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La flessibilità del lavoro

CONCILIAZIONE TRA LAVORO E FAMIGLIA QUALI IMPLICAZIONI PER LE DONNE

4. La flessibilità del lavoro

Con la legge 53/2000 si fa riferimento anche alla promozione della flessibilità del lavoro quale strumento per permettere la conciliabilità tra lavoro e famiglia. Ancora oggi, rimane aperto il dibattito sugli effetti che la flessibilità lavorativa produce in termini di conciliazione, soprattutto per le donne e nei lavori a bassa qualificazione; si tratta di effetti che variano secondo i diversi regimi di

welfare nazionali e dei modelli culturali prevalenti. Nel caso italiano, a differenza

di altri paesi europei, la flessibilizzazione del lavoro è avvenuta a ritmi velocissimi ed in maniera deregolamentata mentre lo sviluppo delle politiche sociali e le trasformazioni culturali e familiari hanno visto un sostanziale immobilismo (Trifiletti, 2003). Se a livello europeo si può parlare di una trasformazione del mercato del lavoro che procede di pari passo con la caduta del sistema familiare del breadwinner, nel caso dell’Italia questi fenomeni si sviluppano distintamente l’uno dall’altro e con ritmi ben diversi. Nelle famiglie

dual-earner italiane, il peso del lavoro familiare continua a restare quasi del tutto

sulle spalle delle donne e a limitare il loro ingresso nel mercato del lavoro sia in termini quantitativi che qualitativi. Infatti, se da un lato, l’Italia presenta i tassi di occupazione femminile tra i bassi d’Europa, dall’altro, nell’ultimo decennio l’aumento dell’occupazione femminile è da attribuirsi prevalentemente alla loro

forte presenza in forme di lavoro “atipico” e tempo parziale.28 I lavori “atipici” e quelli a tempo parziale, con caratteristiche diverse tra loro, rappresentano le tipologie di contratto che sono meno tutelate dal nostro welfare, oltre ad essere le meno retribuite e con minori prospettive di carriera. Per certi versi rappresentano una sorta di regolarizzazione del lavoro sommerso in cui le donne già erano impiegate prima dell’inizio della trasformazione del mercato del lavoro (Ibidem). Sono forme di lavoro che, seppure facilitano il rientro di una donna nel mercato dopo la maternità, di fatto rendono stabilmente precaria e maggiormente vulnerabile la sua vita. Ad esempio, la speranza che un contratto di lavoro a termine si traduca in un contratto a tempo determinato è molto più bassa per le donne rispetto agli uomini, come molto più breve in media è anche la durata dei contratti (Istat, 2013a). In molte ricerche si mette in evidenza come l’avere un contratto a tempo determinato aumenti le tensioni a livello familiare e lo sviluppo di strategie familiari a lungo termine (Naldini, Saraceno, 2011).

Il lavoro part-time è considerato una delle forme flessibili che più di altre può consentire alle donne di conciliare lavoro e famiglia. Moltissime donne scelgono questa forma di lavoro perché non riescono a distribuire le proprie responsabilità di cura con il partner o altri familiari o i servizi. E aumenta anche il numero di donne per cui il part-time è una scelta obbligata perché non riescono a trovare lavori full-time (Eurostat, 2009; Istat 2013a).

Nel breve periodo, se l’attività è svolta ad esempio il mattino mentre i figli frequentano la scuola, l’occupazione part-time permette di trovare un equilibrio con i tempi familiari e di non entrare in conflitto con i tempi di lavoro del partner. Rimane comunque dubbio l’impatto che può avere in termini di distribuzione tra i generi dei carichi familiari poiché permette alle donne di lavorare nel mercato ma non le alleggerisce certo dal lavoro familiare. L’Eurostat (2009) calcola che le donne europee che lavorano part-time svolgono lavoro familiare per più ore alla

                                                                                                               

28 Nel 2012 l’incidenza di contratti atipici sulla popolazione femminile era del 14,7% (contro il 10,6% della popolazione maschile), mentre l’incidenza dei contratti part-time si attestava al 24,7%

settimana rispetto a quelle che lavorano full-time e che concentrano il lavoro non pagato in meno ore.

Inoltre, si assiste all’incremento del lavoro part-time soprattutto nel settore terziario, nelle mansioni meno qualificate, negli orari e nei giorni più disagevoli (Istat, 2013a). Se il lavoro si svolge in orari “atipici”, come la mattina molto presto o durante la notte, esso diventa un ostacolo alla conciliazione purché non sia stato volutamente cercato per potersi alternare con il proprio partner. E in ogni caso, nel lungo periodo, questa tipologia contrattuale che è associata a basse retribuzioni, difficili possibilità di avanzamento di carriera e bassa qualificazione si traduce proprio per queste caratteristiche, in maggiore vulnerabilità economica, rischio di povertà e insoddisfazione professionale per le donne.

Le basse retribuzioni associate a questi tipi di lavoro rendono le donne meno autonome dal reddito del partner, riproducendo una nuova versione del modello del breadwinner piuttosto che un nuovo modello di dualearner, poiché la donna aggiunge al tradizionale lavoro familiare, un contributo al reddito principale senza acquisire una posizione di parità nei carichi familiari, nei redditi e nell’autonomia rispetto al proprio partner.

E’ in questo quadro che si colloca la posizione delle donne immigrate con effetti ancor più negativi poiché esse occupano nel mercato posizioni simili alle donne autoctone ma con peggiori condizioni lavorative. Per loro la flessibilità del mercato del lavoro è connessa alla rigidità della normativa sull’immigrazione (Perocco, 2012) e questa combinazione le costringe ad accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione pur di mantenere il proprio permesso di soggiorno. Flessibilità per le donne immigrate spesso significa orari lunghi o totalizzanti, part-time non voluti, lavoro a turni, contratti solo parzialmente regolari, lavoro in giorni festivi o in ore notturne. In che modo simili caratteristiche favorirebbero la conciliazione, l’equilibrio tra vita familiare e vita professionale? Tanto più in un paese che offre pochi servizi per l’infanzia e le esclude dalle forme di protezione sociale. L’unico effetto che produce la flessibilità in questo caso è di disincentivare lo sviluppo di una vita familiare nel paese d’immigrazione per le

donne, a tutto vantaggio dello sfruttamento del loro lavoro da parte delle imprese, delle famiglie italiane e dello stato, che continuano a legittimare la loro presenza solo ed esclusivamente in quanto lavoratrici.

D’altra parte la questione della conciliazione per le donne immigrate è un tema invisibile nel dibattito pubblico e questo nonostante negli ultimi anni esse rappresentino una fetta consistente della popolazione femminile attiva nel paese. E forse non si tratta solo di un atto superficiale che include le donne immigrate in una comune condizione di genere di svantaggio. Negare la loro presenza in questo dibattito ha l’effetto consapevole di negare loro questo diritto. Escluderle dal discorso della conciliazione significa anche riprodurre lo stereotipo di donne “tradizionali” dedite esclusivamente al focolare domestico. Certo, partendo da questa impostazione la questione della conciliazione avrebbe poco senso ad essere dibattuta, non sembrerebbe essere una questione che le riguarda. In realtà, in molti casi siamo di fronte a donne che hanno maturato nel corso dei percorsi d’istruzione l’aspettativa ad un avere una vita professionale che nel nostro paese viene loro negata. Donne che vedono nel percorso lavorativo - anche nelle forme più precarie e dequalificate – oltre che nel progetto migratorio, un volano di emancipazione per sé e per la propria famiglia. Sono donne che, nonostante tutti gli ostacoli che debbono superare, cercano costantemente di trovare un equilibrio tra costruzione di un’identità individuale, smarcata dal resto della famiglia, pur non rinunciando a svolgere il proprio ruolo di madre o moglie. La ricerca e la lotta per una composizione tra vita professionale e vita familiare è una costante nel corso della loro vita, passa attraverso esperienze di perdita e di successi che si alternano in entrambi i campi di vita, in una prospettiva continuamente tesa al futuro, visto come il tempo per passi successivi di miglioramento della propria posizione professionale e sociale, a livello individuale e a livello familiare.

   

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