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La maternità e la cura dei figl

LAVORO E FAMIGLIA TRA RAPPRESENTAZIONI E REALTA’

3. Le dimensioni della vita familiare

3.1 La maternità e la cura dei figl

La maternità rappresenta un evento che stravolge la vita interiore ed esteriore di ciascuna donna che la vive. Muta la percezione di sé stesse, da donne

si diventa madri e si aggiunge un nuovo tassello alla costruzione della propria identità. L’universo percettivo personale non è più rivolto solo alla realizzazione di un proprio “io” individuale ma ingloba anche le esigenze e i bisogni che provengono da una nuova figura, un altro da sé e nel contempo parte di sé: il figlio. All’interno della logica relazionale madre-figlio, la donna scopre così la dimensione della responsabilità, «il “farsi carico” non solo di ciò che si fa, ma delle conseguenze sull’altro di ciò che si fa» (Pulcini, 2009, p. 224), un altro vulnerabile e con il quale s’instaura un rapporto d’interdipendenza reciproca. La madre inizia così a “prendersi cura” del figlio ridefinendo un nuovo ordine nelle proprie pratiche quotidiane. La nascita di un figlio rappresenta anche «un passaggio sociale all’età adulta: si diventa genitori, cioè punto di riferimento per la sopravvivenza e la crescita, sia in senso materiale che affettivo, di nuovi esseri umani, all’interno di costellazioni culturali che definiscono l’essere madre, padre, bambino» (Bimbi, 1990, p. 15).

Nella maggior parte delle interviste la scelta della maternità, per quanto riguarda il primo figlio, emerge come un esito quasi “naturale” della vita di coppia o del matrimonio. L’idea di famiglia che soggiace è quella della coppia il cui legame si consolida con la presenza dei figli. Nel caso di Samira, il diventare genitori compare anche come l’esito di una negoziazione tra i coniugi che hanno due visioni esistenziali contrastanti:

[Lei]: Lui era proprio uno di quelli che dice: “noi, come ci troviamo in questo mondo perché dobbiamo mettere su un altro che soffre?” Io ho detto: “io sono contentissima di quello che sono, ho tanti problemi ma vorrei anche esserci” invece lui no. A parte che era di una famiglia benestante, però lui sempre con musiche sua madre suonava: “eh, i figli portano impegni, che dobbiamo faticare” e lui aveva registrato questa musica e mi diceva no, o figli o niente. Una sono riuscita. La seconda non ha voluto.

(Samira, 51 anni, Iran, divorziata, assistente familiare)

Se la scelta del primo figlio nella maggior parte dei casi appare una scelta “facile”, quella di un secondo figlio diventa molto più complessa soprattutto se ci

si trova già nel paese d’immigrazione. Si nota, infatti, che gran parte delle donne intervistate (eccetto due casi) ha avuto in media uno o due figli. Per le più adulte che volgono lo sguardo al passato sono le conseguenze della migrazione, gli alti costi della vita, la povertà, le crisi coniugali ad essersi poste come ostacoli alla realizzazione del desiderio di una famiglia più numerosa.

Le donne più giovani coniugate seppure aspirerebbero idealmente ad una famiglia un po’ più numerosa (due o al massimo tre figli), esprimono sentimenti di paura uniti ad una lucida razionalità nel valutare i costi e i benefici che provengono dall’avere più figli. L’incertezza economica e lavorativa propria e dei partner, i costi diretti dei figli (spese per l’educazione e per l’allevamento), i costi indiretti (l’eventuale rinuncia al proprio lavoro come fonte di reddito), la mancanza di una rete di solidarietà familiare e il carico di lavoro (pagato e non) che si delineerebbero, s’impongono come i principali deterrenti a prendere questa scelta.

[Lei]: Ho abortito che la bambina aveva 2 anni. Avevo paura. Sempre io e lei. Come avrei fatto il corso? Anche adesso se ho un bambino come faccio? Di questi tempi come fai a fare bambini…Se viene il figlio bene ma io di mio non lo cerco. Se mio marito rimane senza lavoro come facciamo? In Romania la casa non è finita c’è solo i muri e il tetto, mancano le finestre, non ci possiamo andare…Ecco la cosa di cui ho paura è di dover mandare mia figlia con i vestiti rotti a scuola come è successo a me da piccola. E non sai quanto si soffre.

(Ester, 29 anni, Romania, coniugata, colf)

[Lei]: Mi piacerebbe un altro ma con questa crisi adesso sto ferma. Ce l’ho due e vedo che qualcosa mi manca, ma vedo che poi mi basta questo perché sono stanca tra compiti a scuola di un figlio, figlio piccolo, portarli a spasso, preparare da mangiare. La sera a gambe su perché mi stanco. Due figli forse è giusto e anch’io in famiglia siamo stati due sorelle e siamo state bene.

(Liliana, 35 anni, Moldavia, coniugata, colf)

[I]: Qual è secondo te il numero ideale di figli?

[Lei]: Ognuno ha il suo. Per me due è ideale, non si può andare avanti. A parte che la nostra vita è diventata costosa, a parte che loro hanno bisogno di

tante cose. La nostra vita non è come loro, devi essere sempre presentabile. Hai di più, devi spendere di più, hai meno, spendi meno…

(Aisha, 33 anni, Marocco, coniugata, colf)

Nel processo di scelta appaiono centrali anche le forti aspettative sulla qualità di vita che si vuole offrire ai propri figli. Innanzitutto si vuole garantire un percorso scolastico e formativo che arrivi possibilmente all’università. Ma è interessante come venga assegnato un peso anche ad aspetti più materiali, legati alla cura dell’aspetto esteriore dei figli. Da un lato, Ester vuole evitare alla figlia la condizione di povertà ma anche l’esclusione sociale che ha vissuto lei stessa da bambina proprio perché “indossava” i segni esteriori della povertà (“i vestiti rotti”). Dall’altro, le parole di Aisha fanno riflettere su come, nella società dei consumi in cui viviamo, diventi centrale la cura dell’immagine (l’”essere presentabili”). L’attenzione all’immagine dei figli può diventare, da un lato, il simbolo esteriore dell’identità dell’intero nucleo familiare, di una determinata condizione sociale, lo specchio pubblico dell’interesse dei genitori; dall’altro impone a volgere i consumi anche in questa direzione. E per le famiglie immigrate, quest’attenzione può acquistare ancora più rilevanza sotto la pressione del razzismo mediatico che li raffigura come gli stranieri “poveri” e “sporchi”.35

Accanto al calcolo dei costi-benefici e alle attese sulla qualità della vita dei figli, com’è stato delineato nel precedente paragrafo in merito ai significati attribuiti al lavoro professionale, è necessario tenere conto anche della centralità che acquista la volontà di autorealizzazione individuale nella vita delle donne. Di conseguenza, la presenza di numerosi figli con il loro carico di lavoro può essere percepita come un ostacolo alla realizzazione professionale ed individuale.

Non di rado, quindi, la scelta di avere più di un figlio diventa terreno di negoziazione tra i coniugi (ma anche di conflitto interiore) e talvolta di fronte ad una gravidanza inaspettata può indurre al ricorso ad interruzioni volontarie di gravidanza.

                                                                                                               

35 D’altro canto, in alcune interviste emerge come uno degli effetti conseguenti alla crisi economica, all’aumentare del costo della vita e alla diminuzione del reddito, sia proprio quello di

Le responsabilità connesse alla cura dei figli vengono individuate in maniera differenziata innanzitutto in base all’età degli stessi. In generale, il compito di madre che è ribadito più volte è quello di offrire un supporto economico, psicologico e offrire “il meglio che si può dare”. Si tratta di funzioni che a livello ideale, per le donne intervistate, competono allo stesso modo ai padri. Le madri che hanno figli in età scolare o prescolare sottolineano le responsabilità di cura materiale oltre che affettiva che richiedono i figli non ancora autosufficienti (“tenerli puliti”, “preparar loro un mangiare sano”, aiutarli nei compiti per la scuola, circondarli di affetto). Coloro che invece hanno figli adolescenti, nel corso degli anni hanno maturato un’idea più composita della propria genitorialità che si arricchisce della dimensione dell’educazione, intesa come trasmissione di valori, principi e stili di comportamento.

Ora, «Parsons (1974) intendeva la socializzazione dei figli come il processo di costruzione della loro personalità attraverso l’interiorizzazione della cultura della società in cui il bambino è nato, il cui nucleo centrale è costituito dalle norme e dai modelli di valore che i genitori devono trasmettere i figli» (Zanatta, 2011, p. 55). Quindi attraverso la socializzazione nella famiglia d’origine si apprendevano i modelli culturali dominanti di una data società e l’individuo veniva così addestrato all’assunzione dei ruoli adulti. Oggi, il processo di socializzazione si fa molto più dinamico e complesso all’interno delle società poiché accanto al ruolo ancora estremamente centrale della famiglia, esistono altre agenzie di socializzazione e le società sono caratterizzate da una sempre maggiore pluralità di norme di comportamento e valori che è difficile ricondurre ad un orizzonte culturale comune. Se da un lato è attraverso la socializzazione all’interno della famiglia di origine che si costruiscono i propri modelli genitoriali di riferimento, dall’altro i mutamenti sociali, economici, scientifici, le trasformazioni delle famiglie, la scolarizzazione, la stessa migrazione, pongono le madri nelle condizioni di intraprendere traiettorie di senso e pratiche genitoriali in parte nuove, in parte diverse da quelle apprese dai propri genitori. Questo duplice processo di mantenimento di norme e valori appresi nelle famiglie d’origine e nel

contempo di adattamento dei modelli educativi alle mutate condizioni socio- culturali nel tempo e nello spazio emergono nei racconti delle madri intervistate.

Alcune donne si pongono in termini di continuità rispetto a quanto imparato dalla famiglia d’origine: principi e modelli di comportamento fungono da riferimento guida per l’azione anche di fronte alle mutate condizioni dell’ambiente esterno.

[Lei]: Uguale, nello stesso modo mia mamma mi ha trattato, io tratto miei figli.

(Juliet, 43 anni, Nigeria, coniugata, operaia)

[Lei]: […] Io ho allevato mia figlia come hanno allevato me… cambiano le cose ma ho cercato  di trasmettere i principi che hanno trasmesso a me perché dico qui o là è uguale, c’è chi forma e chi lascia i figli fare quello che vogliono quindi non è che là è meglio o qua è meglio.

(Marta, 48 anni, Colombia, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

[I]: Quali sono per te i compiti di una madre?

[Lei]: Che sta ai suoi bambini no troppo vicino come una chiocciola. Bisogna imparare un po’ alla volta i compiti di madre. Perché anche noi siamo giovani impariamo passo passo. Bisogna rispettare educazione, dipende anche da famiglia in cui vive perché io ho da specchio mia famiglia e io più o meno faccio come mia madre e mio padre. Ognuno apprende quelle maniere.

(Liliana, 35 anni, Moldova, coniugata, colf)

Le madri possono diventare così il ponte di collegamento nella trasmissione da generazione a generazione di determinati valori e modi di allevare ed educare i figli. In altre interviste però le donne pongono l’accento sui mutamenti sociali, culturali, tecnologici che rappresentano per loro nuove sfide da affrontare e possono imporre un cambiamento nei modi di praticare e intendere la propria genitorialità. Anna, ad esempio, mostra come in Moldavia, nel passaggio dall’economia di stato all’economia di mercato, è stata necessaria anche una trasformazione nella concezione delle responsabilità attribuite ai genitori nei confronti dei figli. Se i suoi genitori potevano contare sullo Stato che assumeva

parte dei loro compiti educativi e materiali, oggi Anna sente su di sé tutti gli oneri del riuscire a garantire un determinato livello d’istruzione e di supportare materialmente le proprie figlie, tanto più nel paese d’immigrazione e in seguito al divorzio.

[I]: Ci sono differenze tra il tuo modo di allevare i figli tra te e i tuoi genitori?

[Lei]: Io anche do tanta libertà, decidono loro cosa fare soltanto che nel momento che se sbagliano e gli do un suggerimento devono fare così. I miei genitori erano più impegnati nel lavoro, vedevano meno. Però i miei genitori sono stati bravissimi, davano tanta attenzione però non avevano tanto tempo. E a quei tempi era così, che lo stato guardava più noi, adesso guardano i genitori e loro vedono cosa devono fare i figli, dove andare, come fare la vita. Ai nostri tempi ti davano la possibilità vai a studiare e poi dopo che studiavi e avevi la laurea, loro ti cercavano il lavoro. Prima di darti il posto di lavoro ti chiamavano e ti dicevano se volevi questo lavoro. Poi quando avevi la famiglia, per esempio, quando ci siamo sposati ci hanno dato l’appartamento. Poi l’appartamento ce lo davano secondo la professione e secondo i figli. Quando avevi secondo figlio allora ti allargavano l’appartamento. Da questo punto di vista era perfetto, solo che mancava la democrazia perché ognuno voleva fare un po’ quello che sentiva, crescere. Era più facile vivere però più difficile sapere tutto, per andare in giro a fare qualche viaggio era un po’ difficile.

(Anna, 53 anni, Moldova, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

In altri racconti il mutamento socio-culturale viene percepito in termini spaziali nel passaggio dal contesto d’origine a quello del paese d’immigrazione. Molte problematiche che si trovano ad affrontare sono ricondotte così ad una questione di “diversità culturale”. La prima questione che emerge è il disorientamento, il timore o il rifiuto di fronte ai meccanismi del consumismo e dell’evoluzione scientifica e tecnologica (in particolare computer, videogiochi, televisione) che diventano sempre più invadenti nella vita quotidiana dei bambini e dei ragazzi. Questi fenomeni vengono percepiti come caratteristici del paese d’immigrazione, spesso estranei alla propria cultura d’origine. Le riflessioni di

Aisha riassumono i sentimenti di altre intervistate (anche di provenienza geografica e culturale diversa):

[Lei]: Ogni paese ha la sua cultura. Come sono cresciuta io, è diverso come faccio crescere i miei. Anche il modo come parlano non è il mio, come si vestono, tutto diverso. A parte la cultura, perché noi veniamo da un paese arabo, ricco di cultura e c’è la religione, c’è un limite che non si può superarlo. Una volta che ti trovi chiaro che questa cosa posso farla e questa no, è tutto chiaro e non c’è complicazione. I figli di oggi a parte perché che sono sempre più fermi. Cambia il modo di crescere il figlio però devi essere sicura che quel figlio lì deve essere domani pronto ad affrontare la gente, la vita. I figli di oggi hanno bisogno di tutto, non sanno neanche il valore della roba, no fa sforzi per averla. O magari lui il mio sogno… adesso è tutto pronto, il mondo è diventato come una città in cui entri di qua ed esci di là, apre il computer, siamo diventati dentro una scatola... e non è bello. Il modo di giocare è diverso, non è come noi. Gli anni ‘80 mi ricordo che mia nonna mi faceva la bambola fatta a mano e io faccio i vestitini, ho imparato l’uncinetto…cerco sempre di creare. Adesso no, il bambino sempre attaccato tutto il giorno alla tv, guarda i cartoni animati, che sono una cosa terribile. Loro entrano dentro un mondo che non esiste che non c’è, loro pensano che non è la terra e non è bello…perché quando crescono di fronte le difficoltà non hanno una base da cui partire per affrontarle e mi dispiace. […] Cerco anch’io, perché anch’io sono stata piccolina, anche noi abbiamo tv, è vero che la tv di una volta non era come adesso 24 ore su 24, da noi giù in Marocco era dalle otto di mattina fino alle nove di sera e dopo chiudono il collegamento fino agli anni novanta, ‘93 in poi. I cartoni animati li guardavo solo una volta al giorno perché anche i genitori danno sempre uno sguardo ai figli, oggi no il contrario. Finché suo figlio guarda la tv o gioca alla playstation non rompe le scatole a sua mamma e suo papà è contentissimo. Ma lui non vede che suo figlio ha preso la strada sbagliata perché vedi il bambino quando gioca alla playstation un’ora due ore lui finisce e cosa esce? Urla, nervoso, parla in modo brutto, diventa cattivo e aggressivo.

(Aisha, 33 anni, Marocco, coniugata, assistente familiare)

Le conseguenze di un uso improprio ed eccessivo della tecnologia, lo stile di vita dei bambini chiuso tra le mura domestiche, le possibili derive comportamentali dei figli, i modelli di consumismo sfrenato sono le questioni dominanti che si trovano ad affrontare le madri immigrate alla ricerca di un nuovo

equilibrio tra i propri modelli di comportamento, la morale con cui sono cresciute e gli input che provengono dall’ambiente esterno a cui sono esposti i propri figli36. Molte di loro ne fanno un dato un culturale tipico della nostra società, spesso ponendosi in totale contrapposizione con lo stile educativo che individuano nelle madri o nel comportamento dei giovani italiani. Spesso si ribadisce provocatoriamente come essere madri significhi essere “prima mamme e poi amiche”, come si debba trovare l’equilibrio tra “flessibilità” e “severità”, insegnare ai figli ad affrontare la durezza della vita e non accontentarli in tutto, educarli al rispetto verso le persone adulte, anziane e gli insegnanti.

Un’altra questione che emerge è la “libertà” concessa alle figlie. Diverse madri intervistate hanno sperimentato nella loro giovinezza l’imposizione di tempi molto ristretti da poter godere individualmente al di fuori della famiglia. Alcune donne sono esse stesse figlie di donne immigrate e sono cresciute con i loro nonni, sottoposte a un’educazione severa e marcatamente patriarcale. In antitesi rispetto allo stile educativo dei propri caregivers, queste donne oggi lasciano maggiore libertà alle proprie figlie di partecipare alla vita sociale. Non solo, nell’esperienza di Samira, la partecipazione alla vita sociale nel paese d’immigrazione è considerata una pratica fondamentale per l’integrazione e incita così la figlia a perseguirla. L’esempio di Samira è rivelatore di come i modelli educativi possono cambiare non solo di fronte ai mutamenti sociali e culturali ma anche in risposta alla mutata posizione all’interno della società che determina nuove esigenze: da madre e giovane iraniana a madre e giovane immigrata iraniana in Italia.

                                                                                                               

36 E’ interessante riflettere sul fatto che si tratta di questioni che allo stesso modo agitano e mettono in discussione i modelli educativi e relazionali di molte famiglie italiane (Zanatta, 2011). La differenza d’impostazione consiste nel fatto che, mentre per alcuni genitori stranieri il cambiamento viene percepito in termini spaziali, dal passaggio da una società all’altra ferme ognuna in un determinato punto temporale, per i genitori italiani la percezione è inevitabilmente

[I]: Ci sono differenze tra il tuo modo di allevare i figli e i tuoi genitori? [Lei]: Io se torno indietro forse qualcosina di quell’educazione che non farei, però il resto sono contenta perché è una bambina che è cresciuta indipendente, aperta, comunica. […] Ci sono tante differenze perché troppo diversi di qua. Dovremmo scrivere un romanzo su questa cosa. Per esempio, mio padre sempre mi diceva una ragazza che torna alle otto di sera non si deve permettere di entrare perché non è più figlia di questa casa. Addirittura ti picchiava. Io sempre ho detto a mia figlia, devi uscire con i tuoi amici, se vuoi fare amicizia con la gente devi comunicare, devi andare a mangiare fuori con loro, partecipare al loro compleanno, alla loro festa, anche funerale, se vuoi amalgamarti. Se vuoi risparmiare su dieci euro per non comprarti un regalo per tua amica, per non mangiare una pizza qui non arrivi da nessuna parte. Resterai sempre chiusa iraniana, quello che sei venuta in Italia dopo vent’anni sei ancora là e non cresci mai con gente. Anzi adesso sono insoddisfatta perché lei è più italiana di me! (sorride)

(Samira, 51 anni, Iran, divorziata, assistente familiare)

Infine, un’ultima problematica emersa nel corso di alcune interviste e che le madri immigrate si trovano a dover affrontare con ben pochi termini di riferimento genitoriali o culturali che siano, ruota intorno agli atti di razzismo che possono subire i loro figli al di fuori della famiglia. Come insegnare loro ad affrontarli? Che ruolo deve assumere il genitore nei confronti di tali azioni? Nel caso di Eva che ha figli ancora molto piccoli, questa rappresenta una forte preoccupazione per il futuro e trasmette nel suo racconto un senso d’impotenza di fronte alla percezione di non poter evitare una simile sofferenza ai propri figli che anche se sono nati in Italia e “sono italiani” per la società rischieranno sempre di essere etichettati come stranieri.

[Lei]: […] Io ho paura del razzismo per i miei figli. Anche a lavoro tanti vengono e pensano che io sono loro badante. Io rispondo che se sono qui vuol dire che ho capacità di fare il mio lavoro di infermiera come gli altri. Io