INDICE
Introduzione
Capitolo 1 IL LAVORO SOCIALE NEL NUOVO SCENARIO DI POLITICA SOCIALE
1.1 Crisi del Welfare State e le politiche sociali in Italia 1.1.1 Politiche sociali e Welfare State
1.1.2 Il Welfare State in prospettiva storica 1.1.3 Welfare State italiano
1.1.4 Le nuove povertà
1.2 Il lavoro sociale nel nuovo Welfare
1.2.1. Dal Welfare State al Welfare Community 1.2.2. Il servizio sociale verso il Welfare comunitario Capitolo 2 IL RUOLO DELL'ASSISTENTE SOCIALE 2.1 Chi è l'assistente sociale
2.1.1. Codice deontologico ed altri riferimenti legislativi
2.1.2. Tra mandato professionale, mandato istituzionale e mandato sociale 2.1.3 Il ruolo e la metodologia dell'assistente sociale
a.2 Ripensare il ruolo dell'assistente sociale
2.2.1. Strumenti di conoscenza e riflessività dell'assistente sociale 2.3. Nuovi orientamenti teorico-metodologici: reti e capitale sociale Capitolo 3 TEORIE DI RETE E TEORIE DI CAPITALE SOCIALE
1.1 L'attenzione verso le reti sociali da parte del servizio sociale
1.2 Il concetto di rete sociale
1.3 L'analisi delle reti sociali – Social Network Analysis
1.4 Che cos'è il capitale sociale
Capitolo 4 DALLE TEORIE ALLA PRATICHE DI RETE 4.1 Potenzialità della Social Network Analysis
4.2 Potere positivo del capitale sociale 4.3 L'assistente sociale nella rete Conclusioni
INTRODUZIONE
Nel corso di 10 anni di esperienza lavorativa come assistente sociale ho avuto l'opportunità di sperimentare in prima persona alcuni limiti e alcune criticità del lavoro sociale e delle politiche sociali, nel contesto attuale caratterizzato da una duratura crisi economica e dalla sempre più limitata disponibilità di risorse da parte degli attori istituzionali.
Muovendo quindi dalla sentita esigenza professionale di migliorare l'efficacia degli interventi dell'assistente sociale e del lavoro sociale in generale, nel presente lavoro di tesi sono state delineate le caratteristiche delle politiche di welfare attuate in relazione ai cambiamenti e alle nuove sfide portate dalla crisi socio-economica, analizzando il ruolo dell'assistente sociale, con l'obiettivo di valutare le opportunità che potrebbero scaturire dalla messa in pratica delle teorie dell'analisi di rete sociale e di capitale sociale, prendendo spunto da casi di studio in Inghilterra.
Infatti, come illustra Ferrera, a partire dalla fine degli anni '70 il Welfare state è entrato in una crisi originata da “vecchie soluzioni di fronte a nuovi
problemi […] che hanno fatto emergere la necessità di un cambiamento del Welfare per migliorare la sua inefficienza, inefficacia ed iniquità” (Ferrera, 2006). A ciò si aggiungono sfide ulteriori derivate dalle così dette “nuove
povertà” , avendo sperimentato che l'esclusione sociale può investire ulteriori fasce della popolazione; infatti come sostiene Sennet “il fallimento non è più una
prospettiva normale solo per i poverissimi o per le persone afflitte da problemi, ma è diventato un evento familiare anche nelle vite della classe media” (Sennet,
2007).
In questo contesto appare dunque evidente per più autori “la necessità di
ripensare il servizio sociale e la professione, per misurarsi adeguatamente con questa complessità” (Cordaz, 2013); analizzando le strategie di lavoro sociale
alle domande esplicite può indurre a dare risposte alle emergenze senza trovare il modo di retro-agire sulle cause “ (Ruggeri, 2009).
Assumono pertanto rilevanza i risultati dell'applicazione delle teorie del capitale sociale e dell'analisi di rete sociale, considerando che “il lavoro sociale
dovrebbe essere fondato sul fatto che la riflessione teorica potrebbe rappresentare un metodo utile per l'agire professionale, non solo come un modo di pensare, ma sottolineando il nesso tra una lettura dei fenomeni sociali e la pratica professionale.” (Salvini, 2012).
Il presente lavoro si articola come segue.
Nel primo capitolo si analizza l'evoluzione delle politiche sociali, dal concetto di Welfare State a quello di Welfare comunitario e si riflette sugli sforzi del lavoro sociale per adeguarsi ai cambiamenti dello scenario di politica sociale.
Nel secondo capitolo si riprendono i caratteri fondanti della professione dell'assistente sociale, dagli aspetti metodologici ai riferimenti legislativi, evidenziando come il ruolo debba necessariamente evolversi verso una partecipazione più attiva nell'analisi dei bisogni e nella definizione delle politiche sociali.
Nel terzo capitolo si forniscono gli aspetti concettuali relativi alle reti sociali, all'analisi di rete e del capitale sociale.
Nel quarto capitolo si trattano casi reali di applicazione dell'analisi di rete nel lavoro sociale in Inghilterra, delineando le potenzialità di questo approccio nella pratica sociale.
CAPITOLO 1
IL LAVORO SOCIALE NEL NUOVO SCENARIO DI
POLITICA SOCIALE
Nel presente capitolo si analizza l'evoluzione delle politiche sociali, dal concetto di Welfare State a quello di Welfare comunitario, passando per il Welfare Mix, andando ad enunciare concetti quali le “nuove povertà”. Nella seconda parte si delineano gli sforzi che il lavoro sociale deve assumere nel nuovo scenario di politica sociale.
1.1 CRISI DEL WELFARE STATE E LE POLITICHE SOCIALI IN ITALIA
1.1.1 Politiche sociali e Welfare State
Con il termine Politica Sociale si fa riferimento ad una vasta gamma di politiche pubbliche che cambiano a seconda dei periodi storici e dei paesi. Le politiche sociali possono quindi essere definite come un insieme di interventi pubblici con scopi ed effetti sociali variabili, finalizzati ad una più equa distribuzione societaria di risorse ed opportunità, alla promozione di benessere e qualità della vita, e perseguono lo scopo di ridurre o limitare le conseguenze sociali prodotte da altre politiche. Il concetto di Politica Sociale non può avere un unico significato perché è soggetto a mutamenti storici, temporali e culturali e non esiste un solo settore di Politica Sociale, per questo si parla di Politiche Sociali.
“In primo luogo, le politiche sociali definiscono le regole per la distribuzione delle risorse e delle opportunità, fissando le condizioni di accesso, le forme di erogazione, la loro durata. In secondo luogo, le politiche sociali definiscono l'organizzazione della produzione e distribuzione di risorse e opportunità, attraverso un sistema di apparati (amministrazioni, uffici, scuole...) che hanno una duplice importanza, quella di erogare i servizi fondamentali e quella di rappresentare molti dei posti di lavoro. La produzione e la distribuzione di risorse e opportunità coinvolge una pluralità di attori, pubblici e privati. In tutta Europa è lo Stato l'ente che si occupa di svolgere il ruolo centrale della produzione sociale degli individui. Le politiche sociali possono quindi essere definite come un insieme di interventi pubblici con scopi ed effetti sociali variabili che vanno da una più equa distribuzione societaria di risorse ed opportunità, alla promozione di benessere e qualità della vita e che hanno lo scopo di ridurre o limitare le conseguenze sociali prodotte da altre politiche. […] I problemi e gli obiettivi che caratterizzano le politiche sociali riguardano il benessere dei cittadini, ovvero le condizioni di vita degli individui, le risorse e le opportunità a loro disposizione nelle varie fasi della loro esistenza (fasi del ciclo di vita). Inoltre, le politiche sociali definiscono le norme, gli standard e le regole in merito alla distribuzione di alcune risorse ed opportunità considerate particolarmente rilevanti per le condizioni di vita e dunque meritevoli di essere in qualche modo garantite dall’autorità dello Stato.” (Ferrera, 2006)
Le politiche sociali si riferiscono alle regole, all'organizzazione e agli attori e la sua definizione considera i concetti di benessere dei cittadini, le condizioni di vita degli individui e le risorse ed opportunità a loro disposizione. I problemi e gli obbiettivi di politica sociale interessano le norme e le regole relative alla distribuzione delle risorse ed opportunità ritenute rilevanti per le condizioni di vita e per questo, come specifica Ferrera, “meritevoli” di essere garantite dallo Stato. Il benessere degli individui dipende, anche, dalle risorse e dalle opportunità che essi hanno durante le loro fasi della vita o cicli di vita, come definiti da Ferrera, che non sono semplicemente scanditi dall'età quanto dalla successione dei principali eventi biografici (infanzia, adolescenza, vita adulta e vecchiaia). Le risorse e le opportunità rappresentano i diritti sociali, che insieme ai diritti civili e politici definiscono il concetto di cittadinanza sociale.
“tre componenti principali che vedono il loro affermarsi in tre periodi storici ben definisti:
2.Diritti civili (XVIII secolo) 3.Diritti politici (XIX secolo)
4.Diritti sociali (XX secolo)” (Marshall, 1950)
Per Marshall questi tre elementi si sono succeduti nel tempo definendo la struttura della cittadinanza moderna, che considera quale elemento strutturante per l'integrazione sociale, ed è completa, solo con la presenza dei diritti sociali.
Il concetto di cittadinanza ed il suo significato varia a seconda del contesto sociale politico e culturale di ciascun paese. Ai cittadini sono riconosciuti i diritti, tra cui quello di ottenere risorse e di accedere ai servizi necessari per avere buone condizioni di vita, intendendo per benessere lo stare bene.
Caratterizzano le politiche sociali altri due temi rilevanti, oltre a quelli di benessere e di cittadinanza, quali: il bisogno ed il rischio.
Le politiche sociali hanno l'obiettivo di proteggere i cittadini dai rischi sociali e provvedere ai lori bisogni. Il rischio indica l’esposizione a determinati eventi che possono accadere e che quando si realizzano minano il benessere generando un bisogno. Il bisogno indica la carenza o la mancanza di qualcosa di necessario per la realizzazione di benessere. Per far fronte ai bisogni e per contrastare i rischi si ricorre alla sfera del mercato (mercato del lavoro, mercato assicurativo, mercato immobiliare, ecc.), alla sfera della famiglia (in senso allargato fino alle reti parentali ed amicali) e a quella delle “associazioni intermedie” (vicinato, associazioni di categoria e soggetti del “terzo settore”, organizzazioni di volontariato). Queste sfere definiscono la struttura e la natura del concetto di Welfare State; per esempio, il rischio di perdita della capacità di sostentamento autonomo può essere fronteggiato grazie alla famiglia, o alle associazioni intermedie, o in alternativa allo Stato.
Sulla base della prospettiva storica, che vede molti autori come Marshall, Briggs e Titmuss i principali riferimenti, il Welfare State può essere definito come l'intervento dello Stato impegnato a modificare le forze sociali di mercato allo scopo di realizzare una più ampia uguaglia sociale.
“L'essenza del welfare state risiede nella protezione da parte dello stato di standard minimi di reddito, alimentazione, salute e sicurezza fisica, istruzione e abilitazione, garantiti ad ogni cittadino come diritto politico” (Wilenski, 1975)
Il Welfare State si può definire come:
“uno stato in cui i trasferimenti monetari alle famiglie e/o l'assistenza e l'istruzione di individui diversi dai dipendenti pubblici costituiscono la voce di spesa e l'attività predominante nella routine quotidiana dello stato e dei suoi dipendenti” (Therborne, 1984);
“un insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo tra l'altro specifici diritti sociali nel caso di eventi prestabiliti, nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria” (Ferrera, 1993);
“un sistema sociale basato sulla assunzione da parte di uno stato politico di responsabilità primarie per il benessere sociale ed individuale di ogni cittadino, attraverso la legislazione e
l'attivazione di specifiche politiche sociali realizzate tramite uffici e agenzie governative, ossia da istituzioni pubbliche” (Rei 2008).
Il Welfare State è il risultato di trasformazioni economiche, sociali e politico istituzionali che le scienze sociali definiscono come un processo di modernizzazione. Questo processo ha interessato, con tempi e modalità differenti, le società occidentali a partire dal XIX secolo, trasformando la loro struttura produttiva ed occupazionale (industrializzazione), i loro modelli di organizzazione sociale (urbanizzazione, trasformazione della famiglia, miglioramento del tenore di vita e alfabetizzazione di massa) i loro sistemi politici ed amministrativi. Il Welfare State nasce come risposta alla nuova configurazione di rischi e bisogni originati dal processo di modernizzazione.
Come spiega Ferrera:
“Il quadrilatero costituito da Stato, famiglia, mercato (del lavoro) e mondo associativo è a volte denominato il Diamante del Welfare. Il sistema di relazioni formali e informali fra le quattro punte del diamante è a sua volta denominato “regime di welfare” o anche “welfare mix”. Lo Stato svolge tuttavia un ruolo predominante e sovraordinato all'interno del diamante: da un lato esso è infatti il
“contenitore” di tutti i processi di produzione di benessere, formali e informali, pubblici e non pubblici e da un altro lato lo Stato è il “regolatore sovrano” di questi processi.” (Ferrera 2006, p.14)
Figura 1.1 Il diamante del welfare (Ferrera, 2006).
Lo Stato può incidere sulla distribuzione di risorse ed opportunità, e dunque sulle condizioni di vita dei cittadini, non solo attraverso le erogazioni dirette, ma anche in maniera indiretta, disciplinando l’operato di soggetti non pubblici. Il benessere dei cittadini dipende in larga misura proprio dal posto che essi occupano all’interno delle reti familiari, lavorative ed associative, dalle modalità di organizzazione ed il funzionamento di queste reti e dai loro reciproci rapporti. Il sistema delle relazioni formali ed informali fra Stato, famiglia, mercato ed associazioni intermedie costituisce il regime di Welfare Mix.
Il Welfare State nell'offerta delle risorse e delle opportunità nell'ambito della tutela delle persone più deboli incontra difficoltà nel coniugare efficienza ed efficacia, necessita quindi di articolare l'intervento pubblico con l'intervento privato e il regime Welfare Mix è la modalità con cui la protezione sociale è distribuita tra lo Stato, il mercato, la famiglia e le associazioni intermedie.
A partire dalla definizione di Welfare State è possibile definire tre temi chiave collegati tra loro, che rappresentano i tre diversi “modelli” o modalità tipiche di intervento pubblico ai fini della protezione sociale, come definiti da Titmus:
1. Assistenza 2. Assicurazione 3. Sicurezza sociale Nel dettaglio le tre modalità sono: 1. Assistenza:
“comprende tutti quegli interventi a carattere condizionale e spesso discrezionale, volti a rispondere in modo mirato a specifici bisogni individuali o a categorie circoscritte di bisognosi”; […]
“Date le sue caratteristiche, l'assistenza è una forma di protezione selettiva (rispetto alle condizioni bisogno e di reddito) e residuale (rispetto alle capacità di risposta individuale o familiare); […]
Inoltre, le prestazioni che la caratterizzano sono subordinate all'accertamento, da parte pubblica, di due condizioni, il bisogno manifesto e l'assenza di risorse per farvi fronte, verificate attraverso una prova dei mezzo; (Ferrera, 2006, p.18-19).
2. Assicurazione sociale:
“connota un tipo di intervento pubblico nettamente diverso dall'assistenza: un tipo imperniato sull'erogazione di prestazioni semi-standardizzate in forma tendenzialmente automatica e imparziale, sulla base di precisi diritti/doveri contributivi e secondo modalità specializzate e standardizzate” (Ferrera, 2006, p.19);
3. Sicurezza sociale:
Il sistema di protezione è esteso a tutti i cittadini volto a favorire prestazioni uniformi, corrispondenti ad un minimo nazionale e capaci di garantire una vita degna, non connessa a doveri di contribuzione e incentrata sul concetto di cittadinanza. Si caratterizza per una copertura universale, quindi estesa a tutti i cittadini con prestazioni uguali per tutti.
Riassumendo le modalità di intervento del Welfare State e le loro caratteristiche (Ferrera, 2006, p.20):
Assistenza sociale Assicurazione sociale
Sicurezza sociale
Copertura Universale ma
selettiva Occupazionale Universale Prestazioni Collegate alla
situazione Contributive/retributive A somma fissa Finanziamento Fiscalità generale Contributiva Fiscalità generale
Le principali politiche sociali sono:
2.politiche pensionistiche: riguardano essenzialmente il rischio di vecchiaia, in
particolare la perdita di capacità lavorativa, che caratterizza l'età anziana; inoltre coprono il rischio di invalidità ed il rischio di morte in presenza di familiari superstiti;
3.politiche sanitarie: riguardano il rischio di malattia ed in particolare i bisogni
sanitari ad esso connessi;
4.politiche del lavoro: rispondono essenzialmente al rischio di restare
disoccupati; esse mirano anche a regolare il mercato del lavoro e a promuovere l'incontro fra domanda e offerta;
5.politiche di assistenza sociale: hanno per oggetto un ventaglio di rischi e
bisogni: dalla perdita dell'autosufficienza personale alla povertà economica, dalla difficoltà di accesso all'abitazione, alla presenza di persone deboli nel proprio nucleo familiare. Come aggiunge Ferrera:
“queste politiche sono volte a garantire, o quanto meno a promuovere, l'inclusione sociale, ossia l'ancoraggio di individui e famiglie al tessuto sociale che li circonda, assicurando loro risorse e opportunità” (Ferrera 2006, p. 15)
1.1.2 Il Welfare State in prospettiva storica
Lo sviluppo storico dello Stato sociale in Europa può essere suddiviso in varie fasi, descritte a seguire..
Origine o decollo istituzionale (1880-1920): si sviluppano le misure di assistenza
assistenziale-repressivo in tutti gli Stati Europei; successivamente il decollo vero e proprio del moderno stato sociale mise in crisi la legittimità del paternalismo assistenziale conservatore e stimolò l'associazionismo privato e sperimentò nuove forme assicurative; l'assicurazione obbligatoria fu un'innovazione istituzionale che sembrò lo strumento adeguato per la concreta realizzazione del nuovo impegno sociale. Il periodo storico è caratterizzato dall'istituzione delle assicurazioni obbligatorie.
Consolidamento (1920-1945): completata ed allargata la copertura dei vari rischi
sociali si ha il passaggio dalla ristretta assicurazione dei lavoratori alla più ampia di assicurazione sociale, estendendo i possibili beneficiari. In tale periodo storico si amplia il catalogo dei rischi coperti dalle assicurazioni ma soprattutto si ampliano le fasce di popolazione protette dallo stato sociale: non viene solo protetta la popolazione attiva ma viene tutelato il benessere sociale anche delle fasce inattive.
Espansione (1945-1975): si ottiene l'universalità della copertura, il
miglioramento delle prestazioni e la creazione di nuovi pilastri assicurativi, quali la pensione; c'è la massima protezione da parte dello stato sociale che aumenta le categorie protette grazie alla grande espansione industriale. In questo periodo avviene il biforcamento tra il modello universalistico ed occupazionale dello stato sociale. Quello universalistico o “beveridgeano” adottato prima dal Regno Unito e poi dai Paesi Scandinavi, era finanziato dal gettito fiscale e redistribuito dagli schemi assicurativi: tale modello offre gli schemi assicurativi a tutta la popolazione, grazie al benessere economico di quel periodo. Il sistema occupazionale o “bismarckiano” è rivolto solo alla popolazione attiva nel mercato del lavoro.
Crisi (1975-1990): il Welfare State è entrato in una lunga e travagliata crisi
“dalle vecchie soluzioni di fronte a nuovi problemi, un insieme di importanti mutamenti hanno mirato le basi di quegli assetti edificanti negli anni d'oro.” (Ferrera, 2006, p.27).
Partiti da un contesto di industrializzazione basato sul paradigma “fordista” (produzione di massa, forza lavoro maschile occupata nelle grandi fabbriche che aveva prodotto benessere in tutta Europa) si arriva alla crisi petrolifera del 1972, che fa iniziare un periodo di deindustrializzazione, con la scomparsa delle grandi imprese. Le conseguenze più evidenti sono lo sviluppo del Terzo settore, la flessibilità dei rapporti di lavoro e il consumo differenziato. Nonostante la crisi, le aspettative della società non decrescono, perché le persone, sono molto ancorate a quanto socialmente hanno ottenuto. Si passa quindi ad un paradigma fordista a un paradigma post-fordista che ha come principale conseguenza l'invecchiamento generalizzato della popolazione.
La crisi del Welfare State poggia su cause esterne alla crisi quali:
cambiamenti economici generali, soprattutto nuove tecnologie, terziarizzazione (deindustrializzazione), globalizzazione. Si sono tradotte in cambiamenti nelle strutture occupazionali (fine del posto stabile e garantito) e, in molti casi, in un aumento della disoccupazione; la forte crescita economica: a partire dalla metà degli anni ’70 la crescita si trasforma in deficit e debiti pubblici e il paradigma fordista: si ha un passaggio da un’occupazione nelle grandi fabbriche ad un’economia e ad una società post-industriale;
crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro;
trasformazioni dei rapporti familiari: le famiglie sono diventate meno stabili e meno protettive in seguito all'aumento del numero di separazioni e divorzi, di famiglie monogenitoriali e di nuclei formati da un solo componente, spesso anziano. Le conseguenze sul piano economico sono la diminuzione della sicurezza per gli individui non direttamente impegnati sul mercato del lavoro e, sul piano sociale, la diffusione di fenomeni di isolamento e di emarginazione.
la crescita demografica e la stabilità dei flussi migratori: si ha un declino della fertilità, l'invecchiamento della popolazione e la modifica dei flussi migratori;
l’accelerazione delle aspettative e delle richieste.
5.Riforma (a partire dagli anni '90): i governi di tutta Europa devono
fronteggiare la crisi con delle politiche di ricalibratura. I due cardini della “ricalibratura” delle politiche, termine utilizzato da Ferrara per definire quel processo di cambiamento istituzionale, riguardano l'attivazione di politiche di controllo, il contenimento dei costi e riforme restrittive delle tradizionali formule di prestazione nella sanità e previdenza.
Il processo di riforma del Welfare State comporta, da un lato, la resistenza al cambiamento alimentata dalla crescente pressione sociale a garantire forme di tutela più estese, e dall’altro, l’urgenza di complessivi interventi di contenimento dei costi e di riequilibrio della protezione. Emerge la necessità di un cambiamento del Welfare per migliorare la sua inefficienza, inefficacia ed iniquità.
1.1.3 Il Welfare State italiano
Negli anni '90 si definiscono tre tipologie di Welfare State:
1. liberale: predominanza di misure di assistenza basate sulla prova dei mezzi; i destinatari principali sono i bisognosi, poveri lavoratori a basso reddito ed il welfare State incoraggia il ricorso al mercato; (Gran Bretagna, Irlanda, USA, Canada e Australia)
2. socialdemocratico: predominanza di schemi universalistici di sicurezza sociale con alti standard di prestazione; i destinatari sono tutti i cittadini, il welfare state mira a marginalizzare l'importanza del mercato come fonte di risposta ai bisogni e ai rischi sociali (Paesi Scandinavi);
3. conservatore: predominanza di schemi assicurativi pubblici collegati alla posizione occupazionale; i destinatari principali sono i lavoratori adulti
maschi padri di famiglia ed il welfare tende a preservare le differenze di status e classe. (Europa continentale inclusa l'Italia)
L’Italia ha seguito la via Bismarckiana, ovvero il modello occupazionale, ed ha dato una serie di schemi occupazionali, secondo il pensiero di Ferrera:
“sono state privilegiate due grandi categorie protette, quali i dipendenti pubblici e i dipendenti delle grandi industrie; inoltre, ci sono altri fattori che hanno contraddistinto il nostro paese rispetto agli altri, quali un'economia sommersa che sfugge ai versamenti fiscali e il fatto che la famiglia funziona come ammortizzatore sociale, provvedendo direttamente a rischi e bisogni, tanto che Naldini ha definito questo modello mediterraneo come il modello delle solidarietà familiari e parentali.” (Ferrera, 2006)
Il sistema di welfare italiano, in base alle caratteristiche tipiche dell'Europa mediterranea, è familista: la famiglia funge da ammortizzatore sociale ed in questo modo impedisce che lo Stato intervenga in prima persona.
Il modello di welfare state italiano può essere letto in due ottiche differenti, sia da un punto di vista della Costituzione, che da un punto di vista politico: nel primo caso in base ai principi costituzionali, l'Italia è occupazionale e solidarista; se prendiamo il punto di vista politico, il nostro welfare è particolarista e clientelare.
Come lo definisce Ferrera
“In Italia si parla di una doppia distorsione distributiva e funzionale rispetto agli altri Stati Europei. […] Tale peculiarità italiana si collega alla logica della I Repubblica (1943-1948) che ha fatto del welfare state italiano un nuovo sistema di potere, consolidandosi intorno ad una vera e propria partitocrazia distributiva che per catturare il consenso ha utilizzato modalità particolaristiche e clientelari.” (Ferrera 2006, p 49)
La particolarità italiana sta nella composizione interna della spesa: nel nostro paese la gran parte della spesa sociale è impiegata per la copertura del sistema pensionistico; invece le spese relative alla famiglia, disoccupazione, abitazione ed esclusione sociale sono sottodimensionate. Risulta iperprotetto il rischio di vecchiaia a discapito dei rischi e bisogni collegati ad altre fasi del ciclo di vita, come la povertà, presenza di figli, esigenze di cura e servizi all'interno della
famiglia, risultando che l'Italia spende per la protezione sociale una quota di Pil un po’ più bassa della media europea. Inoltre, l’assistenza sociale risulta in effetti la funzione più modesta rispetto alla spesa sulla protezione sociale.
A livello nazionale, le misure a sostegno della famiglia si limitano essenzialmente all’assegno per le famiglie con almeno tre figli minori, l’assegno di maternità per le madri sprovviste di altra copertura e i sussidi per l’accesso alle abitazioni in locazione.
Come afferma Ferrera, l'intervento pubblico sull’assistenza è a carattere condizionale e discrezionale, volto a rispondere in modo mirato a specifici bisogni. L'assistenza è selettiva e residuale: le sue prestazioni sono subordinate all’accertamento da parte pubblica di due condizioni, un bisogno manifesto e l’assenza di risorse per farvi fronte.
Le condizioni di vita degli individui sono in larga parte determinate dallo loro posizione rispetto al mercato del lavoro, alla famiglia e alle altre forme associative: il tipo di famiglia cui si appartiene, il tipo di lavoro che si svolge e il tipo di associazione cui si aderisce, determinano le condizioni di vita degli individui. Le condizioni di vita degli individui sono molto differenziate proprio in ragione delle diseguali risorse e opportunità che ciascuno ha la possibilità di procurarsi attraverso le sfere (famiglia, mercato, associazioni intermedie). In questo contesto, lo Stato svolge dunque un ruolo essenziale per la riduzione delle disuguaglianze. Chi non risulta essere garantito dal sistema di protezione sociale e si trova a godere di nessuna tutela risultano essere i lavoratori che restano relegati nell’economia sommersa e che non riescono a conquistare un posto stabile e duraturo con il mercato del lavoro regolare.
L’attuale sistema degli ammortizzatori sociali in Italia prevede per chi ha un rapporto di lavoro la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, contratti di solidarietà; invece le misure riferite all’interruzione del rapporto di lavoro sono le indennità di mobilità, poi sostituita dall'ASPI (Assunzione Sociale Per l'Impiego), e l’indennità di disoccupazione. La criticità del sistema degli ammortizzatori sociali in Italia riguarda il basso livello di copertura rispetto alle persone in cerca di occupazione, l’indennità di disoccupazione è inferiore rispetto ai livelli
europei e una mancanza di collegamento con le politiche attive, l’assenza di una rete assistenziale di contrasto alla povertà e la mancata chiarezza nel distinguere tra interventi assistenziali e previdenziali.
L’uso vasto ed improprio del sistema previdenziale ha di fatto elargito sussidi o pensioni che hanno perso la loro originaria funzione assicurativa ed assunto nel tempo il ruolo improprio di integrazione al reddito di lavoratori stagionali. Questo fatto di promuovere la cultura dei trasferimenti monetari ha ridotto la capacità delle istituzioni di leggere e rispondere alla domanda sociale del territorio, nonché a inibire pratiche di coordinamento, comunicazione ed integrazione istituzionale.
1.1.4 Le nuove povertà
Quello della povertà è un fenomeno complesso e legato ai cambiamenti storici, culturali e sociali delle società contemporanee e la conoscenza della distribuzione della povertà tra le popolazioni e l'analisi delle caratteristiche che si associano a questo fenomeno.
Con il termine di “nuove povertà” si fa riferimento ad una povertà non più intesa come condizione economica oggettivamente misurabile, ma come senso di insicurezza, di instabilità, una zona grigia sempre più ampia dove povertà è anche fragilità di relazioni, precarietà lavorativa, insicurezza sociale, malattia, ecc. in un sistema dominato dalla competitività e dalla produttività. Queste povertà vengono a determinarsi sulla base di fattori di cambiamento, demografico e sociale che si sviluppano all'interno delle nostre società. L’espressione “nuove povertà” è di ampia diffusione: la crisi economica, la disoccupazione, la precarizzazione delle situazioni di lavoro e la contrazione dei consumi, hanno esposto, infatti, sempre più individui ad una condizione di vulnerabilità e povertà. E’ il rapporto su “La Povertà in Italia” che mostra infatti una situazione generale peggiorata proprio a partire dalla crisi del 2008:
Nel 2012, il 12,7% delle famiglie è relativamente povero (per un totale di 3 milioni 232 mila) e il 6,8% lo è in termini assoluti (1 milione 725 mila). Le persone in povertà relativa sono il 15,8% della popolazione (9 milioni 563 mila), quelle in povertà assoluta l'8% (4
Tra il 2011 e il 2012 aumenta sia l'incidenza di povertà relativa (dall'11,1% al 12,7%) sia quella di povertà assoluta (dal 5,2% al 6,8%), in tutte e tre le ripartizioni territoriali.
La soglia di povertà relativa, per una famiglia di due componenti, è pari a 990,88 euro, circa 20 euro in meno di quella del 2011 (-2%). L'incidenza di povertà assoluta aumenta tra le famiglie con tre (dal 4,7% al 6,6%), quattro (dal 5,2% all'8,3%) e cinque o più componenti (dal 12,3% al 17,2%); tra le famiglie composte da coppie con tre o più figli, quelle in povertà assoluta passano dal 10,4% al 16,2%; se si tratta di tre figli minori, dal 10,9% si raggiunge il 17,1%.
Aumenti della povertà assoluta vengono registrati anche nelle famiglie di monogenitori (dal 5,8% al 9,1%) e in quelle con membri aggregati (dal 10,4% al 13,3%).
Oltre che tra le famiglie di operai (dal 7,5% al 9,4%) e di lavoratori in proprio (dal 4,2% al 6%), la povertà assoluta aumenta tra gli impiegati e i dirigenti (dall'1,3% al 2,6%) e tra le famiglie dove i redditi da lavoro si associano a redditi da pensione (dal 3,6% al 5,3%). (ISTAT, 2013)
Questi dati mostrano come la crisi della società salariale moderna, l’indebolimento delle forme di protezione assicurate dalle politiche sociali, nonché la crisi dei legami sociali e familiari, abbiano moltiplicato la vulnerabilità, allargando le fasce sociali soggette a rischio ed accrescendo l’ansia nei confronti del futuro. In particolare la vulnerabilità ha colpito quelle persone che fino ad un determinato momento erano inserite all’interno di una stabile vita sociale e professionale, e che oggi si trovano invece a confrontarsi con situazioni di precarietà e disoccupazione.
Come ha sostenuto Richard Sennet:
“agli albori della crisi economica che si sta rivelando la più grande solo dopo quella del 1929, il fallimento non è più una prospettiva normale solo per i poverissimi o per le persone afflitte da problemi, ma è diventato un evento familiare anche nelle vite della classe media” (Sennet, 2007)
Le esigenze di competitività e concorrenza, assieme alla riduzione delle possibilità di impiego che caratterizzano lo scenario sociale contemporaneo portano ad una precarietà permanente ed a una insicurezza perpetua in assenza di un mercato del lavoro organizzato. Oggi il concetto di povertà lascia il passo al
concetto di esclusione sociale; tale termine in ambito europeo si riferisce all'impossibilità, l'incapacità o la discriminazione nella partecipazione ad importanti attività sociali e personali per cui l'individuo perde la percezione di appartenenza ad a data comunità. Gli esclusi sono dunque coloro che non hanno la possibilità di accedere alla vita sociale in termini di occupazione, istruzione e formazione.
L'esclusione sociale non si riferisce solo a chi si trova in una posizione economica marginale e a chi si colloca ai livelli più bassi della stratificazione sociale, ma anche persone che erano state fino a questo momento inserite nel circuito del lavoro e del consumo e che si trovano ora privi di supporti, di appartenenza e di legami sociali.
“Ciò che era impossibile un tempo oggi può verificarsi con qualche probabilità: si può essere poveri pur con la casa ed il lavoro” (Pieretti, 2009)
Per studiare la povertà oggi occorre assumere un approccio di analisi nuovo, capace di comprendere come, accanto alla tradizionale forma di povertà, si assista ora ad una crescente differenziazione della povertà stessa. I “nuovi
poveri” non si configurano più come una classe sociale omogenea e riconosciuta,
bensì come una massa dai contorni indefiniti, frammentata ed invisibile.
L’espressione “nuove povertà” può essere riferita ad una condizione di vulnerabilità, intesa come senso di insicurezza ed instabilità, in cui si ritrova il soggetto con un percorso individuale incrinato dalla precarietà e fragilità, tanto a livello lavorativo quanto nelle relazioni sociali. In quest’ottica risulta fondamentale considerare che la dimensione economica non è la discriminante essenziale, ma al contrario la povertà è strettamente legata ad una complessità di fattori che contribuiscono ad estendere la fascia di vulnerabilità ed incertezza fra gli individui che la compongono.
“Ad oggi si può dire che, in generale, con povertà ci si riferisce a condizioni di sofferenza anche molto diverse fra loro. Di queste si sottolinea, sempre più frequentemente, il fatto che non si tratti necessariamente di condizioni irreversibili, né tanto meno di destini sociali ereditati alla nascita: per cui si tematizzano, assieme ai percorsi di progressiva cronicizzazione, anche le possibilità di
processuale (impoverimento), in cui il dinamismo non segue un senso unilaterale e presenta determinazioni multicausale.” (Carboni, Gisfredi 2011, p.244)
Considerare la condizione di povertà solo come una questione macro significa non tenere presente della sua eterogeneità e variabilità, soprattutto si esclude l'aspetto relazionale e non si tiene conto del ruolo della famiglia e delle reti di solidarietà. Le analisi che privilegiavano una lettura dei fatti macro-sociali per lo studio della povertà, sono state sostituite, dopo la teoria proposta da Sen, da un approccio sempre più attento al tenore di vita e alle reti relazionali dell’individuo e alle sue capacità di trasformare le risorse in capacità di vita.
Come precisa Sen:
“il raggiungimento o meno di determinati standard di vita dipende, dalle capacità di ogni individuo, ossia quelle capacità di cui una persona dispone per attivare o meno determinate funzioni.” (Sen 1992)
Come aggiunge Ruggeri:
“un'analisi della povertà, come forma complessa di incapacità seria può essere proficuamente coniugata in termini di ricostruzione di processi di esclusione” (Messeri, Ruggeri, 2000, p.186)
Una visione che intende superare la definizione di povertà esclusivamente in termini di deprivazione economica, dovrebbe puntare sulla ricostruzione dei legami come parte importante per superare il problema delle nuove povertà. E' dunque possibile rilevare nelle nuove povertà una dominanza dei bisogni relazionali che rappresentano l'unica chiave di accesso per l'attivazione di strategie significative di recupero e reintegrazione delle persone che si trovano in questa situazione. L'esigenza di ricostruire un significativo legame comunitario, spesso anche affettivo e di prossimità, si rileva, per le nuove forme di povertà, il bisogno sociale più impellente, spesso anche più importante degli stessi bisogni materiali. La società si trova inadeguata di fronte alle carenze di reti di relazioni parentale e territoriali e alla rarefazione di quei circuiti di solidarietà, cooperazione e confronto che naturalmente devono caratterizzare una vera comunità sociale. La società civile deve ritrovare e realizzare la propria natura
più profonda, quella essenza di comunità che permetta a tutti i componenti una partecipazione attiva e responsabile alla vita sociale.
“Occorrerebbe mettere in atto vere e proprie strategie e azioni per aumentare l’intensità di capitale sociale, in modo tale da allentare quella spirale negativa che incide sulla crescita dei processi di impoverimento.” (Putnam, 2004)
1.2 IL LAVORO SOCIALE NEL NUOVO WELFARE COMUNITARIO 1.2.1. Dal Welfare State al Welfare Community
Il Welfare State è il sistema sociale in cui lo Stato si assume la responsabilità primaria per il benessere sociale ed individuale di ogni cittadino attraverso la legislazione e l'attivazione di specifiche politiche sociali realizzate attraverso uffici ed agenzie governative.
La crisi del Welfare State è diventata evidente su alcuni fronti al punto che si è dovuto assistere ad una nuova configurazione del rapporto tra Stato e cittadini e le ripercussioni sul Welfare State sono le seguenti:
aumento della domanda per quanto riguarda pensioni, assistenza sanitaria e altri servizi sociali per la terza età (assistenza domiciliare, case di riposo, ecc.); conseguente aumento degli oneri finanziari riferiti a tali voci e concentrazione del loro peso su di un numero di lavoratori attivi in diminuzione;
domanda di nuovi servizi, incluso il sostegno non puramente materiale e da parte di individui non inclusi negli schemi esistenti;
domanda di politiche attive per l'occupazione.
Si è verificata una crescente insostenibilità della spesa per le assicurazioni sociali, soprattutto nel campo pensionistico, che premono su un numero sempre in diminuzione di lavoratori, a causa del cambiamento demografico e sociale e delle trasformazioni dell'economia. In crescente peso sui lavoratori dovuto al tentativo di “far quadrare i conti” del Welfare, unito all'insoddisfazione per prestazioni sempre meno rispondenti ai bisogni e alla presenza di un vasto
insieme di esclusi dai benefici tradizionali, ha portato a una crisi di legittimità del modello ereditato dal passato e, in alcuni casi, dell'idea di stato sociale.
La crisi del Welfare ha portato a una nuova attenzione al settore privato, in particolare, come produttore di servizi necessari per rispondere alla nuova domanda emersa in conseguenza dei cambiamenti sociali ed economici degli ultimi decenni e come produttore di beni collettivi di tipo diverso., così intorno agli anni '80 si passa al Welfare Mix che riprendendo la definizione di Rei:
“Il Welfare Mix è una formula con cui si designa il gioco delle relazioni ed interdipendenze che corrono tra gli attori che realizzano le prestazioni, con effetti non statici ma di composizione e sviluppo dinamico nel tempo”. (Rei, 2008)
Le due concezioni che si riferiscono all'idea di Welfare Mix sono il Welfare
society ed il Welfare community: tale riferimento è nato dalla circostanza che le
società hanno dovuto far ricorso crescente alle famiglie, associazioni intermedie e, di conseguenza, gli attori del benessere sono rappresentati sia dallo Stato, che dal mercato, dalla famiglia ed dalle associazioni intermedie.
Il Welfare societario si fonda sul superamento di uno Stato rigidamente interventista a favore della iniziativa sociale: la responsabilità della produzione delle prestazioni si sposta dalle istituzioni pubbliche ai soggetti sociali. Alcuni autori parlano di “privatizzazioni” ed altri di “sussidiarietà orizzontale”, in quanto è la società civile stessa a svolgere le funzioni e compiti di pubblica utilità, finora prerogativa sovrana delle istituzioni pubbliche. La presenza pubblica rimane indispensabile, come la presenza privata, che sia in grado di espandersi in tutti gli ambiti nei quali la presenza pubblica non è necessaria o l'impossibilitata a garantire la medesima prestazione.
Il Welfare comunitario è un particolare sviluppo di welfare societario. Per capire il suo significato è utile risalire all'etimologia del termine comunità (communitas) .
“Communis, “che è di tutti”, cum-munus, “dono obbligato”, che esprime la “gratitudine che esige di essere ricambiata”.
Comunità è […] l'insieme delle persone unite dalla legge ordinaria del dono reciproco. E' perciò che alla sua base non c'è affatto una proprietà o un'appartenenza comune, ma, al contrario, un impulso
che ci obbliga nei confronti degli altri prima che ce lo imponga qualsiasi istituzione o ordinamento normativo.” (Esposito 2005)
Un ordinamento sociale di tipo comunitario ha una forte valenza, in quanto come afferma Esposito:
“l'essere in comune non va inteso come risultato dell'unione di più individui prima separati, ma come modo di essere originario di ciascuna di una forma contemporanea singolare e plurale” (Esposito 2005)
Poi può essere utile anche risalire alla famosa distinzione introdotta da Ferdinand Tonnies fra Gemeinschaft (“comunità”) e Gesellschaft (“società”):
“la Gemeinschaft implica “cooperazione comunitaria”; mentre la Gesellschaft implica la “cooperazione associativa”. Alla base della distinzione c'è la natura dell'azione cooperativa: per legami forti nella cooperazione comunitaria e per legami più deboli nella cooperazione associativa. La comunità si distingue dalla società: si creano legami forti, si ha condivisione di valori e fini a favorire processi inclusivi, il capitale sociale che si genera e di cui si fruisce è rilevante e si mettono in comune risorse umane, finanziarie, materiali,
per il raggiungimento dei fini comuni”. E come ribadisce Tuan nel suo trattato
“la comunità è considerata buona, perché i suoi membri cooperano; si aiutano l'un l'altro. La cooperazione presuppone un'effettiva ed efficace comunicazione, che è considerata un'altra caratteristica della comunità: caratteristica che distingue dalla società, i cui membri, spesso estranei gli uni agli altri, non comunicano o comunicano con minor successo” (Yi-Fu Tuan , 2002).
Il Welfare community si riferisce a luoghi ed opportunità di relazione e prende in considerazione la corresponsabilità dei soggetti sociali nella produzione del benessere. Tale sistema fa riferimento alla dimensione territoriale (locale e reticolare) in cui la produzione ha luogo, e all'intreccio fra risorse formali ed informali che la rendono possibile.
Il Welfare community ha una stretta correlazione con la sussidiarietà, che viene intesa come garanzia di reciprocità in tutti gli ambiti e livelli e fra tutti gli attori della vita sociale.
Infatti si intende per “welfare community” il modello di politica sociale che, modifica i rapporti tra istituzioni e società civile, dando più spazio a quest'ultima, in modo che possa realizzare una comunità fondata su valori di solidarietà, della coesione sociale e del bene comune.
La Welfare community è intesa come sinonimo di “Welfare comunitario”, concetto quest'ultimo che sintetizza un ruolo peculiare del privato sociale. Il Welfare comunitario è propriamente un'area di welfare che si riferisce a luoghi ed opportunità di relazione e definisce i “servizi di prossimità” con valore di promozione sociale e che rappresentano una caratteristica del non-profit. In tal senso il welfare non potrà fare a meno di una presenza del terzo settore. II volontariato, l'associazionismo e la cooperazione sociale hanno dimostrato di essere in grado di rispondere in maniera qualificata alla domanda di partecipazione e di relazionalità che rappresenta la nuova dimensione dei bisogni sociali.
Il Welfare comunitario dovrebbe rappresentare l'alternativa al modello basato sull'asse individuo-Stato: un'alternativa i cui pilastri potrebbero essere i singoli individui che rappresentano il valore della comunità e i doveri di ogni persona sono quelli di promuovere le capacità dell'altro, quindi favorire il suo
empowerment.
1.2.2 Il servizio sociale verso il Welfare comunitario
I cambiamenti e le trasformazioni della società hanno messo in discussione il modello di welfare, quindi risulta necessario ripensare le modalità di vita sociale e comunitaria ed inventare nuove forme di welfare di comunità.
Come afferma Cordaz:
“La crisi dei modelli tradizionali di welfare, come modelli capaci di rispondere alla complessità e molteplicità dei bisogni sociali, ha comportato sostanzialmente la necessità di ripensare il servizio sociale e la professione, per misurarsi adeguatamente con questa complessità”. (Cordaz 2013, p. 56)
Per far fronte alla crisi il servizio sociale deve innovarsi e promuovere azioni finalizzare al Welfare comunitario, perché la crisi non è solo finanziaria ma c'è stata un'esplosione della domanda socioassistenziale, conseguente ad un invecchiamento della popolazione, una crescente disabilità adulta, un aumento di disoccupati e sottooccupati e soprattutto un allentamento dei legami familiari e parentali.
Il Servizio sociale deve porsi una strategia che miri a creare i legami per la coesione sociale tra persone, territorio di appartenenza ed istituzioni. In una logica di sussidiarietà territoriale, si pone di favorire le competenze di auto-cura della comunità e dei suoi attori e potenziare il lavoro di rete verso lo sviluppo di comunità, dai soggetti della rete come risorse, alla loro integrazione e valorizzazione come attori protagonisti della cura della loro comunità.
Il Welfare comunitario è l'esito della comunità che si fa responsabile di sé e cura se stessa, ed i servizi sociali curano la governance pubblica.
E' opportuno ricordare che il convegno di Tremezzo del 1946 riconobbe:
“il servizio sociale di comunità come strategia sia di promozione e sviluppo di processi democratici sia di responsabilizzazione della comunità nei confronti dei suoi problemi” (Sequi, 2005).
E la costruzione di un Welfare comunitario, partendo da una lettura congiunta della domanda da parte di tutti i soggetti istituzionali e sociali interessati, apre la strada ad una diffusa responsabilità e solidarietà per i problemi del territorio in modo più consapevole e socialmente innovativo.
Si verifica, invece, che di fronte all’esplicita riduzione del sostegno della politica nazionale nei confronti del sistema dei servizi e ai tagli della spesa sociale:
“le priorità del governo hanno dato luogo ad un calo pesante delle risorse statali destinate alla spesa sociale che ha come inevitabile conseguenza la cancellazione o il ridimensionamento di iniziative e servizi, come primo punto, di quelli gestiti dagli enti territoriali che a loro volta sono duramente colpiti dalle manovre di finanza pubblica” (Fazzi, 2010).
“il clima sociale e culturale entro il quale i servizi prendono forma ed entro il quale, alla fine, gli assistenti sociali sono chiamati ad operare, in un clima di messa in discussione dei programmi di politica sociale.” (Pasquinelli 2011)
Inoltre:
“Il significato di questi cambiamenti non si esaurisce in un mero mutamento delle condizioni di lavoro alle quali il servizio sociale si può adattare. Essi vanno piuttosto considerati, nel loro insieme, come un processo di mutamento profondo che rende sempre più incerti i punti di riferimento che hanno costituito il contesto entro il quale il servizio sociale si è sviluppato e professionalizzato. Di fronte ai cambiamenti politici e sociali che rendono la pratica professionale sempre più complicata, uno dei rischi è sicuramente quello della ”acquiescenza”, cioè dell’adattarsi agli orientamenti politici anche quando sono contrari ai valori ed ai principi fondanti della professione. Si corre il rischio, proprio in difesa del proprio status quo professionale, di oggettivare le basi conoscitive e l’utilizzo della conoscenza scientifica nella pratica, spostando il servizio sociale in un contesto di presunta neutralità.” (Norhdurfter/Lorenza 2010).
Come sottolinea Fargion:
“Questa tendenza comporta in realtà processi di scostamento e deprofessionalizzazione che fanno diventare sempre più magistrale una professionalità riflessiva e critica” (Fargion 2009).
La sfida degli operatori sociali è molto forte: la pressione su di loro si assoggetta alle logiche della efficienza produttiva, rischiando di vedersi ridurre la loro professionalità solo su procedure, senza poter sperimentare nuovi modelli operativi sociali non prestazionali e soprattutto senza poter agire da facilitatori di reti agendo nell'interfaccia tra l'Ente di lavoro e la comunità locale, come per poter interagire con le relazioni e far emergere progettazioni condivise. Tali pratiche relazionali possono articolarsi dal singolo caso alla società, partendo dai piani di assistenza individualizzata fino allo sviluppo di comunità, soprattutto nel versante della promozione dell'auto mutuo aiuto, del volontariato, dell'advocacy delle categorie deboli.
Come propongono Donati e Folgherait:
“Il passaggio al Welfare comunitario dovrà portare allo sviluppo di “buone prassi”, ma tutti gli sforzi verso un cambiamento potranno farli se a poco a poco sarà chiaro a tutti che “il lavoro sociale è un
impresa relazionale complessa che non si riduce al prestazionismo. […] Puntare sulla forza della solidarietà civile, e del capitale sociale che questa forza esprime, pur tenendo conto che essa non può essere autosufficiente e che sono necessari precisi investimenti istituzionali per svilupparla e sostenerla. […] Lo sforzo di socializzare le buone prassi emergenti, cosicché il “buono emergente” non se ne resti isolato con il rischio di deperire, ma si propaghi nella cultura comune, è il cammino verso una qualità sociale vera”. (Donati e Folgherait 1999)
Come incoraggia la Zilianti:
“i moderni welfare e i servizi alla persona si confrontano in una dimensione plurale e le istanze societarie si relazionano con quelle comunitarie in una ricerca di sintesi tra:
riconoscimento e responsabilizzazione delle differenti sfere sociali,
anche in ambito pubblico;
valorizzazione dei saperi locali e ambientali;
attribuzione di senso al vivere civile.” (Zilianti, Rovai 2009)
La Campanini sottolinea che il ruolo della professione
“non può essere solo quello di adeguarsi passivamente ai cambiamenti delle politiche sociali, soprattutto quando queste rischiano di colludere con i valori che ispirano la professione: è richiesto un impegno costruttivo per partecipare ad un processo di influenzamento e orientamento delle politiche sociali verso la realizzazione dei principi di uguaglianza e coesione sociale.” (Campanini ,2009).
Come afferma Dal Pra Ponticelli,
“il servizio sociale deve assumersi anche la sua responsabilità politica, forse ancor di più di quanto questa sembra essere particolarmente difficile da esercitare : la professione di assistente sociale non può non sentirsi partecipe di come le politiche sociali trovino o non trovino una loro realizzazione nella risposta ai bisogno delle persone. (Dal Pra Ponticelli, 2010).
Emerge quindi con chiarezza che uno degli obiettivi centrali dello sviluppo della professione, come ribadisce Dal Pra Ponticelli, dovrebbe essere proprio quello di:
(Dal Pra Ponticelli 2010).
Il servizio sociale deve avere, da un lato la capacità di analisi politica, per poter contestualizzare il proprio operato in un quadro più ampio di sviluppo delle politiche, dall’altro le competenze pratiche, per difendere ed usare in maniera strategica gli spazi di autonomia e discrezionalità professionale nelle pratiche quotidiane. Ciò è essenziale da un lato per sviluppare una professionalità all’altezza delle esigenze concrete della prassi, dall’altro per consentire al servizio sociale di partecipare, tramite un dialogo interdisciplinare, ai processi di costruzione delle politiche, informandoli dal basso e da una prospettiva etico-professionale.
Continua Dal Pra Ponticelli:
“ci dobbiamo domandare se nell’operatività corrente sia sufficientemente approfondita, anche dal punto di vista teorico, ma soprattutto accettata e messa in pratica l’importanza dello sviluppo della responsabilità politica degli operatori dei servizi alla persona e della centralità dell’integrazione nei suoi diversi aspetti e se non sia necessario un maggiore sforzo, sia nell’ambito della formazione di base che nei programmi di formazione permanente, per approfondire questi aspetti, queste mete della professionalità del servizio sociale.>> (Dal Pra Ponticelli 2010).
Allo stesso tempo questa prospettiva mette in evidenza che il futuro del servizio sociale non dipende solamente dagli sforzi di sviluppo della professione e della sua disciplina.
Secondo Facchini:
“L’essere professione ‘sociale’ implica che la professione stessa necessita di spazi in cui questo suo modus operandi specifico si possa esplicitare ed in cui gli assistenti sociali come “soggetti del welfare” possano assumersi il loro ruolo in quanto tali.” (Facchini 2010).
Il servizio sociale in questo nuovo Welfare non è mai il singolo professionista ma si trova inserito in una rete allargata di decisori, tecnici, familiari e reti informali. Un livello fondamentale di innovazione del lavoro sociale è relativo allo sviluppo di un orientamento e una prassi finalizzata all'apprendimento e alla riflessività: è necessario attivare percorsi di conoscenza, innovare le basi metodologiche, aprirsi al confronto dialettico e continuo con tutti gli attori.
L'assistente sociale come professionalità riflessiva deve riconoscere la criticità della chiusura nella burocratizzazione, della chiusura del tecnicismo ed il lavoro sul singolo caso non deve costituire l'unico orizzonte né conoscitivo né di intervento, ma occorre investire nel lavoro sulla realtà territoriale. L'operatore deve uscire dall'autoreferenzialità ed aprirsi alla comunità.
CAPITOLO 2
IL RUOLO DELL’ASSISTENTE SOCIALE
Nel presente capitolo si illustrerà la professione dell'Assistente Sociale, dagli aspetti metodologici ai riferimenti legislativi, soffermandoci sul mandato professionale e mandato istituzionale, per poi evidenziare come il ruolo dell'assistente sociale deve evolversi a seguito dei cambiamenti della società. Concludendo sull'importanza del lavoro sociale di rete e sul concetto di capitale sociale.
2.1 CHI E' L'ASSISTENTE SOCIALE
Fin dal suo nascere la professione di assistente sociale viene definita come “cerniera di collegamento” tra i bisogni (della persona e della comunità) ed istituzioni, “agente di socializzazione”, “agente e promotore dell'autorealizzazione della persona”, “esperto dei sistemi di relazione, avente funzione di agevolare i processi comunicativi tra i diversi soggetti sociali”.
Nel luglio 2001 l'IASSW (International Association of Schools of Social Work) e ISFW (International Federation of Social Workers) hanno redatto la seguente definizione internazionale del servizio sociale:
“La professione del servizio sociale promuove il cambiamento
sociale, il metodo del problem solving nei rapporti umani e l'empowerment e la liberazione delle persone per migliorare il benessere. Utilizzando le teorie del comportamento umano e del sistema sociale, il servizio sociale interviene nelle situazioni in cui le persone interagiscono con il loro ambiente. I principi dei diritti umani e della giustizia sociale sono fondamentali per il servizio sociale”. (IASSW, 2001)
In Italia la prima definizione ufficiale di assistente sociale è stata elaborata dalla “Commissione nazionale di studio per la definizione dei profili
professionali e dei requisiti di formazione degli operatori sociali”, istituita nel
1982 dal Ministero dell'Interno:
“L'assistente Sociale è un operatore sociale che, avendo secondo i principi, le conoscenze e i metodi specifici della professione, svolge la propria attività nell'ambito del sistema organizzato delle risorse messe a disposizione dalla comunità, a favore di individui, gruppi e famiglie, per prevenire e risolvere situazioni di bisogno, aiutando l'utenza nell'uso personale e sociale di tali risorse, organizzando e promuovendo prestazioni e servizi per una maggiore rispondenza degli stessi alle particolari situazioni di bisogno e alle esigenze di autonomia e responsabilità delle persone, valorizzando a questo scopo tutte le risorse della comunità”.(Dizionario generale dei
servizi civili, 1984)
A partire dalle definizioni proposte si evidenzia che l'azione professionale dell'assistente sociale è resa possibile dal possesso di un ampio bagaglio tecnico-culturale, dalle competenze e capacità ed atteggiamenti che costituiscono il ruolo della professione. Inoltre, l'obiettivo del suo intervento non è quello del cambiamento della persona con riferimento ad una patologia, bensì quello di promuovere un miglioramento delle condizioni della persona, tramite un percorso condiviso.
Come precisa Mary Richmond (1917) la professione di assistente sociale viene definita:
“un'arte di svolgere servizi diversi per e con persone diverse, cooperando con loro a raggiungere il miglioramento loro e della società. Insieme di procedimenti che sviluppano la personalità attraverso un adattamento realizzato coscientemente, individuo per individuo, tra gli uomini e il loro ambiente sociale”.
Il servizio sociale è una professione di aiuto e si esplica all'interno dei servizi sociali, intese quali strutture pubbliche o private del welfare, e si pone come obiettivo:
1. creare, attraverso un processo di aiuto, proprio del servizio sociale basato sulla relazione interpersonale professionale, i raccordi possibili tra i bisogni e le risorse familiari e sociali, istituzionali e comunitarie, attivando un sistema di solidarietà intorno ai problemi del singolo o della collettività.
2. aiutare le persone a sviluppare la capacità di affrontare e risolvere i problemi personali in modo responsabile e autonomo, mediante la ricerca e l'uso delle risorse personali e della rete familiare e sociale.
3. aiutare la collettività, mediante l'uso corretto della informazione e dei flussi informativi, ad individuare i propri bisogni e a riconoscere le priorità di soddisfazione, ad attivare la rete di solidarietà naturale, i processi di partecipazione e soprattutto ad arginare i fenomeni di burocratizzazione degli apparati della pubblica amministrazione e di spersonalizzazione dei servizi. 4. Progettare, organizzare e gestire nell'ambito del sistema organizzato dei servizi, interventi e risorse in modo che siano rispondenti ai bisogni individuali e collettivi con modalità personalizzate e non emarginanti.
5. Evidenziare, studiare e analizzare allo scopo di contribuire alla progettazione dei servizi, alla elaborazione delle politiche sociali soprattutto in chiave preventiva.
(liberamente tratto da Dal Pra Ponticelli 1986, p.34-37).
Le tappe significative della costruzione del servizio sociale sono:
1. il convegno di Tremezzo (1946) in cui si definisce l'assistente sociale come un “agente di cambiamento” e viene proposta una modalità di intervento incentrato sul trattamento individuale al caso;
2. la diffusione di metodologie quali:
• “Case Work”, configura un setting operativo composto dall'assistente sociale, il cliente e l'organizzazione; l'individuo è considerato come un sistema chiuso con i suoi specifici problemi: si considera il singolo individuo in un ottica di intervento del rimedio del danno e il sintomo viene letto come manifestazione di disturbi psicologici ritenuti la causa originaria del disadattamento alle situazioni esterne. Mary Richmond (1922) ideatrice del case-work lo definisce come il metodo per cui si analizzano i “procedimenti intesi a sviluppare la personalità per mezzo
di adattamenti effettuati coscientemente, individuo per individuo, tra le persone e l'ambiente che le circonda”; considera l'analisi dell'influsso
che l'individuo esercita sul proprio ambiente culturale e del modo in cui viene influenzato.
• “Group Work” considera il gruppo costituito da due o più persone che si percepiscono in interazioni e in cui vige un senso di appartenenza e sono accomunate da uno scopo o da un problema; l'assistente sociale usa dei meccanismi relazionali, finalizzati al sostegno e allo stimolo del gruppo e di ciascun membro.
• “Community Work” considera come contesto di riferimento l'intera comunità: il ruolo dell'assistente sociale è quello di aiutare la popolazione a risollevarsi , promuovendo attività volte a informare e a far conoscere i diritti e doveri derivanti dall'essere cittadini; per tale metodo lo scopo è proprio quello di diventare cittadini attivi ed attenti ai bisogni della propria comunità. Il lavoro di comunità impegnerà gli assistenti sociali in un lavoro finalizzato alla organizzazione di azioni comuni, tese a raggiungere obiettivi di cambiamento.
3. Convegno di Rimini in cui si evidenzia che l'analisi politica della realtà dei servizi, delle strategie e delle alleanze necessarie per un mutamento degli stessi veniva completamente trascurata.
2.1.1 Codice deontologico ed altri riferimenti legislativi
La deontologia è il complesso dei doveri inerenti a particolari categorie professionali; è un insieme di norme che definiscono il comportamento del professionista nell'esercizio delle sue competenze.
Il codice deontologico è un insieme dei principi e delle regole che gli Assistenti Sociali devono osservare nell'esercizio della professione che orientano le scelte di comportamento nei diversi livelli di responsabilità in cui operano. Il codice è strutturato per titoli in cui si indicano le responsabilità che l'assistente sociale ha nei confronti della persona (titolo 3), della società (titolo 4), dei colleghi altri professionisti (titolo 5), dell'organizzazione di lavoro (titolo 6), della professione (titolo 7).
Le tre aree del lavoro dell'assistente sociale sono le persone (singoli, coppi e famiglie), la comunità (gruppi, realtà istituzionali e non, le relazioni di un determinato contesto) e l'organizzazione (le istituzioni in cui il servizio sociale opera). Nei titoli III, IV, VI e VII individua i soggetti a cui il professionista risponde: la persona utente, la società, l'organizzazione in cui è inserito e la propria comunità professionale. Quindi il ruolo dell'assistente sociale si trova ad interagire fra la persona e il ruolo organizzativo, fra il ruolo del singolo e il ruolo degli altri professionisti del servizio o dei i servizi in rete, fra sistema dei ruoli ed ambiente collettivo di riferimento.
Nei confronti della persona, l'assistente sociale ha il compito di aiutare l'utente-cliente a procedere verso il raggiungimento degli obiettivi, non sostituendosi a lui, per permettergli di prendere le decisioni in libertà e con responsabilità. Quindi è compito dell'assistente sociale coadiuvare l'utente a prendere consapevolezza della propria situazione al fine di realizzare con lui un progetto volto al cambiamento: l'utente-cliente non è attore passivo nella relazione con l'assistente sociale, ma deve essere il principale attore nel processo di aiuto. Una maggiore presa di coscienza dell'utente lo aiuta a crescere, a raggiungere la propria autonomia e anche a riconoscere le proprie responsabilità. Di conseguenza, l'assistente sociale, nella relazione di aiuto, deve promuovere le condizioni favorevoli per attivare un processo di cambiamento: questo è un processo lento che richiede pazienza, adattamento ai tempi degli utenti, accettazione di quello che la persona è in grado di agire in quel momento.
La presa in carico è la fase del processo di aiuto nella quale l'assistente sociale definisce con la persona che chiede aiuto un accordo con l'obiettivo di costruire insieme un progetto volto ad affrontare le sue difficoltà. Il percorso di presa in carico si avvia con la condivisione della valutazione sociale: se la persona utente condivide la valutazione sociale formulata dall'assistente sociale si costruisce un accordo sul percorso di lavoro da fare insieme, definendo gli obiettivi, gli interventi, gli strumenti, i tempi, la valutazione in itinere e quella conclusiva.