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L’impatto degli strumenti legislativi a sostegno della conciliazione

STRATEGIE DI CONCILIAZIONE

1. L’impatto degli strumenti legislativi a sostegno della conciliazione

Nel secondo capitolo è stato evidenziato come il sistema italiano degli incentivi a carattere finanziario preposti dalle politiche sociali nazionali e territoriali (assegni di maternità, assegni per il nucleo familiare, bonus bebè) e diretti al supporto della maternità e della natalità determini una stratificazione degli aventi diritto in base al reddito, al possesso della residenza, alla posizione giuridica e all’anzianità di residenza sul territorio. Ne consegue l’esclusione da queste prestazioni di tutte le immigrate e gli immigrati di Paesi Terzi che possiedano un permesso di soggiorno inferiore ai cinque anni.

Nella ricerca solo Juliet, in possesso di permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, ha potuto godere dell’assegno di maternità alla nascita degli ultimi due figli (di quattro) mentre le altre donne intervistate ne sono rimaste escluse poiché non avevano ancora maturato i requisiti di anzianità di soggiorno richiesti (esclusi ovviamente i casi in cui la nascita dei figli sia avvenuta nel paese d’origine). A fronte delle difficoltà che spesso molte donne immigrate affrontano per regolarizzare la propria posizione giuridica, mantenere il permesso di soggiorno e maturare così i requisiti di anzianità richiesti, paradossalmente per

molte di loro sarebbe più alta la probabilità di poter accedere a queste prestazioni in fasi di vita più avanzate, in cui si è meno propense a progettare un’altra gravidanza. E’ evidente come una legislazione siffatta tenda a disincentivare le coppie immigrate alla figliazione nel paese d’immigrazione e sia propensa, invece, ad assegnare maggiore valore alla promozione della maternità delle donne autoctone, distribuendo le risorse secondo un criterio di appartenenza nazionale. Il diritto ad accedere a queste prestazioni viene così usato come uno strumento di

governance. La sua negazione alla popolazione immigrata permette, da un lato, di

sostenere la propria cittadinanza nazionale e dall’altro si impone, insieme alla negazione di altri diritti sociali, come deterrente per gli esclusi a costruire una famiglia nel paese d’immigrazione.

In secondo luogo, si è visto che le normative nazionali per supportare la maternità e la paternità risultano inadeguate di fronte alle trasformazioni odierne dell’organizzazione del lavoro. Rimangono tutelati i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato mentre chi è inserito in altre forme di lavoro “non standard” ne viene del tutto o parzialmente escluso. Caso a sé stante è costituito dal lavoro domestico che lungo tutto il corso della storia della sua normativizzazione è sempre stato caratterizzato dall’insufficienza di tutele.

Ora, nel corso della ricerca è emerso un sostanziale non utilizzo degli strumenti predisposti dalle normative sul lavoro per tutelare la maternità e la cura dei figli piccoli. Per le donne intervistate che hanno vissuto la gravidanza e la maternità in Italia, la prima conseguenza diretta è stata l’uscita involontaria dal mercato del lavoro nei primi anni di vita dei figli. Si tratta per lo più di donne impegnate come collaboratrici familiari, domestiche a ore o badanti, per le quali la mancanza di un contratto di lavoro è stato il fattore principale che ha determinato il loro licenziamento. Solamente Marika, possedendo un contratto part-time, ha potuto godere dell’indennità di maternità (seppure non calcolato in base alle ore di lavoro realmente effettuate poiché il contratto formalizzava solo parte dell’orario di lavoro) e dell’astensione obbligatoria ma successivamente ha dovuto rinunciare al posto di lavoro perché non poteva soddisfare le esigenze dei suoi datori.

[I]: Con la nascita di tuo figlio è cambiato qualcosa per quanto riguarda il lavoro?

[Lei]: All’inizio sì poi si è sistemato tutto. Dopo la maternità sono rimasta a casa un anno perché la signora aveva altre richieste e io non potevo con il figlio. Dopo un anno mi ha ricontattato ho avuto fortuna perché non gli piaceva come lavorava la signora che mi aveva sostituito e ho riiniziato il lavoro.

[I]: In quel periodo avevi cercato altro lavoro?

[Lei]: Certo perché a sei mesi ho inserito all’asilo nido mio figlio ma non l’ho trovato.

(Marika, 27 anni, Romania, coniugata, colf)

Nel caso di Eva, invece, anche in presenza di un contratto di lavoro, il datore è ricorso ad un probabile licenziamento “illegittimo”:

[I]: Mi parleresti della tua carriera lavorativa prima e dopo la nascita dei tuoi figli?

[Lei]: Prima di avere i miei figli lavoravo in una casa di riposo poi appena nati ho avuto un po’ di difficoltà nel senso che avevo cambiato il lavoro, sempre come infermiera in un casa di riposo dalle suore e mi sono trovata in cinta nel periodo di prova e quindi sono rimasta a casa … perché ero mal informata. Nel senso che quando io ho telefonato ad un ufficio e mi hanno detto che non potevo fare niente poi alla fine la legge delle donne dice che appena sei in cinta e sei a tempo indeterminato il tuo posto di lavoro dovrebbe essere valido.

[I]: Quindi se l’avessi saputo avresti fatto valere i tuoi diritti? [Lei]: Si, perché il contratto era già firmato.

(Eva, 34 anni, Romania, coniugata, infermiera)

Si osserva, quindi, da una parte una tendenza dei datori di lavoro ad eludere le norme sulla tutela della maternità avvantaggiandosi anche della scarsa conoscenza delle normative da parte delle dipendenti straniere. Dall’altra parte, si rilevano la difficoltà o l’impossibilità delle donne intervistate a far valere i propri diritti a causa della presenza di rapporti di lavoro informali, della poca dimestichezza con la normativa sul lavoro e dello scarso supporto in tal senso da parte delle istituzioni del paese d’immigrazione.

Per quanto riguarda i congedi parentali e i congedi per malattia del figlio, anche in questo caso si riscontra un generale inutilizzo degli strumenti. Innanzitutto, non sono emerse testimonianze di utilizzo di congedi parentali da parte dei mariti delle donne intervistate. Questo dato è imputabile a numerosi fattori che si rifanno all’inadeguatezza dello strumento, al modello culturale che vede la madre quale principale figura prestatrice di cura del figlio, all’assenza di contratti di lavoro “standard”, alla scarsa conoscenza e divulgazione sui luoghi di lavoro delle leggi sulla conciliazione e alla pressione esercitata sui lavoratori immigrati sui luoghi di lavoro.

Un’interessante questione è emersa, invece, intorno ai congedi per malattia del figlio. Se le madri lavoratrici riescono a creare delle consuetudini per conciliare la cura dei figli con le ore lavorative, la malattia del figlio piccolo rappresenta un evento eccezionale che può scompaginare l’intera organizzazione e richiede la ricerca di soluzioni immediate. Diverse donne incontrate non hanno avuto la possibilità di utilizzare questo strumento perché hanno ottenuto un contratto a tempo indeterminato (o sono riuscite ad effettuare il ricongiungimento) ad un’età dei figli superiore agli otto anni (termine entro il quale poterlo utilizzare). Altre, sono inserite nel lavoro domestico la cui normativa non ne prevede l’accesso oppure in lavori in assenza di alcun contratto. Per altre ancora, la pressione dei datori di lavoro e la richiesta implicita del mantenimento di una sorta di fedeltà e di onestà lavorativa in cambio del contratto a tempo indeterminato tanto agognato - fedeltà che i datori sembrerebbero misurare anche in relazione al numero di assenze - conduce a limitare l’uso dei congedi o a privilegiare soluzioni alternative che non intacchino la loro dignità lavorativa e di conseguenza non mettano a rischio il proprio posto di lavoro. Tra le soluzioni informali sono emerse la contrattazione individuale ed informale con le famiglie e gli assistiti per cui si lavora, l’affidamento della cura ad altri parenti, amici o il ricorso a baby-sitter (qualora le risorse economiche lo consentano).

[I]: Hai la possibilità di prendere permessi per malattia o per cura dei familiari?

[Lei]: Avendo il contratto part-time potrei chiederlo ma non chiedo certi diritti che potrei avere perché ho bisogno di mantenere me e mio figlio. Ho fatto anche molti lavori in nero, molto di meno da due anni perché l’anno scorso mi è venuto un tumore.

(Dolores, 41 anni, Perù, divorziata, impiegata)

Dolores sebbene sia a conoscenza della possibilità di utilizzare questo strumento preferisce non avvalersene poiché la priorità è data alle esigenze economiche del suo nucleo familiare.

[I]: Se c’erano delle emergenze, ad esempio, la bambina era ammalata? [Lei]: (Marta ha un contratto full-time a tempo indeterminato con una

cooperativa) Beh poche volte però se serve noi abbiamo la possibilità di

chiamare e non venire al lavoro. Poi quando il figlio è inferiore di una certa età la malattia del figlio comporta anche la mamma. Nel mio settore di lavoro è possibile, basta non esagerare.

(Marta, 48 anni, Colombia, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

[I]: Puoi chiedere permessi per malattia dei figli?

[Lei]: Sì, adesso sì (adesso Aisha ha un contratto a tempo indeterminato), posso anche saltare un giorno non c’è problema. Prima facciamo contratti di 6 mesi in 6 mesi... dico la verità con M. (la cooperativa per cui lavora) ho fatto solo due volte. La terza A. (il datore di lavoro) mi ha detto no, c’è un punto che dobbiamo fermare, c’è qualcosa per dire. Allora qualche volta sto’ a casa ma sai bello di questo lavoro qual è... diventiamo come una famiglia. Quando loro sentono che tua figlia è ammalata basta solo telefonare, per esempio: «Renata, oggi mia figlia ha le febbre come facciamo? ». «No, cara stai a casa, ti diamo il pomeriggio quando hai il posto libero vieni». Un giorno per te, un giorno me. Ti trovi che dopo, con il tempo, siamo una famiglia perché loro conoscono tutto di me, anche i miei bambini e mio marito se oggi ho una festa a casa loro sanno, se ho ospiti loro sanno, tutto tutto.

(Aisha, 33 anni, Marocco, coniugata, assistente familiare)

Marta, operatrice socio-sanitaria presso una cooperativa, sottolinea come il congedo per malattia dei figli sia un diritto concesso nel suo ambito lavorativo ma

di cui è possibile godere tenendo presente di un clima di chiusura e di stretto controllo da parte dell’azienda. Esperienza e percezione che riemergono anche nella testimonianza di Aisha (assistente familiare per una cooperativa) la quale però è riuscita a creare una relazione di fiducia e apparente reciprocità con le famiglie che assiste e che le permette di oltrepassare le rigidità del rapporto di lavoro esistente con la cooperativa da cui è formalmente assunta. Questo legame relazionale congiuntamente alle caratteristiche di flessibilità del tipo di lavoro, agevolano la negoziazione informale in merito ai tempi d’organizzazione del lavoro traducendosi in una risorsa fondamentale per la conciliazione. Anche nel caso delle donne incontrate che svolgono le mansioni di colf, baby-sitter e assistenti familiari coabitanti, il rapporto informale e di fiducia che si crea con le famiglie e che scaturisce dalla partecipazione e dalla condivisione nel tempo e negli spazi degli aspetti più intimi, privati e familiari, diventa una risorsa indispensabile. Di fronte alle necessità delle lavoratrici dipendenti, le famiglie/datori di lavoro concedono permessi per la malattia dei figli e permettono loro di portarli appresso sul luogo di lavoro se non addirittura di coabitare con loro, colmando così le assenze di tutela che caratterizzano il lavoro domestico o la mancanza di un contratto. Spesso le madri lavoratrici incontrate, come nel caso di Aisha, leggono e vivono queste “concessioni” come relazioni di reciprocità che concretamente nascono però all’interno di rapporti di scambio ineguali. Infatti, la relazione tra lavoratrice domestica e famiglia/datore di lavoro si fonda sulla “prestazione” del servizio da parte della lavoratrici a condizioni sfavorevoli e sulla “concessione” di margini di libertà alle stesse. L’impossibilità di definire confini certi tra sfere compresenti e tra loro contradditorie ovvero le relazioni di solidarietà che possono nascere e la presenza di un contratto formale o informale del lavoro, contiene in sé dei rischi. Se vi possono essere azioni di solidarietà non è detto che vi sia anche reciprocità incondizionata da parte dei datori di lavoro, come si è visto nei casi della gravidanza delle lavoratrici. Il legame di presunta fiducia che s’instaura si fonda spesso sull’assenza di un contratto, sulla precarietà del rapporto di lavoro e sulla richiesta di orari flessibili e mutevoli e di fronte a

queste caratteristiche che rendono più debole la posizione delle lavoratrici, la concessione di un permesso di malattia costituisce una minima garanzia da parte dei datori.

[I]: Quando ci sono delle emergenze e per esempio il bambino è ammalato come fai? Fai ricorso alla babysitter ma hai anche la possibilità di chiedere permessi?

[Lei]: (ha un contratto part-time a tempo indeterminato con una

cooperativa) Sinceramente non so come funziona con la malattia dei miei

figli qua in Italia. Riusciamo a gestire la situazione con la babysitter e a volte mio marito è a casa la mattina (svolge due lavori organizzati a turni) e li tiene lui. Oppure mi metto in malattia e sto’ a casa con i figli.

(Eva, 34 anni, Romania, coniugata, infermiera)

Infine, Eva non usufruisce dei congedi per malattia del figlio perché non è a conoscenza di questo diritto che le spetta e così utilizza alternativamente l’”astensione dal lavoro per malattia” oppure ricorre al mercato o alla condivisione della cura dei figli con il coniuge.

In sostanza nel corso della ricerca, seppure non possa essere rappresentativa in termini quantitativi, è emerso un debolissimo impatto degli strumenti legislativi diretti alla tutela della maternità e alla conciliazione degli oneri della cura con le esigenze lavorative. Le cause principali si possono far risalire alla pressione a cui sono sottoposte le lavoratrici (e i lavoratori) all’interno delle aziende che va letta anche alla luce delle necessità economiche e di mantenimento del proprio posto di lavoro, indispensabile per la conservazione della propria posizione giuridica e dei requisiti per l’eventuale ricongiungimento familiare dei parenti prossimi.

Per coloro che sono inserite poi nel lavoro domestico, è la stessa forma contrattuale o la sua assenza a lasciarle con ben poche tutele, sebbene la contrattazione informale con i datori di lavoro possa colmare alcune lacune normative. Infine, non trascurabile è la mancanza di conoscenza delle normative italiane sul lavoro volte alla tutela della maternità su cui spesso fanno leva i datori di lavoro.

Tra gli strumenti formali a disposizione delle donne immigrate per la conciliazione, come si è visto nel secondo capitolo, vi è il ricongiungimento familiare che può permette di riportare la conciliazione ad un problema di tempi piuttosto che di spazi. Se il ricongiungimento dei figli emerge come passo fondamentale e un obbiettivo primario da raggiungere, le valutazioni in merito al ricongiungimento dei genitori appaiono più complesse. E’ da considerare che una parte delle intervistate sia costituita, a sua volta, da figlie ricongiunte e che un’altra parte avesse ancora genitori che svolgevano attività lavorativa nel paese d’origine. Detto ciò, coloro che fanno trasparire dai loro racconti di aver preso in considerazione questa via, parlano di negoziazioni con i potenziali ricongiunti fallite e di calcoli sui costi e i benefici che le hanno portate ad escludere per il momento la fattibilità del progetto.

[Lei]: A volte vorrei che venissero qui ad aiutarmi ma poi penso che sarebbe difficile. Due bocche in più da dare da mangiare e c’è la crisi.

(Dolores, 41 anni, Perù, divorziata, impiegata)

[I]: C’era la possibilità che venissero i nonni qui ad aiutarti?

[Lei]: No, adesso sono qui (in vacanza). Però quella volta no, perché è difficile, non volevano lasciare la sua terra, il viaggio è lunghissimo… adesso sono più anziani e vengono.

(Marta, 48 anni, Colombia, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

E’ da tenere presente che leggi sull’immigrazione non agevolano certo il ricongiungimento de jure dei genitori. Infatti, è possibile ricongiungere solo i genitori oltre i 65 anni che non abbiano possibilità di essere assistiti da altri familiari nel paese d’origine. Non a caso, tra le testimonianze raccolte affiorano più frequentemente racconti su genitori malati o non autosufficienti che vengono ricongiunti per prestare loro assistenza.