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L'evoluzione della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro

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Academic year: 2021

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(1)

L‟EVOLUZIONE DELLA RAPPRESENTANZA SINDACALE NEI

LUOGHI DI LAVORO

Marco Jacopo Francini

INDICE

Introduzione ... 4

CAPITOLO 1 – LA RAPPRESENTANZA NEI LUOGHI DI LAVORO NEL PERIODO PRE-STATUTARIO ... 7

1.1. Le Commissioni Interne ... 7

1.2. Le Sezioni Sindacali Aziendali ... 11

1.3. I Delegati ed i Consigli di Fabbrica ... 13

CAPITOLO 2 – LA DISCIPLINA LEGALE DELLA RAPPRESENTANZA: L‟ART. 19 E LE RAPPRESENTANZE SINDACALI AZIENDALI ... 18

2.1. L‟articolo 19 della legge 300/1970 nella sua formulazione originaria ... 18

2.1.1. Requisiti per la costituzione di R.S.A. ... 20

2.1.2. Struttura delle R.S.A. ... 25

2.1.3. Dubbi di costituzionalità e risposte della Consulta... 26

2.2. Il referendum del 1995 ed il nuovo art. 19. ... 38

2.3. (ancora) dubbi di costituzionalità. ... 44

2.4. La sentenza 231/2013 della Corte Costituzionale (rinvio). ... 53

CAPITOLO 3 – LA DISCIPLINA NEGOZIALE DELLA RAPPRESENTANZA: LE RAPPRESENTANZE SINDACALI UNITARIE ... 54

3.1. Il decennio ‟80: dalla rottura del Patto Federativo al tentativo di ripristino dell‟unità di azione sindacale. ... 54

3.1.1. I Consigli Aziendali delle Rappresentanze sindacali (CARS). ... 56

3.2. La ritrovata unità sindacale nei luoghi di lavoro: le Rappresentanze Sindacali Unitarie. .... 58

3.2.1. La struttura mista e la clausola del terzo riservato. ... 61

3.2.2. La questione del c.d. cambio di casacca del membro di R.S.U. ... 66

3.2.3. La diffusione delle R.S.U. tra clausola di salvaguardia e coesistenza con le R.S.A. ... 71

3.2.4. La titolarità dei diritti della R.S.U. tra collegialità e dimensione plurisoggettiva. ... 73

(2)

3.4. Il “trittico” di Accordi e le nuove R.S.U. ... 79

CAPITOLO 4 – IL CASO FIAT v. FIOM: LA FRAGILITA‟ DELLA DISCIPLINA E L‟INTERVENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE ... 87

4.1. Gli antefatti: motivazioni alla base della vicenda. ... 87

4.1.1. (segue) I motivi di necessità. ... 88

4.1.2. (segue) I motivi di opportunità. ... 89

4.2. Da Pomigliano a Mirafiori: cronaca del “Caso Fiat”... 90

4.3. I contenuti del nuovo CCSL ed i rapporti con il sistema contrattuale. ... 94

4.3.1. La parte normativa ... 94

4.3.2. La parte obbligatoria ... 96

4.3.3. L‟efficacia dei nuovi contratti ... 98

4.4. La questione della rappresentanza sindacale in azienda ... 100

4.5. I ricorsi della FIOM e l‟approdo alla Consulta. ... 104

4.5.1. L‟interpretazione letterale ... 105

4.5.2. L‟interpretazione sistematica ... 107

4.5.3. Le ordinanze di rimessione ... 109

4.6. La sentenza n. 231/2013 della Corte Costituzionale ed il nuovo articolo 19. ... 114

CAPITOLO 5 – IL FUTURO DELLA RAPPRESENTANZA SINDACALE. . 120

5.1. Il dibattito dottrinale all‟indomani della sent. 231/2013 ... 120

5.1.1. La partecipazione alle trattative: soluzione al problema o spostamento del problema? ... 123

5.2. Una legge sindacale: le ragioni del no ... 127

5.3. Sulla necessità di una nuova disciplina della rappresentanza ... 130

Conclusioni ... 135

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(4)

Introduzione

Il presente lavoro si pone l‟obiettivo di esaminare in modo organico la materia della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, a partire dai primi, timidi, affacci delle neonate associazioni sindacali all‟interno delle fabbriche, fino ai giorni nostri.

L‟esigenza dei lavoratori di essere tutelati anche all‟interno dei luoghi di lavoro, indubbiamente primaria, si colloca cronologicamente nello stesso periodo in cui sono nate le prime, embrionali, associazioni a tutela dei lavoratori, ma a tale indubbia esigenza ha fatto il paio una generale reticenza nei confronti della materia, non solo ‒comprensibilmente‒ da parte del datore di lavoro, ovviamente restio a portare così vicino ai suoi interessi l‟avversario, ma anche da parte delle stesse associazioni sindacali, da un lato perché preoccupate maggiormente a soddisfare l‟obiettivo di ottenere una tutela minima unitaria in tutto il territorio nazionale, specie una CGIL che da sempre privilegiava una disciplina unitaria ad ogni costo, e dall‟altro timorose di non riuscire a gestire con efficacia dei bisogni che, a quel livello, guardano necessariamente più alle tasche che ai principi, rischiando così di compromettere ulteriormente un tasso di sindacalizzazione che, nel 1960, si attestava attorno ad un preoccupante 25%.

Alla luce di ciò non stupisce l‟assetto confusionario che la materia assunse a partire dal secondo dopoguerra, con organismi che, da semplici aggregazioni di lavoratori, diventarono in pochi anni gli interlocutori ufficiali del contropotere datoriale, costringendo i sindacati a “curarsi di loro”, riconoscendoli e cercando di farli propri in itinere. Queste sono in definitiva le Commissioni Interne, organismi nati dall‟effettività, e solo dopo fatti rientrare nell‟universo sindacale per meriti

sul campo.

Gli anni del c.d. miracolo economico vedono dunque principalmente nelle fabbriche le Commissioni Interne, organismo misto elettivo-sindacale che, abusivamente, si occupava anche di contrattazione, e sporadicamente le Sezioni Sindacali Aziendali, create da e per il sindacato, in aperto contrasto alle prime, per cercare di controllare maggiormente i luoghi di lavoro.

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La situazione cambierà radicalmente alla fine degli anni ‟60, quando anche i sindacati verranno travolti dal vento di cambiamento alimentato dalla classe operaia che porterà alla nascita dei delegati, espressione della volontà di uno stretto collegamento tra rappresentanti e rappresentati, senza filtri. Anche in questo caso le associazioni sindacali dovranno riconoscere ex post un organismo di espressione spontaneistica, cercando di ricondurlo entro il proprio alveo. A questo punto il legislatore non può più esimersi da disciplinare una materia che, dati i numerosi aspetti toccati ed i rilevanti interessi in gioco, non poteva più essere posticipata: nasce così nel 1970 il c.d. Statuto dei Lavoratori, volto a regolare organicamente tutte le sfaccettature della presenza sindacale in azienda, eliminando ‒o quantomeno mitigando‒ una situazione di completa anomia che si risolveva in una deleteria incertezza circa i rapporti di forza e gli interlocutori. Da qui la trattazione si sdoppia, seguendo una realtà che vede, ancora oggi, la contemporanea vigenza di due diverse discipline relative alla rappresentanza sindacale in azienda: quella legale e quella negoziale.

Ci si occuperà in primis della fonte legale, ed in particolare dell‟art. 19 del suddetto Statuto, la porta d‟ingresso alla c.d. legislazione di sostegno che, a determinate condizioni, consente alle associazioni sindacali di godere di ulteriori diritti ‒rectius, privilegi‒ in azienda. Il capitolo, dopo una doverosa disamina dei caratteri delle neonate rappresentanze sindacali aziendali, si concentra proprio sui requisiti d‟accesso ai suddetti privilegi, oggetto di attacchi da parte delle organizzazioni che non disponevano della chiave per goderne. L‟art. 19 quindi diviene oggetto di numerose pronunce da parte della Corte Costituzionale che, chiamata a vagliarne di volta in volta la rispondenza rispetto ai principi costituzionali di libertà sindacale, uguaglianza e solidarietà, fornirà risposte diverse in relazione alle condizioni ambientali in cui si troverà ad operare. Si esamineranno quindi sia le numerosi varianti interpretative dell‟articolo 19, sia i profondi cambiamenti intercorsi in occasione dell‟amputazione referendaria avvenuta nel 1995.

Il secondo binario della rappresentanza sindacale in azienda è costituito dalla disciplina negoziale, nata dopo vari tentativi nel 1993 come massima espressione

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della c.d. concertazione, sintomo della capacità collaborativa e normativa delle parti sociali, le quali elaborano una forma unitaria di rappresentanza aziendale col pregio di consentire, seppur in parte, la scelta diretta dei propri rappresentanti da parte dei lavoratori. Verranno esaminati pertanto i principali aspetti che necessariamente coinvolgono una così compiuta e particolareggiata disciplina, tenendo in particolare considerazione il suo limite di fondo, e cioè proprio la sua natura di accordo, soggetta inesorabilmente alla mutevole volontà delle parti in causa.

Una volta fornito un quadro d‟insieme sullo status quo della rappresentanza sindacale, la trattazione approfondisce il famosissimo caso Fiat v. Fiom, che dal 2009 ha tenuto banco nella quasi totalità dei giornali e talk-show televisivi. Una vera e propria battaglia, consumatasi prima nelle fabbriche e poi nei tribunali, che permetterà di ricongiungere le due discipline in una trattazione unitaria, avente come minimo comun denominatore la parola fragilità: la multinazionale italo-americana infatti, riuscirà, come vedremo, ad eludere con ‒relativa‒ facilità entrambe le discipline, escludendo arbitrariamente un sindacato ritenuto scomodo, seppur indubbiamente rappresentativo. Si aprirà quindi una situazione di forte crisi in materia di rappresentanza aziendale, a cui verrà in soccorso la Corte Costituzionale, con la famosa sentenza 231/2013.

Ad ultimo, si esaminerà la vigente disciplina, sia legale, come modificata dalla suddetta sentenza, sia negoziale, basata sul “trittico” di Accordi e su una ritrovata unità sindacale, vagliandone i pregi, i limiti, e l‟opportunità ‒o meno‒ di un nuovo intervento legislativo.

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CAPITOLO 1 – LA RAPPRESENTANZA NEI LUOGHI DI

LAVORO NEL PERIODO PRE-STATUTARIO

SOMMARIO: 1.1 Le Commissioni Interne; ‒ 1.2 Le Sezioni Sindacali Aziendali; ‒ 1.3 I Delegati ed i Consigli di Fabbrica.

1.1. Le Commissioni Interne

Le Commissioni Interne costituiscono la prima forma di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, il primo organismo a loro tutela che è riuscito a varcare i cancelli dell‟azienda, ed a sopravvivere per ben settant‟anni, nonostante il benché minimo supporto legislativo, ai drastici mutamenti del quadro socio-politico che hanno caratterizzato il „900 italiano.

Le Commissioni Interne (d‟ora in avanti C.I.) nascono a cavallo del „900 come aggregazioni occasionali di operai, i quali, nel corso di agitazioni o vertenze, designavano un portavoce che negoziasse con il datore di lavoro. La neonata Confederazione Generale dei Lavoratori (CGdL), fino ad allora restia ad un ingresso diretto nelle fabbriche per paura di indebolire l‟importante unità, appena sancita, con rivendicazioni prettamente aziendali, si appropria indirettamente dell‟istituto, da un lato trasformando la nomina ad espressione diretta del sindacato ‒riservando il voto ai soli iscritti‒, e dall‟altro stabilizzando la presenza, quantomeno nelle industrie di rilevanti dimensioni, delle C.I., tramite accordi aziendali sottoscritti direttamente dalle proprie Federazioni di categoria1. Esaminando le funzioni delle Commissioni ‒di controllo sulla corretta applicazione dei contratti collettivi, nonché di composizione delle controversie aziendali‒ si nota la forte impronta sindacale dell‟istituto; erano, in pratica, un mero «strumento dell‟istanza sindacale per controllare i propri aderenti e per

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esercitare pressioni e coazioni sui non organizzati»2. Dopo la conclusione del primo conflitto mondiale le C.I., seppur per un breve periodo, riemersero in occasione del c.d. biennio rosso: esplosero rivolte in tutto il territorio nazionale,

in particolare nei settori agricolo ed industriale, caratterizzati da forti iniquità sociali–, che diedero vita ai Consigli di Fabbrica (v. infra, Cap. I, par. 3), organismi eletti da tutti i lavoratori, al cui interno veniva nominato un esecutivo che ereditava le funzioni della C.I. Una volta esaurita la spinta operaia le C.I. ‒ come, del resto, il sindacato nella sua interezza‒ vennero ben presto represse e, con il Patto di Palazzo Vidoni3, abolite formalmente.

Dopo circa un ventennio di sindacalismo corporativo, totalmente assente dai luoghi di lavoro, le Commissioni Interne vennero ripristinate il 2 settembre 1943 con l‟Accordo Buozzi-Mazzini4, ma l‟armistizio e la conseguente occupazione tedesca della penisola ne impedirono l‟applicazione fino alla fine del conflitto, ed in un quadro assai mutato. La prima disciplina organica delle C.I. si ebbe con l‟Accordo Interconfederale 1 Agosto 1947, stipulato da Confindustria e dalla neonata CGIL, allora sindacato unitario5; l‟accordo si configurava come contratto di diritto comune, rivolto perciò ai soli aderenti alle organizzazioni firmatarie, ed inoltre esteso unicamente al settore industriale. Le C.I. vennero successivamente regolate, senza tuttavia sostanziali stravolgimenti, dagli Accordi Interconfederali 1953 e 1966, e sopravvissero fino all‟avvento dello Statuto dei Lavoratori, o poco oltre.

Come si evince dalla lettura degli accordi, la storia del rapporto fra C.I. e sindacati «è la storia di un contrasto, che ha conosciuto rari momenti di sosta, e si è

2 I. B

ARBADORO, Il sindacato in Italia. Dalle origini al Congresso di Modena della

Confederazione del lavoro (1908), 1979, Teti, Milano, p. 86.

3 Stipulato da Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni fasciste il 2 ottobre 1925, il

patto sanciva il reciproco riconoscimento dei firmatari come unici rappresentanti delle parti sociali; le funzioni delle C.I. venivano trasferite al sindacato fascista locale, esterno all‟azienda.

4

L‟accordo prende il nome dai due sottoscrittori, rispettivamente commissari della Confederazione generale dell‟industria e di Confindustria, nominati con r.d.l. n. 721/1943, con cui vennero commissariate le organizzazioni sindacali corporative.

5 L‟unità sindacale fu raggiunta con il Patto di Roma il 3 Giugno 1944; la Confederazione

Generale Italiana del Lavoro (CGIL) nacque dall‟accordo fra i referenti sindacali facenti capo ai tre maggiori partiti antifascisti: la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista ed il Partito Socialista.

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manifestato in una molteplicità di aspetti»6. Una storia di odi et amo, poiché da un lato le C.I. rappresentavano un‟alternativa al sindacato, un modo diverso, concorrente, per ottenere lo stesso risultato, ma dall‟altro lato furono il primo organismo stabilmente e diffusamente inserito all‟interno dei luoghi di lavoro, l‟unico modo per varcare un confine ‒quello della fabbrica‒ i cui cancelli erano da sempre difesi con forza dagli imprenditori. Una prima, chiara, differenza tra C.I. e sindacato riguarda l‟iter costitutivo sancito dai suddetti accordi, in base ai quali tutti i lavoratori ‒non in prova e che abbiano compiuto 16 anni‒ occupati in unità produttive che impieghino almeno 40 persone hanno il diritto di eleggere una C.I.; nelle unità produttive che occupino un numero di lavoratori inferiori a 40, ma superiore a 5, è prevista l‟elezione di un singolo delegato d’impresa, facente le medesime funzioni della Commissione. Possono essere candidati tutti i lavoratori maggiorenni occupati da almeno 9 mesi, e l‟elezione avviene con sistema proporzionale; gli eletti, da un minimo di 3 a un massimo di 21, in base alle dimensioni dell‟unità produttiva, restano in carica due anni e sono rieleggibili. Un sistema che, seppur non perfettamente rispettoso di tutte le categorie lavorative7, appariva senza dubbio agli occhi dei lavoratori come altamente rappresentativo, rispetto ai tradizionali canoni associativi posti in essere dai sindacati: considerato il periodo, «le elezioni della commissione interna furono in realtà la prima manifestazione formale della rinata democrazia italiana»8. Ma il cambiamento non era solo formale, procedurale, bensì andava a creare una spaccatura fra interessi ‒ delle C.I. e dei sindacati‒, solo in apparenza coincidenti, ma in realtà divergenti a tal punto da risultare, in talune circostanze, conflittuali. Il sindacato infatti, anche quando opera all‟interno dei luoghi di lavoro, ha come fine ultimo quello della tutela della categoria in modo uniforme, e quindi cura gli interessi aziendalistici dei lavoratori solo in via subordinata, compatibilmente agli interessi ‒primari‒ della categoria. Non le C.I., elette dai lavoratori dell‟azienda e quindi portavoce

6

M. DE CRISTOFARO, Le commissioni interne, Cedam, Padova, 1970, in G.F. Mancini, U. Romagnoli (a cura di), Il diritto sindacale, Il Mulino, 1971, estratto, p. 124.

7 La C.I. era unica per tutta l‟unità produttiva, composta da operai ed impiegati eletti

separatamente dalle rispettive categorie; mancava quindi una rappresentanza, all‟interno di tali macro-categorie, di tutte le maestranze impiegate, esigenza che emergerà chiaramente alla fine degli anni ‟60 con i delegati (v. infra, cap. 1, par. 3)

8 F. M

OMIGLIANO, Sindacati, progresso tecnico, programmazione economica, Einaudi, Torino, 1966, p. 107.

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dei loro soli interessi, vale a dire il miglioramento maggiore possibile delle condizioni di lavoro in quell‟unità produttiva, con buona pace dell‟uniformità di trattamento. Si può dire che la C.I. non varca i cancelli dell‟impresa, ma in senso opposto: il suo raggio di azione si ferma dentro l‟impresa, è una tutela “al dettaglio”, micro-sindacale, che ha come unico interesse il miglioramento delle condizione lavorative dei “colleghi”, e come unico antagonista “quel” datore di lavoro9; di conseguenza mostra una spiccata insofferenza per le questioni di più ampio respiro, una predilezione per la componente economica che comporta il rischio di trascurare la parte normativa del rapporto lavorativo. La conferma tangibile di ciò si ha esaminando il tenore delle conquiste della C.I. ‒ determinazione di indennità varie, erogazione dei c.d. superminimi, premi speciali, ecc.‒ tutte collegate ad un interesse “di tasca” più che di principio; conquiste ‒come definite in modo critico da parte della dottrina‒ solo

quantitative, ma non qualitative; le prime non incidono sul potere decisionale

dell‟imprenditore, e per questo sono viste con maggior favore dallo stesso10

. Ma la dimensione del contrasto fra C.I. e sindacati emerge in tutta la sua portata non tanto analizzando le funzioni che ad esse vengono attribuite ‒dai sindacati stessi‒, negli Accordi Interconfederali sopra menzionati, ma riscontrando come,

de facto, il seguente elenco sia utile a soli fini scolastici, avendo le Commissioni

disatteso in gran parte le direttive sindacali. Si legge infatti che le C.I. svolgono compiti di natura: a) consultiva: consistente nell‟esame preventivo degli schemi di regolamento interno, delle ferie, dell‟orario di lavoro (art. 3, n. 3); b) deliberativa: partecipando all‟elaborazione degli statuti e dei regolamenti delle istituzioni aziendali di carattere assistenziale, previdenziale, culturale, ecc. (art. 3, n. 5); c) di controllo: in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, o in merito alla gestione delle istituzioni aziendali di carattere sociale (art. 3, n. 1-5); d) propulsiva: proposte per il perfezionamento dei metodi di lavoro e per il miglior andamento dei servizi aziendali(art. 3, n. 4); e) conciliativa: di composizione in prima istanza delle controversie collettive e individuali relative all‟applicazione degli accordi

9

M.DE CRISTOFARO, op.cit., p. 123 ss.

10 G.F.M

ANCINI, Le commissioni interne nel sistema di relazioni industriali, in G.F. Mancini, U. Romagnoli (a cura di), Il diritto sindacale, Il Mulino, 1971, p. 130 ss.

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sindacali(art. 3, n. 2). Ad eccezione della funzione conciliativa, praticata con sufficiente stabilità, le C.I. hanno infatti operato in tutt‟altra direzione, disattendendo in gran parte gli Accordi. La funzione invece de facto primaria è stata proprio quella contrattuale, il cui divieto, a favore dei sindacati, è stato ribadito con forza in tutti gli Accordi Interconfederali. Le ragioni di ciò sono da ravvisare, in prima lettura, nella volontà dei sindacati di non formalizzare alcun legame con le C.I., le quali ‒per i differenti fini perseguiti esposti supra‒ agivano in autonomia, se non in aperta conflittualità, rispetto ad essi; da una tale considerazione possiamo ricondurre anche una sorta di paura, di impreparazione ‒ soprattutto negli anni ‟50‒ ad affrontare un così capillare decentramento contrattuale, in relazione alla “stella polare” dell‟uniformità di trattamento sul territorio nazionale venerata in quel periodo. Quale che sia la ragione, la storia ci riporta che le C.I. aprirono la strada della contrattazione aziendale, poi imboccata con forza, dagli anni ‟70 ad oggi, dai sindacati territoriali; furono «il veicolo della contrattazione aziendale, seppur un veicolo senza targa e senza pilota. Senza targa, perché nessuna organizzazione sindacale era disposta a riconoscerle la legittimazione a negoziare sul piano collettivo; senza pilota, perché nessun sindacato era in grado di orientarla, di controllarne l‟attività»11

.

1.2. Le Sezioni Sindacali Aziendali

Le Sezioni Sindacali Aziendali (d‟ora in avanti S.A.S.), nascono in seno alla CISL12 negli anni ‟5013 allo scopo di inserire ufficialmente il sindacato all‟interno dei luoghi di lavoro, in aperta competizione con le Commissioni Interne, legate ad esso solo in modo indiretto. Seppur i tratti strutturali vengano in seguito ripresi dalla CGIL, l‟organismo non riesce a diffondersi in maniera sufficientemente capillare nelle aziende e, nonostante negli anni ‟60 ne venga potenziata l‟indipendenza, viene travolto dalla carica rivoluzionaria dei delegati prima, e

11 G.G

HEZZI,U.ROMAGNOLI, Il diritto sindacale, Zanichelli, Bologna, 1997, p. 83

12 La Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL), nasce nel 1950 in seguito alla

scissione, dalla CGIL unitaria, della componente cattolica, legata alla Democrazia Cristiana.

13 L‟atto di nascita ufficiale delle S.A.S. è la risoluzione del Consiglio Generale della CISL in data

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dello Statuto dei lavoratori poi. Le ragioni della nascita delle S.A.S. sono da ricondurre nell‟alveo degli stessi obiettivi che hanno portato alla scissione del sindacato di ispirazione cattolica dalla CGIL: la necessità di un modello di

contrattazione articolata, ritenuta molto più adeguata alla realtà industriale, non

può che postulare la capillare presenza del sindacato nei luoghi di lavoro, il luogo ‒a detta della stessa CISL‒ che più permette di inquadrare le effettive esigenze di tutela dei lavoratori. Inoltre la presenza all‟interno dell‟azienda permetteva di avvicinare l‟obiettivo, anch‟esso primario per il sindacato cattolico, di sostituire le tradizionali forme di lotte sindacali ‒lo sciopero‒, con un approccio maggiormente dialettico nei confronti della controparte datoriale, basato sulla responsabilizzazione del lavoratore tramite la sua partecipazione alle dinamiche direzionali, come previsto dall‟art. 46 della Costituzione, ancora oggi privo di attuazione. Ai suddetti motivi ideologici si aggiungevano poi ragioni prettamente strategiche: la rappresentanza nei luoghi di lavoro, infatti, era monopolizzata dalle C.I., che come detto supra svolgevano de facto anche quella funzione contrattuale tanto importante per gli obiettivi della CISL; ora, quando le Commissioni Interne non operavano in autonomia, erano comunque espressione di una forte maggioranza CGIL, e pertanto la CISL riponeva nelle S.A.S. la speranza di avere un organo, completamente controllabile, che si elevasse ad interlocutore privilegiato del datore di lavoro, scalzando le Commissioni stesse14.

Nella realtà dei fatti, l‟istituto definito come «nucleo elementare del sistema organizzativo e anello di congiunzione tra movimento sindacale e vita aziendale»15, ha sofferto un‟eccessiva sudditanza della sezione sindacale provinciale, che ne ha ristretto notevolmente le funzioni, oltre a creare una disciplina variabile in base alle diverse direttive provinciali: i primi statuti attribuivano, infatti, alle S.A.S. il solo ‒generico‒ compito di promuovere l‟attività sindacale all‟interno dell‟azienda, peraltro congiuntamente al sindacato provinciale; in altri casi le venivano assegnate funzioni più specifiche, come la

14 T.T

REU, Sindacato e rappresentanze aziendali, Il Mulino, 1971, p. 34 ss.

15 T.T

(13)

raccolta di tessere e quote contributive, proselitismo, formazione, ma sempre in un‟ottica di forte strumentalità della S.A.S. al ramo provinciale del sindacato16

. A partire dagli anni ‟60 cominciò un ripensamento dell‟istituto in termini decisamente più responsabilizzanti, soprattutto riguardo alla funzione contrattuale, ma sempre con forti discontinuità: in alcuni casi venne concessa la competenza limitatamente alla fase di amministrazione del contratto collettivo, in altri solo congiuntamente alla sezione provinciale del sindacato, in altri ancora subordinata a delega espressa da parte della stessa; in ogni caso non venne superato il carattere strumentale dell‟organismo, e la sostanziale dipendenza da scelte esterne all‟azienda. La completa indipendenza delle S.A.S. si ebbe solamente verso la fine del decennio, proprio quando l‟istituto cominciò il suo rapido declino, travolto, così come le Commissioni Interne, dalle coalizioni spontaneistiche di seguito analizzate.

1.3. I Delegati ed i Consigli di Fabbrica

«Il sindacato siamo noi!». Questo era lo slogan più in voga nel 1969, fuori e dentro le fabbriche, durante gli scioperi e nelle assemblee, simbolo di una voglia intestina di scardinare gli schemi di rappresentanza tradizionali, di spazzare via i filtri che i sindacati frapponevano fra gli operai ed i datori di lavoro. Un vento di

rivoluzione che spirava in tutta Europa, dal c.d. Maggio Francese alla Primavera

di Praga, dalle aule universitarie alle fabbriche, contro lo Stato, il Potere, accusati di ostacolare la libertà dell‟individuo, al grido di “il est interdit d’interdire”

(vietato vietare).

Nelle fabbriche italiane il malcontento si rivolse non solo verso i datori di lavoro, ma toccò anche il sindacato, reo di essersi eccessivamente burocratizzato, di aver perso l‟obiettivo di tutela dei lavoratori e di essersi, sostanzialmente, “ammorbidito” nei confronti del contropotere datoriale. Gli operai sentivano il bisogno di un rappresentante sia estraneo alle dinamiche sindacali, sia a stretto

16

T.TREU, L’organizzazione sindacale, Giuffrè, Milano, 1970, in F. Mancini, U. Romagnoli (a cura di), op. cit., p. 110 ss.

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contatto con la base, genuino conoscitore e portatore dei loro interessi; caratteri che non riconoscevano né alle S.A.S., i cui rappresentanti erano nominati dai sindacati, e le cui strategie, come abbiamo visto, erano decise eteronomamente dalle sezioni provinciali degli stessi, né alle C.I., sì elette direttamente dagli operai, ma anch‟esse fatte proprie dai sindacati, ed inoltre non pienamente rappresentative di tutti i vari gruppi interni all‟azienda.

Venne creata quindi una nuova figura17 in rappresentanza dei lavoratori, il

delegato, ancora più vicina ai rappresentati: le aziende infatti vennero divise in

ragione dei vari tipi di maestranze impiegate, ed ognuna eleggeva un rappresentante, formando i delegati di linea, di reparto, di gruppo omogeneo; l‟elezione avveniva su scheda bianca, quindi a prescindere dall‟appartenenza sindacale dei candidati, i quali potevano essere anche revocati dallo stesso elettorato.

L‟atteggiamento dei sindacati fu inizialmente molto cauto, se non diffidente: non era facile accettare una nuova struttura di base unitaria, oltre che non controllabile; ma il frenetico moltiplicarsi dei delegati all‟interno delle fabbriche rese palese il sentimento di sfiducia degli operai nei loro confronti, e rese altresì necessario, per riconquistare la c.d. base, adottare una posizione più favorevole all‟istituto. Il mea culpa dei sindacati fu un passo necessario: «Allo stato attuale ‒ è la coraggiosa ammissione di un dirigente sindacale‒ il sindacato è consapevole del fatto che una direzione del movimento esterna alla fabbrica è causa, oltre che di una enorme dispersione di forze, anche del fatto che la maggior parte dei

segnali, dei messaggi che provengono dal luogo di lavoro, vengono distorti; o

semplicemente lasciati cadere dall‟organizzazione»18

. Il dirigente sindacale citato coglie il punto: nonostante la presenza forte dei sindacati nei luoghi di lavoro, nelle forme delle C.I. e, meno diffusamente, delle S.A.S., e lo sviluppo negli anni ‟60 della c.d. contrattazione articolata ‒arma potenzialmente efficace per le rivendicazioni più aziendalistiche‒, i sindacati hanno mantenuto il nucleo

17 In realtà era già presente la figura del delegato di cottimo, inserita all‟interno delle C.I. con

funzioni ‒tecniche, di controllo sull‟organizzazione del lavoro‒ completamente estranee a quelle che assumeranno in seguito.

18 E.M

ASUCCI, Dall’assemblea ai delegati: una crescita di potere, in Quad. rass. Sind., Dicembre 1969, n. 24, p. 37.

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decisionale all‟esterno della fabbrica, non riuscendo a rendere autonome le loro articolazioni aziendali. Da questo vulnus è scaturita la crisi di fiducia nei confronti dei sindacati, ed è da qui che essi devono ripartire; «Sono convinto che i poteri reali, che può avere il sindacato, di intervenire nell‟organizzazione della produzione, o vengono da queste forme nuove o non li avremo mai»19.

L‟occasione per riconquistare la base operaia si presentò nell‟autunno 1969, in occasione delle trattative per il rinnovo dei contratti collettivi nel settore metalmeccanico: il c.d. autunno caldo vide una forte agitazione, fatta di numerosi scioperi e manifestazioni, ma i sindacati di categoria ‒FIOM, FIM e UILM‒, dimostrarono di saper guidare la protesta, con una politica di costante comunicazione e collaborazione, che ne impedì derive spontaneistiche. Gli scioperi, indetti comunque dai sindacati, vennero gestiti di concerto con i manifestanti, e le intese per il rinnovo del contratto collettivo, chiuse nel dicembre dello stesso anno, furono sottoposte ‒per la prima volta‒ alla preventiva approvazione delle assemblee dei lavoratori.20

Da quel momento i delegati vennero implicitamente riconosciuti come interlocutori dal datore di lavoro, e cominciò un rapido processo di mutazione dell‟istituto: l‟atteggiamento nei confronti del datore di lavoro, da puramente antagonistico diventò maggiormente collaborativo, responsabilizzato; vennero creati i Consigli di Fabbrica (d‟ora in avanti C.d.F.), che riunivano i delegati all‟interno dell‟azienda e che permettevano di contemperare le richieste settoriali e formulare piattaforme rivendicative di più ampio respiro; la legislazione si mosse nella direzione di un riconoscimento formale dell‟istituto, in virtù dell‟ampia formulazione dell‟art. 19 l. 300/1970 (v. infra Cap. 2, par. 1). Il cambiamento è sostanziale: mentre nel periodo di lotte il delegato costituiva una forma di auto-organizzazione, le cui funzioni e poteri dipendevano essenzialmente dalla volontà del reparto che lo aveva nominato, dopo il riconoscimento si registrò una progressiva delimitazione della sua sfera di competenza, assorbita, o meglio limitata, dal C.d.F., ed anche riguardo il procedimento di nomina si tornò alla

19

Intervento di RONCONI (dirigente della sezione organizzazione della Cgil, nella “tavola rotonda” su I nuovi strumenti aziendali del rapporto sindacato-lavoratori, in Quaderno, p. 11.

20 M.V.B

(16)

presentazione delle liste elettorali ‒se non alla nomina diretta‒ da parte dei sindacati.21

Con il Patto Federativo, siglato da CGIL, CISL e UIL il 3 Luglio 1972, la “sindacalizzazione” dell‟istituto trova compimento: i C.d.F. vengono riconosciuti ufficialmente “istanza sindacale di base” ‒sostituendo sia le C.I. che le S.A.S.‒ alla cui formazione, seppur possano concorrere anche i non iscritti, «deve essere assicurata la rappresentanza delle forze sindacali che costituiscono la Federazione unitaria». Ne nasce un organo ambivalente, in parte espressione diretta dei lavoratori, in parte espressione diretta dei sindacati22, ed è proprio tale ambivalenza che, in concorso alla mancanza di un quadro legale idoneo a stabilire le “regole del gioco”, ne decreterà la scomparsa. I C.d.F. rappresentavano il punto di equilibrio fa logiche profondamente diverse23: «l‟una, quella plebiscitaria, basata sul suffragio elettorale di tutti i lavoratori, idonea a costituire un potere di rappresentanza politica o d‟interessi di tipo totalizzante; l‟altra, quella associativa, fondata sull‟iscrizione degli associati, idonea a giustificare un potere di rappresentanza di volontà individualizzato giuridicamente nella cerchia dei soli affiliati»24. Un equilibrio evidentemente instabile, nonché rimesso, in sostanza, alla autolimitazione dei sindacati, oltre che alla loro unità: all‟autolimitazione, perché le interpretazioni giurisprudenziali dell‟art. 19 elaborate ad inizio anni ‟8025

hanno ridotto sensibilmente la portata del riferimento all‟”iniziativa dei

lavoratori”, ridimensionando la legittimazione diretta e il rapporto fra sindacato e

lavoratori; i C.d.F. finirono per «adattarsi a fungere da strumenti di rappresentanza unitaria di organizzazioni strutturate secondo la logica associativa»26, i cui membri venivano investiti, più o meno indirettamente, dai sindacati.

21 G.G

HEZZI,U.ROMAGNOLI, op. cit., p. 84.

22 Tale tipologia di composizione della rappresentanza unitaria, peraltro, verrà confermata dalle

Confederazioni con la disciplina delle successive Rappresentanze Sindacali Unitarie, e verrà superata solo recentemente (v. infra, cap. 3)

23 G. F

ONTANA, Profili della rappresentanza sindacale, quale modello di democrazia per il

sindacato?, Giappichelli, Torino, 2004, p. 20 ss. 24 M. G

RANDI, Formazione separata di rappresentanza sindacale aziendale ed accesso al

godimento dei permessi, in Giust. Civ., 1984, I, p. 2636 ss., cit.

25 Cass., sez. un., 8 settembre 1981, n. 5057, e Cass. 16 dicembre 1983, n. 7435. 26 M.G

(17)

Il colpo di grazia all‟esperienza consiliare fu dato nel 1984 dalla rottura dell‟unità sindacale, e con essa del Patto Federativo; i sindacati abbandonarono ben presto i Consigli di Fabbrica, orientandosi verso sistemi di rappresentanza totalmente associativi, a designazione extra-aziendale (v. infra, cap. 2)

(18)

CAPITOLO 2 – LA DISCIPLINA LEGALE DELLA RAPPRESENTANZA: L‟ART. 19 E LE RAPPRESENTANZE SINDACALI AZIENDALI

SOMMARIO: 2.1 L‟articolo 19 della legge 300/1970 nella sua formulazione originaria; ‒ 2.1.1

Requisiti per la costituzione delle R.S.A.; ‒ 2.1.2 Struttura delle R.S.A.; ‒ 2.1.3 Dubbi di costituzionalità e risposte della Consulta; ‒ 2.2 Il referendum del 1995 ed il nuovo articolo 19; ‒

2.3 (ancora) Dubbi di costituzionalità in dottrina e giurisprudenza; ‒ 2.4 La sentenza 231/2013 della Corte Costituzionale (rinvio).

2.1. L’articolo 19 della legge 300/1970 nella sua formulazione originaria

L‟articolo 19 della l. 300/1970, dal titolo “Costituzione delle rappresentanze

sindacali aziendali”, senza dubbio il più criticato e sottoposto al vaglio della

Corte Costituzionale27, non deve essere in realtà annoverato fra quelli più innovativi, audaci o rivoluzionari dello Statuto dei Lavoratori28. La carica innovativa della disposizione, infatti, non si scorge né volgendo lo sguardo all‟esterno, identificando casomai la somiglianza ‒per non dire analogia‒ con la legge francese n.II-679 del 27 dicembre 1968, né guardandoci intorno, in quanto è innegabile che molti contratti collettivi stipulati fra il 1969 ed il 1970 contenessero già il riconoscimento di rappresentanti sindacali d‟azienda da parte del datore di lavoro. Ha ovviamente il merito di aver esteso e consolidato un diritto comunque ancora in fasce, che avrebbe potuto essere ricordato come una temporanea concessione in un momento di instabilità sociale, ma non nella sua carica di novità può essere ricondotta la ragione degli aspri dibattiti che ‒ancora oggi!‒ ruotano attorno a tale disposto29

.

27 Come vedremo infra, par. 2.1.3

28 Basti pensare alla disciplina della reintegrazione sul posto di lavoro del lavoratore ingiustamente

licenziato (art. 18), oppure allo speciale procedimento volto a sanzionare la condotta antisindacale dell‟imprenditore (art, 28).

29 G.F. M

ANCINI, Commento all’art. 19, in G. GHEZZI, G.F. MANCINI, L. MONTUSCHI, U. ROMAGNOLI, Statuto dei lavoratori, Zanichelli, 1972, p. 312 ss.

(19)

Lo Statuto dei Lavoratori, come ricordato supra, nonostante una lunga gestazione30, è stato deliberato all‟indomani ‒o meglio, a causa‒ delle forti agitazioni popolari avvenute nel biennio 1968-1969; la ratio della norma era duplice: «se da un lato si proponeva di realizzare quei principi di difesa della libertà e dignità del lavoro che erano stabiliti dalla stessa Carta Costituzionale, dall‟altra parte aveva preso piede l‟idea (…) di una legislazione di sostegno dell‟azione sindacale a livello di fabbrica»31. L‟obiettivo della legge era ‒dice

ancora Giugni‒ da un lato «innovare i metodi di gestione del personale introducendo in essi elementi di rispetto della legalità e della democrazia», e dall‟altro «rafforzare la presenza sindacale nel luogo di lavoro proprio in una fase in cui l‟organizzazione sindacale stessa appariva insidiata da due lati: dagli imprenditori, sempre ostili al riconoscimento del sindacato nell‟azienda e dai gruppi spontanei, che tendevano a contestare la funzione del sindacato»32

Il legislatore non si limitò a ribadire i principi di libertà sindacale riconosciuti dalla Costituzione, ma intervenne positivamente nei rapporti sociali, promuovendo e tutelando l‟azione sindacale all‟interno dell‟azienda, ed in particolare conferendo al sindacato alcuni poteri di intervento nella sfera giuridica dell‟imprenditore. Il Titolo III dello Statuto contiene proprio l‟enumerazione di tali diritti ‒i diritti sindacali‒ fulcro della c.d. legislazione promozionale o di

sostegno al sindacato, senza dubbio i più innovativi della disciplina sindacale: il

legislatore infatti abbandonò l‟atteggiamento di neutralità verso le parti sociali, che ha caratterizzato, seppur con delle isolate eccezioni33, il primo ventennio post-costituzionale, con un provvedimento di un‟incisività tale da “aver portato la

Costituzione nelle fabbriche”.

30

L‟idea di una “carta dei diritti dei lavoratori” venne proposta per la prima volta nel 1952, in un congresso della CGIL, dall‟allora segretario Di Vittorio, ma la situazione politica, unita alla diffidenza della parte moderata del sindacato, fece bocciare sul nascere il progetto, che tornò all‟ordine del giorno nel 1963, con il governo di centro-sinistra presieduto da Moro.

31

G. GIUGNI, Le tendenze evolutive della contrattazione collettiva in Italia, in G. GIUGNI, Il

sindacato tra contratti e riforme, 1969-1973, De Donato, Bari, 1973, p. 65. 32 Ibidem.

33 Si ricordano la l. 22 dicembre 1956, n. 1589, istitutiva del Ministero delle partecipazioni statali,

e la l. 14 luglio 1959, n. 741, cd. Legge Vigorelli, che dette, seppur in via provvisoria, attuazione all‟art. 39 Cost., nella parte in cui conferiva efficacia erga omnes ai contratti collettivi di diritto comune.

(20)

Tornando dunque a cercare le motivazioni delle feroci critiche all‟articolo 19, ecco che la risposta appare ora chiarissima: il suddetto articolo, che apre il Titolo III, non è altro che la porta d’ingresso a quella legislazione promozionale ‒tanto ambita dai sindacati, e tanto osteggiata dalle imprese‒ che rende il sindacato ed i loro rappresentanti titolari di una serie di privilegi.

Il nocciolo della questione, oltretutto, non era tanto la concessione dei privilegi, ma l‟aspetto selettivo della norma: il legislatore, così facendo, ha dovuto necessariamente esprimere dei giudizi di valore su temi molto controversi e combattuti, trovandosi a fronteggiare ben due fuochi, uno di chi criticava la promozione, e l‟altro di chi criticava questa promozione; il primo «di chi guarda con timore ad ogni mutamento della struttura di potere nell‟impresa, e ‒il secondo‒ di chi ripone le proprie speranze di mutamento nelle lotte autonome dei lavoratori od in una direzione extra-sindacale delle lotte»34.

2.1.1. Requisiti per la costituzione di R.S.A.

Prima di analizzare nel dettaglio i requisiti prescritti è necessario affrontare la discussione, sorta all‟indomani della promulgazione dello Statuto, circa la natura giuridica dell‟articolo 19: alcuni autori35, infatti, interpretarono la norma in senso

permissivo, così consentendo la costituzione di organismi aziendali solo

nell‟ambito dei requisiti disposti dall‟articolo in questione, in palese contrasto con il dettato costituzionale. La dottrina maggioritaria si espresse criticamente in relazione a tale interpretazione, ritenendola in contrasto in primis con l‟iter legislativo dello Statuto, in quanto il termine “possono”, riferito alla possibilità di costituire r.s.a., fu aggiunto dalla X Commissione del Senato in occasione di una rivisitazione in senso maggiormente protettivo nei confronti dei sindacati, e dunque una lettura in senso restrittivo sarebbe stata contro-intuitiva; inoltre, e soprattutto, non tiene conto dell‟art. 14 dello Statuto, il quale assicura a tutti i lavoratori il diritto di costituire associazioni sindacali nei luoghi di lavoro.

34 G.F.M

ANCINI, op. cit., p. 312 ss.

35 G.P

(21)

Ritenere permissiva la norma in questione, in definitiva, «significa imputare al legislatore una contraddizione troppo grossolana per essere credibile»36.

L‟interpretazione prevalente sul punto è invece quella di tipo definitorio: la norma delimita il campo di applicazione dei soggetti che possono accedere ai ‒solo ai‒ diritti di cui al Titolo III, ma non impedisce la costituzione di r.s.a. operanti a pieno titolo in base all‟art. 14, ridimensionando così la portata discriminatoria. Passiamo ora all‟esame della lettera a), che permette di costituire r.s.a. nell‟ambito “delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente

rappresentative sul piano nazionale”: il primo elemento che salta agli occhi è il

riferimento alle strutture organizzative di più vasta portata, le Confederazioni, piuttosto che ai sindacati; è quindi alle associazioni di secondo grado che si chiede di essere maggiormente rappresentative. Tale scelta ha suscitato serrate critiche di parte della dottrina, secondo cui, essendo la R.S.A. costituita fra i lavoratori e nel loro interesse, in base al principio di democrazia rappresentativa si sarebbe dovuto privilegiare una valutazione della rappresentatività in ambito aziendale o, al massimo, categoriale. La scelta del legislatore, in realtà, non è volta a dare un premio di maggioranza a chi è già forte ed a mantenere i deboli in una perpetua condizione di debolezza, bensì si inquadra nella volontà promozionale che anima la normativa. La Confederazione, infatti, fornisce maggiori certezze in merito al possesso di due requisiti, fondamentali per una corretta rappresentanza: la

genuinità e la gestione responsabile della propria autonomia organizzativa37. Considerando che la rappresentatività misura «l’attitudine del sindacato ad

esprimere adeguatamente l’interesse del sottostante gruppo professionale»38 , e che l‟individuazione del gruppo da tutelare è ad appannaggio esclusivo del sindacato, ecco che quest‟ultimo requisito si traduce in una maggior sicurezza circa il rischio di eccessiva frammentazione delle categorie, al solo scopo di ottenere i privilegi ex Titolo III. Gli statuti confederali, infatti, stabiliscono un dettagliato “piano delle categorie”, escludendo la possibilità di creare gruppi

36 G.F.M

ANCINI, op. cit., p. 306-307.

37

Ibidem, p. 325.

38 L.M. Riva Sanseverino, G. Mazzoni (diretto da), Nuovo trattato di diritto del lavoro, p. 125,

(22)

eccessivamente frammentari, se non addirittura fittizi. In ogni caso i sindacati potranno scegliere le categorie rappresentate come meglio credono, ma al sindacato che si adegua al suddetto piano è riconosciuta una “presunzione di serietà”, o meglio da prova della sua serietà. Il secondo criterio ‒la genuinità della rappresentanza‒ mira ad escludere comportamenti collusivi dei sindacati con i datori di lavoro, sulla scia del divieto di sindacato di comodo sancito dall‟art. 17; una sicurezza maggiore in questo senso, ad opinione del legislatore, si raggiunge solo spostando la linea di discrimine a livello Confederale: oltre ai sindacati aziendali, terreno preferito per la pratica in questione, anche a livello categoriale infatti le possibilità collusive sono ampie, presupponendo sempre la libertà di inquadramento ex art. 39 Cost.. Basti considerare l‟esempio, di certo non utopico, di una categoria professionale che si esaurisca all‟interno di una singola azienda, operante quindi in regime di monopolio, e che all‟interno di essa abbia notevole seguito un sindacato colluso e sostenuto con la direzione; in questa situazione niente vieta al sindacato di elevarsi a livello di categoria.39

Una volta appurata l‟opportunità di fare riferimento alle Confederazioni come soggetti della misura della rappresentatività, bisogna individuare i criteri idonei a stabilirne il grado, cosa tutt‟altro che semplice: fermo restando che il mero riferimento alla consistenza numerica non può essere considerato soddisfacente, la dottrina si è soffermata sulla distribuzione del numero di iscritti, sia a livello

categoriale che territoriale. Proprio in considerazione del fatto che la valutazione

si riferisce a Confederazioni, la rappresentatività deve presupporre, oltre alla suddetta consistenza numerica, anche che essa non sia eccessivamente concentrata, né in un numero esiguo di categorie lavorative, né in un territorio troppo circoscritto40. Sono criteri rilevanti, pertanto, oltre al numero di iscritti, anche il grado di pluricategorialità e di nazionalità del sindacato, il primo indicante il numero di categorie tutelate, il secondo l‟estensione territoriale dell‟attività svolta. Oltre a tali dati c.d. “distributivi”, è necessario anche che l‟attività contrattuale e di tutela posta in essere sia continua e sistematica, svolta

39 L‟esempio è tratto da G.F.M

ANCINI, op.cit., p. 326

40 M.G

(23)

cioè a tutti i livelli operativi, «non essendo sufficiente la dimostrazione di una tale azione a livelli o a momenti parziali soltanto»41.

C‟è da dire comunque che la valutazione di tali indici di rappresentatività è tutt‟altro che agevole, ma tale difficoltà era nota al legislatore, che l‟ha preferita rispetto ad un elenco di requisiti meramente formali, sicuramente più semplici da valutare, ma anche da aggirare. In questo modo, invece, il giudice viene chiamato ad una valutazione complessa, che deve cogliere l‟effettiva consistenza qualitativa e quantitativa dei sindacati, essenziale a dare maggior legittimazione alla discriminazione operata.

Ulteriore questione, anch‟essa molto dibattuta in dottrina e giurisprudenza, riguarda l‟eventualità che un sindacato, pur aderente ad una Confederazione non maggiormente rappresentativa, possa tuttavia salvarsi facendo ricorso al requisito

sub lettera b), che ‒come vedremo‒, condiziona l‟accesso alla legislazione

promozionale unicamente al dato oggettivo della firma di un contratto collettivo ‒ almeno provinciale‒ applicato nell‟unità produttiva. La discussione, seppur oggi abbia un mero valore teorico42, ritengo debba essere risolta in senso negativo, più aderente alla ratio della norma43. Se, infatti, il requisito sub b) venisse usato per

“ripescare” i sindacati aderenti a Confederazioni non rappresentative, la lettera a)

perderebbe qualsiasi valore selettivo, oltre a porre i sindacati in questione in una posizione egualitaria ai sindacati autonomi; mentre questi ultimi, non essendo presi in considerazione dalla lettera a), sono gioco-forza disciplinati dalla lettera

b), senza che le due previsioni cadano in contraddizione, i primi sono stati

disciplinati anche dalla lettera a), che li ha esclusi, pertanto farli rientrare nel campo di applicazione di b) produrrebbe tra le due discipline una antinomia piuttosto evidente. In ultima analisi, le parole del Ministro del Lavoro del 1970 dovrebbero dissipare ogni dubbio circa la ratio della norma: egli afferma, infatti, che «la maggior rappresentatività delle Confederazioni costituisce un requisito richiamato allo scopo di escludere la legittimazione di associazioni aderenti a

41 M.G

RANDI, op. cit., p. 95.

42

Il referendum del 1995, come vedremo (infra, par. 2.2), ha infatti abrogato la lettera a) dell‟articolo.

43 Per la tesi critica v. G.F.M

(24)

Confederazioni del tutto sfornite di rappresentatività»44. La parte di dottrina favorevole all‟interpretazione “inclusiva” della lettera b) ha invece fatto leva sulla possibilità concreta che un sindacato, seppur consistente a livello di categoria, appartenga ad una Confederazione non maggiormente rappresentativa, in ragione dei criteri di estensione ‒categoriale e territoriale‒ visti poc‟anzi; in tali situazioni, allora, la lettera b) non è altro che un temperamento alle rigide condizioni imposte dal punto a), e quindi il rapporto fra loro è alternativo, e non contrapposto45. Come già accennato, la lettera b) permette la costituzione di r.s.a. nell‟ambito

“delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva”. La possibilità di attribuire i privilegi del Titolo III anche

ad ‒alcuni‒ sindacati autonomi è stata in realtà una scelta obbligata dalla presenza di numerosi settori, in particolare il terziario, in cui i sindacati c.d. autonomi, cioè non affiliati alle Confederazioni, rappresentavano buona parte dei lavoratori; punire quindi tout court una fetta così ampia del mondo sindacale non sarebbe stato, in primis, espressione di buon senso. Il criterio di valutazione scelto per i sindacati autonomi si basa su un elemento meramente oggettivo: la firma di ‒ almeno‒ un contratto collettivo, quantomeno a livello provinciale, applicato nell‟unità produttiva; scelta senza dubbio coerente con la linea di favor espressa dal legislatore nei confronti delle Confederazioni: infatti, seppur in teoria possibile, nella pratica nessun sindacato autonomo aveva sottoscritto da solo un contratto collettivo nazionale o provinciale, ma sempre in qualità di membro del collegio trattante, composto di solito anche dai sindacati aderenti alle Confederazioni; è proprio nella formazione “compromissoria” del contratto, e nel

mutuo riconoscimento tra le due tipologie sindacali, che il legislatore riconosce le

garanzie circa la genuinità del sindacato autonomo.

44 Le parole sono dell‟On. Donat Cattin, reperibili in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati,

seduta del 14 maggio 1970, pag. 17451.

45

La tesi in questione è sostenuta, fra gli altri, da G.GIUGNI,P.CURZIO, Commento all’art.19 in G.GIUGNI, Lo Statuto dei Lavoratori, Giuffrè, Milano, 1979; e C.ASSANTI,G.PERA, Commento

(25)

2.1.2. Struttura delle R.S.A.

L‟ultima questione sull‟art. 19 riguarda a quali strutture si riferisce la nozione di rappresentanza sindacale aziendale. Il legislatore, “obbligato” dall‟art. 39, non ha potuto predeterminare ‒come avvenuto in Francia‒ le modalità di costituzione delle r.s.a., in virtù della ‒probabile‒ incostituzionalità della previsione. Si è limitato quindi ad una previsione generica, richiedendo soltanto che le R.S.A. siano costituite 1) ad iniziativa dei lavoratori e 2) in ambito sindacale, delimitato dalle suddette lettere a e b.

In relazione all’iniziativa dei lavoratori vi sono stati, negli anni successivi all‟entrata in vigore dello Statuto, numerosi tentativi di ricavare ulteriori requisiti: in primo luogo, confidando nella letteralità della norma, si è tentato di condizionare la costituzione di r.s.a. ad una pluralità di lavoratori; in realtà, seppur le r.s.a. presuppongano un ente organizzato, per natura plurale, il legame con il sindacato extra-aziendale qualifica il dirigente come rappresentante, e quindi pienamente operante anche singolarmente; così facendo, inoltre, la presenza sindacale nelle unità produttive di minori dimensioni sarebbe stata favorita incisivamente46. Ulteriore problema, sempre legato al “numero legale” per costituire una r.s.a., è sorto all‟indomani della stipula di due convenzioni che, nel settore creditizio, richiedevano per la costituzione di r.s.a. la presenza di almeno 8 lavoratori47; per la legittimità di tali clausole poneva il fatto che la costituzione di r.s.a. era una facoltà e non un obbligo; in base, quindi, al fatto che potevano anche non essere costituite, a fortiori potevano essere limitate in via pattizia; la tesi negativa, al contrario, lo ha considerato lesivo dello stesso art. 19, configurato in modo tale da non richiedere un numero minimo di lavoratori per costituire rappresentanze aziendali, oltre al fatto che, nelle unità produttive minori, la lesione del pluralismo sindacale sarebbe stata palese48. Su questo tema è intervenuta la Corte di Cassazione, sancendo l‟illegittimità della lettura restrittiva, basandosi sul fatto che tali clausole, comprimendo un diritto dei lavoratori,

46 G.P

ERA, Lezioni di diritto del lavoro, edizioni de “Il Foro Italiano”, Roma, 1977, p. 192

47 Si tratta della convenzione 18 giugno 1970, settore di credito, e 24 giugno 1970, settore Casse di

risparmio), entrambe rinnovate.

48 In questo senso anche M. G

RANDI, op. cit., pag. 78; il quale però ritiene che, qualora la limitazione non impedisca la costituzione di almeno due r.s.a., essa sia legittima.

(26)

contrastano con l‟art. 40 dello Statuto che le consente solo se più favorevoli per i lavoratori49.

Il secondo requisito, che dispone il necessario “ambito sindacale” delle r.s.a., è anch‟esso intriso di genericità: il legislatore, infatti, non si è voluto ancorare a schemi tradizionali del rapporto fra rappresentanze aziendali e sindacato, scelta ovvia alla luce del quadro storico del periodo 1968-1970. Come esposto supra al capitolo 1, la realtà sindacale nelle fabbriche era molto frammentata: si andava dalle Commissioni Interne, organismo unitario riconosciuto dal sindacato, seppur indirettamente, alle Sezioni Sindacali Aziendali, veri e propri rami del sindacato, a struttura associativa, a cui si aggiungevano i Consigli di Fabbrica, prima osteggiati, ma subito dopo riconosciuti, più o meno formalmente, dai sindacati. In un quadro del genere la scelta del legislatore di non obbligare la rappresentanza all‟interno di uno schema predefinito, ma di lasciare la libertà al sindacato, mediante il riconoscimento, di scegliere la forma rappresentativa, fu indubbiamente saggia50. E‟ quindi da scartare ‒a mio avviso‒ la tesi secondo cui il legislatore, avendo in mente il modello delle S.A.S., unica struttura formalmente riconducibile al sindacato, abbia voluto escludere le forme di rappresentanza di tipo elettivo, fondate su delegati eletti da tutti i lavoratori51.

2.1.3. Dubbi di costituzionalità e risposte della Consulta

Come anticipato ad inizio capitolo, l‟Art. 19 venne aspramente criticato, in particolar modo per i criteri selettivi impiegati nel concedere la “legislazione di supporto” ai sindacati nei luoghi di lavoro. Per ben tre volte ‒nel 1974, 1988 e 1990‒ la Consulta venne chiamata a decidere circa la costituzionalità della norma, e, seppur con motivazioni differenti, la risposta fu sempre positiva.

49

Cass. Sez. II civ, 5 novembre 1977, n. 4718.

50 G.G

IUGNI, op. cit., p. 327

51 G.M

(27)

La prima chiamata alla Corte avvenne già all‟indomani dell‟emanazione dello Statuto, con una serie di ‒ben dodici‒ ordinanze di rimessione che, riunite, vennero decise con la sent. 6 marzo 1974, n. 54.

La legittimità costituzionale della norma venne messa in dubbio per contrasti con l‟art. 39, c. 1, Cost. e con il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.

Come esposto nelle ordinanze di rimessione, il principio di libertà sindacale difeso dalla Costituzione deve essere inteso «nel senso secondo cui tutti i cittadini possono svolgere attività sindacale, sia costituendo le relative associazioni, sia compiendo opera di proselitismo, sia, infine, nelle stesse militando»52; pertanto l‟art. 19 lettera a), dando la possibilità di costituire r.s.a. solo ai sindacati aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, e permettendo solo a quest‟ultime l‟accesso alla legislazione “premiale” del Titolo III, «sancisce una posizione di assoluta preminenza per le Centrali sindacali più forti, costituendo a loro favore una sorta di monopolio rappresentativo, (…) confinando ‒i sindacati non rientranti nei requisiti delle lettere a) e b)‒ in un “ghetto” dal quale è difficile possano uscire, tenuto conto delle minori possibilità di proselitismo e di azione all‟interno delle unità produttive loro concesso»53

. Infine la stessa Pretura, pur consapevole dei rischi che il principio di libertà sindacale comporta, vale a dire «un sorgere tumultuoso di organizzazioni sindacali, ognuna con un numero ristretto di iscritti e con rivendicazioni settoriali da far valere»54, tuttavia ritiene che la ratio di evitare il c.d. atomismo sindacale «non sembra invocabile al fine di vanificare uno dei principi fondamentali di libertà, contenuti nel Titolo III della Carta Costituzionale»55. Focalizzando maggiormente l‟attenzione al principio di uguaglianza, altra ordinanza minimizza la valutazione “storica” della maggiore rappresentatività operata dal legislatore, affermando che «il problema non è tanto di recepire e cristallizzare nella norma differenze storiche di ordine quantitativo, quanto di garantire lo stesso trattamento

52 Pret. Milano, 14 novembre 1970, in Gazz. Uff., 24 marzo 1971, n. 74, p. 1777. 53

Pret. Milano, 14 novembre 1970, cit., p 1777.

54 Pret. Milano, 14 novembre 1970, cit., p 1777. 55 Pret. Milano, 14 novembre 1970, cit., p 1777.

(28)

di fronte alla legge ad entità qualitativamente pari ed omogenee»56; ritiene infatti il remittente che il criterio in questione operi una scelta “a priori”, in base ad elementi qualitativi, e non quantitativi, del sindacato, «trasformando le associazioni che ne possono beneficiare in associazioni diverse dalle altre e contro le altre operando una metamorfosi di qualità che incide direttamente sulla libertà e sull‟uguaglianza sanciti dagli artt. 39 e 3 Cost.»57

. Ribadisce ancora il remittente che, attribuendo ai sindacati maggiormente rappresentativi tali privilegi, «si opera una scelta “a priori” e in radice una discriminazione che pone le altre associazioni sindacali in posizione di inferiorità e ne fa come un genere differente»58. Proprio in virtù della differenza sostanziale tra criteri qualitativi e quantitativi, perno di tutta l‟ordinanza, il remittente propone un criterio differente, basato sull‟effettivo peso di ogni sindacato all‟interno dell‟unità produttiva, ma lasciando a tutte le associazioni le stesse “carte da giocare” per costruirsi la rappresentatività.

La Corte Costituzionale, nella predetta sentenza, ha riconosciuto la piena legittimità costituzionale dell‟articolo 19, contestando in toto le doglianze esposte

supra. La libertà sindacale, infatti, è secondo la Consulta pienamente garantita

dall‟art. 14 dello Statuto, il quale permette a tutti i lavoratori il diritto di costituire

associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacali all’interno dei luoghi di lavoro; l‟art. 19, al contrario, stabilisce che solo alcune funzioni,

«particolarmente incisive nella vita e nell‟attività dell‟unità produttiva, siano affidate dagli stessi prestatori d‟opera a quei sindacati che conseguano i requisiti che la legge reputa necessari per lo svolgimento di tali funzioni»59; gli articoli appena citati, dunque, non contrastano fra loro, poiché le associazioni sindacali sono comunque titolari dei diritti ex art. 15, 16, 18 dello Statuto; proprio perché ‒ continua la Corte‒ la libertà sindacale è comunque tutelata dall‟art. 14, la scelta di selezionare i sindacati titolari dei diritti ex Titolo III appare coerente con la ratio dell‟intera legge 300/1970, allo scopo di «evitare che singoli individui o piccoli gruppi isolati di lavoratori, (…) possano dar vita ad un numero imprevedibile di

56 Pret. Roma, 4 agosto 1971, in Gazz. Uff., 9 dicembre 1971, n. 311, p. 7836 ss. 57

Pret. Roma, 4 agosto 1971, cit., p. 7838.

58 Pret. Roma, 4 agosto 1971, cit., p. 7838.

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organismi, ciascuno rappresentante pochi lavoratori, organismi i quali, interferendo nella vita dell‟azienda a difesa di interessi individuali i più diversi ed anche a contrasto fra loro, abbiano il potere di pretendere l‟applicazione di norme che hanno fini assai più vasti, compromettendo o quanto meno ostacolando l‟operosità aziendale, quella dell‟imprenditore ed anche la realizzazione degli interessi collettivi degli stessi lavoratori»60. La Corte, insomma, giustifica l‟an della selezione sia ridimensionando la portata dei privilegi rispetto alle “armi” a disposizione di tutte le associazioni sindacali, sia ritenendo fondamentale, data l‟onerosità di tali diritti per il datore di lavoro ‒costretto, come detto, non solo ad un pati, ma ad un vero e proprio comportamento attivo nei confronti delle r.s.a.‒ limitare la concessione degli stessi. Per quanto riguarda il quantum, vale a dire i criteri selettivi scelti dal legislatore, il giudizio della Corte è parimenti positivo, ritenendoli legittimi e razionali, nonché perfettamente compatibili con il principio

di uguaglianza costituzionalmente garantito, in quanto «i requisiti stessi non sono

attribuibili né dal legislatore né da altre autorità né possono sorgere arbitrariamente o artificialmente, ma sono sempre direttamente conseguibili e realizzabili da ogni associazione sindacale soltanto per fatto proprio, o in base a propri atti concreti, e sono oggettivamente accertabili dal giudice»61. Non esiste, pertanto, alcuna discriminazione in tal senso, né la “metamorfosi” delle associazioni sindacali privilegiate, come ritenuto dal Pretore di Roma. Infine, sempre in risposta al suddetto Pretore, circa il criterio alternativo di misurazione della rappresentatività esposto nell‟ordinanza di remissione (v. supra), la Corte fa notare come proprio la sua pars construens confermi la «legittima discrezionalità della scelta operata dal legislatore, (…) del quale non può contestarsi la validità o la razionalità»62.

Pur avendo la Corte Costituzionale ‒ribadendo il carattere definitorio dell‟articolo 19‒ fugato ogni dubbio circa la libertà di costituire r.s.a. nei luoghi di lavoro e di poter “conquistare”, senza alcuna interferenza altrui, l‟accesso alla legislazione di

60

Ibidem.

61 C. Cost., sent. 6 marzo 1974, cit., considerato in diritto, pto. 4. 62 Ibidem.

(30)

sostegno, il dibattito era tutt‟altro che esaurito, e la stessa Corte fu chiamata nuovamente a valutare l‟articolo in questione quattordici anni più tardi.

La questione rimessa alla Consulta riguardava la mancata concessione di alcuni diritti ex Titolo III ‒da parte dell‟opificio Oto Melara‒ ad un sindacato, in quanto non soddisfaceva, a dire del resistente, i requisiti previsti dall‟articolo 19 per l‟accesso a tali privilegi. In particolare il Sindacato Nazionale Quadri Industria, aderente alla Confederquadri, era stato valutato dal giudice come ampiamente rappresentativo della categoria ‒i quadri d‟azienda‒, ma ciò nonostante impossibilitato ad accedere alla legislazione di sostegno, poiché «la Confederazione presa in considerazione dal legislatore con la formulazione dell‟articolo 19, è quella che possiede una rappresentatività cosiddetta storica, che si fonda cioè sulla realtà sociologica del sindacalismo italiano»63. Tali requisiti, individuati dallo stesso Pretore, consistono in: a) equilibrata consistenza associativa su tutto l‟arco delle categorie che la Confederazione stesse intende tutelare; b) notevole consistenza di iscritti; c) equilibrata distribuzione su scala nazionale; d) effettività di autotutela degli interessi; e) continuità e sistematicità dell‟azione di autotutela.

Pertanto, stante la dimensione pluricategoriale, oltre che nazionale, di tali requisiti d‟accesso, il Pretore conclude che «non vi è dubbio che la Confederquadri non rientra nel concetto “storico” di confederazione, pur essendo sicuramente tra quelle maggiormente rappresentative della categoria dei quadri».

A questo punto il remittente fa presente che, pur avendo la sent. C. Cost 54/1974 esposto le ragioni della politica selettiva e del favor al sindacato extra-aziendale, niente ha detto in relazione al fatto che, «essendo la r.s.a. costituita tra lavoratori di un‟unità produttiva e nell‟interesse di essi, si sostiene in dottrina che una corretta applicazione del principio di proporzionalità e comunque della democrazia rappresentativa, che è alla base del nostro ordinamento Costituzionale, avrebbe dovuto comportare di privilegiare la rappresentatività nell‟ambito

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