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La questione della rappresentanza sindacale in azienda

CAPITOLO 4 – IL CASO FIAT v FIOM: LA FRAGILITA‟ DELLA

4.4. La questione della rappresentanza sindacale in azienda

Dopo la ‒necessariamente breve‒ disamina dei vari aspetti del “caso Fiat”, se non esaustiva sicuramente sufficiente ad acquisire consapevolezza circa la “portata”, per l‟intera disciplina delle relazioni industriali, dell‟operazione messa in piedi dall‟A.d. Sergio Marchionne, passiamo adesso ad analizzare l‟aspetto più strettamente inerente ratione materiae a questo lavoro, vale a dire le conseguenze che i nuovi micro-sistemi aziendali hanno portato alle due discipline della rappresentanza esposte nei capitoli precedenti, quella legale, facente capo allo Statuto dei Lavoratori, e quella negoziale, regolata dal Protocollo 23 luglio 1993. Il nocciolo della questione sarà, gioco forza, incentrato sul vero e proprio scontro intercorso fra la Fiat e la Fiom, federazione sindacale aderente alla CGIL, scatenato dalla mancata sottoscrizione di quest‟ultima degli Accordi del 2009 (v. cap. 3, par. 3).

Il primo “round” si giocò a Pomigliano, in occasione di un accordo dal tono per così dire compromissorio: infatti, seppur basato sulla facoltà derogatoria al ccnl prevista dall‟Accordo Interconfederale del 2009, non firmato dalla Fiom, era pur sempre inquadrabile nell‟alveo del sistema di contrattazione nazionale; seppur non firmato dalla r.s.u. presente in azienda, non rimetteva in discussione quest‟ultima; seppur a costo di fare dietro-front riguardo agli Accordi del 2009, restava aperto ad un successivo ingresso della Fiom, senza il placet dei firmatari originari. Compromissorio, a ben vedere, solo nei contenuti, in quanto lo stile “prendere o lasciare” imposto dalla Fiat, dove il lasciare voleva dire mettere in ginocchio migliaia di persone, aveva ben poco di negoziale246.

Ma «alla Fiat la Fiom non intendeva fare alcuna concessione derogatoria, perché era la Fiat, cioè l‟impresa metalmeccanica per antonomasia, quella per cui un‟eccezione non avrebbe confermato, ma avrebbe sostituito la regola; né intendeva accettare alcuna corresponsabilizzazione rispetto all‟osservanza della disciplina contrattuale, perché significava farsi garante e guardiana della pace sociale rispetto all‟intera platea dei lavoratori»247

.

Pertanto la Fiom condusse una battaglia a testa bassa, in strenua difesa di diritti costituzionali, o comunque ritenuti quesiti, considerata al “limite del cinismo” data la posta in gioco; e la condusse non solo contro la Fiat, ma anche contro i c.d. sindacati firmatari, con a capo una Fim-Cisl giudicata fin troppo arrendevole nei confronti della parte datoriale, dichiarando che «sarebbe stata disposta a firmare anche all‟indomani il piano proposto dall‟azienda»248

.

Particolarmente interessante, anche al fine di estrapolare un “risultato parziale” del conflitto, è stato il referendum sull‟accettazione dell‟accordo, sottoposto ai lavoratori di Pomigliano. Un sistema di legittimazione richiesto dalla stessa Fiat, dal grande valore meta-politico, ed aspramente criticato ‒non solo‒ dalla Fiom, in quanto illegittimo sia nell‟oggetto, un contratto contrario all‟ordinamento giuridico e sindacale, sia nello svolgimento, falsato ‒nemmeno velatamente‒ da

246

G.P.CELLA, Dopo Pomigliano, in rivista il mulino, n. 5/2010, p. 739 ss.

247 F.C

ARINCI, op. cit., p. 18.

248 G.P.C

un vero e proprio ricatto occupazionale, essendo il lavoratore consapevole che barrare “no” avrebbe significato perdere il posto di lavoro.

Uno strumento, tanto caro alla parte datoriale da essere riproposto in occasione dei successivi accordi, fortemente criticato in dottrina, tanto da essere definito «uno spettacolo doloroso e persino avvilente: ai lavoratori è stato chiesto di pronunciarsi con un sì o con un no di fronte ad accordi rispetto ai quali dire no significava perdere l‟occupazione. E‟ difficile negare che in questo modo è stato toccato uno dei punti più bassi della esperienza sindacale italiana»249.

Le urne decreteranno la ‒scontata‒ volontà dei lavoratori di accettare i cambiamenti previsti dall‟Accordo, dichiarata dal 63% dei votanti, ma ciononostante ad esultare sarà la Fiom, forte di una percentuale (37%) di “no” non solo al di là di ogni previsione, vista la posta in palio, ma superiore al proprio tasso di sindacalizzazione in azienda.

Il primo round, dunque, non aveva decretato alcun vincitore: da una parte la Fiom, nonostante l‟incoraggiante dato referendario, si era trasformata in una “mosca bianca”, non riuscendo a trovare alleati nella sua serrata critica agli “abusi padronali”; dall‟altro la Fiat, che comunque aveva ottenuto l‟applicazione e la legittimazione del “nuovo” contratto collettivo, era comunque turbata dalla imprevedibile percentuale di dissenso venuta fuori dalle urne di Pomigliano, in un‟ottica di «ridurre le occasioni conflittuali, (…) individuando il metodo partecipativo come strumento efficace»250.

Se a Pomigliano la Fiom aveva resistito, a Mirafiori si assisterà ad una Waterloo. La Fiat, infatti, proprio per scongiurare il dissenso interno all‟azienda, riuscirà a cacciare il sindacato “scomodo” dalla propria azienda, senza che a niente valga il fatto che esso sia, indubitabilmente, largamente rappresentativo dei lavoratori occupati, aggirando con relativa facilità entrambe le vie d’accesso alla legislazione premiale del Titolo III dello Statuto, grazie alle falle, mai tappate, di entrambi i sistemi.

249 L.M

ARIUCCI, op. cit., p. 256-257.

I limiti della disciplina negoziale, come già anticipato, si riducono sostanzialmente proprio al fatto che si tratti di una disciplina negoziale, e cioè legata indissolubilmente alla volontà delle parti, che al netto delle clausole di uscita a fini deterrenti, comunque limitate a responsabilità sindacali, può in ogni momento essere revocata. Niente di più facile per l‟Amministratore Delegato Marchionne, a cui è bastato, come detto, abbandonare l‟associazione datoriale di categoria, Federmeccanica, per ritenersi sciolto da qualsiasi vincolo inerente la “predilezione” per le R.s.u. prevista dal Protocollo 1993. Ne consegue quindi un ritorno allo Statuto, con la previsione che «rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ai sensi dell‟art. 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, dalle Organizzazioni sindacali dei lavoratori firmatarie del presente accordo collettivo»251

Ma l‟uscita dal sistema confindustriale provocò l‟ulteriore effetto di sciogliere il legame dell‟azienda con i precedenti contratti collettivi, in particolare con quel CCNL unitario del 2008 usato come “appiglio” dalla Fiom per affermare l‟inapplicabilità delle deroghe di Pomigliano nei confronti dei propri iscritti, ma ancora più importante utilizzabile come “salvagente” per rientrare nei limiti dell‟art. 19, in quanto era l‟unico contratto collettivo che ‒fino a quel momento‒ veniva applicato nelle unità produttive Fiat.

Ed ecco venire a galla anche il grosso limite della disciplina legale, e cioè quella “amputazione” referendaria che non solo aveva dimezzato le vie d‟accesso alla legislazione di sostegno, ma aveva dato le chiavi di quel tanto ambito Titolo III al datore di lavoro, ancorandone l‟ingresso ad un presupposto che, icto oculi, niente ha a che fare con la rappresentatività del sindacato.

Esplode quindi la “bomba ad orologeria” piazzata dai promotori del referendum, che con l‟intento di allargare il campo di applicazione del Titolo III, hanno finito, per una eterogenesi dei fini, a limitarlo drasticamente, realizzando altresì uno «straordinario paradosso: in base all‟art. 19 dello Statuto, infatti, hanno diritto a costituire proprie rappresentanze i sindacati firmatari di contratti collettivi

applicati nei luoghi di lavoro; poiché ‒però‒ i contratti collettivi “si firmano in due” ne consegue che sono le imprese a decidere, ammettendoli alla contrattazione, chi sono i sindacati titolari del diritto a costituire proprie rappresentanze in azienda»252.

Sic stantibus l‟operazione della Fiat fu, almeno formalmente, perfettamente lecita,

e pertanto inattaccabile; un fatto sorprendente, soprattutto in virtù della ventennale cecità, sia del legislatore che della giurisprudenza di legittimità, rispetto al pericolo di una distorsione della ratio statutaria che parte della dottrina aveva a gran voce segnalato sin dall‟indomani della consultazione referendaria.

L‟operazione Mirafiori, subito estesa ai restanti stabilimenti del Lingotto, decretò la vittoria della Fiat nei confronti della Fiom, che dovette lasciare le fabbriche. Ma se nelle urne e nei tavoli negoziali la Fiat aveva vinto, nelle aule di tribunale la “guerra” era appena cominciata.