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Evidenze storiche e prospettive future di sviluppo per Paesi ed aree emergenti

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche

Dottorato in Economia – XXXI° Ciclo

EVIDENZE STORICHE E PROSPETTIVE FUTURE DI SVILUPPO

PER PAESI ED AREE EMERGENTI

COORDINATRICE

Chiarissima professoressa

Maria Gabriella GRAZIANO

CANDIDATO

Dottor Filippo DI IORIO

SUPERVISOR

Chiarissimo Professor

Francesco DANDOLO

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Sommario

Introduzione pag. 1

Capitolo I - Il problema del sottosviluppo: presa di coscienza e approccio strategico

1. L’incompletezza degli indici statistici 7

2. Il quadro concettuale delle strategie per lo sviluppo 11

3. Sviluppo e democrazia 19

4. Il cambio di approccio strategico 31

Capitolo II - Le strategie per lo sviluppo agricolo dei Paesi sottosviluppati

1. Il soddisfacimento del fabbisogno fisiologico 46

2. La destinazione della produzione agricola vendibile 50 3. Le riforme agrarie e l'aumento di produttività agricola 57

4. L'assistenza tecnica in campo agricolo 61

5. Il credito agrario 62

6. La manodopera agricola eccedente e i piani di sviluppo zonale 66 7. Un caso applicativo: lo sviluppo agricolo della regione mediterranea 70

Capitolo III - La pianificazione economica e sociale per i Paesi sottosviluppati

1. Sviluppo economico come abbattimento della disoccupazione 77

2. Stato e iniziativa privata 79

3. La pianificazione economica e sociale

3.1 Definizione della pianificazione e interrelazione tra le sue diverse forme

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3.2 L'istruzione 91

3.3 I trasporti 111

3.4 La sanità 115

3.5 L'edilizia 125

3.6 Protezione del lavoro e sicurezza sociale 127

4. Gli organi preposti alla formulazione ed esecuzione della pianificazione economica e sociale

129

5. Il contesto socioculturale della pianificazione economica e sociale 135 6. Il ruolo dell'assistenza tecnica nella pianificazione economica e

sociale

6.1 L'assistenza tecnica: concetto e caratteristiche 140 6.2 Il rapporto tra assistenza tecnica e pianificazione nazionale 143 6.3 L'implementazione organizzativa dell'assistenza tecnica 145 6.4 Il problema della durata di un programma di assistenza tecnica 147 6.5 Lo scenario successivo alla conclusione dell'assistenza tecnica 148 6.6 Le critiche ai programmi di assistenza tecnica 150

6.7 Il caso applicativo dell'America Latina 153

Capitolo IV - Casi applicativi: Senegal, Andalusia e Mezzogiorno d’Italia

Introduzione ai tre case-study 160

Senegal: strategie di sviluppo socioeconomico a partire dalla conquista dell’indipendenza politica

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2. La storia istituzionale dopo l’indipendenza 169

3. Il settore agricolo 174

4. Strade, ferrovie, porti ed aeroporti 190

5. Il settore dell’istruzione 194

L’Andalusia tra sviluppo endogeno e apertura alla Comunità Europea 1. La creazione della comunità autonoma Andalusia e le differenti

strategie di sviluppo 198

2. Il settore primario 202

3. Il sistema educativo 212

4. Il settore stradale 218

5. Il settore ferroviario 222

Mezzogiorno d’Italia: il “primo tempo” dell’intervento straordinario

1. L’Italia nel secondo dopoguerra e la questione meridionale 225 2. La Cassa per il Mezzogiorno e gli interventi in campo agricolo 231 3. La legge numero 634 del 1957 e le tappe progressive verso la sua

elaborazione 237

4. Le opere infrastrutturali: strade, ferrovie e porti 246

5. Il settore dell’istruzione 248

6. I risultati dell’azione della Cassa a fine anni ’50 249 7. Passato e futuro: prospettive di sviluppo per il Mezzogiorno 256

Osservazioni conclusive 260

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1

Introduzione

Il presente elaborato analizza le strategie che si possono mettere in campo per permettere lo sviluppo compiuto e armonico di un Paese o di un’area che ancora dimostrano ritardo in tal senso. Nello specifico, si tratta di un elaborato afferente alle discipline di Storia economica ed Economia dello Sviluppo: infatti, la prospettiva con cui si mettono a fuoco tali politiche è quella storica, andando a scandagliare nel recente passato, in un arco temporale che va dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, e mettendo a fuoco teorie dello sviluppo e, soprattutto, strategie operative, che ancora oggi risultano di grande attualità e possono, dunque, essere prese come punto di riferimento da parte di coloro i quali sono addetti all’elaborazione delle public policy. Chi scrive ha scelto di impostare la propria tesi di dottorato in tal modo perché crede che ciò che sia avvenuto o si sia teorizzato nel corso del recente passato possa essere di vitale importanza per il futuro di una comunità che vive in condizioni di arretratezza socioeconomica. La Storia, dunque, ci suggerisce quale sia la strada migliore da percorrere in tal senso, evidenziando successi, fallimenti, teorie e soprattutto idee rimaste inapplicate. Lo spirito con cui si è scritto tale elaborato è proprio questo: rileggere la Storia in senso interpretativo verso il presente e propositivo per il futuro. Perciò, appunto, non si tratta di una ricostruzione storica delle strategie per lo sviluppo fine a se stessa, che i fruitori possono considerare interessante ma in fondo poco utile perché datata, bensì si è di fronte all’interpretazione di un passato che possa permettere di comprendere meglio la situazione in cui versano vaste aree del mondo e di mettere in campo politiche per lo sviluppo già teorizzate in passato, ma spesso rimaste sulla carta. La Storia, in breve, contiene il nostro passato ma anche preziosi semi per il futuro che solo con lavori di questo tipo possono essere raccolti e messi in coltura per cercare di trarne i frutti migliori. Si sente anche la necessità di ribadire che un lavoro di questo tipo ben si coniuga con le più moderne discipline quantitative afferenti soprattutto al campo della macroeconomia e dell’econometria, poiché appunto un approccio integrato dei due metodi, quello logico-storico e quello matematico-statistico, sembra essere la strada migliore per affrontare problemi strutturali e complessi come quello del ritardo di sviluppo nel mondo. Per questo chi scrive rilancia con forza la necessità di tale integrazione e collaborazione: tuttavia, spesso si inquadra la Storia come una materia poco utile in tal senso, che mette ordine nel passato senza apportare un contributo concreto al futuro. In virtù di quanto appena detto in precedenza, invece, la presa in

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considerazione della Storia è fondamentale per elaborare compiute politiche pubbliche a vantaggio di un territorio. Essa, infatti, permette la comprensione del quadro d’insieme sociale, istituzionale e antropologico che spesso non riesce a essere catturato dalle variabili presenti anche nei più avanzati modelli econometrici. Ecco perché si sente la necessità di un’integrazione, piuttosto che di una contrapposizione, tra varie discipline che utilizzano metodi differenti e tra le quali è auspicabile un rapido ritorno al dialogo.

Il motivo per cui chi scrive ha deciso di presentare un elaborato sulle strategie per lo sviluppo a vantaggio delle aree depresse del mondo risente di due fattori. Il primo, sicuramente, è la passione personale per il problema della povertà internazionale. Al di là di essa, si può parlare di una vera e propria militanza civile a cui questo elaborato contribuisce: non si ritiene giusto che vi sia un’eccessiva concentrazione di ricchezza e di benessere sociale solo in determinate aree del mondo, lasciandone altre al margine. Questo punto fermo è fonte d’ispirazione di tutto l’elaborato. Il secondo fattore da prendere in considerazione è proprio il fatto che il tema della povertà internazionale sembra sia scomparso dalle agende di rilievo; in alternativa, esso compare ma si percepisce una certa debolezza nell’affrontarlo, ossia una sostanziale inefficacia delle politiche proposte o adottate. Tale elaborato, invece, mira a portare alla ribalta tale tema, a mettere sotto i riflettori i Paesi e le aree più arretrate del mondo, affinché la loro condizioni riacquisti centralità nel dibattito internazionale. In sostanza, la passione personale e l’urgenza appena espressa si fondono e costituiscono le motivazioni che hanno portato chi scrive a scegliere di focalizzare la propria ricerca storica su tale tema.

L’elaborato che qui si presenta è un lavoro le cui fondamenta sono costituite da una precedente monografia firmata sempre da chi scrive, intitolata Problemi dei Paesi

economicamente sottosviluppati. Supplementi ad “Informazioni Svimez” editi negli anni 1952-1964. Organizzazione bibliografica ragionata, edita dalla Svimez nel

2017, costituente precisamente il Quaderno Svimez numero 52 della collana del prestigioso istituto. In tale volume si è proceduto alla riorganizzazione bibliografica, attraverso l’elaborazione di un indice cronologico, uno per autore e uno per materia, dei “Supplementi alle «Informazioni Svimez» sui problemi dei Paesi economicamente sottosviluppati”, editi dalla stessa Svimez dal 1952 al 1964. Le centinaia di documenti pubblicati durante questi dodici anni sono stati, quindi,

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brevemente analizzati e catalogati. Nel presente elaborato si sono presi come punti di riferimento iniziale proprio gli indici costruiti nel volume sopra citato, in modo da individuare i temi e gli autori di maggiore interesse e fare così un’analisi approfondita del pensiero e delle proposte scaturite dai documenti selezionati. In sostanza, se con il primo volume si è fornito un quadro ampio delle pubblicazioni effettuate dalla Svimez sotto forma dei suddetti Supplementi, in questa sede si sono individuati singoli contributi particolarmente significativi, sulla base appunto degli indici precedentemente elaborati, e si è proceduto ad una loro analisi. Occorre puntualizzare che il presente lavoro integra alcuni dei documenti facenti parte dei Supplementi, a cui si è fornito il debito spazio, con una vastissima letteratura internazionale sul tema delle strategie per lo sviluppo. Non si tratta, dunque, di un lavoro su una singola rivista e di spoglio esclusivo dei documenti da essa editi, bensì di una stretta integrazione tra le pubblicazioni dei Supplementi selezionate e numerosi testi di autori di spessore internazionale, ponendo entrambi sullo stesso piano. Il lavoro, in sostanza, affronta il problema del ritardo di sviluppo e delle strategie operative in tal senso nella maniera più ampia e compiuta possibile. Solo per fare qualche esempio non esaustivo, dai Supplementi si sono estratti documenti quali Problemi economici relativi alle future disponibilità alimentari di C. Clark,

Produzione agricola vendibile e crescita economica nei Paesi sottosviluppati di V.

Dubey, Alcuni aspetti delle riforme agrarie nelle economie in sviluppo di B. Behari,

Problemi relativi alla partecipazione delle popolazioni interessate ai progetti di sviluppo di M. E. Opler. Per quanto riguarda la letteratura internazionale a supporto

si possono citare Sviluppo e sottosviluppo di J. Robinson, Sottosviluppo, sviluppo e

altro di E. Gianotti, Etnocentrismi di C. Barbé, Politica comparata di G. Almond e

G. Powell, Il peso dell’ombra di P. Cherci, Sviluppo e sottosviluppo di G. Bottazzi,

Tre continenti di A. O. Hirschman e La democrazia degli altri: perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente di A. Sen. Infine, numerosi sono i report delle

organizzazioni internazionali, tra i quali si ricordano Condizioni e prospettive dello

sviluppo economico della regione mediterranea della FAO, Valorizzazione delle regioni insufficientemente sviluppate dell’OECE, Provvedimenti per lo sviluppo economico dei Paesi sottosviluppati delle Nazioni Unite, nonché documenti ancora

più specifici quali Aspetti amministrativi del sistema scolastico delle Nazioni Unite-Programma di assistenza tecnica.

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Al fine di realizzare il lavoro che qui si introduce, sono stati necessari tre anni di ricerca passati in differenti luoghi da cui si è potuto attingere alla preziosa letteratura sul tema. Si ribadisce, infatti, che qualsiasi elaborato di Storia economica ha bisogno di una presenza fisica costante sul luogo in cui sono custoditi i documenti al fine di compiere una buona analisi degli stessi. L’utilizzo di internet e degli archivi online permette di costruire una visione molto parziale e incompleta sul tema oggetto di analisi. A tal fine, dagli ultimi mesi del 2015 e per tutto il 2016, chi scrive ha svolto costantemente ricerca presso la sede della Svimez, al fine di elaborare il primo volume di cui il presente costituisce la naturale continuazione. Durante il 2017, invece, la ricerca si è svolta presso l’Istituto di Geografia dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, di cui si è apprezzato il ricco e spesso ignorato patrimonio documentale. Da settembre 2017 fino alla fine di gennaio 2018, chi scrive si è recato a Siviglia per svolgere un periodo di ricerca presso l’Universidad Pablo de Olavide: proprio in questi mesi si è elaborato il case-study sull’Andalusia, presente nel capitolo IV; dunque, la biblioteca di tale università ha permesso l’accesso a numerosi testi, in lingua inglese e spagnola, che sono stati accuratamente analizzati. A partire da febbraio 2018 la ricerca si è svolta interamente presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, il cui patrimonio documentale è imprescindibile per svolgere un lavoro meticoloso sul tema del ritardo di sviluppo. Inoltre, all’interno di tale biblioteca, si è condotto uno studio specifico sui documenti dell’IsIAO al fine di elaborare il case-study sul Senegal, presente nel capitolo IV. Infatti, l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente ha donato tutto il suo patrimonio documentale alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Oltre a queste esperienze di ricerca, che hanno costituito l’ossatura dell’elaborato, si sono condotti anche studi presso l’Istituto Luigi Sturzo e soprattutto presso l’Archivio Centrale dello Stato: in particolare, si sono analizzati i fondi documentali di Pasquale Saraceno, Ugo La Malfa e Aldo Moro. Il lavoro in archivio ha accresciuto ulteriormente la formazione personale di chi scrive, dato che avere a che fare con le fonti primarie prodotte da grandi personalità non può che stimolare la curiosità e l’intelletto dello studioso.

Nel corso della lunga ricerca presso gli istituti appena descritti, la metodologia usata è stata la seguente: per quanto riguarda i Supplementi, si è fatto riferimento all’indice per materia e lo si è incrociato con quello per autore, al fine di individuare i principali testi su cui concentrare l’attenzione, a seconda degli ambiti che di volta in volta si intendeva approfondire. Per quanto riguarda, invece, gli altri numerosi

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documenti non facenti parte dei Supplementi, si è effettuata una ricerca attraverso l’indice OPAC a disposizione secondo le parole chiave più consone al tema che si intendeva approfondire. Una volta individuati i testi, si è proceduto allo spoglio delle parti ritenute di maggiore interesse secondo un’ottica che mette al centro dell’attenzione il testo stesso. Chi scrive, infatti, non aveva idee precostituite di cui cercava la conferma nei documenti, bensì si è progressivamente lasciato guidare dai testi che risultavano maggiormente solidi dal punto di vista contenutistico. Di sicuro, dunque, è avvenuto un giudizio di merito riguardo i contenuti che di seguito si esporranno, ma esso scaturisce proprio dalla lettura ed analisi del testo e non ha alcuna velleità di essere precostituito prima dell’effettuazione della ricerca. A giudizio di chi scrive, è questo l’approccio corretto alla ricerca che bisogna promuovere.

Di seguito, si riassumono brevemente i contenuti che si troveranno esposti in dettaglio nei quattro capitoli. Il capitolo I ruota attorno allo stretto legame esistente tra sviluppo e democrazia e mette in luce il cambio di approccio strategico al problema del ritardo di sviluppo internazionale negli anni Ottanta, con particolare riguardo al raggiungimento dell’indipendenza alimentare, alla rieducazione dei consumi e quindi dei necessari cambiamenti nella produzione dei beni industriali e all’introduzione di nuova tecnologia nell’area presa in considerazione. Il capitolo II è interamente dedicato alle strategie per lo sviluppo agricolo, considerate di basilare importanza per l’emersione di qualsiasi area o Paese arretrato; nello specifico, i principali punti sviluppati riguardano la corretta impostazione di una riforma agraria, l’assistenza tecnica internazionale fornita in campo agricolo e l’impiego della manodopera eccedente nello stesso settore primario. Il capitolo III approfondisce il ruolo della pianificazione economica e sociale per i Paesi e le aree arretrate, con un forte focus sugli investimenti sociali, quali l’istruzione, i trasporti, la sanità e l’edilizia. In seguito, si pone l’attenzione sugli organi preposti alla pianificazione e sul contesto socioculturale in cui essa avviene, per poi concentrarsi sull’assistenza tecnica che le aree arretrate possono ricevere dall’esterno e sulle caratteristiche che questa deve avere. Il capitolo IV, infine, presenta tre case-study applicativi dopo la trattazione delle strategie per lo sviluppo che si sono esposte nei tre precedenti capitoli. Le motivazioni che hanno portato alla loro scelta e notizie più specifiche sui medesimi sono riportate nelle pagine introduttive al capitolo IV, che precedono appunto i case-study.

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Tutti e tre hanno a grandi linee la stessa struttura, ossia si sviluppano attorno a tematiche già esposte, le quali sono: agricoltura, trasporti e istruzione. Tuttavia, ognuno ha le proprie specificità e si è ritenuto presentare, per ogni area prescelta, ciò che meglio rappresenta per essa un’esperienza di sviluppo positiva. Il primo è dedicato al Senegal, con riferimento al decennio 1960-1980, ossia agli anni della presidenza di L. S. Senghor; in particolare, si illustra la storia del Paese dopo la conquista dell’indipendenza e, appunto, i tratti salienti di ciò che avvenne nei tre settori considerati che sono stati appena ricordati. Il secondo è sull’Andalusia: prima della trattazione specifica in merito all’agricoltura, all’istruzione e al settore dei trasporti, si riassume ciò che avvenne a partire dal 1982, con la creazione della Comunidad Autonoma Andalucìa e le differenti strategie seguite prima e dopo l’entrata nella CEE nel 1986. Infine, l’ultimo case-study è dedicato al “primo tempo” del nuovo meridionalismo, ossia alle politiche pubbliche che riguardarono il Mezzogiorno d’Italia dal 1950 al 1960. Oltre ad agricoltura, infrastrutture dei trasporti ed istruzione, si focalizza l’attenzione sull’organo della Cassa per il Mezzogiorno, creato nel 1950 e il cui operato venne integrato con la legge 634 del 1957. Si è ritenuto opportuno dedicare gli ultimi paragrafi a un bilancio sull’azione della Cassa nel decennio considerato e, soprattutto, alle prospettive future riguardanti il Mezzogiorno alla luce di tale preziosa esperienza passata. Chiudono l’elaborato le osservazioni conclusive, alla luce di quanto esposto nei quattro capitoli.

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Capitolo I

Il problema del sottosviluppo: presa di coscienza e approccio strategico 1. L’incompletezza degli indici statistici

I processi di decolonizzazione, con particolare riguardo a quello riguardante il periodo successivo alla seconda guerra mondiale e racchiuso tra gli anni 1946 e 1969, hanno dato vita a un gran numero di Stati indipendenti, dalla forma e dalle dimensioni più svariate. Il semplice fatto che essi siano riconosciuti come entità sovrane porta a farli considerare, da loro stessi e dagli altri Paesi, anche entità economiche. Il concetto di identità nazionale è entrato così a rappresentare una componente, forse un pilastro, dell’ideologia dello sviluppo dei Paesi che in quest’ultimo dimostrano ritardo. A riprova del forte legame esistente fra sviluppo economico e identità nazionale, si possono citare due rilevanti aspetti: innanzitutto, gli Stati divenuti indipendenti ed entrati a far parte del cosiddetto Terzo mondo, secondo la distinzione di Sauvy in voga fino al 1992, ottennero l’indipendenza a seguito di una lotta della nazione contro un’amministrazione imperialista, ciò portò non solo gli intellettuali, ma tutta la popolazione, a pensare a se stessi in termini nazionalistici. Inoltre, lo Stato è l’unica autorità che può prendere decisioni in materia di politica economica e che è capace di negoziare con altre autorità; a proposito, si riconosce come, sia negli anni successivi alla seconda guerra mondiale sia oggigiorno, gran parte dell’impulso dell’attività che ha come obiettivo lo sviluppo economico non è puramente economico, ma “si prefigge la creazione di uno Stato che possa essere preso sul serio nei consessi internazionali”1

. Nonostante la raggiunta indipendenza politica e la possibilità di modellare proprie politiche economiche, i governi dei Paesi ancora in via di sviluppo ricevettero una influenza enorme da parte delle potenze occidentali, sia in maniera diretta sia attraverso istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Inoltre, molto forte fu l’influenza culturale e intellettuale da parte dell’Occidente: riguardo l’economia, ciò si esplica nella diffusione di un insieme di dottrine economiche che in quest’ultimo rappresentano l’ortodossia. Purtroppo, le teorie occidentali sostenevano di essere scientifiche e obiettive perché separavano l’aspetto economico della vita dell’uomo dal suo quadro politico e sociale; un tipico esempio è

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rappresentato dal discutere dello sviluppo di una nazione con unico riguardo al calcolo del prodotto nazionale lordo: l’incremento di quest’ultimo viene considerato come l’obiettivo dell’attività di governo e il canone in base al quale valutare il suo successo. Al di là delle difficoltà statistiche per il calcolo del PNL in un Paese in via di sviluppo, il punto nevralgico è rappresentato dal fatto che spesso si discute delle sue fluttuazioni senza prendere in considerazione le condizioni in cui viene prodotto e la modalità di distribuzione tra la popolazione del Paese in oggetto. Purtroppo, il concetto di prodotto nazionale come aggregato che misura il benessere ha rappresentato, e rappresenta ancora oggi, un elemento importante nella dottrina economica ortodossa che influenza le opinioni dei consiglieri che si dedicano all’assistenza dei Paesi che perseguono lo sviluppo, nonché le azioni degli stessi governi di tali Paesi. Per esempio, nell’importante documento del 1972 della United Nations Industrial Development Organisation, intitolato Guidelines for project

education, si suggerisce, con riferimento ai Paesi in via di sviluppo, di valutare i

progetti di investimento in base al contributo che si prevede possano dare al consumo aggregato, il quale si tradurrà in “disponibilità a pagare” il flusso incrementale di output che pian piano si creerà. Tale idea è sicuramente lineare dal punto di vista logico, ma la cruciale semplificazione è proprio la valutazione della bontà del progetto in base al consumo aggregato, senza tenere in considerazione l’aumento dei singoli livelli di reddito e consumo degli abitanti. In sostanza il consumo aggregato potrebbe crescere solo perché singole persone si arricchiscono mentre altre vedono il proprio reddito stagnante oppure diminuito; tuttavia, anche al verificarsi di tale situazione iniqua dal punto di vista sociale, l’aumento del consumo aggregato, grazie alla crescita del reddito solo di singole persone, segnala la bontà di un progetto e spinge verso un suo avanzamento. Come si è appena illustrato, la supremazia del PNL sembra molto radicata, nella storia, all’interno degli organismi internazionali che si dedicano ai problemi dei Paesi in via di sviluppo. D’altro canto, i governi di questi ultimi accettano senza difficoltà le indicazioni di cui sopra, proprio perché, in base alla straordinaria influenza culturale ricevuta dall’Occidente, hanno assorbito l’idea che l’obiettivo principe della politica economica sia la crescita del PNL, prescindendo da altri fondamentali aspetti come la sua distribuzione all’interno della popolazione e le modalità con cui esso viene generato.

Per raffinare la rozza idea che lega lo sviluppo economico di una nazione all’aumento del suo PNL, ci si è rifugiati nell’idea del PNL pro capite medio: la

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misura del successo in economia diveniva così l’aumento di quest’ultimo. Gli Stati venivano classificati gerarchicamente in termini di PNL pro capite medio, giudicando in tale maniera la loro ricchezza e il benessere dei loro abitanti. Purtroppo, sebbene il timido passo in avanti rispetto alla semplice considerazione del PNL, questa misura statistica è insufficiente per giudicare il benessere di una singola persona: si tratta infatti di una media, la quale potrebbe aumentare in caso di incremento solo di alcune fasce di reddito, mentre altre rimangono stagnanti o addirittura possono arretrare. Il PNL pro capite medio ci fornisce la seguente informazione: quanto guadagna in media una persona in un dato Paese. Tuttavia, numerose persone possono trovarsi ben al di sotto di tale valore di riferimento e tale cifra, appunto, può aumentare perché vi è un incremento del reddito di persone già precedentemente piuttosto benestanti. Per esempio, un tasso di incremento del PNL pro capite medio del 2% l’anno può apparire positivo, ma tale dato può drammaticamente nascondere un aumento delle disuguaglianze; in compenso, però, la dottrina economica dominante fornisce un quadro molto roseo e rassicurante riguardo il Paese, sebbene possa essere ingannevole2. Perfino l’UNCTAD, ossia la conferenza per il commercio e lo sviluppo delle Nazioni Unite, ha riconosciuto i limiti di tali indicatori economici e la distorta idea di sviluppo economico all’interno dei Paesi in ritardo di sviluppo:

La crescita dell’economia, dove si è avuta, è riuscita raramente a intaccare in misura rilevante i problemi sociali più urgenti e troppo spesso ha lasciato da parte la massa della popolazione, nei Paesi in via di sviluppo. Aumentando le disparità economiche e non essendo in grado di alleviare problemi come la disoccupazione, la denutrizione, le malattie e gli alloggi inadeguati, la crescita economica non di rado è servita ad aggravare i problemi e le tensioni sociali3.

Accanto ai suddetti indicatori statistici, se ne possono aggiungere altri che tentano di raffinare la definizione di Paese in via di sviluppo: la speranza di vita alla nascita e il tasso di adulti alfabetizzati. Il primo si calcola in base al numero di anni che mediamente si prevede possa vivere un individuo, assumendo che le condizioni sanitarie e sociali rimangano inalterate. Applicando questo indicatore, emerge un drammatico distacco tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo: per esempio, nel 1992, risultava che in un Paese povero la vita media di un uomo oscillava tra i quarantuno e i cinquantuno anni, mentre in uno ricco e sviluppato superava abbondantemente i

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J. Robinson, op. cit., pp. 4-8. 3 J. Robinson, op. cit., p. 10.

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sessanta. Il tasso di alfabetizzazione, invece, si stima in base al possesso delle conoscenze base, da parte della popolazione di un Paese, fornite dal sistema scolastico. Sempre nel 1992, si stimava una percentuale media di analfabeti in un Paese in via di sviluppo superiore al 50% della popolazione totale4. Un indice che tenta di fare sintesi di tutti i precedenti indicatori esposti finora, è il cosiddetto Human Development Index, il quale varia da 0 a 1 e, al fine di estrapolarlo, sono combinati statisticamente il reddito pro capite medio, la speranza di vita alla nascita e il tasso di alfabetizzazione5. Oltre a questi, esistono numerosi altri indici che tentano di descrivere le condizioni di sviluppo socioeconomico di un Paese e il suo eventuale ritardo in tal senso, tuttavia è chiaro che questi da soli non bastano ad inquadrare la complessità di una situazione che non può che essere descritta in maniera qualitativa per essere più esauriente; l’ausilio degli indici, dunque, è necessario ma non sufficiente. Una buona definizione di Paese in via di sviluppo, integrata dall’analisi degli indici, può essere la seguente:

Si può tentare di definire come “sottosviluppato” un Paese economicamente arretrato rispetto all’Occidente, poco o niente industrializzato, esportatore di materie prime e con gran parte della sua forza lavoro impiegata in agricoltura: una agricoltura spesso insufficiente al fabbisogno della popolazione locale. Un Paese è “povero” perché afflitto da fame, miseria, carestie, malattie e analfabetismo, e per di più dipendente dall’estero per l’energia e per gran parte dei prodotti alimentari e industriali6.

Già nel 1969, Dudley Seers, ai tempi direttore dell’Institute of Development Studies collegato alla University of Sussex, metteva in chiaro la limitatezza degli indici statistici, al fine di inquadrare il problema del sottosviluppo, in un suo famoso articolo intitolato The meaning of development, di cui si riporta un passaggio centrale che esplica tale concetto:

Cosa è successo alla povertà? Cosa è successo alla disoccupazione? Cosa è successo alle disuguaglianze? Se tutte e tre sono diminuite, allora al di là di ogni dubbio questo è stato un periodo di sviluppo per il Paese interessato. Se uno o due di questi problemi centrali sono andati peggio, soprattutto se tutti e tre lo hanno fatto, sarebbe strano chiamare “sviluppo” il risultato ottenuto, anche se il reddito pro capite fosse aumentato7.

4 E. Gianotti (a cura di), Sottosviluppo, sviluppo e altro, AICOS, Milano, 1992, p. 8. 5

E. De Simone, Storia economica, FrancoAngeli, Milano, 2014, pp. 256-257. 6

E. Gianotti (a cura di), op. cit., p. 7.

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Le ragioni del sottosviluppo e le dinamiche che ne alimentano l’esistenza sono dibattute, tuttavia si può certamente affermare che il fenomeno del ritardo di sviluppo di vaste aree del mondo emerse prepotentemente dopo la seconda guerra mondiale e in un preciso contesto storico, ossia quello della decolonizzazione. In questa sede, più che al dibattito concettuale attorno alle radici del sottosviluppo, si pone attenzione alle strategie operative per poterlo contrastare e poter far uscire da tale misera condizione i Paesi e le aree che ne sono afflitti.

Sebbene la presa di coscienza del problema del sottosviluppo e la produzione di importante letteratura in merito fosse iniziata già a partire dal secondo dopoguerra, solo negli anni Ottanta si può affermare che sia nata una più matura “cultura dello sviluppo8”: in tali anni, infatti, si mise in crisi l’inquadramento puramente statistico del sottosviluppo attraverso l’utilizzo di indici, si comprese la necessità di un cambio di passo delle strategie adottate dai Paesi poveri per il loro stesso sviluppo, nonché si evidenziò l’urgenza, da parte dei Paesi sviluppati, di cambiare i loro rapporti economici con le aree povere del pianeta, cercando di spezzare quella crudele forma di dipendenza neocolonialista che non permetteva l’emersione dalla condizione di sottosviluppo. La citazione di seguito esemplifica quanto detto9:

Un ripensamento delle strategie di sviluppo appare comunque necessario. Per i Paesi ricchi si tratterà di interrompere il circuito selvaggio del consumo e del saccheggio di risorse, mentre per i Paesi poveri il primo compito sarà quello di selezionare responsabilmente e criticamente i modelli proposti in rapporto ai bisogni reali10.

Sebbene l’applicazione concreta dell’ultimo punto esposto sia ancora oggigiorno quasi inesistente, nel quarto paragrafo si dà ampio riscontro di quanto sia accaduto in merito ai precedenti punti, dopo una necessaria trattazione del quadro concettuale all’interno del quale inserire le strategie per lo sviluppo, nonché dell’interessante e imprescindibile legame esistente tra democrazia e sviluppo socioeconomico 11.

2. Il quadro concettuale delle strategie per lo sviluppo

Nel quarto paragrafo ci si concentrerà sulle misure scaturite dal cambio di approccio strategico al problema del sottosviluppo di vaste aree del mondo, maturate

8 E. Gianotti (a cura di), op. cit., p. 10. 9

E. Gianotti (a cura di), op. cit., p. 9-15. 10

E. Gianotti (a cura di), op. cit., p. 15. 11 E. Gianotti (a cura di), op. cit., p. 9-15.

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soprattutto negli anni Ottanta, ma debitamente agganciate alla letteratura precedentemente prodotta a partire dal secondo dopoguerra. Tuttavia, tali misure devono essere inserite in un quadro concettuale più ampio, dal quale non si può prescindere per una piena comprensione del problema del ritardo di sviluppo e delle strategie da porre in essere per combatterlo. Il concetto fondamentale che in tal sede si vuole esprimere con forza è quello secondo cui non esiste un modello di sviluppo socioeconomico prestabilito, che tutti i Paesi devono necessariamente seguire per il proprio percorso di maturazione, dunque è consequenziale che non vi siano nemmeno una serie di strategie preconfezionate che i Paesi devono adottare per raggiungere sicuramente l’agognato sviluppo. In sostanza, Paesi diversi si sviluppano in maniera diversa, attraverso strategie tra di loro differenti, le quali vanno ben calibrate secondo il contesto socioculturale del Paese in cui si pongono in essere. Tuttavia, questa concezione così elastica emerse gradualmente nel tempo, poiché, sebbene ci siano stati pensatori illuminati in linea con quanto detto, come Alexander Gerschenkron, l’economia e finanche la scienza politica mainstream del secondo dopoguerra erano di tutt’altro avviso12

. Negli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, si andava consolidando la cosiddetta “sociologia dello sviluppo13”: numerosi studiosi avevano in mente un punto preciso di arrivo e una serie di fasi attraverso cui passare per poterlo raggiungere. In tal modo, dunque, la sociologia dello sviluppo aveva dei parametri stabiliti e una ricetta da proporre ai nuovi Paesi, soprattutto africani, scaturiti dal processo di decolonizzazione14. Una delle opere più note di questo filone è quella del 1960 di W. W. Rostow, intitolata Gli stadi dello sviluppo economico. In essa, lo studioso rintraccia cinque fasi attraverso cui un Paese deve passare per poter raggiungere la piena maturità: esse sono quella della società tradizionale, le condizioni preliminari per il decollo, il decollo, la maturità e il consumo di massa. Con il termine “maturità” si fa riferimento all’innesco della cosiddetta “crescita autosostenuta”, ossia che si alimenta grazie a un circolo virtuoso interno al Paese, mentre con la locuzione “consumo di massa” si definisce il punto di arrivo, ossia quello in cui la società ha deciso di assegnare grandi risorse al benessere e alla sicurezza sociale, attraverso la creazione di un welfare state. La strutturazione è così rigida che lo stesso studioso indica il raggiungimento della maturità esattamente

12

C. Barbé, Etnocentrismi, Libreria Stampatori, Torino, 2007, p. 81. 13

Ibidem. 14 Ibidem.

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sessanta anni dopo l’inizio del decollo; inoltre, in questo entusiasmante percorso, le crisi non sono previste15.

La sociologia dello sviluppo travalica il campo delle scienze socio-economiche per invadere persino quello della scienza politica. In riferimento all’evoluzione politico-istituzionale di un Paese, Almond individua negli anni Sessanta quattro fasi: la costruzione dello Stato, la costruzione della nazione, la fase della partecipazione e, infine, quella della distribuzione e assistenza. La prima coincide con il consolidamento di un potere politico centrale e la creazione delle strutture di base del nuovo Stato: la burocrazia amministrativa, la polizia e l’esercito. La seconda fase si rintraccia nella creazione del senso di appartenenza della popolazione al nuovo sistema appena edificato: “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, come sentenziava D’Azeglio. La terza fase è quella in cui gli individui si esprimono attraverso i canali istituzionalizzati del sistema, ossia tramite il voto e l’adesione a partiti politici, sindacati e associazioni imprenditoriali o di vario tipo, a scopo aggregativo. La quarta fase si può far coincidere quasi esattamente con la creazione del welfare state di cui sopra, sebbene essa presenti un concetto intrinseco aggiuntivo, ossia quello di “secolarizzazione”: quest’ultima si raggiunge quando l’inevitabile conflitto sociale creatosi all’interno della società si attutisce, poiché gli individui sono in grado di prendere decisioni più pragmatiche sui concreti problemi che sia loro sia il Paese devono affrontare, lasciando quindi decantare prese di posizione ideologizzate16. Un altro teorico dello sviluppo di nome Organski, alla metà degli anni Cinquanta, apportava il suo contributo al rafforzamento dello stile di pensiero che si sta esponendo, seppure iniziò a delinearne le debolezze e la fallacia di una visione così rigida. Organski elabora una serie di fasi attraverso cui un Paese deve passare per il proprio sviluppo sia economico sia politico-istituzionali, dunque fonde i due pensieri precedenti; la seconda fase di questo processo è il cosiddetto “stadio politico dell’industrializzazione”, il quale però si riconosce che nella Storia si produsse almeno in tre maniere differenti: quella borghese, quella stalinista e quella sincretica. La prima fa riferimento al predominio graduale della borghesia sull’aristocrazia, la seconda invece all’eliminazione della vecchia aristocrazia a seguito della rivoluzione russa, mentre la terza si riferisce al fascismo italiano, al peronismo argentino e al franchismo spagnolo, queste ultime tre furono caratterizzate da un mancato confronto

15

W. W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962. 16 G. Almond, G. Powell, Politica comparata, Il Mulino, Bologna, 1970.

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diretto tra la classe borghese e quella agraria. Ecco dunque che, sebbene l’impostazione di Organski sia assimilabile a quella di Rostow e Almond, essa lascia intravedere che lo sviluppo politico-economico è costituito da fasi ma che la maniera in cui ognuna di esse si esplica è differente a seconda del Paese considerato17.

In generale, si può affermare che le teorie afferenti alla “sociologia dello sviluppo”, elaborate negli anni Sessanta, erano tutte contraddistinte da tratti comuni. Si trattava di teorie “dualistiche”: secondo i criteri caratteristici di ogni studioso, vi erano società e Paesi ritenuti sviluppati e moderni ed altri ritenuti sottosviluppati e arretrati; lo stesso dualismo poteva riscontrarsi all’interno di un Paese, andando così a fare una differenziazione per zone, di cui un caso esemplare è rappresentato ancora oggi dall’Italia, con la presenza del Mezzogiorno. Inoltre, erano teorie “diffusionistiche”: lo sviluppo era indotto, trasferito dalle zone sviluppate a quelle sottosviluppate, poiché queste ultime seguivano le stesse tappe delle prime. Addirittura, le società moderne fungono da modello in cui rispecchiarsi e le élite dei Paesi sottosviluppati potrebbero assumerle come esempio e mostrare alle proprie popolazioni che gli sforzi che devono affrontare per raggiungere la meta sono giustificati. In sostanza, si invita a guardare allo stadio del Paese sviluppato come alla ricompensa finale. La terza caratteristica è la più interessante: esse sono teorie “endogenistiche”. In sostanza, le cause dello sviluppo dei Paesi avanzati sono da rintracciarsi in loco e sono costituite da fattori economici, politici, ma soprattutto culturali e sociali tipici di una determinata area. Ciò implicava che anche le cause del sottosviluppo erano da riscontrarsi in loco: ciò può essere in parte accettabile, visto che, con riferimento alle caratteristiche geografiche di alcuni Paesi, la desertificazione e la carenza di vie navigabili possono essere incluse nelle caratteristiche intrinseche di un Paese che determinano il suo mancato sviluppo. Tuttavia, ciò che è davvero difficile da accettare è che le cause locali del sottosviluppo erano identificate soprattutto nel fattore culturale: in sostanza, le popolazioni dei Paesi sottosviluppati sono inferiori sotto questo punto di vista rispetto a quelle dei Paesi progrediti, ciò spiega la loro condizione di arretratezza18. A tal proposito, si può far riferimento alla famosa e criticata ricerca di McClelland del 1961 secondo la quale l’imprenditorialità deriva da caratteristiche della personalità, costruite per via culturale: essa non è altro che il bisogno di realizzazione di persone che, fin da bambine, sono state abituate ad avere

17

A. F. K. Organski, The stages of political development, Knopf, New York, 1965. 18 C. Barbé, op. cit., pp. 81-88.

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fiducia nelle proprie forze e abilità grazie a un modello di socializzazione familiare che ha sviluppato tali caratteristiche. La conclusione implicita è che la mancanza del fattore imprenditoriale in vaste aree del mondo dipende proprio da diverse caratteristiche della personalità delle popolazioni e dei loro modelli di socializzazione. Si tratta, insomma, di personalità e di metodi sociali di rapportarsi inferiori rispetto a quelli occidentali19.

L’etnocentrismo, in definitiva, rappresenta un pericolo da cui rifuggire qualora ci si voglia approcciare nella giusta maniera al problema del ritardo di sviluppo di vaste aree del mondo. Con tale termine, infatti, si intende il processo per il quale si giudicano le altre culture e gli altri Paesi in base al proprio punto di vista e percorso di evoluzione, dove dunque il paradigma con il mondo occidentale è fondamentale. Così tutte le tesi sopra esposte sono fortemente etnocentriche, poiché stabiliscono un percorso di sviluppo economico o politico-istituzionale, per un Paese sottosviluppato, sulla base dell’esperienza del Paese di colui il quale le ha elaborate20

.

Sorge spontanea allora la domanda riguardo il modo con cui è possibile scongiurare una visione etnocentrica dello sviluppo socioeconomico di un Paese che in quest’ultimo dimostra ritardo, per elaborare invece una visione dello stesso e soprattutto una serie di strategie operative che siano tagliate sul Paese in questione. Il principio dominante, ancora una volta, è quello per cui ogni Paese e ogni popolazione che in esso si stanzia è diversa dalle altre sotto tutti i punti di vista, soprattutto sociologici e culturali, dunque l’elaborazione di un’adeguata strategia di sviluppo socioeconomico per tale popolazione passa necessariamente attraverso la comprensione globale della stessa, soprattutto per poterne evidenziare i bisogni e poter rispondere agli stessi. In sostanza, occorre conoscere e comprendere una popolazione prima di agire; a tal proposito uno strumento straordinariamente concreto per poterlo fare è rappresentato dalla letteratura locale, nella quale sono condensate le caratteristiche essenziali della popolazione in oggetto. Lo studio attento della produzione letteraria di un popolo sembra dunque essere la strada maestra per una migliore comprensione dello stesso. Gli scrittori, infatti, capiscono il mondo in cui vivono e il punto in cui è arrivata la popolazione protagonista dell’opera. I lettori, ammesso che leggano in maniera critica e proficua, possono

19

D. McClelland, The achieving society, Van Nostrand, Princeton, 1961. 20 C. Barbé, op. cit., pp. 81-88.

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approfittare di tale profondità di vedute proprio per l’elaborazione di una strategia di sviluppo. Addirittura, ci si può spingere ad affermare che l’analisi delle opere letterarie di un popolo sia più efficace della visione che può provenire dalla classe politica di un determinato Paese. Così dall’America Latina, dall’Africa, dall’Asia, nonché dagli autori colpiti dalla diaspora mondiale delle migrazioni arriva una letteratura preziosissima per comprendere tali popoli. Lo studio della letteratura dei Paesi in via di sviluppo può essere, in tal modo, il cardine dell’antietnocentrismo e di una visione nuova che sposti il baricentro proprio sulla popolazione in oggetto. Tale studio è utile ai policy maker dei Paesi in via di sviluppo per comprendere meglio le proprie popolazioni ed elaborare conseguentemente opportune strategie di sviluppo, così come risulta molto efficace quando la presa di coscienza avviene da parte di Paesi esteri e organizzazioni internazionali che desiderino aiutare i suddetti Paesi ad uscire dalla loro condizione di sottosviluppo21.

Il superamento dell’etnocentrismo inteso come distacco dal pensiero dominante occidentale e dai parametri di giudizio socioeconomici dello stesso, del resto, non è una novità: esso risultò essere, in fondo, la sottointesa base ideologica dei movimenti anticolonialisti e di liberazione nazionale sviluppatisi a partire dal secondo dopoguerra. In quel frangente, l’antietnocentrismo giocò un ruolo fondamentale in chiave di raggiungimento dell’indipendenza politica del Paese; tuttavia, nonostante gli importanti traguardi, la logica etnocentrica continuò imperterrita a dominare la visione mainstream nei decenni successivi, per questo si sente la necessità di ribadire un sano antietnocentrismo anche nell’elaborazione delle strategie di sviluppo per i Paesi sottosviluppati. L’antietnocentrismo non deve essere configurato come mera opposizione distruttiva al pensiero dominante, ma piuttosto come la proposta di un’alternativa valida ad esso: in tale chiave vanno letti tutti i movimenti di autonomismo culturale, religioso, linguistico ed etnico che già da decenni si vanno sviluppando nei Paesi in via di sviluppo. L’antietnocentrismo, purtroppo, sebbene sembri essere l’ideologia naturale a cui aderire da parte delle popolazioni in condizioni di miseria, incontra straordinariamente delle resistenze in esse stesse. In sostanza, una fetta importante di questi popoli è intimamente convinta di essere inferiore alla popolazione occidentale e di dover seguire il paradigma di quest’ultima per potersi sviluppare. Un’attitudine psicologica che si è sedimentata data la

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17

virulenza con cui il pensiero etnocentrico ha influito sulle menti delle stesse popolazioni in via di sviluppo. Tale atteggiamento, infatti, si riscontra nel corso della Storia. Ad esempio, il movimento di emancipazione degli intoccabili in India, promosso da Ambedkar, trovava resistenza al suo affermarsi all’interno delle stesse classi che il leader proponeva fossero oggetto dell’emancipazione, le quali stentavano a liberarsi dal senso d’inferiorità e a voler riguadagnare il giusto rispetto di sé. Negli anni Sessanta, ancora perdurava una resistenza psicologica fra gli intoccabili nel vincere la tradizione dell’intoccabilità, questa resistenza trovava riscontro nella perdurante discriminazione in atto nella prassi quotidiana, infatti in tali anni la prassi di fare gli spazzini e i becchini di animali morti continuava indisturbata, tra gli intoccabili, in tutta l’India. Addirittura, tale attitudine psicologica di autoconvincimento di inferiorità si può rintracciare ancora prima nella Storia: sono note, infatti, le remore di molti schiavi nel corso della campagna abolizionista degli USA, culminata nel proclama di emancipazione di Lincoln nel 186322. Come si ritrova in letteratura, infatti

Non è sorprendente che nel pieno d’una guerra contro il Sud schiavista ci fossero dei neri che voltavano le spalle a quella lotta decisiva, dicendo che si trattava d’una guerra di bianchi, e che non ci sarebbe stato nessun cambiamento in meglio dopo la guerra23.

Tale attitudine psicologica non sembra risparmiare nemmeno i gruppi assoggettati all’interno dei Paesi sviluppati. Per esempio, a partire dalla fine degli anni Sessanta, i movimenti di emancipazione femminile incontravano una passiva resistenza da buona parte delle stesse masse di donne rurali e borghesi, succubi del plurisecolare sistema di soggezione socioeconomica dal quale ricevevano l’autoconvincimento di una effettiva inferiorità. In tutti i casi indicati, insomma, un gruppo marginalizzato finisce per far propri, in ammirazione passiva, i valori del gruppo dominante discriminatore, resistendo all’idea di cambiare la propria condizione di subordinazione. Il superamento di tale condizione psicologica da parte della totalità della popolazione dei Paesi in via di sviluppo, ossia dell’ineluttabilità e della giustezza della propria condizione di inferiorità, è un traguardo imprescindibile per impostare strategie di sviluppo efficaci per tali Paesi e condivise dalle rispettive basi popolari. Sebbene, appunto, tale conquista psicologica sembrava essersi affermata

22

V. Lanternari, Problemi di etnocentrismi e d’identità, La Goliardica, Roma, 1979, pp. 79-80. 23 V. Lanternari, op. cit., p. 80.

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18

con i movimenti anticolonialisti, evidentemente non ha trovato la sua stabilità all’interno della coscienza collettiva di ogni popolo24

.

In definitiva, il superamento dell’etnocentrismo sembra essere un obiettivo difficile da raggiungere, proprio perché, come aveva ben intuito Ernesto De Martino, la prigione che inchioda l’individuo entro la sua storia e cultura è insopprimibile, pur nello sforzo di uscirne per comprendere l’altro. Per questo l’individuo utilizza i parametri sviluppatisi all’interno di tale prigione per giudicare altri popoli e Paesi. Tuttavia, con l’obiettivo di superare la visione etnocentrica, lo stesso De Martino aveva proposto una visione alternativa, ossia quella del cosiddetto “etnocentrismo critico25”: proprio nel momento in cui un popolo applica i propri schemi di giudizio nei confronti dell’altro, si rende conto di quanto essi siano riduttivi e fallaci e dunque li mette in crisi e, in maniera auspicabile, si adopera per un loro miglioramento. Da una parte, dunque, la loro applicazione appare imprescindibile, dall’altra però essa stessa porta a migliorie che scaturiscono proprio dal palesarsi dei limiti dell’applicazione di tali schemi di giudizio26

. Si riportano di seguito le parole dello stesso De Martino, affinché si chiarisca meglio tale concetto:

Nell’etnocentrismo critico l’etnologo occidentale (o occidentalizzato) assume la storia della propria cultura come unità di misura delle storie culturali aliene, ma al tempo stesso, nello atto del misurare guadagna coscienza della prigione storica e dei limiti di impiego del proprio sistema di misura e si apre al compito di una riforma delle stesse categorie di osservazione di cui dispone all’inizio della ricerca. Solo ponendo in modo critico e deliberato la storia dell’Occidente al centro della ricerca confrontante, l’etnologo potrà concorrere a inaugurare una consapevolezza antropologica più ampia di quella racchiusa nell’etnocentrismo dogmatico27.

In questo senso, l’ “etnocentrismo critico” di De Martino altro non è che un raffinato metodo per superare l’etnocentrismo stesso e giungere a una visione d’insieme antietnocentrica. Infatti, al di là dell’autocritica dei metodi di giudizio occidentali che da esso scaturiscono, vi è un’altra importante implicazione derivante dalla sua applicazione: proprio nel momento in cui si applicano i metodi di giudizio occidentali e si mettono in crisi, si scoprono altre culture, altri mondi, altri popoli.

24 Ibidem.

25

V. Lanternari, op. cit., p. 82. 26

P. Cherci, Il peso dell’ombra, Liguori, Napoli, 1996. 27 V. Lanternari, op. cit., p. 83.

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19

Tale processo si svolge “assieme con gli altri28”, nel senso che si viene a conoscenza di quanto detto ma, allo stesso tempo, si porta a scoprire ai popoli stessi il valore della propria cultura, delle tradizioni e in generale delle potenzialità locali che possono essere messe in gioco per un processo di sviluppo socioeconomico. Quella che si applica ai popoli dei Paesi in via di sviluppo, infatti, è una “ricerca partecipata che coinvolge i nativi in un processo di presa di coscienza critica29”.

In concreto, l’augurio è che i Paesi sviluppati adottino tale visione nel momento in cui si rapportano con quelli ancora in via di sviluppo, poiché essa non può che giovare a questi ultimi30.

3. Sviluppo e democrazia

Prima che ci si addentri nell’interessante cambio di approccio riguardante le strategie da seguire per combattere il problema del ritardo di sviluppo nei Paesi che ne erano e ne sono afflitti, vi è la prioritaria necessità di analizzare l’imprescindibile legame che esiste tra sviluppo economico e forma di governo democratica di un Paese. Questo, infatti, sta alla base dell’elaborazione di qualsivoglia strategia per lo sviluppo. Già nel 1963, gli studi di Seymour Lipset si concentravano sui possibili legami esistenti tra sviluppo economico e democrazia. In sostanza, la presenza di istituzioni democratiche appare come la necessaria precondizione per porre in essere efficaci strategie di sviluppo economico, tuttavia è controversa la considerazione secondo cui lo stesso sviluppo economico conduca alla formazione di regimi democratici. Di seguito si esplicita tale legame bivalente. Di sicuro la presenza di istituzioni democratiche è funzionale allo sviluppo economico. Innanzitutto, per chiarezza, si definiscono nel dettaglio i due concetti, seppur in maniera semplificata. Il termine democrazia si riferisce a un sistema politico che offra regolari opportunità costituzionali per cambiare i governanti e che permetta alla popolazione di influenzare le decisioni più importanti scegliendo i propri rappresentanti a decidere. Vi sarebbero, dunque, quattro tipi di sistemi politici, osservabili nel mondo ma con particolare riferimento, come casi di studio, all’Europa e all’America Latina. Tali tipologie sono le seguenti:

28

V. Lanternari, op. cit., p. 84. 29

Ibidem.

(24)

20

- Democrazie stabili, ossia Paesi con una ininterrotta continuazione della democrazia politica dalla prima guerra mondiale e senza movimenti politici importanti che si oppongono alle “regole del gioco”

- Democrazie instabili e dittature, ossia Paesi che alternano momenti di democrazia piena a fasi dittatoriali in cui tutte le libertà tipiche del sistema democratico sono sospese

- Democrazie e dittature instabili, ossia Paesi in cui vi è l’alternanza di fasi democratiche e fasi dittatoriali, tuttavia però tale gruppo differisce dal precedente perché anche durante il regime democratico le elezioni non possono essere considerate pienamente libere

- Dittature stabili, ossia Paesi con un ferreo e continuativo regime dittatoriale Riguardo lo sviluppo economico, si è già detto che esistono numerosi indici per tentare di misurarlo, ma che essi vanno opportunamente integrati con una visione ampia e qualitativa di tale complesso fenomeno. Tuttavia, in tale sede, ci si attenga agli indici per misurare lo sviluppo economico presi in considerazione nello studio di Lipset, che sono i seguenti:

- Ricchezza, ossia reddito pro capite

- Industrializzazione, ossia percentuale di addetti all’industria ed energia consumata pro capite

- Urbanizzazione, ossia percentuale della popolazione in centri con oltre 20mila abitanti

- Educazione, ossia tasso di iscrizione alle scuole primarie, secondarie e alle università

Lipset osservò che, qualunque sia l’indicatore di sviluppo economico utilizzato, quest’ultimo appariva sempre superiore per le democrazie rispetto alle dittature. Per esempio, il reddito pro capite medio delle democrazie stabili era di 695 $, mentre assumeva valore di 308 $ per le democrazie instabili e le dittature, scendeva a 171 $ per le democrazie e dittature instabili, precipitando infine a 119 $ per le dittature stabili. In base a ciò, si può affermare con nettezza che la presenza di istituzioni democratiche è la precondizione necessaria senza la quale non si ottiene un pieno sviluppo socioeconomico del Paese in questione: democrazia e sviluppo intrattengono una relazione diretta tra di loro. Invece, molto più ardita e fondamentalmente infondata è la tesi secondo la quale lo stesso sviluppo economico

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21

produca istituzioni democratiche31. Da un punto di vista intuitivo si potrebbe facilmente cadere nella trappola, ossia considerare lo sviluppo economico come automatico generatore di istituzioni democratiche, infatti “lo sviluppo economico, producendo maggior reddito, una maggiore sicurezza economica e una più larga istruzione superiore, determina largamente la forma della «lotta di classe» che conduce alla fondazione della democrazia”32

. Di sicuro le dinamiche socioeconomiche rintracciabili nella citazione sono vere, ma è l’ultimo passo a non essere per nulla scontato: la pressione della popolazione per l’ottenimento di istituzioni democratiche potrebbe non essere ricompensata, essendo frustata da regimi oligarchici o dittatoriali che non hanno nessun interesse riguardo l’instaurazione di una democrazia. In conclusione, tra sviluppo economico e democrazia non esiste un legame diretto comprovato. Si ribadisce, al contrario, la necessità di istituzioni democratiche affinché il Paese elabori efficaci strategie per il proprio sviluppo socioeconomico33.

I Paesi in via di sviluppo, dunque, hanno bisogno di istituzioni democratiche per potersi sviluppare efficacemente dal punto di vista socioeconomico. La domanda che sorge spontanea però riguarda quali caratteristiche debbano avere le democrazie di questi Paesi per poter assumere questo ruolo funzionale e, ovviamente, essere efficienti dal punto di vista istituzionale. Ci si chiede, dunque, se il modello di democrazia occidentale possa essere esportabile in altre aree del mondo ed essere così replicato. Rivolgendo lo sguardo ad un mappamondo geopolitico, sembra infatti che l’assetto dello Stato-nazione occidentale, ossia sviluppatosi in Europa, Nord America, Australia, Nuova Zelanda e Giappone sia il migliore di tutti, acquisendo ancora più autorevolezza se paragonato allo stalinismo, alla “rivoluzione culturale” cinese, al fondamentalismo islamico, ai vari regimi militari e alle numerose occupazioni tribali dello Stato. I suoi capisaldi sono rappresentati dalla divisione dei poteri, dal suffragio universale, dal diritto di associazione attraverso partiti e sindacati, intesi rispettivamente come mediazione tra il cittadino e lo Stato e tra lavoratore e imprenditore, dalla pari dignità delle persone, nonché dalla libertà di espressione in ogni sua forma, compresa quella di culto34. A proposito di suffragio

31

G. Bottazzi, Sviluppo e sottosviluppo, Aìsara, Cagliari, 2007, pp. 184-185. 32 G. Bottazzi, op. cit., p. 185.

33

G. Bottazzi, op. cit., pp. 184-185. 34

A. Pitassio, Stato-nazione e sistema democratico in Europa: prodotto di esportazione?, in AA. VV.,

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universale e libertà di espressione, bisogna essere ancora più specifici in merito alle loro relazioni con l’assetto istituzionale: il caposaldo dei regimi democratici occidentali è proprio il fatto che la sovranità appartenga al popolo, indipendentemente dalla modalità con cui si è scelto di farlo partecipare al sistema istituzionale, che, per esempio, può essere parlamentare, presidenziale o semipresidenziale35. Inoltre, occorre approfondire una importante implicazione del suffragio universale: esso è sicuramente una straordinaria conquista di uno Stato-nazione, ma paradossalmente la concezione “una testa, un voto”, per la quale il voto di ogni persona avente diritto ad esprimersi è identico a quello di un’altra, porta ad un’apatia nei confronti del sistema politico nel caso in cui non sia controbilanciata con altre forme di partecipazione politica. Infatti, una persona può esprimere, attraverso il voto, la propria adesione a un programma politico e l’appoggio, di conseguenza, a un partito politico e a un candidato che lo possano applicare; tuttavia, qui sta il punto cruciale, tale libertà di espressione non registra l’intensità con cui la singola persona desideri ciò per cui vota. Non si tiene conto, in sostanza, della carica emotiva e della effettiva convinzione che si nasconde dietro l’atto del votare, che appunto resta identico per tutti gli aventi diritto. Ciò, paradossalmente, può scoraggiare il singolo cittadino dall’esprimersi. Ecco, dunque, come si accennava in precedenza, che il suffragio universale deve essere necessariamente accompagnato da altre forme di libertà di espressione, quali soprattutto la possibilità di costituire partiti politici, movimenti e sindacati, nonché di potervi partecipare. In essi, infatti, il cittadino può dare libero sfogo all’effettiva intensità con cui desidera ciò per cui vota, senza sentirsi frustrato in merito. In definitiva, il suffragio universale e la libertà di partecipazione sociale e politica devono essere due capisaldi di un regime democratico che vanno edificati insieme; ciò, naturalmente, ha ancora maggior valore con riguardo ai Paesi in via di sviluppo. In maniera ancora più specifica, si insiste sulle forme di partecipazione alla vita pubblica del Paese diverse dal voto, proprio perché esse giocano un ruolo continuativo e permanente: infatti, l’obiettivo principale di partiti politici, movimenti, organizzazioni e sindacati è proprio quello di influenzare in maniera diretta la politica pubblica interessandosi alle attività di una comunità o ai problemi nazionali. In sostanza, attraverso una partecipazione politica di tale tipo si può giocare un ruolo continuativo che non si esaurisce nell’espressione

35

M. Luciani, L’Occidente come modello democratico del secondo dopoguerra, in AA. VV.,

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23

del diritto di voto. A riprova di quanto appena espresso, si può tracciare idealmente una distinzione tra quelle democrazie in cui il suffragio è largamente percepito come l’unico veicolo di un’influenza di massa sulla politica pubblica, ed altre in cui, in aggiunta al suffragio, gioca un ruolo potenzialmente importante una varietà di forme di partecipazione di massa più dirette ed espressive, quali appunto l’attiva partecipazione a partiti, movimenti e sindacati. La maniera di atteggiarsi dei partiti sarà totalmente differente nelle due categorie: laddove il suffragio viene percepito come l’unica via di esprimersi, i partiti tendono a mobilitarsi essenzialmente in periodo elettorale; dove invece il suffragio non è considerato come l’unico effettivo strumento di espressione è più probabile che i partiti funzioneranno, su base permanente, come punti focali per la possibile mobilitazione dei loro iscritti e simpatizzanti in qualsiasi momento. Al di là del ruolo dei partiti, ancora più macroscopica sarà la differenza con riguardo al grado di partecipazione alle elezioni: essa sarà minore nel gruppo che considera il suffragio come l’unico strumento di espressione, mentre risulterà maggiore lì dove il suffragio camminerà di pari passo con altre forme di partecipazione sociale e politica permanente. In sostanza, ritornando al concetto precedente, l’affluenza alle urne sarà tanto maggiore quanto più grande sarà la possibilità del singolo cittadino di esprimere, in altri organismi, l’effettiva intensità di ciò in cui crede. Per esempio, gli Stati Uniti hanno un grado di militanza politica e sociale minore rispetto ai Paesi dell’Europa occidentale, come la Francia e l’Italia: non a caso, negli USA, il tasso di astensionismo elettorale risulta sistematicamente superiore rispetto a questi ultimi Paesi36.

Il suffragio universale, inoltre, nacque con una funzione molto precisa che svolge ancora oggi: permettere al popolo di esprimere la propria volontà ma, allo stesso, tempo, scongiurare che esso si organizzi e insorga in maniera violenta contro le istituzioni. In sostanza, il suffragio universale svolgeva e svolge una funzione di freno alle possibili tendenze estremiste della popolazione. Da questo punto di vista, esso è di sicuro un’importante conquista da rivendicare con forza, che ben si coniuga con le altre forme di partecipazione alla vita democratica del Paese a cui si è fatto più volte riferimento precedentemente; queste ultime, infatti, hanno tutte la caratteristica di non presentare profili di estremismo intollerabile, altrimenti non verrebbero accettate alla partecipazione nella vita democratica del Paese. In sostanza, il suffragio

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24

universale e le altre realtà organizzative scongiurano, insieme, rivolgimenti di carattere estremistico nel Paese in cui funzionano pienamente. A tal proposito, è illuminante tornare alle origini del suffragio universale per metterne ancora meglio in evidenza questo aspetto. La prima elezione nazionale a suffragio universale diretto maschile si svolse in Francia nell’aprile 1848; il 9 ottobre 1877 Gambetta, l’ardente oratore e “padre della terza repubblica”, pronunciava tale discorso rivolto ai conservatori affinché si convincessero definitivamente della bontà del suffragio universale37:

Io parlo a quelli tra i conservatori che hanno a cuore la stabilità, che hanno a cuore la legalità, che hanno a cuore la moderazione […] nella vita pubblica. A loro io dico: come potete non vedere che il suffragio universale – purché gli permettiate di funzionare liberamente, e rispettiate, una volta ch’esso ha parlato, la sua indipendenza e l’autorità delle sue decisioni – com’è possibile, vi domando, mancar di vedere che voi avete qui un mezzo per porre termine pacificamente a tutti i conflitti, per risolvere tutte le crisi? Come potete non capire che, se il suffragio universale funziona nella pienezza della sua sovranità, la rivoluzione non è più possibile, perché quando la Francia ha parlato una rivoluzione non può più essere tentata, né v’è più da temere un colpo di Stato?38

Nella Storia, si ritrova traccia dello stesso concetto anche nella discussione inerente il suffragio universale in Gran Bretagna, il quale, si poneva in evidenza, avrebbe frenato le sollevazioni sociali delle classi che venivano inserite nel corpo elettorale. Nel dibattito sul secondo Reform Bill del 1867, che per la prima volta allargava il suffragio a gruppi significativi di lavoratori e di altri ceti a basso reddito, Leslie Stephen si pronunciò in favore della riforma su linee identiche a quelle di Gambetta39:

…quanto lungimirante è il rimedio di escludere le classi lavoratrici da ogni reale, efficace e soddisfacente influenza? L’esser esclusi dall’influenza legislativa non gli insegnerà a cercare mezzi diversi? […] Il piano di porre rimedio ad un male ignorandolo è radicalmente cattivo e miope. Esso tende, direttamente ed energicamente, ad accentuare quella profonda divisione tra le classi ch’è uno dei grandi mali dell’epoca, e che rischia di sfociare un giorno in una spiacevole catastrofe40.

In sintesi, dunque, l’unione del suffragio universale con le forme di partecipazione associativa politica e sociale permette ai cittadini di esprimere le loro preferenze e di

37

A. O. Hirschman, Tre continenti, op. cit., pp. 98-99.

38 J. Reinach (a cura di), Discours et paydoners politiques de M. Gambetta, Charpentier, Parigi, 1882, pp. 282-283.

39

A. O. Hirschman, Tre continenti, op. cit., p. 100. 40 Ibidem.

Figura

Tabella 2 - Posizione debitoria dei contadini indiani tra il 1939 e il 1945
Tabella 3-Piani economici e sociali di alcuni Paesi asiatici e del Medio Oriente
Tabella 4 - Modello organizzativo dell'amministrazione scolastica in un Paese in via di sviluppo   Livello I
Tabella 5 - Morbilità, acuta disabilità e tasso di malattia in quattro distretti del Nepal
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Riferimenti

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