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Il lavoro retribuito: realtà, rappresentazioni e mutament

LAVORO E FAMIGLIA TRA RAPPRESENTAZIONI E REALTA’

2. Il lavoro retribuito: realtà, rappresentazioni e mutament

L’organizzazione e i tempi del lavoro influiscono profondamente su quella che è l’organizzazione familiare. A monte, però, vi è anche una forte valenza simbolica attribuita alla sfera lavorativa nel corso della vita, che non sempre riduce il lavoro per il mercato al solo tramite del soddisfacimento delle necessità economiche. Ecco quindi che in questo paragrafo si tracceranno le contraddizioni e le ambivalenze che emergono dall’associazione delle rappresentazioni delle donne immigrate alle reali condizioni delle attività professionali in cui sono occupate.

Le donne incontrate nel percorso di ricerca sono impiegate tutte nel settore terziario, in mansioni per lo più a bassa qualificazione e in netto contrasto con i livelli d’istruzione e le qualifiche acquisite nel paese d’origine. Le occupazioni svolte sono quelle di colf, baby-sitter, assistente familiare, assistente socio- sanitaria, infermiera, operaia, impiegata. In questo senso si tratta di un campione rappresentativo delle tendenze e della segregazione occupazionali delle donne immigrate in Italia, tema già trattato nel primo capitolo.

La migrazione e l’inserimento lavorativo in Italia segnano un declassamento rispetto ai percorsi d’istruzione e ai lavori svolti nel paese di provenienza dove queste donne erano infermiere, architette, psicologhe, ragioniere, insegnanti, diplomate e laureate. Questa caratteristica di sottoinquadramento, evidenziata negli studi soprattutto riguardo le donne provenienti dall’Est europeo, emerge nella mia ricerca come trasversale alle diverse aree di provenienza (Europa, Sud America, Africa, Medio-Oriente). Dalle testimonianze emergono chiaramente i

diversi ostacoli che le donne immigrate incontrano nel far valere i propri titoli di studio in Italia. L’informazione in merito all’equiparazione dei propri diplomi è uno dei primi atti che si compiono una volta “regolarizzata” la propria posizione giuridica. Purtroppo il riconoscimento dei titoli passa attraverso le procedure burocratiche, il sostenimento di esami, lo svolgimento di corsi presso le università, tutti passaggi che si scontrano con numerose altre difficoltà, soprattutto nei primi anni di migrazione: la scarsa conoscenza della lingua italiana, del territorio e dei suoi servizi; l’impegno economico che questi passaggi richiedono; i lunghi orari di lavoro necessari per il proprio sostentamento, per quello delle famiglie nonché per mantenere il proprio statuto giuridico ed ottenere il ricongiungimento dei propri familiari; non da ultime, le difficoltà connesse alla presenza di figli piccoli che richiedono un maggiore dispendio di tempo nelle attività di cura.

[Lei]: (infermiera) Sempre ho lavorato anche quando sono nate le figlie. Ho preso un periodo di maternità e poi ho ricominciato (nel paese d’origine). Poi è scoppiata la guerra e siamo scappati e sono venuta qua e il mio diploma non valeva niente praticamente e non sapevo neanche una parola di italiano. Allora dal primo momento ho lavorato andando a pulire le scale, mettevo annuncio, pulivo le scale, cercavo le donne che avevano bisogno di pulizie. Avevo una, poi lei trovava un’altra e così via una catena. Sicché due anni dopo ho cominciato a parlare, anche a capire abbastanza. Tramite assistente sociale sono andata in una cooperativa a lavorare come assistente domiciliare nel territorio. Dopo quella volta che mi hanno assunto ormai faccio praticamente venti sul territorio.

(Alina, 51 anni, Bosnia-Erzegovina, coniugata, operatrice socio-sanitaria)

[I]: Sei riuscita a far riconoscere il tuo titolo di studio?

[Lei](In Moldova svolgeva la professione di ostetrica) No, perché al Ministero della Salute ti devono riconoscere tutti i tuoi studi e non è facile farli riconoscere. Con quelli studi che ho fatto, io ho fatto tradurre e ho portato tutti i documenti a Trieste e ci hanno riconosciuto 800 ore come OSS (assistente socio-sanitaria) ma nemmeno ti danno l’OSS completo per lavorare in ospedale. Anche è giusto che ti deve fare altre ore perché noi non sappiamo tutti i termini, è normale che bisogna fare scuola per conoscere

tutto, imparare. So come fare pratica, in teoria è più difficile perché bisogna sapere tutto, tutti i termini, tutte le medicine, tutte le cose.

(Anna, Moldova, 53 anni, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

[Lei]: (in Moldova svolgeva la professione di professoressa di disegno

tecnico) Si, adesso mi sono informata per entrare più avanti, perché qua mio

diploma non vale. Ho fatto traduzione, mi serve entrare in una facoltà di architettura grafica e al terzo anno mi prendono per finire mio studio. Ce l’ho metà… mi riconoscono una parte come per fare maestra e insegnare a bambini piccoli ma mi serve finirla proprio tutto il corso di laurea. Adesso con bambino piccolo sono ferma altri tre, quattro anni. Iniziare a 35 anni lo studio non è facile quando c’è lavoro, bambini. Quando crescerà il piccolo, sì. Mi mancano i miei genitori per aiutare, faccio tutto da sola cosa vuoi, non riesco con orari di mio marito, orari miei, bambini adesso non ce la faccio. Per prendere baby-sitter adesso non ce la faccio.

(Liliana, Moldova, 35 anni, coniugata, colf)

All’aumento dell’età e della presenza sul territorio delle donne immigrate, si osserva un movimento verso mansioni a più alta qualificazione, seppure sempre nello stesso settore d’impiego32. Le più giovani e con una minore anzianità migratoria occupano le mansioni a più bassa qualificazione (colf, assistente familiare) mentre le donne più adulte svolgono attività maggiormente qualificate (impiegata, assistente socio-sanitaria). Non solo, anche la tipologia dei contratti di lavoro cambia. Per le più giovani spesso il contratto di lavoro è assente, a tempo determinato o in forma atipica. Per le più grandi, al contrario, è spesso a tempo indeterminato. Questa mobilità in ascesa, seppure in misura ridotta e compressa dalle opportunità del mercato del lavoro italiano per le donne immigrate, rappresenta il frutto di un impegno costante nel tentativo di far riconoscere i propri titoli in Italia e nella formazione professionale in genere. Con il tempo, le donne immigrate acquisiscono maggiore padronanza della lingua italiana, migliorano l’integrazione nel tessuto sociale e la conoscenza del territorio, i figli crescono e diventano più autonomi e tutto ciò permette di avere maggiori chance e                                                                                                                

32 Nella mia ricerca emerge come questa mobilità professionale in ascesa sia strettamente dipendente anche dal livello d’istruzione delle donne intervistate e dal numero di figli in età

più tempo materiale da investire nell’ambito della formazione e della propria riqualificazione nel paese d’immigrazione. Questo tipo d’investimento è riconfermato anche dall’esperienza delle donne che al momento dell’intervista si dichiaravano formalmente disoccupate. Si tratta di donne che sono uscite dal mercato del lavoro con la maternità e che riscontrano difficoltà a rientrarvi. Questo periodo non rappresenta per loro una fase d’inattività ma anzi, parte del tempo viene dedicato alla formazione (ad esempio attraverso la frequentazione di corsi professionali o corsi per l’ottenimento della patente di guida) e allo svolgimento di lavori saltuari di tipo informale in casa o a domicilio (estetista, parrucchiera, sostituzioni temporanee di conoscenti nelle attività di colf o assistente familiare).

La volontà di accrescere nuovamente il proprio capitale professionale nel paese d’immigrazione dimostra come le donne immigrate non si limitino a guardare al lavoro esclusivamente come ad un mezzo per il sostentamento economico. Il lavoro per il mercato è visto anche come un ambito di crescita personale e di formazione di parte della propria identità individuale cui non si vuole rinunciare.

Alla base di queste aspettative nei confronti del lavoro retribuito sta un fattore comune ovvero quello della partecipazione al percorso d’istruzione. Come abbiamo già evidenziato, le donne intervistate possiedono un profilo formativo mediamente alto: hanno un diploma di scuola superiore o un diploma di laurea e la maggior parte ha avviato già nel paese d’origine una propria carriera lavorativa. Lungo il percorso degli anni d’istruzione, al pari delle autoctone, esse maturano l’aspettativa di svolgere la professione per cui hanno studiato e sviluppano l’idea del lavoro come una risorsa nella costruzione di una propria identità individuale ed autonoma. Il lavoro rappresenta, quindi, innanzitutto una scelta per la maggior parte di loro. Non solo, si tratta di donne che spesso si confrontano e s’identificano con il modello genitoriale, in particolare delle proprie madri anch’esse lavoratrici.

[I]: Cosa ti ha portato a scegliere a lavorare?

[Lei]: Miei genitori hanno sempre lavorato, mia mamma lo stesso e neanche non penso sai… stare a casa ferma è un po’ difficile. Mi piace casa, mi piace bambini, mi piace preparare di mangiare ma mi stanco ogni tanto, vado fuori per una passeggiata. Miei genitori hanno sempre lavorato e sono sempre stata così, abituata così.

(Liliana, 35 anni, Moldova, coniugata, colf)

[Lei]: Il lavoro è una cosa a sé, è parte della vita. Nella mia famiglia di origine i miei genitori lavoravano tutti e due, mia mamma è una donna di una certa età perché noi siamo quattro figli e io sono l’ultima nata dopo tantissimi anni che magari non aspettavano quindi mia mamma è grande rispetto alla mia età. Mia mamma per la sua età era una donna emancipata, quindi lei ha studiato, è stata una donna diplomata nei suoi anni, ha fatto la maestra per quarant’anni e uno cresce in base al suo modello. Ovviamente che c’era la gente che lavorava come mia madre ma nei suoi tempi la maggioranza in percentuale faceva la casalinga, in una grande percentuale la donna era fatta per fare la mamma e la casalinga, moglie. Noi siamo quattro figli laureati e quindi lei ha puntato solo quello. Quindi è cresciuta in quell’ambito la cosa del lavoro. E’ un peso anche da portare e da trasmettere ai figli. A volte è un peso.

(Marta, 48 anni, Colombia, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

Nonostante la migrazione rappresenti un momento di rottura e di svalorizzazione del proprio percorso professionale, un “dover ricominciare da capo” come viene definito più volte dalle intervistate, ritroviamo la riconferma della dimensione della scelta proprio nell’investimento fatto in termini di formazione nel paese d’immigrazione. Le donne immigrate nel corso della vita si pongono in una prospettiva di crescita, di acquisizione di nuove competenze, alla ricerca di elementi che arricchiscano il proprio profilo professionale ma anche personale. E non si tratta solo di una considerazione fatta in merito a quelle donne più adulte che hanno intrapreso questo tipo di percorso ma di una disposizione comune in cui si pongono anche le più giovani che non rinunciano a progettare e costruire giorno per giorno il proprio futuro professionale.

Il dato importante che emerge dai racconti è che il lavoro per il mercato non risponde solo ed esclusivamente a necessità economiche ma assume anche una forte valenza simbolica sotto molteplici fronti.

Innanzitutto esso assume il significato di mezzo attraverso il quale raggiungere una propria indipendenza materiale ma non solo. Risponde ad un bisogno di autonomia che, in base ai vissuti personali, trova il suo termine di opposizione nella dipendenza da altre figure quali il partner o i genitori. Ad esempio, le donne divorziate o coloro che vivono esperienze coniugali difficili vedono nel lavoro il motore dell’autonomia economica e psicologica rispetto ai partner. L’attività lavorativa rappresenta un’ancora di salvataggio, ciò che permette di non dover subire le scelte e le limitazioni imposte da altri. In altri casi, l’acquisizione del lavoro viene vissuta come un momento di emancipazione rispetto alla famiglia di origine.

[I]: Cosa ti ha portato a scegliere di lavorare?

[Lei]: Perché mi sentivo più sicura come donna. Avere la mia libertà, i miei soldi, poter comprare quello che voglio, non dipendere dall’uomo perché è sbagliato secondo me e l’ho detto anche alle figlie. Una donna deve avere sua indipendenza perché noi siamo purtroppo come delle vecchie scarpe dopo un periodo ti lasciano sola e tu devi ricominciare magari con quarantacinque, cinquant’anni da capo. Allora questo, capisci.

(Alina, 51 anni, Bosnia-Erzegovina, coniugata, operatrice socio-sanitaria)

[I]: In generale cosa ti ha portato a scegliere di lavorare?

[Lei]: Perché prima di tutto prima era mia mamma che mi dava tutto. Se lavoro faccio quello che voglio, ho le mie cose, compro quello che voglio per mia figlia, magari mi dò qualcosa in più che stare a chiedere tutto a mia mamma, così. Dipendere dagli altri no.

(Maria, 29 anni, Colombia, nubile, assistente familiare)

E’ interessante notare come per Alina, per Maria e per altre donne intervistate, l’indipendenza conquistata attraverso il lavoro si traduce nel possesso e nella gestione autonoma del denaro guadagnato («avere i miei soldi») e nella conseguente capacità di poter scegliere come indirizzare i propri consumi e i

propri investimenti («compro quello che voglio»). Riflesso della società dei consumi in cui si costruisce, l’indipendenza dalla famiglia d’origine e dai partner è percepita anche nei termini dell’appropriazione di un proprio potere decisionale nell’acquisto di beni sul mercato.

Accanto alla costruzione simbolica della relazione tra attività lavorativa e indipendenza, si delinea anche una rappresentazione dell’ambito lavorativo come spazio di visibilità e di partecipazione pubblica e sociale della donna sia nelle società di partenza che in quelle di arrivo. Uno spazio entro il quale poter acquisire “cittadinanza”, diritti sociali e nel contempo poter dispiegare le proprie potenzialità creative e la propria soggettività. Attraverso il lavoro sarebbe possibile affermare un proprio io indipendente e nello stesso tempo complementare a quello che si costruisce nell’ambito familiare, dimostrare a sé e agli altri la propria personalità, le proprie capacità individuali e trarre forza e sicurezza interiore da questa dimostrazione.

[Lei]: Lavorare è bello, è utile. A me piace anche essere indipendente perché tutta la vita l’ho fatto… si, avendo un lavoro ti senti anche un po’ indipendente. E poi mi piace essere un po’ forte, mostrare a me stessa che io devo, che faccio tutto. Mi piace avere iniziativa in tutto.

(Anna, 53 annia, Moldova, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

[I]: Perché hai scelto di lavorare?

[Lei]: Perché fa parte della mia personalità. Io sono una persona attiva […] Secondo me la donna non è fatta per stare solo a casa, dentro di lei c’è una forza che può creare, può fare. Se lei sta a casa cosa può dare a parte i bambini, il mangiare. Deve fare la sua vita. Per esempio mio marito lavora, fa la sua attività. E allora anche io devo trovare la mia strada.

(Aisha, 33 anni, Marocco, coniugata, assistente familiare)

[Lei]: Perché io sono un tipo molto attivo, perché mi piace avere diritti sociali. Anche in Iran lavoravo. A parte che Iran è un paese che anche dimostrano che siamo gente fanatici ma la gente non è fanatica. La gente è buona, educata, studiata, però ci presentano così. Lì ci sono una parte di uomini che non vogliono le donne che lavorano ma io ero di quelli che ho combattuto sempre per quello che ho. Nessuno non mi ha regalato niente. Io avevo l’idea di lavorare per essere in mezzo di gente, capire, per essere utile

perché non mi sentivo utile di essere solo una mamma. Infatti, ho scelto un marito che era d’accordo che io lavorassi.

(Samira, 51 anni, Iran, divorziata, assistente familiare)

Osserviamo così come per queste donne idealmente il lavoro può permettere di soddisfare anche il bisogno di socialità, di allargare le proprie conoscenze, di svolgere attività utili agli altri. Non solo, emerge anche l’idea di una donna lavoratrice come donna “attiva”, capace di “iniziativa” quasi a sottendere che la donna “casalinga” rappresenti il suo contrario, chiusa all’interno delle mura domestica e sottomessa alle esigenze e alle scelte altrui.

Ora, tenendo presente la posizione di immigrate delle donne intervistate, il valore simbolico assegnato loro all’attività lavorativa si scontra con due ordini di questioni.

La prima questione ruota intorno alla diversa collocazione nel mercato del lavoro italiano rispetto a quella del paese d’origine. Come abbiamo già sottolineato più volte, l’inserimento delle donne immigrate avviene in lavori ritenuti scarsamente qualificati, con poche prospettive di crescita e spesso in condizioni svantaggiose, talvolta ben poco inerenti ai percorsi di studio intrapresi, svolti in ambienti chiusi come quelli delle mura domestiche delle famiglie autoctone. Questi elementi potrebbero indurre a pensare che in realtà vi sia uno svuotamento delle dimensioni valoriali che hanno portato queste donne ad accedere al mondo del lavoro. Questo non è del tutto vero. Il lavoro per il mercato nel paese d’immigrazione si profila come un ambito contradditorio nelle loro esperienze, una sfera in cui si attuano scomposizioni e ricomposizioni di significato. Memori delle esperienze nel paese di provenienza, il lavoro rimane il tramite verso l’emancipazione ma è anche un “peso” (usando le parole di una delle intervistate) e determina numerose privazioni su più fronti.

Il fardello del lavoro emerge nei racconti in quattro dimensioni fondamentali: le condizioni discriminatorie relative all’organizzazione e alla contrattazione del rapporto di lavoro; le discriminazioni giornaliere da parte di datori di lavoro, di utenti e colleghi; la rinuncia a svolgere la professione per la

quale si sono investiti anni di studio e di esperienza nel paese d’origine. Infine, per le donne che svolgono un lavoro a tempo a pieno e le madri sole, si aggiunge l’impossibilità di poter condividere tempi e spazi con i propri affetti, in particolare i figli33.

Nel corso della ricerca ho incontrato madri sole che lavorano “a tempo pieno” (e anche oltre il tempo pieno e svolgendo più lavori nello stesso periodo), madri coniugate che lavorano “a tempo pieno”, madri coniugate che lavorano “a tempo parziale” e madri formalmente disoccupate che svolgono lavori informali saltuari34.

Per quanto riguarda l’organizzazione dei tempi del lavoro e le condizioni contrattuali osserviamo che soprattutto le donne che svolgono attività “a tempo pieno” (se non più attività lavorative contemporaneamente) affrontano orari di lavoro estremamente lunghi che possono arrivare alle tredici anche quindici ore giornaliere, sei giorni su sette o sette giorni su sette. Nel caso delle assistenti familiari che condividono il domicilio presso le famiglie per cui lavorano, gli orari diventano ancora più totalizzanti. Anche nell’assistenza a domicilio erogata dalle cooperative si richiede un’elevata flessibilità di orari da parte delle donne che vi lavorano o la copertura di più turni e seppure vengano stabiliti a priori certi limiti temporali, questi possono venire inaspettatamente allungati a seconda del bisogno degli utenti. Anche quando la durata giornaliera dell’attività lavorativa appare sopportabile, come emerge dalla testimonianza di Dolores, il lavoro si svolge in tempi che possiamo definire “asociali” e disagevoli.

[I]: Mi descriveresti questo lavoro. Per esempio, che orari hai?

[Lei: Io ho degli orari un po’, purtroppo, son come vogliono loro e non come vorrei io (Maria lavora presso una cooperativa di servizi nell’assistenza

domiciliare di anziani e disabili). Perché io inizio alle sette... è un anno che

                                                                                                               

33 Questo ultimo aspetto più propriamente inerente alla conciliazione tra lavoro e famiglia verrà approfondito nel prossimo capitolo.

34 In realtà la distinzione classica tra lavoro “a tempo pieno” e lavoro “a tempo parziale” non è del tutto esatta, esaustiva e per certi versi si potrebbe definire una terminologia anacronistica. Infatti, i lavori in cui sono occupate le donne del campione sono caratterizzati da un’elevata flessibilità di orari, che mutano nel corso di periodi anche brevi e non sono riconducibili a forme di lavoro

inizio alle sette e mezza ma prima iniziavo sempre alle sette del mattino. Prima vivevo con mio fratello e mio zio, allora loro non lavoravano ed erano loro che portavano, andavano a prendere a scuola mia figlia. Perché io all’inizio lavoravo dalle sette fino alle due del pomeriggio, riiniziavo alle tre e alle quattro poi fino alle nove, nove e mezza di sera. Allora mia figlia in pratica la vedevo prima di andare a lavoro che dormiva e quando tornavo da lavoro che dormiva ancora. Per un po’ ho dovuto far così ma ad un certo punto mi sono stancata e poi ho detto basta… magari vorrei lavorare di meno e ho iniziato a lavorare un po’ di meno per stare un po’ con mia figlia. Adesso inizio il turno di pomeriggio alle quattro.

[I]: Lavori dal lunedì al sabato?

[Lei]: Si, dal lunedì al sabato e abbiamo i turni della domenica che facciamo una domenica si e una no.

(Maria, 29 anni, Colombia, nubile, assistente familiare)

[I]: C’è qualcosa che non ti soddisfa in questo lavoro?

[Lei]: Quando gli orari sono finiti e no, devi andare ancora avanti un’ora, mezz’ora… però quando vedi l’orario…è perché anche tu hai tuoi impegni però devi fare lo stesso.

(Aisha, 33 anni, Marocco, coniugata, assistente familiare per una cooperativa di servizi)

[Lei]: Prima che nascesse mio figlio facevo pulizie otto, dieci ore al giorno dal lunedì al sabato. Ho fatto tanti lavori insieme: volantinaggio, pulizia, promoter… lavoravo dal lunedì alla domenica. Con la gravidanza sono rimasta ferma perché con quei lavori non potevo fare niente. Nato mio figlio