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Bisogni e percezioni intorno alla questione della conciliazione

STRATEGIE DI CONCILIAZIONE

4. Bisogni e percezioni intorno alla questione della conciliazione

Nell’affrontare il tema della conciliazione tra sfera familiare e lavorativa e della ricerca di un equilibrio tra questi due ambiti sono emerse tre questioni fondamentali. Innanzitutto è da premettere che le donne che svolgono un lavoro part-time sono anche quelle che sembrano percepire meno le problematiche connesse al tema e appaiono generalmente soddisfatte dell’equilibrio creatosi anche quando gran parte del lavoro familiare pesi sulle loro spalle e si dichiarino affaticate dai pesi quotidiani. D’altro canto, però, esse pagano queste chance per

la conciliazione con la precarietà dei lavori in cui sono inserite e, in parte, con la dipendenza oggettiva dal reddito dei coniugi.

Per le donne che lavorano a tempo pieno, il problema fondamentale risiederebbe nello sbilanciamento dei tempi del lavoro rispetto al tempo che si vorrebbe passare in famiglia e con i figli e che è percepito come scarso. Di fronte alle necessità economiche, però, si tratta di un tempo, quello dedicato al lavoro, che non è possibile comprimere. Di conseguenza alcune di loro pongono l’accento sulla necessità di puntare sulla qualità del tempo passato insieme ai familiari piuttosto che sulla quantità:

[I]: In generale sei soddisfatta di come sono organizzati i tempi di lavoro e i tempi familiari o vorresti avere più tempo per qualcos’altro?

[Lei]: Beh più tempo ci sta. Vorrei ma non si può perché tra un po’ dovremo anche lavorare 18 ore per sopravvivere quindi… no, per me non è la quantità del tempo ma la qualità.. adesso mia figlia è grande, autonoma però si ricava qualche oretta da condividere, qualcosa che piace fare insieme e quello è il modo di interagire con i giovani.

(Marta, 48 anni, Colombia, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

[I]: Quali sono per te le difficoltà più grandi per riuscire a organizzare tempo di lavoro e per la famiglia?

[Lei]: Soprattutto dedicare il tempo per le figlie, a me sono mancate, sono cresciute che non mi sono neanche accorta. Io non dico che ogni genitore deve stare sei ore con il figlio ma io ero due, tre ore e mi dedicavo come sostanza, facevo la doccia insieme, giocavo, le truccavo, ero giovane anche io e compravo vestitini per loro ma giocavo anch’io con loro, non pensare che non giocavo. Questo è il problema allora, che mi dispiace che non le portavo magari ad imparare a ballare, loro piacevano di ballare sai, e io non avevo tempo e neanche possibilità economicamente perché io qua dovevo comprare il frigo, la televisione, perché qua sono venuta con due borse, senza niente, senza sapere niente.

(Alina, 51 anni, Bosnia-Erzegovina, coniugata, operatrice socio-sanitaria)

Accanto alla lunghezza delle giornate lavorative si pone anche la criticità dei tempi “non-standard” del lavoro che si fatica a sincronizzare con quelli dei

servizi e con i bisogni dei figli e su cui spesso si possiedono ristretti margini di negoziazione con i datori di lavoro.

[I]: Quali sono per te le difficoltà nel riuscire a trovare un equilibrio tra lavoro e famiglia?

[Lei]: L’accessibilità degli orari… un po’ non vorrei iniziare alle quattro e mezza, vorrei iniziare alle cinque e mezza per stare con mia figlia e per studiare (Marta sta seguendo il corso per qualificarsi operatrice socio-

sanitaria), l’ora che finisco sette e mezza mi va bene, non vorrei finire più

tardi. Più volte ho chiesto alla mia responsabile guarda per piacere... [I]: Fanno fatica a venirti incontro?

[Lei]: Sì, fan fatica ma anche non vogliono, più che non vogliono. Perché dicono ne hai bisogno, fai così o fai così. Visto che ne hai bisogno accetti lo stesso. Perché adesso ce ne sono tanti che cercano lavoro e allora se ti va bene così sennò c’è la porta e vai prendo un altro.

(Maria, 29 anni, Colombia, nubile, assistente familiare)

In secondo luogo, diverse donne intervistate esprimono primariamente il bisogno di una rete familiare di sostegno e con la quale condividere le responsabilità di cura. Un bisogno che si rivela indicatore delle diverse culture della cura dei bambini e dei modelli di genere a cui aderiscono le intervistate.

[Lei]: Non c’è nessuno che aiuti. Qua più pesante, là in mio paese c’è sorelle, mia mamma che possono tenere bambini, tutta mia famiglia. Qua sono solo io, è my duty.

(Juliet, 43 anni, Nigeria, coniugata, operaia)

In terzo luogo, gran parte delle donne intervistate individua il problema della conciliazione come una questione primariamente economica. Le necessità economiche spingono le donne a lavorare di più, costringendole ad allontanarsi dalla famiglia nello spazio e nel tempo. Emerge, così, una visione della conciliazione quale privilegio delle classi agiate e come problema per le classi medio-basse, costrette a piegarsi alle esigenze lavorative e a rinunciare alla dimensione affettiva. Per certi versi, questa percezione ribadisce implicitamente una naturalizzazione del ruolo della donna quale principale detentrice delle

responsabilità di cura. Infatti, per alcune donne intervistate, risolvere la questione economica avrebbe significato poter dedicare più tempo agli altri familiari, anziché permettere di accedere, ad esempio, a servizi a pagamento.

[I]: Di cosa avresti avuto maggiore bisogno per riuscire ad organizzare meglio impegni di lavoro e impegni familiari?

Diciamo che se avevo più soldi non avevo così bisogno di lavorare da cominciare da capo.

(Alina, 51 anni, Bosnia-Erzegovina, coniugata, operatrice socio-sanitaria)

Inoltre, a riprova del modello di genere che vede la madre come figura centrale nella cura, si aggiunge che non è mai stata espressa la necessità di una maggiore condivisione delle responsabilità di cura con i coniugi.

Infine, gran parte delle donne intervistate si riconosce nella figura di

manager della cura all’interno delle proprie famiglie, capace di organizzare i

propri tempi e quelli degli altri familiari, di comporre e combinare le risorse formali e informali a disposizione in un unico quadro unitario.

[Lei]: Beh, io mi sono rivelata perché non pensavo di esserlo una persona organizzata, cerco di ottimizzare i tempi e io veramente sono bravissima a farlo, io mi scrivo e cerco di fare mille cose anche a lavoro tra una persona e l’altra. Noi abbiamo degli spostamenti e io riesco a mettere insieme tutto.

(Marta, 48 anni, Colombia, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

 

Le parole di Marta riassumono efficacemente la figura della donna della

doppia presenza che combina, coordina e sincronizza i tempi e le attività svolte

Conclusioni

Questa ricerca ha tentato di fornire un quadro complessivo dei termini entro i quali si costruisce la questione della conciliazione tra ambito lavorativo e ambito familiare e privato per le donne immigrate in Italia.

Le migrazioni internazionali introducono nuove esigenze di conciliazione che non sono più comprimibili all’interno della dialettica tra i tempi del lavoro e i tempi per la famiglia poiché i membri di una stessa famiglia si trovano, in diverse fasi della vita, dislocati tra i confini delle nazioni. Le famiglie, le donne e gli uomini immigrati sperimentano così nuove tensioni, sono portatori di nuovi bisogni e nel contempo mettono in atto nuove strategie nella composizione e nella ricerca di un equilibrio anche tra gli spazi del lavoro e gli spazi della vita familiare. Da un lato, sono sottoposti all’influenza delle politiche di conciliazione attuate nei paesi d’origine e a quelle dei paesi d’immigrazione. Al centro, però, svolgono una funzione cardine le politiche migratorie del paese d’immigrazione, nel caso in esame l’Italia, che attraverso l’istituto del ricongiungimento familiare rendono il diritto all’unità familiare stratificato in base all’appartenenza nazionale e alla classe e che condizionano l’accesso dei cittadini immigrati ai diritti sociali e civili del paese. Si costruisce così un frammentato sistema di disuguaglianze tra cittadini autoctoni, immigrati e all’interno della popolazione immigrata stessa, in relazione ai diritti che vengono loro concessi o negati dallo Stato e dalle amministrazioni locali. Si assiste a politiche che tendono implicitamente a scoraggiare l’entrata delle persone immigrate e delle loro famiglie usando come deterrente la limitazione all’accesso al welfare, la negazione di diritti umani fondamentali ma anche condizionando l’accesso al mercato del lavoro. E in questo senso la questione della conciliazione s’inserisce in un dibattito più ampio

intorno alla necessità del riconoscimento dei diritti fondamentali e di cittadinanza alle cittadine e ai cittadini immigrati all’interno degli stati nazionali, senza discriminazioni di nazionalità, di genere e di classe.

Si è dimostrato che, proprio alla luce di questi fattori, anche quando le donne immigrate riescono a ricongiungersi nel paese d’immigrazione o a costruirvi qui la propria famiglia, la questione della conciliazione dei tempi non si esaurisce all’interno di una questione di genere che le tocca allo stesso modo delle donne autoctone.

Alla luce del quadro generale sull’influenza delle politiche migratorie e per la conciliazione introdotte in Italia, attraverso i risultati della ricerca qualitativa, si è voluto dare voce all’agency delle donne immigrate che quotidianamente ricercano un equilibrio tra ambito lavorativo e ambito familiare ed in particolare alle madri immigrate. Si è visto come le strategie messe in atto nella quotidianità sono influenzate anche dalle risorse economiche, culturali, sociali di ciascuna donna e ancora dalla conoscenza del territorio e delle normative, dalle culture della cura di cui sono portatrici, dai contratti di genere e intergenerazionali presenti nelle rispettive famiglie e a cui aderiscono, dalla classe sociale di appartenenza. Per questo si è ritenuto che l’intervista qualitativa fosse lo strumento più adatto per cogliere, il più approfonditamente possibile, l’insieme e la varietà di questi aspetti.

La maggior parte delle donne intervistate, inserite all’interno del mercato del lavoro, per lo più nel settore dei servizi, sono donne con livello d’istruzione medio-alto. Sono donne che nel corso degli anni di studio hanno maturato un’idea del lavoro per il mercato che esula le mere necessità economiche e si riempie di numerose valenze simboliche. Il lavoro ha rappresentato nella loro vita il tramite per l’indipendenza economica, per l’emancipazione, per l’acquisizione di diritti di cittadinanza. Nello stesso tempo, queste rappresentazioni si scontrano con le dure condizioni lavorative sperimentate quotidianamente in Italia: il sotto- inquadramento, i lunghi orari di lavoro, i contratti precari o la totale assenza di un contratto formale, turni in orari “non-standard” e “asociali”, le frequenti

discriminazioni razziali da parte di colleghi e datori di lavoro. A fronte di simili difficoltà, le donne incontrate non sembrano aver abbandonato le valenze attribuite al lavoro, talvolta ricercano nuovi significati, molte continuano ad investire nella formazione e in questo modo cercano di mantenere un senso unitario alla propria biografia professionale, anche quando questa è stata spezzata. Accanto vi è la sfera familiare e in un’accezione più ampia la sfera della vita privata in cui si mescolano tempo per gli altri, tempo con gli altri, tempo libero e

tempo per sé (Calabrò, 1996). Si tratta di una sfera che si articola in base ai tempi,

agli spazi e all’organizzazione del lavoro, in cui il tempo libero rappresenta un tempo scarso e il lavoro familiare acquisisce una forte centralità, soprattutto quando i figli non sono ancora autosufficienti o si hanno a carico genitori anziani bisognosi di cura. Tra le esperienze raccolte, si articolano rappresentazioni, pratiche e culture della cura in parte simili e in parte diverse tra loro, in cui influisce la dislocazione dei membri della famiglia attraverso i confini e che vedono ancora centrale il ruolo della donna quale prestatrice e organizzatrice della cura sia nei confronti dei figli che dei genitori anziani e degli altri familiari.

Per quanto riguarda, nello specifico, le strategie attuate in Italia per conciliare impegno nel lavoro remunerato e impegno nel lavoro familiare, in riferimento alle responsabilità di cura nei confronti dei figli, si conferma uno scarso impatto delle politiche offerte dalla normativa nazionale, eccetto per quanto riguarda l’uso dei servizi per l’infanzia. Rispetto alle normative sul lavoro, le donne intervistate non hanno la possibilità (per il tipo e l’assenza del contratto di lavoro) o non sono propense all’utilizzo dei congedi, a causa della forte pressione esercitata dai datori di lavoro e della volontà di mantenere una sorta di dignità lavorativa in vista del mantenimento del rapporto di lavoro ma anche data la scarsa conoscenza della normativa. Per chi svolge lavoro di assistenza o domestico presso le famiglie, la negoziazione informale con il datore di lavoro assume un ruolo centrale. Se nel caso delle esperienze di gravidanza e di maternità, i diritti delle donne intervistate sono stati calpestati, per quanto riguarda la concessione di permessi per la cura dei figli o simili, emerge come il legame di

fiducia che si crea dopo anni di servizio presso una stessa famiglia, possa fungere da risorsa per la conciliazione, colmando il vuoto normativo.

E’ in particolare l’incongruenza tra l’organizzazione e l’accessibilità dei servizi (per l’infanzia, scolastici, extra-scolastici) e l’organizzazione e i tempi del proprio lavoro che spinge le donne intervistate ad attivare le proprie risorse informali per poter conciliare la presenza sul mercato con le responsabilità familiari. Vengono così coinvolti nella cura e nell’accudimento dei figli, i coniugi, i familiari della famiglia estesa presenti nel paese d’immigrazione, persone con cui s’intrattengono legami amicali e di solidarietà.

L’inserimento in reti di solidarietà intergenerazionali all’interno di una stessa famiglia e la capacità di attivare relazioni dense di reciprocità anche con persone estranee alla cerchia familiare, sono emersi come risorse fondamentali per permettere di distribuire i carichi di cura nei confronti dei figli. D’altra parte, nelle coppie sposate, il coinvolgimento dei coniugi è apparso tanto più forte laddove la crisi economica ha portato un ridimensionamento della loro presenza sul mercato del lavoro.

Il ricongiungimento di altri familiari della famiglia estesa al fine di avere una rete di solidarietà nel paese d’immigrazione, è risultata una soluzione contradditoria, in cui pesano le negoziazioni tra i membri della famiglia, i calcoli sui costi e i benefici che quest’azione comporterebbe e le limitazioni imposte dalle leggi sull’immigrazione. Invece, il ricongiungimento per prendersi cura dei genitori anziani non più autosufficienti è emerso come una pratica frequente, supportata dal valore assegnato alla cura dell’anziano nella famiglia, dalla condivisione delle pratiche assistenziali principalmente tra le generazioni di donne appartenenti alla famiglia e dalle stesse normative sul ricongiungimento.

Alla luce di questi risultati, un discorso sulla conciliazione non può esimersi dal proporre alcuni campi d’azione sui quali, a nostro avviso, le politiche sociali a livello nazionale e locale potrebbero indirizzarsi per l’inclusione delle donne immigrate nel discorso pubblico sulla conciliazione.

Un primo ambito d’azione tocca la sfera del lavoro. E’ noto come le politiche nazionali italiane sulla conciliazione non siano ancora state in grado di affrontare i mutamenti in atto nell’organizzazione del lavoro, caratterizzati da flessibilità e precarietà. Coloro che ne scontano maggiormente i risvolti negativi, sono coloro che sono inseriti in lavori “non-standard”, atipici e precari, non solo immigrati, ai quali non sono riconosciute le stesse tutele. Sebbene sia auspicabile un ampliamento della gamma dei diritti sul lavoro “non standard”, questo non può non andare di pari passo con campagne di sensibilizzazione e di formazione volte allo sviluppo di culture aziendali più sensibili alle esigenze familiari di tutti i lavoratori, donne e uomini. Servirebbero azioni di promozione per adottare politiche e strategie organizzative family-friendly, intervenendo così sull’organizzazione del lavoro non solo in base alle esigenze produttive delle aziende ma anche in armonia con i bisogni familiari delle proprie lavoratrici e dei propri lavoratori e favorendo pratiche di coinvolgimento, d’integrazione e di trattamento paritario tra lavoratori autoctoni ed immigrati. Strategie di questo tipo andrebbero a vantaggio dello stesso interesse delle aziende perché si tradurrebbero nella presenza di un clima più collaborativo, con la presenza di lavoratrici e di lavoratori più motivati e positivi.

Per quanto riguarda il lavoro domestico, che sconta una storica debolezza in materia di tutele da parte delle normative nazionali, solo in minima parte colmata dalla contrattazione collettiva, il 22 gennaio 2013 l’Italia ha ratificato la Convenzione n. 189/2011 (e relativa Raccomandazione n. 201) dell’ILO sul “Lavoro dignitoso per le lavoratrici e i lavoratori domestici” volta a migliorare la legislazione nazionale in materia di lavoro domestico. La ratifica di questa Convenzione apre uno spiraglio sul riconoscimento di protezioni sociali e di condizioni di lavoro più dignitose e regolamentate, al pari di altre categorie di lavoratori. Sicuramente il primo passo in termini di conciliazione dovrebbe riguardare l’estensione delle garanzie a tutela della maternità e rivolte ad agevolare la cura dei figli. Si auspica così che nei prossimi anni la ratifica della suddetta Convenzione abbia un impatto decisivo sulle leggi nazionali che

verranno implementate, con conseguenze importanti sulle condizioni di vita delle lavoratrici immigrate, di cui, ricordiamo, quasi la metà è occupata a servizio delle famiglie italiane. Data però la diffusione del fenomeno del lavoro “nero” e “grigio” e delle discriminazioni sul lavoro in questo settore, è importante, a livello locale, offrire spazi pubblici di discussione, di confronto e d’informazione volti ai cittadini e alle famiglie autoctoni, con l’obiettivo di promuovere il rispetto dei diritti delle lavoratrici.

Il secondo ambito d’azione è quello dei servizi per l’infanzia. E’ noto come in Italia non vi sia ancora un’equa distribuzione sul territorio dei servizi per l’infanzia. In questa sede, però, vorremmo porre l’attenzione sul fatto che le necessità di conciliazione in relazione alla presenza di figli piccoli, non si esauriscono con la frequentazione delle scuole dell’infanzia ma proseguono almeno fino alla fase della loro pre-adolescenza. Di qui l’importanza di estendere la presenza delle scuole primarie che prevedano il tempo pieno anche nei piccoli comuni della provincia e di organizzare servizi di pre-scuola o dopo-scuola gratuiti o accessibili economicamente anche alle fasce di reddito medio-basse.

Inoltre, sarebbe necessario promuovere un orientamento teso ad individuare i servizi per l’infanzia come luoghi privilegiati entro i quali è possibile sperimentare laboratori di socializzazione tra le famiglie e d’integrazione e coinvolgimento delle famiglie immigrate. Nel corso della ricerca è emersa la rilevanza che possono assumere le risorse relazionali attivate dalle donne immigrate per la conciliazione. Asili nido, scuole dell’infanzia, se capaci di mettere in relazione le famiglie, possono essere luoghi strategici entro i quali tessere legami tra madri e padri con bisogni simili e dove possono nascere esperienze di mutuo aiuto e d’integrazione delle famiglie immigrate nel tessuto sociale del paese d’immigrazione.

Il 7 febbraio 2013, con la Dichiarazione scritta n. 32, il Parlamento Europeo ha chiesto la designazione dell’anno 2014 come l’ “Anno Europeo della Conciliazione tra Vita Professionale e Vita familiare” (European Year for

consapevolezza negli Stati membri UE sulle politiche di conciliazione, impegnare i decisori politici sulle politiche della famiglia e promuovere buone pratiche per la conciliazione. Questa designazione potrebbe rappresentare l’opportunità per includere nel dibattito politico nazionale ed europeo intorno alla conciliazione anche l’analisi delle nuove esigenze che emergono alla luce delle migrazioni internazionali e della posizione di vulnerabilità delle donne e delle famiglie immigrate nel contesto nazionale, data dalle disuguaglianze nell’accessibilità ai diritti di cittadinanza, nell’ambito lavorativo e nel godimento del diritto fondamentale all’unità familiare. Le politiche a supporto della conciliazione dovrebbero così affrontare la questione non più esclusivamente indirizzandosi verso la riduzione delle disuguaglianze tra i generi ma includendo il riconoscimento di diritti senza discriminazioni di classe e di nazionalità.

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