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Dopo la disamina del legame esistente tra democrazia e sviluppo socioeconomico, la comprensione della necessità di istituzioni democratiche per un’efficace pianificazione delle strategie economiche, nonché l’esposizione dei limiti dell’etnocentrismo, si può procedere all’analisi di quanto maturato negli anni Ottanta.

Dopo la crisi petrolifera del 1973 e con il sopraggiungere degli anni Ottanta, vi fu un mutamento di orientamento da parte degli organismi internazionali e degli intellettuali più influenti nel mondo occidentale, i quali riconobbero la limitatezza degli strumenti statistici ai quali fino a quel momento si era fatto affidamento e, appunto, la necessità di ripensare l’idea di sviluppo ad appannaggio dei Paesi che in quest’ultimo ancora dimostravano ritardo56

. Una prova di tale presa di coscienza è data dal pensiero seguente:

Le prove del persistere della povertà sono multiformi. Ad esempio, il numero degli analfabeti è aumentato. Il problema dell’occupazione è rimasto intrattabile e in alcune aree può essere addirittura peggiorato. La fame e la denutrizione sono croniche e in alcune zone dell’Asia e dell’Africa periodiche carestie sono in agguato. Forse l’elemento più scoraggiante è il fatto, del quale esistono prove incomplete ma tali da non poter più essere ignorate, che in molti Paesi il tenore di vita dei più poveri è diminuito in termini assoluti57.

La presa di coscienza del mondo occidentale e degli organismi internazionali portò a riflettere riguardo la necessità di cambiamento di strategie per lo sviluppo da parte

55 D. Green, op. cit., pp. 20-22. 56

J. Robinson, op. cit., p. 162. 57

K. Griffin, Increasing poverty and changing ideas about development strategies, “Development and change”, vol. VIII, 1977, p. 503.

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degli stessi Paesi in via di sviluppo, poiché questi ultimi stavano seguendo strategie, paradossalmente sulla scia della precedente influenza degli stessi Paesi occidentali, che non andavano nella giusta direzione in virtù dei recenti ripensamenti58. Per meglio esplicare tale concetto, si può far riferimento sempre all’autore della citazione precedente:

È ovvio che gli obiettivi della maggior parte dei Paesi del Terzo mondo non sono coerenti con quelli impliciti in una strategia che risponda ai bisogni essenziali, e cioè una enorme accelerazione del tasso di sviluppo che si accompagni a una redistribuzione radicale del reddito e della ricchezza59.

Negli anni Ottanta, quindi, si aspirò a un mutamento di politiche per lo sviluppo che potessero sferrare un “attacco frontale alla povertà e alla disoccupazione”60

. In tali anni, in sostanza, si iniziò ad abbandonare l’idea di osservare solo i suddetti indici al fine di giudicare lo sviluppo di un Paese e si fece ampiamente strada un new deal di politiche per lo sviluppo ad appannaggio dei Paesi ancora in ritardo di sviluppo. Tuttavia, come si espliciterà nei capitoli successivi, molte delle idee che si consolidarono e applicarono in tali anni erano state già ampiamente abbozzate a partire dagli anni Cinquanta. La presa di coscienza del problema del ritardo di sviluppo socioeconomico di vaste aree del mondo risale infatti al secondo dopoguerra, di pari passo con il processo di decolonizzazione. A partire dalla metà degli anni Quaranta, dunque, già si iniziarono a pensare strategie per combattere tale problema di carattere globale. Ciò che si vuole sottolineare, tuttavia, è che forse solo negli anni Ottanta maturò una nuova presa di coscienza del problema che portò a un ripensamento delle strategie per lo sviluppo, più distanti dal mondo della statistica e dalla dottrina economica dominante, sebbene si riscontrasse contiguità con alcune delle strategie già seguite nei decenni precedenti e la cui esposizione nel dettaglio avverrà nei capitoli seguenti. In sostanza, la comunità internazionale non si rese conto del sottosviluppo internazionale solo negli anni Ottanta, ma iniziò a guardarlo in maniera significativamente diversa solo da tale decennio, seppur ripescando idee e strategie che già erano maturate a partire dal secondo dopoguerra.

In linea con tale new deal delle strategie economiche affermatosi negli anni Ottanta, la prima azione da perseguire, da parte dei governi dei Paesi in via di sviluppo, è quella di incrementare la produzione di beni alimentari essenziali e di cercare di

58

J. Robinson, op. cit., p. 162. 59

K. Griffin, op. cit., p. 505. 60 J. Robinson, op. cit., p. 163.

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rendersi il più possibile indipendenti in tale settore. Innanzitutto, si tratta di un obiettivo politico oltre che di mero sostentamento: un Paese che dipende dall’importazione di alimenti è costretto a subire in maniera indiretta la politica dei suoi fornitori. L’aspetto drammatico, che appunto è necessario spezzare con il raggiungimento di un’indipendenza alimentare, consiste nel fatto che, per un Paese che ha la bilancia dei pagamenti in deficit, importare alimenti significa indebitarsi per mangiare. Una volta sfamatisi, resta da pagare il debito: questo circolo vizioso ha portato molti Paesi in via di sviluppo nell’impasse costituita da un alto debito pubblico. Purtroppo, spesso gli Stati suddetti non possono concretamente raggiungere un’indipendenza alimentare proprio perché al territorio nazionale non corrisponde un’entità economica vitale. In sostanza, un Paese da solo non riesce a garantire il sostentamento della propria popolazione perché il proprio terreno agricolo, sebbene intensamente sfruttato, non è capace di produrre prodotti alimentari a sufficienza e magari di diverso genere. In tal senso, è massima la colpa degli ex coloni che, abbandonando tali territori, hanno disegnato a tavolino confini geografici che appunto non hanno tenuto conto di tale difficoltà. Tuttavia, una soluzione è a portata di mano dei Paesi in via di sviluppo: qualora l’autosufficienza alimentare non fosse raggiungibile facendo riferimento al solo territorio nazionale, la si potrebbe pensare sulla base di grandi aree sovranazionali capaci di garantire il sostentamento delle loro popolazioni. Si può parlare, dunque, di autosufficienza collettiva. Purtroppo, affinché ciò avvenga, i Paesi “non allineati” devono risolvere le proprie divergenze, nonché smettere di porsi al servizio delle grandi potenze, le quali sfruttano o causano le suddette divergenze. Un’alleanza politica, insomma, giova alla possibilità di auto sostentamento agricolo di due o più Paesi. La necessità di indipendenza alimentare, oltre che una norma basilare di civiltà, appare come sostanziale per immettere nel mercato del lavoro un’immensa quantità di persone che non vi fanno parte proprio perché sono sottoalimentate, cioè troppo deboli per poter svolgere qualsiasi mansione lavorativa61.

Insieme al raggiungimento dell’indipendenza alimentare, è fondamentale tentare di “rieducare” i consumi della popolazione all’interno di un Paese in via di sviluppo. Infatti, molto spesso essa esprime una forte domanda sulla base di un comportamento imitativo degli stili di vita occidentali. È naturale per la popolazione urbana di una ex

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colonia, che ha potuto apprezzare il tenore di vita dei padroni stranieri, che vanno in automobile, pensare che l’indipendenza voglia dire che anch’essa avrà le sue automobili. Purtroppo, questa cattiva educazione dei consumi e questo disperato tentativo di imitazione porta anche l’industria del Paese in questione a cercare di soddisfare un certo tipo di forte domanda, sebbene essa sia in gran parte coperta dalle importazioni provenienti dai Paesi sviluppati. In sostanza, una cattiva educazione al consumo influenza anche le strategie di sviluppo industriali62. Invece, un “attacco frontale alla povertà delle masse63” presuppone un cambio di atteggiamento delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, attraverso una necessaria opera di rieducazione culturale, che faccia in modo che tali persone

definiscano il tenore e il tipo di vita che possono permettersi su scala nazionale, tenuto conto del loro attuale stato di povertà. È inevitabile che ciò vorrebbe dire non solo un tenore di vita assai più semplice, ma anche una assai maggiore concentrazione sui servizi pubblici che possono essere distribuiti più equamente: trasporti pubblici, ospedali pubblici, educazione pubblica, persino edilizia municipale. Se i Paesi in via di sviluppo si determinassero effettivamente a introdurre un mutamento di rotta così radicale nella loro strategia di sviluppo, anche i simboli prestigiosi della proprietà privata potrebbero mutare (l’esempio più corrente è quello di un’economia della bicicletta invece di un’economia dell’automobile)64.

Un simile ripensamento delle necessità di consumo, di certo arduo da perseguire poiché si tratta essenzialmente di un forte cambiamento di approccio culturale, comporterebbe non solo una diversa strategia industriale da perseguire, ma anche un mutamento rilevantissimo nel commercio estero. Si è detto, infatti, che, nel tentativo di imitare lo stile di vita della popolazione di un Paese sviluppato, si domandano prodotti che vengono essenzialmente importati da questi ultimi e che le industrie nazionali vorrebbero sforzarsi di produrre. Un tale cambiamento culturale e dei consumi farebbe in modo che le importazioni dei beni di lusso di tipo occidentale e dei materiali necessari a produrli internamente venissero eliminate65. A tal proposito, si può citare sempre l’autore precedente:

Tali importazioni sarebbero naturalmente più limitate quando questi Paesi contassero in misura crescente su se stessi e facessero uso delle risorse e delle capacità di cui dispongono per affrontare i

62

J. Robinson, op. cit., p. 169. 63 Ibidem.

64

P. Streeten (a cura di), Trade strategies for development, Macmillan, London e Basingstoke, 1973, p. 100. La citazione ripresa è originariamente da attribuire a Mahbub ul Haq.

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propri problemi. In altri termini, una “cortina della povertà” chiuderebbe su se stesso il mondo in via di sviluppo, isolandone lo sviluppo e i traffici e allontanandoli dai modelli tradizionali66.

Naturalmente, la “cortina della povertà” a cui si fa riferimento nella citazione è da riferirsi a una sorta di filtro benigno che si potrebbe applicare alle importazioni provenienti dai Paesi sviluppati, il quale farebbe arrivare nei Paesi in via di sviluppo solo ciò di cui essi hanno effettivamente bisogno per uno sviluppo autonomo, indipendente e centrato sulle proprie attuali condizioni. Non si fa riferimento, in alcun modo, alla chiusura dei traffici tra i due mondi. In sostanza, la “cortina della povertà” stimola il Paese a trovare strategie per farcela quasi da solo. A tal proposito e, soprattutto, a scanso di equivoci, si ricorda in tal sede che l’applicazione pratica della teoria della “cortina della povertà”, di seguito specificata, non è correlata in alcuna maniera alla famosa strategia dell’ import substitution industrialization seguita dai Paesi dell’America Latina fino al 1973. Tali Paesi infatti intendevano eliminare le importazioni e produrre localmente tutto ciò che precedentemente veniva importato dall’estero. In tal sede, invece, si ribadisce che vi è presenza di importazioni, ma che esse sono funzionali a uno sviluppo autocentrato del Paese in questione, mentre si eliminano le importazioni inutili dopo un cambiamento culturale che ha portato a un ripensamento delle necessità di consumo; anzi, ancora una volta, si ripete che tale ripensamento spinge a non produrre il bene inutile nemmeno a livello nazionale. Quindi il risultato è che intere categorie di prodotti non vengono né importate né prodotte localmente. La distanza rispetto all’import substitution

industialization è netta67.

Di seguito, si analizza cosa comporta l’applicazione del concetto di “cortina della povertà” dal punto di vista della strategia industriale. Quanto segue è soprattutto il frutto dell’elaborazione del professore indiano A. K. N. Reddy dell’Indian Institute of Science, che nel 1973 diede corpo a tale teoria. La citata personalità elenca così i principi concreti di questo approccio:

1) Esprimere preferenza per le tecnologie che comportano un risparmio di capitali e generano occupazione, piuttosto che per quelle ad alta intensità di capitali che fanno risparmiare manodopera

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P. Streeten (a cura di), op. cit., p. 100. La citazione ripresa è originariamente da attribuire a Mahbub ul Haq.

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2) Esprimere preferenza per le tecnologie su scala artigianale e ridotta piuttosto che su larga scala

3) Esprimere preferenza per tecnologie connesse alla produzione di merci per il consumo di massa piuttosto che di beni di lusso per i singoli

4) Esprimere preferenza per tecnologie che richiedono capacità modeste o limitate variazioni delle capacità degli artigiani tradizionali

5) Esprimere preferenza per tecnologie che impiegano materiali locali e non materiali di importazione o che devono essere trasportati da zone distanti del Paese

6) Esprimere preferenza per tecnologie che comportano un risparmio di energia rispetto a quelle che ne fanno un uso notevole

7) Esprimere preferenza per le fonti di energia disponibili in loco, come energia solare, eolica e gas da letame

8) Esprimere una preferenza per tecnologie che promuovono, tra industria metropolitana e popolazione rurale, un rapporto di simbiosi e scambio, piuttosto che parassitario e distruttivo68.

L’applicazione di tutti questi principi al mondo industriale, con particolare riferimento alle tecnologie da utilizzare per la produzione, fa scaturire un panorama del settore secondario caratterizzato da piccole imprese a carattere familiare, le quali producono appunto i beni di consumo. Tale sistema fondato su unità produttive su scala familiare è straordinariamente simile a quello che scaturisce, nel settore primario, dall’applicazione del concetto di dimensione ottima della terra, che si esplicherà nel dettaglio nel secondo capitolo. La famiglia è il motore di entrambi i settori: i suoi componenti lavorano per una quota del reddito derivante dalle vendite; al crescere del reddito, una parte di esso diviene risparmio e quindi investimento, alimentando sia il suo reimpiego nella stessa attività sia in altre attività produttive. Come nel settore agricolo, anche in quello industriale a conduzione familiare è forte la necessità di organizzare efficienti mercati di sbocco all’ingrosso, che, raccogliendo i prodotti scaturiti dalla produzione delle singole unità familiari, possano permetterne la vendita al pubblico. La produzione industriale su piccola scala a conduzione familiare ha soprattutto due grandi vantaggi: innanzitutto, si tratta di una produzione ad elevata intensità di manodopera che quindi permette una rapida crescita

68

A. K. N. Reddy, Towards an Indian science and technology, “Journal of Scientific and Industrial Research”, vol. XXXII, n. 5, 1973, pp. 207-215.

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dell’occupazione; inoltre, la strategia perseguita dalla famiglia è quella di impiegare gli investimenti di cui dispone in investimenti in manodopera, per esempio per migliorare l’abilità tecnica dei singoli operai, piuttosto che sforzarsi di utilizzarli per meccanizzare la produzione al fine di tentare di risparmiare manodopera. Questa strategia sembra permettere una grande efficienza nello sfruttamento del capitale finanziario che si ha a disposizione, mentre appunto lo sforzo di meccanizzazione sarebbe insostenibile e quindi scarsamente efficiente sotto un profilo economico. Come si può facilmente intuire, si tratta di una strategia molto diversa da quella seguita a loro tempo dai Paesi sviluppati, ma che può essere utile data la particolare condizione dei Paesi in via di sviluppo. Ad integrazione di quanto detto, bisogna aggiungere che il panorama industriale di uno dei Paesi rientranti in quest’ultimo gruppo non è formato solo da unità industriali a conduzione familiare, ma anche da più grandi industrie di Stato in cui invece si prediligono tecniche ad elevata intensità di capitale. Entrambe dunque lavorano in sinergia per lo sviluppo del Paese, ma è il governo a fare i pesanti investimenti nelle proprie industrie per mettere in moto, in esse, il fattore capitale69. Come scrive Joan Robinson nel suo libro intitolato Sviluppo

e sottosviluppo del 1981:

Una simbiosi tra industria nazionalizzata, per la quale è essenziale l’impiego di tecniche a elevata intensità di capitale, e le cooperative o le unità familiari su piccola scala, per le quali non lo è, è la via più rapida al pieno impiego ed è la via più efficace per promuovere l’accumulazione curandosi allo stesso tempo delle “esigenze umane” della popolazione70.

Riguardo le rinnovate strategie all’interno del settore industriale, si è fatto insistente riferimento alle tecnologie da utilizzare in esso. Di seguito si analizza più nello specifico la questione dell’introduzione, da parte dei Paesi sviluppati e delle organizzazioni internazionali preposte, di tecnologia all’interno del Paese in via di sviluppo. L’esportazione di tecnologia ad alta intensità di capitale in Paesi rientranti in quest’ultimo gruppo può creare gravi effetti distorsivi nell’economia qualora tale introduzione venga fatta in maniera errata. Se infatti essa riguarda solo uno specifico settore o un suo segmento, finisce per creare un effetto agglomerativo in esso del già scarso capitale presente nell’economia del Paese, col risultato che i restanti settori

69

J. Robinson, op. cit., p. 173. 70 Ibidem.

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rimarranno quasi del tutto sguarniti del già poco reperibile fattore capitale71. Nel 1977, Singer rifletteva riguardo tale problematica esprimendosi in tale maniera: Se un Paese dispone di una grande quantità di lavoro non qualificato, di alcune risorse naturali, ma di scarso capitale e qualificazione, è costretto ad usare in generale una tecnologia che sia ad alta intensità di lavoro, ad usare risorse naturali locali e ad impiegare pochissimo capitale e qualificazioni. Se una tecnologia ad alta intensità di capitale è introdotta in un particolare settore, per esempio nel settore industriale moderno della città capitale, questo significa solamente che nel resto dell’economia ci sarà sempre meno capitale disponibile, così che la popolazione del resto dell’economia dovrà cercare di vivere virtualmente senza l’aiuto del capitale72.

In sostanza, l’introduzione di una tecnologia ad alta intensità di capitale nell’economia di un Paese in via di sviluppo dovrebbe avvenire nella maniera più omogenea possibile tra tutti i settori dell’economia, al fine di evitare l’effetto attrattivo di capitale dell’unico in cui viene introdotta a discapito delle disponibilità dei restanti del fattore produttivo in questione. Tuttavia, anche nel caso di tale ipotetica distribuzione omogenea di tecnologia ad alta intensità di capitale nei settori dell’economia in via di sviluppo, permane un problema fondamentale, ossia quello della scarsezza del fattore capitale all’interno del Paese. In sostanza, anche qualora si introducesse tale tecnologia in tutti i settori, non si avrebbe l’ammontare di capitale necessario per farla funzionare. Dunque, l’introduzione di tecnologia ad alta intensità di capitale, sia fatta in maniera omogenea sia disomogenea tra i settori, crea problemi rilevanti all’economia del Paese in via di sviluppo.

La soluzione più auspicabile, invece, come già intuito nel 1973 da Schumacher, è quella dell’introduzione nel Paese povero di tecnologia “appropriata”73

, ossia capace di essere utilizzata in maniera agevole da imprenditori e lavoratori locali e soprattutto in grado di ottimizzare lo sfruttamento del fattore produttivo più abbondante in loco: il lavoro. Non esistono, dunque, tecnologie che risultino efficienti in assoluto, poiché appunto quelle che lo sono nei Paesi occidentali risulterebbero inadeguate nei Paesi in via di sviluppo74. Non esiste, infatti, “nessuna legge di Dio o della Natura che stabilisca che le tecnologie ad alta intensità di capitale sono efficienti mentre quelle ad alta intensità di lavoro sono inefficienti”75

. Si è compreso, dunque, che il

71

G. Bottazzi, op. cit., p. 352-353. 72 G. Bottazzi, op. cit., p. 353. 73

Ibidem. 74

Ibidem. 75 Ibidem.

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trasferimento di tecnologia ad alta intensità di manodopera, che risulti “appropriata” al Paese, sia una buona strategia da perseguire nel panorama della cooperazione internazionale. È opportuno sviscerare ulteriormente il concetto di appropriatezza della tecnologia, che va al di là della definizione appena fornita. Il trasferimento di tecnologia è appropriato quando ciò che si introduce nel Paese in via di sviluppo è adatto a soddisfare le esigenze, in termini produttivi e sociali, di quest’ultimo. Non basta, dunque, trasferire tecnologia ad alta intensità di manodopera in tali Paesi, ma occorre farlo nel rispetto dei bisogni che essi esprimono. Si precisa tale aspetto perché, all’inizio degli anni Ottanta, si osservava come i trasferimenti di tecnologia effettuati nei decenni precedenti erano stati improduttivi per i Paesi riceventi perché non rispettavano tale principio, anzi piuttosto erano portati a compimento nell’interesse del Paese che operava il trasferimento, nell’ambito di una strategia neocolonialista volta a rafforzare la dipendenza economica, sfruttando la dipendenza tecnologica, e a perseguire gli interessi delle grandi imprese nazionali occidentali76. Infatti, come osservava Ernst nel 1981:

in contrasto con la fraseologia delle conferenze internazionali, il trasferimento di tecnologia nei Paesi del Terzo Mondo non è il risultato di qualche politica del benessere. È invece un importante elemento della strategia delle imprese private, essenzialmente multinazionali, che sono costrette ad