicato il 12 dicembre 2012 (disponibile sul sito www.istat.it/it/archivio/77877).

Le donne rappresentano anche la quota più consistente dei nuovi ingressi dall’estero: al 2011 su 385.793 persone iscritte all’anagrafe e provenienti dall’estero il 51,9% erano donne (Istat, 2012b). Tuttavia se si prendono in esame i singoli paesi di provenienza, emergono forti differenze in termini di incidenza femminile. Osservando le nazionalità da cui provengono il maggior numero di iscrizioni anagrafiche, notiamo che i picchi più alti appartengono ai paesi dell’Europa orientale come l’Ucraina (74,9%), la Moldova (64,4%) e la Romania (59,4%) mentre quelli più bassi a paesi del continente africano ed asiatico quali il Marocco (42,4%) e l’India (29,7).

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Tabella n. 2 - Iscrizioni in Italia dall’estero divisa per cittadinanza, sesso. Anno 2011. Valori assoluti, composizioni percentuali.

Stato di cittadinanza* Totale Maschi Femmine

(su 100 trasferimenti) Unione Europea 145.274 43,0 57,0 di cui: Romania 90.096 40,6 59,4 Italia 31.466 53,8 46,2 Polonia 5.471 26,0 74,0 Bulgaria 5.101 36,4 63,6 Stati Extra UE 240.519 51,2 48,8 Di cui: Marocco 23.885 57,6 42,4 Cina 20.055 50,2 49,8 Ucraina 17.889 25,1 74,9 Albania 16.613 46,7 53,3 Moldova 14.956 35,6 64,4 India 13.327 70,3 29,7 Totale iscrizioni 385.793 48,1 51,9

*Sono esclusi dalla tabella gli stati di cittadinanza con meno di 10.000 iscritti.

FONTE: Elaborazione su dati Istat, Anno 2011.Migrazioni Internazionali e Interne sulla popolazione residente, pubblicato il 28 dicembre 2012 (disponibile sul sito www.istat.it/it/archivio/78706).

In generale, i dati più completi sulle donne straniere residenti in Italia e che risalgono alla fine dell’anno 2010 mostrano che le collettività più numerose per numero di donne sono la Romania, Albania, Marocco, Ucraina, Cina, Moldavia, Polonia, Filippine, Perù ed Ecuador, mentre le prime collettività per incidenza femminile sono rappresentate da Ucraina, Polonia, Brasile, Moldavia, Bulgaria, Perù, Ecuador, Filippine, Romania, Nigeria (Caritas/Migrantes, 2012).

La preponderanza femminile nei movimenti provenienti dall’Europa dell’Est sembra potersi ricondurre al massiccio inserimento di queste donne nei lavori di cura, domestici e assistenziali. Contribuisce all’inserimento in questo settore del mercato del lavoro la formazione di catene migratorie in cui chi migra precedentemente funge da mediatore nell’inserimento dei propri connazionali. Il maggiore equilibrio tra presenze maschili e femminili tra i residenti provenienti

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Equador e Filippine, anche in questo caso inseriti a maggioranza nel settore della collaborazione domestica, può essere spiegato con la maggiore anzianità migratoria di questi contingenti che ha permesso una maggiore stabilizzazione attraverso i ricongiungimenti (Ibidem). Infine, la numerosa presenza di donne dai paesi neocomunitari, quali la Bulgaria e la Romania, ha visto un forte impulso proprio a partire dall’entrata di questi paesi nell’Unione Europea che ha permesso la libera circolazione dei propri cittadini.

Tabella n. 3 - Donne straniere residenti in Italia divisa per principali cittadinanze. Anno 2010. Valori assoluti e percentuali sul totale di stranieri.

Prime 10 collettività straniere per numero di donne

Romania 529.265 54,6% Albania 223.275 46,3% Marocco 197.518 43,7% Ucraina 160.113 79,8% Cina 101.516 48,4% Moldavia 87.951 67,2% Polonia 77.603 71,2% Filippine 77.595 57,8% Perù 59.293 60,1% Ecuador 53.640 58,5%

Prime 10 collettività straniere per incidenza femminile*

Ucraina 160.113 79,8 Polonia 77.603 71,2 Brasile 32.701 70,0 Moldavia 87.951 67,2 Bulgaria 31.586 61,8 Perù 59.293 60,1 Ecuador 53.640 58,5 Filippine 77.595 57,8 Romania 529.265 54,6 Nigeria 29.064 54,2 Totale 2.369.106 51,8

* Sono esclusi i gruppi nazionali con meno di 45.000 residenti.

FONTE: Elaborazione su dati Caritas/Migrantes (2012), Dossier statistico Immigrazione, 2011.

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straniere al nostro paese. Nelle stime Istat per il 2011 emerge che il 18% delle nascite sul territorio nazionale proviene proprio dalle donne straniere. La fecondità nazionale continua ad essere concretamente sostenuta dal loro contributo: nel 2011, hanno procreato in media 2,07 figli ciascuna, valore questo in lieve calo rispetto al 2010 in cui il numero medio si attestava a 2,11 figli per donna.

Il concorso delle donne straniere all’indice di fecondità nazionale (1,42 figli) è valutabile nella misura del 12%. La loro fecondità è distribuita territorialmente in maniera simile alla situazione complessiva: è maggiore nelle regioni del Nord, dove contribuisce all’indice di fecondità dell’area del 19%, arrivando ad un picco in Emilia Romagna del 23%. Nelle regioni meridionali, invece, pur procreando in media un figlio in più rispetto alle donne italiane, contribuiscono alla fecondità generale solo del 3%. Questo dato è da ricondurre ad un indice di fecondità nazionale più alto nelle regioni meridionali oltre che alla minore presenza di immigrati nel territorio e a condizioni socio-economiche maggiormente sfavorevoli rispetto a quelle del Nord. Infine, l’età media delle donne straniere al parto è di 28 anni contro i 32 delle donne italiane (Istat, 2012c), quindi di poco inferiore.

Prendendo in considerazione i dati Istat sui cittadini non comunitari soggiornanti in Italia nel periodo 2011-2012, si può constatare che al 1 gennaio 2012 su 3.637.724 soggiornanti totali, le donne rappresentano in media il 49,5 % (Istat, 2012d) ma ancora una volta rilevando forti differenze a seconda del paese di provenienza8. Troviamo il maggior numero di donne titolari di permesso di soggiorno in Lombardia, la regione con il maggior numero di immigrati in Italia, in Veneto, in Emilia Romagna e in Lazio.

Un dato importante è la diminuzione complessiva dei nuovi arrivi dai paesi non comunitari verso in nostro paese tra il 2010 e il 2011. Nel 2011 sono stati rilasciati 361.690 nuovi permessi, quasi il 40% in meno rispetto all’anno precedente, una diminuzione che ha interessato più le donne (- 45,7%) che gli                                                                                                                

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uomini (- 33,6%). Non tutti i tipi di permesso di soggiorno hanno subito una contrazione. Si assiste ad una diminuzione dei permessi per motivi di lavoro che colpisce in particolar modo le donne con un decremento del 74% (contro il 58% degli uomini) e i permessi per motivi familiari con un decremento complessivo del 21,2%. Aumentano, invece, gli ingressi per altri motivi, in particolare per studio, per asilo e per motivi umanitari. Per quanto riguarda questi ultimi tipi di permesso, l’incidenza femminile è dell’11,6% ma ancora una volta con forti disparità secondo il paese di provenienza. Ad esempio, all’interno della popolazione nigeriana le donne che hanno richiesto questo tipo di permesso rappresentano il 31,3% del totale dei richiedenti nigeriani (Ibidem).

Si può ipotizzare che questi dati da un lato, rilevino l’impatto della crisi in termini di riduzione delle opportunità nel mercato del lavoro formale e la difficoltà degli immigrati già presenti di maturare le condizioni di reddito e di alloggio idonee a praticare i ricongiungimenti familiari. D’altro lato, i dati che rilevano una bassa presenza delle donne non comunitarie vanno letti alla luce anche di quelle che sono le nazionalità maggiormente rappresentate a livello numerico e che hanno subito importanti mutamenti rispetto al 2010. Infatti, in quest’anno il maggior numero d’ingressi è avvenuto da quei paesi in cui storicamente sono andati radicandosi movimenti a maggioranza maschile – ad esempio Marocco, Cina - mentre sono diminuiti gli ingressi da stati quali l’Ucraina, la Moldavia e le Filippine caratterizzati da una maggiore incidenza femminile, probabilmente a fronte del fatto che nell’anno precedente vi era stato un loro forte incremento a seguito della sanatoria per colf e badanti del 2009.

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Tabella n. 4 - Ingressi di cittadini non comunitari in Italia nel 2010 e nel 2011, per le prime 10 cittadinanze. Anno 2010 e 2011. Valori assoluti.

2010 2011

Marocco 64.996 Marocco 31.000

Rep. Pop. Cinese 49.780 Rep. Pop. Cinese 26.903

Ucraina 48.650 Albania 25.006 Albania 48.330 Tunisia 19.638 Moldova 42.472 India 18.444 India 38.018 Moldova 16.545 Pakistan 20.747 Ucraina 15.717 Bangladesh 20.488 USA 14.413 Egitto 20.305 Bangladesh 13.795 Perù 19.246 Filippine 13.148

FONTE: Elaborazione su dati Istat, Anni 2011-2012. Cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti, pubblicato il 25 luglio 2012 (disponibile sul sito www.istat.it/it/archivio/67648). Elaborazioni Istat su dati del

Ministero dell’Interno.

In questo quadro va tenuto conto anche della quota di donne undocumented e underdocumented presenti nel nostro territorio. Le poche stime esistenti in Italia in merito a questa fetta della popolazione non fanno distinzioni di genere e non è quindi possibile quantificare il peso dell’immigrazione femminile “irregolare”. L’Ismu (2013) stima la presenza della popolazione straniera al 1 gennaio 2012 a 5,4 milioni di unità tra residenti, regolari ma non residenti ed “irregolari”; questi ultimi vengono stimati in 326.000 unità, un dato in diminuzione rispetto al 2011 in cui se ne contavano 443.000. Tale ridimensionamento potrebbe essere ascritto agli effetti della crisi economica che porterebbero molti migranti a scegliere mete diverse dall’Italia ma anche dal fatto che buona parte degli ingressi in Italia negli ultimi anni sono avvenuti da paesi neocomunitari (vedi Tabella n. 2).

In ogni caso, è noto come l’immigrazione attraverso canali alternativi a quelli formali passi non solo attraverso l’intermediazione di network parentali e amicali ma esistano anche organizzazioni criminali che organizzano traffici di donne dai paesi d’emigrazione a quelli d’immigrazione. Oggi assistiamo alla diffusione di forme di sfruttamento non solo di tipo sessuale ma anche lavorativo e nei termini di ricatto da debito contratto al momento della partenza. Ne sono

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coinvolti quasi tutti i settori dell’economia: in agricoltura, nel settore edilizio, nel lavoro domestico, della ristorazione e dei servizi in genere (Caritas, 2012). Nel 2006 si stimava che, in Italia, il 25% delle donne che emigrano per lavorare come badanti fossero vittime di racket criminali (Chiaretti, 2009).

Ora veniamo all’analisi delle tendenze occupazionali che riguardano le donne immigrate. Secondo il Rapporto Annuale 2013 dell’Istat, le donne immigrate rappresentano il 44,3% degli occupati immigrati (+ 1,7 punti percentuali rispetto al 2011) e il 10,9% delle donne occupate totali (+ 0,6 punti percentuali rispetto al 2011). Cresce quindi progressivamente la partecipazione delle donne immigrate al mercato del lavoro seppure, come vedremo più avanti, quasi esclusivamente nel settore dei servizi.

Dal 2005 al 2011 i tassi di occupazione delle donne autoctone ed immigrate sono aumentati a dispetto di quelli degli uomini che invece sono notevolmente diminuiti, in particolare per gli uomini immigrati (che hanno perso 4,3 punti percentuali contro i 2,7 punti degli autoctoni). Contrariamente nel 2005 il tasso di occupazione delle donne autoctone era pari al 45,1% ed è salito fino a raggiungere nel 2011 il 46,1% (+ 1 punto percentuale). Maggiore è il tasso di occupazione tra le donne immigrate, anch’esso salito dal 47,6% del 2005 al 49,4% del 2011 ovvero di ben 1,8 punti percentuali (OECD, 2013).

Infine, per le donne immigrate parallelamente al tasso di occupazione è aumentato anche quello di disoccupazione (14,1 % nel 2011) di 0,8% punti percentuali rispetto al 2010, un andamento in controtendenza rispetto a quello delle donne autoctone e degli uomini che hanno subito invece un calo dello stesso tasso, seppure minimo (Ibidem).

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Tabella n. 5 - Tasso di occupazione e tasso di disoccupazione divisi per cittadinanza e sesso in Italia. Anno 2000, 2005, 2010, 2011. Valori percentuali.

Dati mercato del lavoro 2000 2005 2010 2011 Tasso di occupazione Uomini autoctoni 67,4 69,2 66,7 66,5 Uomini stranieri 82,4 79,9 76,1 75,6 Donne autoctone 39,3 45,1 45,7 46,1 Donne straniere 40,5 47,6 49,5 49,4 Tasso di disoccupazione Uomini autoctoni 8,4 6,2 7,4 7,4 Uomini stranieri 6,5 6,8 10,0 9,7 Donne autoctone 14,9 9,7 9,2 8,9 Donne straniere 21,2 14,5 13,3 14,1

FONTE: Elaborazione su dati OCSE, International Migration Outlook 2013 (disponibile sul sito http://dx.doi.org/10.1787/888932824099).

Il tasso di occupazione delle donne straniere (50,8%) è di media superiore a quello delle italiane (46,7%) ma quello delle donne straniere tra i 25 e i 44 anni è più basso di 14 punti percentuali (Istat, 2013a). Questo dato può essere ascrivibile alle difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia che incontrano le madri immigrate alla nascita dei loro figli. Nel complesso si riscontrano notevoli differenze tra le varie nazionalità: si va da un tasso di occupazione dell’85,1% delle filippine, al 59,2% delle rumene fino al 23,9% per cento delle marocchine (Ibidem).

Questi dati abbastanza positivi per quanto riguarda le percentuali di occupazione delle donne immigrate nascondono, però, un rovescio della medaglia in termini di qualità del lavoro che va a costituire il nodo centrale delle disuguaglianze che le dividono dalle lavoratrici italiane e dai lavoratori stranieri maschi. Il fenomeno principale a cui si assiste è l’aumento della segregazione occupazionale delle lavoratrici straniere nel mercato del lavoro italiano e la crisi economica sembra aver accentuato questo trend in ascesa.

L’88,6% delle lavoratrici straniere è impiegata nel settore dei servizi, di cui il 5,9% nell’ambito del commercio, l’11,2% in alberghi e ristoranti e il 46,9% nei

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servizi alle famiglie. Tra il 2011 e il 2012 sono aumentate soprattutto le occupate nel campo alberghiero (+15,1 punti percentuali) e nel campo dei servizi alle famiglie (+15,5 punti), un settore quest’ultimo, dove l’incidenza delle donne straniere rispetto all’intera popolazione femminile è di ben 76,2%.

Per quanto riguarda l’inquadramento contrattuale, il 43,2% delle lavoratrici straniere svolge una professione senza una qualificazione, il 40,6% è inquadrata come impiegata nel commercio e nei servizi e solo il 9% come operaia e il 7,2% in professioni qualificate. Oggi, appena due professioni coinvolgono più della metà delle occupate straniere – assistente domiciliare e collaboratrice domestica – quando nel 2008 ne erano necessarie cinque - cameriera, commessa, operaia addetta ai servizi di pulizia - oltre a quelle già citate.

Si conferma, così, la loro preponderante presenza nei lavori domestici, di cura, di assistenza e di servizio alle famiglie italiane, una tendenza occupazionale che abbiamo già incontrato a livello di quelle che sono le dinamiche occupazionali globali e che interessa in modo particolare l’Italia. Si calcola che nel 2011 quasi 2 milioni e 600 famiglie italiane si siano rivolte al mercato per acquistare servizi di

babysitting, assistenza agli anziani o a persone non autosufficienti o

collaborazioni in genere (Censis/Ismu, 2013). Diversi sono i fattori che nel nostro paese più di altri spingono alla domanda in questo campo. Tra questi ritroviamo l’entrata delle donne nel mercato del lavoro che pone nuove esigenze in termini di conciliazione con gli impegni familiari e la cronica insufficienza delle politiche di protezione pubblica a sostegno delle famiglie. S’intrecciano, poi, altri fenomeni quali l’invecchiamento demografico che pone nuove sfide al sistema di welfare; il cambiamento del modello familiare italiano, sempre più allungato, frammentato, con stili di vita sempre più frenetici e che, quindi, non riesce più a garantire il funzionamento di quel welfare informale, “fai da te” che, per lungo tempo, ha sopperito alla mancanza di quello statale. Infine, assistiamo negli ultimi anni a politiche di assistenza sociale e sanitaria che favoriscono sempre più la deospedalizzazione privilegiando forme di assistenza residenziale e domiciliare.

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Fondazione Ismu (2013) emerge che le donne rappresentano l’82,4% dei collaboratori domestici, di cui il 77,3% è costituito da donne di origine straniera. Una percentuale questa che sale fino all’82,4% nel Nord Italia. I principali paesi di provenienza dei collaboratori domestici stranieri sono la Romania (13,1%), l’Ucraina (9,4%) e le Filippine (7,8%) seguite da Moldavia, Marocco, Perù, Polonia, Russia.

Un dato importante che emerge da questa ricerca è costituito dall’ampia diffusione di forme di lavoro totalmente irregolare (27,7% dei collaboratori) e cosiddetto “grigio” (37,8%) che se da un lato sono svantaggiose per i collaboratori da un punto di vista contributivo, di protezione sociale e di potere contrattuale, dall’altro sembrerebbe in molti casi accompagnarsi ad un graduale consolidamento di un quadro di “tutele di fatto” ottenute dopo aver stabilito un rapporto di natura fiduciaria con gli assistiti e le loro famiglie.

Gli studi statistici rilevano che la probabilità per le donne straniere di lavorare in segmenti occupazionali low skill è nove volte superiore a quella delle italiane. Il dato è ancora più drammatico visto alla luce dei livelli d’istruzione. Nel 2012, il 49% delle lavoratrici straniere, quindi circa la metà, è sovraistruita rispetto alla professione in cui è impiegata; si tratta di livelli molto alti anche in considerazione di quelli delle italiane (20,1%) e degli occupati stranieri uomini (34,8%).

Altro fenomeno in aumento è quello della sottoccupazione che colpisce sia lavoratrici immigrate che italiane ma con un’incidenza più che doppia per le prime. Dichiarano di aver lavorato meno ore di quelle volute l’11% delle occupate straniere a fronte del 4,7% di quelle italiane.

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Tabella n. 6 - Sottoccupati, sovraistruiti e retribuzione netta mensile degli italiani e stranieri divisi per sesso. Anno 2012. Valori percentuali e assoluti in

euro.Differenza in punti percentuali ed euro.

INDICATORI

2012

Italiano Straniero Differenza MASCHI

Sottoccupati (%) 4,6 10,4 5,8

Sovraistruiti (%) 19,1 34,8 15,7

RETRIBUZIONE NETTA MENSILE (euro) 1.432 1.120 -312

FEMMINE

Sottoccupati (%) 4,7 11 6,3

Sovraoccupati (%) 20,1 49,2 29,1

RETRIBUZIONE NETTA MENSILE (euro) 1.146 793 -353 FONTE: Elaborazione su dati Istat, Rapporto Annuale 2013 – La situazione del Paese, pubblicato il 22 maggio 2013 (disponibile sul sito web http://www.istat.it/it/archivio/89629). Elaborazione su dati Istat, Rilevazione sulle

forze di lavoro.

I fenomeni del sottoinquadramento e della sottoccupazione incidono maggiormente sulle donne straniere per la tipologia di lavori a bassa qualificazione in cui riescono ad inserirsi più facilmente unito al fatto che in tempi di crisi economica, di disoccupazione e di difficoltà economiche esse sono portate ad accettare qualsiasi tipo di lavoro a qualsiasi condizione. Va aggiunto che è molto diffuso, soprattutto nei lavori di cura e di servizio presso le famiglie, la stipula di contratti di lavoro part-time in regola che non rispecchiano però le ore reali di lavoro full-time. In questo settore di mercato, come abbiamo visto, il “lavoro nero” e “grigio” è estremamente radicato e pone le donne immigrate in una condizione di potenziale maggior vulnerabilità.

Il quadro fin qui delineato si riflette nelle forti disparità a livello retributivo sia rispetto al genere che alla nazionalità. Al 2012 la retribuzione netta mensile delle lavoratrici straniere è di 793 euro mentre quella delle italiane è di 1.146 euro e quella degli stranieri maschi è di 1.120. I fattori che determinano questi livelli salariali così bassi sono molteplici: abbiamo già accennato al sottoinquadramento e alla sottoccupazione, a questi vanno aggiunti i settori d’impiego in cui sono occupate le donne straniere e che sono spesso quelli meno qualificati e che

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prevedono un minore riconoscimento dell’anzianità lavorativa. La maggior parte sono occupate a servizio di famiglie o di piccole imprese in cui le condizioni lavorative spesso sono meno tutelate. Infine, se prendiamo ad esempio il caso delle infermiere che non provengono dai paesi dell’Unione Europea, queste non hanno la possibilità di accedere al settore pubblico e sono costrette quindi a lavorare per delle cooperative con una retribuzione media inferiore rispetto ai colleghi statali e con condizioni contrattuali molto meno vantaggiose (Perocco, 2012b).

Sul versante dei contributi versati, secondo i dati rilevati dalla Fondazione Leone Moressa (2013) sulla condizione contributiva e retributiva delle donne straniere all’anno 2010, le contribuenti straniere rappresentano il 42,2% del totale dei contribuenti stranieri e tra il 2009 e il 2010 è stato rilevato un loro aumento del 5,2% a fronte di un incremento minore del 3% degli uomini. Se guardiamo al livello territoriale, però, la presenza femminile in tal senso non è omogenea: si passa al picco massimo del 49,5% in Valle d’Aosta a quello minimo in Lombardia (38,5%).

Per quanto riguarda i redditi dichiarati, questi ammontano al 37,7% dei redditi complessivamente dichiarati dai lavoratori stranieri. Anche in questo caso vi sono delle variazioni rispetto alla regione di residenza con una percentuale massima del 42% in Valle d’Aosta contro quella minima in Lombardia (31%). In generale, la distanza nei redditi dichiarati tra donne italiane e straniere è minore (- 4.734 euro) rispetto alla stessa tra uomini italiani e stranieri (- 9.122 euro).

Le nazionalità con un’incidenza maggiore di contribuenti donne sono l’Ucraina (71,2%), la Polonia (61,8%) e il Brasile (60,3%). Questo dato però va letto alla luce dei dati sulle popolazioni straniere residenti in Italia con la maggiore incidenza femminile che sono proprio Ucraina, Polonia e Brasile (vedi Tabella n. 3). L’incremento maggiore del numero di contribuenti straniere si è avuto, invece, nella comunità moldava (+21,4%), ucraina (14,6%), rumena (12,9%) e cinese (12,7%).

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disuguaglianza in quella che è la posizione delle donne immigrate nel mercato del lavoro ma è da rilevare anche come l’essere inserite nel settore dei servizi, seppure come abbiamo già ribadito più volte si tratta di un ambito del mercato caratterizzato da condizioni svantaggiose sotto diversi profili, le ha in parte preservate dall’impatto della crisi sull’occupazione (Fondazione Leone Moressa, 2013).

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