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Il referendum del 1995 ed il nuovo art 19

CAPITOLO 2 – LA DISCIPLINA LEGALE DELLA RAPPRESENTANZA:

2.2. Il referendum del 1995 ed il nuovo art 19

Con la sopracitata sent. 30/1990 la giurisprudenza costituzionale prende atto della sopravvenuta inidoneità dell‟art. 19 Statuto a rispecchiare la realtà delle relazioni industriali; non perché la norma fosse viziata ab initio, ma a causa delle sostanziali mutazioni che il mondo del lavoro ha compiuto in appena un ventennio. Non vi è dubbio, infatti, che il legislatore del 1970, riferendo il criterio della maggiore rappresentatività al livello Confederale, e favorendo così i caratteri di pluricategorialità, in relazione alla tutela di varie categorie di lavoratori, e nazionalità, in relazione all‟estensione territoriale del sindacato, abbia guardato in primis ‒se non unicamente‒ alle tre grandi Confederazioni storiche, ritenute le uniche in grado di arginare la deriva particolaristica e frammentaria che la tutela sindacale aveva preso nel biennio 1968-1969.

Una siffatta tutela, basata sul principio solidaristico costituzionalmente tutelato, non poteva che essere legata, da una parte, alla collaborazione fra le tre sigle storiche, in modo da coprire tutto il variegato mondo della tutela sindacale, e dall‟altra all‟effettiva unitarietà dei bisogni dei lavoratori che tale sistema presumeva.

In questi due aspetti si trovano, in somma sintesi, le ragioni della sopravvenuta necessità di modificare la normativa di accesso alla legislazione di sostegno: da un lato, infatti, la crisi di rappresentatività sindacale condusse alla rottura dell‟unità di azione fra le tre Confederazioni storiche, sancita dal Patto Federativo 1972; dall‟altro, la rivoluzione tecnologica degli anni ‟80 portò alla comparsa, nella stessa azienda, di molteplici figure professionali, tra loro molto diverse per competenza e “status sociale”, aumentando così il gap sociale all‟interno dei luoghi di lavoro, e rendendo necessaria de facto quella tutela “frammentata” tanto osteggiata dal legislatore del 1970. I sindacati confederali, infatti, non sempre colsero tali nuove necessità in modo tempestivo ed efficace, favorendo la proliferazione di nuove associazioni sindacati monocategoriali, vale a dire rivolte

soltanto alla tutela di un specifica categoria lavorativa, con obiettivi senza dubbio più congeniali agli specifici bisogni del lavoratore.89

In un “quadro sociale” del genere, pertanto, un cambiamento nella stessa ratio dell‟art. 19, in una direzione di effettiva misurazione della rappresentatività, era auspicato dalla maggior parte di giurisprudenza e dottrina. Come correttamente sostenuto dalla Corte Costituzionale nella sent. 30/1990, però, un cambiamento così profondo non poteva essere affidato all‟interpretazione degli operatori del diritto, ma doveva provenire dal legislatore stesso.

L‟invito fu però disatteso e, nonostante alcune proposte di legge, una riforma della rappresentatività si ebbe solamente nel settore pubblico. In realtà, a ‒parziale‒ discolpa del legislatore, dopo la firma del Protocollo Ciampi-Giugni del 23 luglio 1993 che, come vedremo infra (cap. 3, par. 2), aveva ripristinato l‟unità di azione sindacale attraverso l‟istituzione di Rappresentanze Sindacali Unitarie all‟interno dei luoghi di lavoro, la necessità di una riforma divenne meno impellente.

In ogni caso, dove non riuscì ‒o non volle‒ il legislatore, arrivò la cittadinanza, con l‟aiuto della stessa Corte Costituzionale, con una proposta di referendum

popolare che cambiò radicalmente l‟articolo 19 dello Statuto.

La proposta referendaria contemplava due alternative: la prima, c.d. massimale, comportava l‟eliminazione di tutto l‟impianto selettivo della normativa, riducendo l‟articolo ad una porta spalancata a tutte le organizzazioni sindacali per l‟accesso alla legislazione di sostegno90; la seconda, c.d. minimale, era volta non tanto all‟eliminazione di tali limiti di accesso, ma piuttosto a riformarli, eliminando l‟intera lettera a), la quale sanciva la rappresentatività presunta delle Confederazioni maggiormente rappresentative, e limitandosi alla spunta dei termini nazionali e provinciali ‒riferiti alla stipula dei contratti collettivi‒, dalla

89 G.S. P

ASSARELLI, La nuova disciplina delle rappresentanze sindacali aziendali dopo i

referendum, in A. Maresca, G.S. Passarelli, L. Zoppoli (a cura di), Rappresentanze e contributi sindacali dopo i referendum, Arg. Dir. Lav., Quaderni, 1, CEDAM, 1996, p. 3-4.

90 L‟articolo 19, secondo la proposta massimale, sarebbe diventato: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva”.

lettera b), eliminando così l‟esclusione a priori dalla legislazione di sostegno di tutti quei sindacati autonomi “di dimensione aziendale”.

L‟intento dei promotori era quello, in primis, di eliminare il criterio di rappresentatività presunta, a favore delle Confederazioni sindacali storiche, ritenuto ingiustificato ed anacronistico in relazione alle mutate esigenze di tutela in senso settoriale; ed una volta fatto questo proporre due alternative di regolamentazione dei diritti sindacali nei luoghi di lavoro, la prima improntata su una totale libertà, la seconda sulla promozione del restante criterio tecnico, da residuale a principale.

Le suddette proposte referendarie vennero esaminate dalla Corte Costituzionale, che con la sent. 12 gennaio 1994, n. 1, decise di ammetterle entrambe, sancendo così il definitivo ripensamento per la bontà di una legge, fino a poco tempo prima, difesa a spada tratta. In particolare suscitò molte perplessità l‟ammissibilità della proposta c.d. massimale: la ratio, infatti, di qualsiasi legislazione premiale ‒o di sostegno‒, è quella di fornire un supporto ad alcuni soggetti meritevoli, creando così, per svariate ‒e più o meno buone‒ ragioni, una lecita differenziazione disciplinare tra soggetti appartenenti ad una stessa categoria; in questo senso l‟eliminazione di qualsiasi criterio d‟accesso alla legislazione di sostegno prevista dal Titolo III avrebbe costituito un fondato pericolo sia per la potenziale infinita frammentazione della tutela sindacale, derivata dalla pratica di costituire oo.ss. al solo scopo di fruire dei privilegi in questione, sia per l‟operatività dell‟impresa stessa, data la non trascurabile influenza di tali diritti nella produttività aziendale. La Corte tuttavia, pur mostrandosi consapevole che «la norma residua ammetterebbe indiscriminatamente ai benefici del titolo III della legge qualsiasi gruppo di lavoratori autoqualificantesi “rappresentanza sindacale aziendale”, senza alcun controllo sul grado di effettiva rappresentatività»91, decise di ammettere anche il quesito massimale, confidando ancora una volta nel legislatore, il quale «potrà intervenire dettando una disciplina sostanzialmente diversa da quella abrogata, improntata a modelli di rappresentatività sindacale

compatibili con le norme costituzionali e in pari tempo consoni alle trasformazioni sopravvenute nel sistema produttivo e alle nuove spinte aggregative degli interessi collettivi dei lavoratori»9293. Per la seconda volta, quindi, la Corte invita il legislatore ad assumersi le proprie responsabilità, suggerendo di mettere una “pezza” all‟eventuale vulnus che la volontà popolare potrebbe creare, non senza una vena critica per aver disatteso il precedente monito formulato quattro anni prima, come a voler dire “chi è causa del suo mal pianga se stesso”.

Invito al legislatore che viene ribadito una terza volta, a pochi giorni dal

referendum, nella sent. C. Cost. 17 marzo 1995, n. 89, peraltro non vertente sulla

legittimità dell‟art. 19. In un obiter dictum, infatti, la Corte ribadisce ancora una volta la coerenza del sistema selettivo messo in piedi dal legislatore del 1970, in particolare riguardo la necessaria dimensione nazionale come indice di un adeguato livello di rappresentatività, ma subito dopo, citando la precedente sent. 30/1990, auspica che lo «stesso legislatore possa in futuro dettare nuove regole idonee a realizzare diversamente i principi di libertà e pluralismo sindacale additati dal primo comma dell‟art. 39 Cost., anche prevedendo strumenti di

verifica dell’effettiva rappresentatività delle associazioni»94

Una seconda questione circa l‟ammissibilità dei due suddetti quesiti referendari riguarda poi la simultaneità della sottoposizione al voto popolare, in quanto più di un autore ha sottolineato come i due requisiti, data la loro contraddittorietà, potessero indurre il cittadino in confusione, minando la consapevolezza del voto. «E‟ difficile presumere, come si fa normalmente, che l‟articolo confermato con il primo quesito sia da intendere come voluto dagli elettori nel testo modificato dal secondo. Gli elettori che respingevano le modifiche al primo quesito non

92

C. Cost.. sent. 12 gennaio 1994, cit., considerato in diritto, pto. 4.

93 Per parte della dottrina, addirittura, la Corte sembra ammettere il quesito massimalista «proprio

in considerazione del fatto che il suo eventuale esito positivo renderebbe improrogabile il già auspicato intervento legislativo». Cit. L. MARIUCCI, Poteri dell’imprenditore, rappresentanze

sindacali unitarie e contratti collettivi, in AIDLASS, Ibidem, Atti delle giornate di studio di Pisa 26-27 maggio 1995, Giuffrè, Milano, 1995, p. 24.

sapevano che sarebbe stato modificato dal secondo»95. In realtà la questione sarebbe stata ben più grave se ‒come vedremo‒ avessero prevalso i “si” in entrambe le questioni: in quel caso infatti il corpo elettorale si sarebbe espresso contemporaneamente sia per un netto allargamento dei criteri selettivi per l‟accesso ai privilegi del Titolo III, sia per un altrettanto netto restringimento dei requisiti stessi, con ovvia contraddizione. Essendo invece stata respinta, seppur per una manciata di voti, la proposta c.d. massimale, può essere data un interpretazione coerente della volontà popolare, la quale bocciando tale proposta non ha inteso mantenere il vecchio articolo 19, ma solamente rifiutare la totale mancanza di criteri selettivi per l‟accesso alla legislazione promozionale, e contestualmente, approvando il quesito minimale, mostrando la volontà di modificare tali criteri di accesso in direzione maggiormente effettiva.

Nonostante dunque non si possa parlare, seppur per pochissimi voti, di travisamento della volontà del corpo elettorale, rimane un dato preoccupante, che dovrà essere ricordato pro futuro dalla Corte Costituzionale: vale a dire il fatto che, secondo i sondaggi, ben il 40% dei votanti ha espresso parere positivo ad entrambe le proposte referendarie; una tale scelta, seppur potrebbe essere anche interpretata come volontà primaria del votante di eliminare il privilegio della rappresentatività presunta delle Confederazioni a prescindere dal futuro, unico aspetto comune ad entrambi i quesiti, mostra più probabilmente, data la contraddittorietà di fondo dei due quesiti, come quasi la metà dell‟elettorato non abbia compreso il vero significato di almeno una proposta.96

Come anticipato, il risultato del referendum del giugno 1995 fu favorevole a riformare l‟articolo 19, ma non a stravolgerlo nella sua ratio originaria, vale a dire nel suo aspetto selettivo: il quesito minimalista venne approvato con una larga maggioranza, mentre quello massimalista venne respinto, seppur per pochissimi voti97. La legislazione promozionale, pertanto, venne privata di un canale di

95 G.G

IUGNI, La rappresentanza sindacale dopo il referendum, in Giorn. dir. lav e relazioni ind., 1995, p. 359 ss.

96 P.I

CHINO, Le rappresentanze sindacali in azienda dopo il referendum, in Riv. It. Dir. Lav., I, 1996, p. 134-135.

97 In particolare, il quesito massimalista fu respinto con il 50,03% di “No”, mentre il quesito

accesso, legato alla presunzione di rappresentatività delle Confederazioni maggiormente rappresentative, disciplinato dalla lettera a), ma vide ampliare il campo di applicazione del requisito sub lettera b), il quale, attraverso l‟abolizione dei riferimenti territoriali ai contratti collettivi, permise l‟accesso al Titolo III a tutti i sindacati firmatari di almeno un contratto collettivo applicato nell‟unità produttiva, anche solo aziendale98.

I requisiti d‟accesso alla legislazione promozionale, dunque, vengono limitati alle r.s.a. facenti capo ad associazioni sindacali che abbiano firmato almeno un contratto collettivo applicato nell‟unità produttiva, sia esso nazionale, provinciale o aziendale. In pratica la c.d. rappresentatività tecnica della lettera b) viene elevata da requisito meramente residuale ad esclusivo, comportando una serie di problemi interpretativi e di legittimità costituzionale che verranno, come vedremo

infra, sollevati già all‟indomani dell‟esito referendario.

Ad una prima analisi salta comunque agli occhi il fatto che, seppur l‟intento referendario di eliminare la rappresentatività presunta sia stato raggiunto99, gli unici sindacati effettivamente danneggiati furono quelli che, non avendo i requisiti contrattuali sub lettera b), si erano affiliati ad una Confederazione maggiormente rappresentativa per accedere alla legislazione premiale, sfruttando la sempre più permissiva giurisprudenza che, dagli anni ‟80, allargò le maglie della lettera a) permettendo l‟ingresso ad altre Confederazioni oltre quelle storiche. Mentre proprio queste ultime, le uniche accusate di essere “privilegiate”, non furono intaccate dalla norma, in quanto pur “uscendo dalla porta, rientrarono dalla finestra”, essendo firmatarie della quasi totalità dei contratti collettivi vigenti all‟epoca.

Un obiettivo demolitorio sostanzialmente mancato, quindi, che provocò più danni che benefici, tanto che la dottrina più critica nei confronti del referendum affermò

98

Il nuovo testo dell‟art. 19, pertanto, divenne: “Rappresentanze sindacali aziendali possono

essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva. Nell’ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento.”

99 Anche se solo in relazione all‟accesso ai privilegi ex Titolo III, come afferma la C. Cost. in sent.

che i promotori «credevano di essere copernicani destinati a distruggere la concezione tolemaica dell‟universo sindacale; invece, erano degli apprendisti stregoni»100

2.3. (ancora) dubbi di costituzionalità.

La nuova formulazione dell‟articolo 19 ha comportato molti dubbi e problemi interpretativi, ed è stata fin da subito, come ‒o ancora di più‒ la versione originaria, accusata di incostituzionalità in relazione agli artt. 3 e 39 della Costituzione.

Il primo intervento della Corte Costituzionale, all‟indomani dell‟esito referendario, ha dichiarato illegittima la l.r. Campania n. 41/1982, nella parte in cui prevedeva la concessione di sovvenzioni annuali alle strutture regionali dei coltivatori diretti solo alle associazioni sindacali indicate, senza utilizzare il criterio della maggiore rappresentatività; ritenendo infatti la Corte tale indice “fluido”, ha ritenuto pregiudizievole una norma che, adottando una selezione fra organismi, detti “l‟ultima parola” riguardo la loro selezione, senza prevedere dei sistemi di verifica della rappresentatività ad intervalli temporali.

La Corte però utilizza detta sentenza per dare una prima valutazione sull‟art. 19, così come uscito dalle urne, dando luogo a valutazioni molto discusse in dottrina, in particolare per la strenua difesa del criterio di maggiore rappresentatività. Per la Consulta, infatti, nonostante la lettera a), che si riferiva alle “confederazioni maggiormente rappresentative”, sia stata appena abrogata, «il criterio del grado di rappresentatività continua ad avere la sua rilevanza in forza dell‟altro indice previsto dalla stessa norma, (…) che fa riferimento alle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell‟unità produttiva»101

. Il criterio in esame, dunque, oltre ad essere ricavabile da molteplici fonti normative ‒in primis l‟art. 39 Cost.‒, continua a vivere all‟interno della lettera b),

100 G.G

HEZZI,U.ROMAGNOLI, il diritto sindacale, Zanichelli, Bologna, p. 81.

la quale «valorizza l‟effettività dell‟azione sindacale –desumibile dalla partecipazione alla formazione della normativa contrattuale collettiva‒ quale presunzione di detta “maggiore rappresentatività”»102

.

Una sorta di “ripescaggio” del criterio di maggiore rappresentatività che, seppur da parte della dottrina ritenuto meritevole, in quanto volto al sostegno dei sindacati portatori di interessi più ampi di quelli del gruppo di lavoratori, in base alla ratio della vecchia norma103, deve però fare i conti con un limite di fondo: la nozione di sindacato maggiormente rappresentativo, infatti, è legata indissolubilmente al dettato della abrogata lettera a) dell‟art. 19; nella nuova formulazione non esiste più nemmeno una nozione di rappresentatività, ma solo il criterio dell‟effettività, mutuato dalla lettera b)104

. Il nuovo articolo 19 non

qualifica i soggetti dal punto di vista della rappresentatività, ma solo in base al fatto che abbiano o meno stipulato un contratto collettivo, e niente più; ora, «l‟avvenuta partecipazione ad una vicenda contrattuale in sede aziendale, (…) potrà tutt‟al più attribuire una qualifica di effettività, essere indice del fatto che l‟esistenza del sindacato non è solo nominale. Ma non è sufficiente a determinare la natura rappresentativa, a meno di intendere quest‟ultima come una condizione diffusa, tanto diffusa da non caratterizzare più nulla»105.

Il secondo profilo di critica della sentenza C. Cost. 492/1995 riguarda l‟iter argomentativo che ha portato la Corte ad estendere il suddetto criterio di maggiore rappresentatività al nuovo articolo 19. La Consulta infatti nelle motivazioni “recupera” i suoi stessi precedenti, senza però considerare non solo il mutato presupposto legislativo, ma anche la diversa ratio di politica del diritto nel frattempo intervenuta.

In particolare, la sentenza n. 30/1990 si basa sulla necessità, alla stregua del principio solidaristico, di una tutela di stampo extra-aziendale, in virtù di un

102 Ibidem. 103 A.Z

OPPOLI, Rappresentanze sindacali aziendali e sindacalismo “professionale”, in Arg. Dir.

Lav., 1997, p. 218 ss. 104

M.RICCI, La giustizia costituzionale in tema di sindacato maggiormente rappresentativo, in AA.VV., Scritti in onore di Gino Giugni, Cacucci, Bari, 1999, vol. 2, p. 941 ss.

105 G.G

disfavore nei confronti di una dimensione aziendale che il quesito referendario ha radicalmente ribaltato; così come la sent. 334/1988, basata interamente sul principio solidaristico, e quindi sulla necessità che la maggiore rappresentatività fosse riconosciuta ad associazioni in grado di aggregare e sintetizzare interessi più generali di quelli strettamente lavorativi, non è più adeguata ad una norma che mette sullo stesso piano anche associazioni di livello aziendale, ovviamente portatrici di interessi strettamente legati a quelli dei lavoratori occupati in quella determinata impresa.

Tirando le somme, nella sentenza n. 492/1995 la Corte cerca di conciliare ciò che nel dettato della norma non è più conciliabile, giustificando il recupero del criterio della maggiore rappresentatività postulando la persistenza, anche nella nuova formulazione dell‟art. 19, della ratio di sostenere le oo.ss. portatrici di interessi più ampi di quelli strettamente aziendalistici.

Dopo aver anticipato la propria opinione in materia nell‟obiter dictum di cui sopra, la Corte si pronuncerà compiutamente circa la legittimità del nuovo articolo 19 con la sent. n. 244/1996, su richiesta delle preture di Milano e Latina106, per violazione degli artt. 3 e 39 Cost.

Le ordinanze di rimessione, in particolare, vedono nel nuovo articolo lo spettro del pericolo di accreditamento alla base della precedente sent. 30/1990, determinando la possibilità per il datore di lavoro di influire sulla dialettica sindacale nell‟impresa attraverso il potere di negoziazione, in contrasto con l‟art. 39 Cost.; inoltre, in relazione all‟art. 3, la norma violerebbe il principio di eguaglianza, consentendo la costituzione di r.s.a. «a favore di oo.ss. prive di qualsiasi rappresentatività, sia all‟esterno che all‟interno dell‟azienda, sol che siano firmatarie di contratti collettivi, e di negarla ad organizzazioni che, pur rappresentative, (…) non abbiano sottoscritto alcun accordo»107

.

La Corte, in primo luogo, in risposta ad un eccezione di inammissibilità, afferma circa la possibilità di valutare la legittimità costituzionale di una norma

106

Pret. Latina, ord. 16 gennaio 1996, in Gazz. Uff. n. 12/1996; Pret. Milano, ord. 27 novembre 1995, in Gazz. Uff. n. 16/1996.

proveniente da consultazione referendaria, per giunta approvata dalla Corte stessa, sgombrando il campo da due obiezioni molto discusse in dottrina: la prima, sul fatto che la valutazione di legittimità di tali norme sia insita nella pronuncia di ammissibilità del quesito referendario, e la seconda circa la validità della massima

vox populi vox dei, secondo cui la “legge del popolo”, una volta manifestata, non

sarebbe soggetta ad un successivo vaglio.

Entrando dunque nel merito, la Corte ha evidenziato innanzitutto il fatto che «l‟esigenza di oggettività del criterio legale di selezione comporta

un’interpretazione rigorosa della fattispecie dell‟art. 19, tale da far coincidere il

criterio con la capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro, direttamente o attraverso la sua associazione, come controparte contrattuale»108; l‟accusa di aprire la strada al c.d. potere di accreditamento, però, viene etichettata dal giudice di legittimità come “pretestuosa”, e basata su un‟erronea lettura della precedente sent. 30/1990: il potere di accreditamento, infatti «designa il caso in cui il datore di lavoro, nullo jure cogente, concede pattiziamente una o più agevolazioni previste dal Titolo III alla rappresentanza aziendale di un associazione sindacale priva dei requisiti legali per averne diritto»109. Si tratta quindi di un pericolo legato alla mancanza o all‟aggiramento di criteri legali di accesso alla legislazione premiale, ma non viene detto niente circa la tipologia di tali criteri.

Dunque, essendo la contrattazione collettiva l‟unico criterio legale rimasto per l‟accesso al Titolo III, esso è perfettamente lecito ed operante.

La dottrina ha colto con un certo scetticismo la motivazione della Corte sul punto,