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Le scelte di fine vita tra delitto e diritto

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di laurea magistrale in Giurisprudenza

TESI DI LAUREA

Le scelte di fine vita tra delitto e diritto

CANDIDATO

RELATORE

Ilaria Agostini

Prof. Antonio Vallini

Anno accademico

2018/2019

(2)
(3)

1

INDICE

INTRODUZIONE……… …...4

CAPITOLO PRIMO LA DISCIPLINA DEL FINE VITA NEL DIRITTO NAZIONALE E NELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO 1.1 Introduzione alla tematica del fine vita ... 7

1.2 Riferimenti costituzionali circa il tema del fine-vita ... 8

1.2.1 (Segue) Il consenso informato ... 9

1.2.2 (Segue) Il diritto di rifiutare trattamenti sanitari ... 19

1.2.3 Sulla disponibilità del bene vita ... 25

1.2.4 (Segue) Cenni sulla natura dell’atto suicidario ... 28

1.2.5 Cenni sul bene giuridico della dignità ... 32

1.3 Il fine-vita nella Giurisprudenza della Corte Edu. ... 36

1.4 La rilevanza penale delle pratiche di fine-vita ... 45

1.4.1 L’articolo 580 del codice penale italiano: “istigazione o aiuto al suicidio” ... 45

1.4.1.1 La giurisprudenza sull’art. 580 c.p. ... 50

1.4.1.2 Posizioni della dottrina in riferimento alle pronunce giurisprudenziali ... 55

1.4.2 Omicidio del consenziente (579 c.p.) ... 57

1.4.2.1 Omicidio del consenziente in relazione alla pratica eutanasica .... 60

1.5 Decisioni giurisprudenziali su alcuni casi celebri ... 64

1.5.1 Piergiorgio Welby ... 64

1.5.2 Eluana Englaro ... 68

1.5.3 Giovanni Nuvoli ... 74

(4)

2

1.5.4 Walter Piludu ... 78

1.5.5 Riflessioni a margine delle vicende sopra esaminate ... 80

1.6 La mancata disciplina del fine vita nella legge 219 del 2017... 82

1.6.1 Valorizzazione dell’alleanza terapeutica: consenso informato quale espressione dell’autodeterminazione ... 83

1.6.2 Doveri del sanitario e obiezione di coscienza ... 88

1.6.3 Minori e incapaci ... 92

1.6.4 Disposizioni anticipate di trattamento e pianificazione di cure ... 93

1.6.5 Cure palliative e sedazione profonda continua ... 102

1.6.6 Riflessioni riepilogative sulla legge 219 e la mancata disciplina del fine-vita ... 104

CAPITOLO SECONDO IL “CASO CAPPATO” E LA PRIMA APERTURA ALLA PRATICA DI SUICIDIO ASSISITO 2.1 I fatti ... 107

2.2 La vicenda processuale... 110

2.2.1 L’infondatezza della notizia di reato per il PM milanese ... 112

2.2.1.1 Osservazioni circa l’interpretazione dell’art. 580 c.p. operata dalla Procura ... 117

2.2.2 Una diversa interpretazione dell’articolo 580 c.p. : il GIP chiede l’imputazione coatta... 119

2.2.3 La corte d’Assise di Milano solleva la questione di costituzionalità .... 124

2.2.3.1 Osservazioni in merito alla pronuncia della Corte d’Assise di Milano: l’art. 32 Cost., il “grande assente” ... 129

2.3 Procedimento dinnanzi alla Corte Costituzionale ... 130

2.3.1 La pronuncia di incostituzionalità “differita” ... 130

2.3.1.1 Osservazioni all’ordinanza della Corte Costituzionale: una particolare tecnica decisoria... 135

2.3.2 La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. ... 140

2.3.2.1 Osservazioni a margine della sentenza di incostituzionalità ... 144

2.3.2.2 (Segue) Analisi dell’identikit elaborato dalla Corte Costituzionale .. ... 148

(5)

3

2.3.2.3 Riforma del Codice di Deontologia Medica a seguito della

pronuncia della Consulta. ... 153

2.3.3 Riflessioni conclusive ... 154

CAPITOLO TERZO PROSPETTIVE COMPARATE DI DISCIPLINA DEL FINE VITA. APPUNTI PER UNA RIFORMA 3.1 Spazio libero dal diritto o procedura regolamentata? ... 158

3.2 Spunti di diritto comparato ... 163

3.2.1 La disciplina tedesca: tra analogie e differenze con l’Italia ... 165

3.2.1.1 (Segue) La recente pronuncia della Corte Costituzionale Federale tedesca sulla disposizione del 217 ... 170

3.2.2 Il Canada: un esempio di evoluzione da un modello impositivo ad uno permissivo ... 173

3.2.3 L’unicità della disciplina svizzera ... 180

3.2.4 L’Olanda: uno dei primi paesi a regolamentare le pratiche di fine vita 183 3.2.5 La disciplina eutanasica in Belgio... 188

3.2.6 Riflessioni a seguito dell’analisi comparata ... 192

3.3 Le varie proposte di regolamentazione italiana a confronto ... 195

3.3.1 Le proposte di legge presentate in parlamento ... 195

3.3.2 Alcune ipotesi di regolamentazione avanzate dalla dottrina ... 199

3.4 Verso una disciplina del fine vita ... 202

3.4.1 Contesto di riferimento della disciplina eutanasica ... 203

3.4.2 Requisiti di accesso alla pratica ... 207

3.4.3 Tipologie di pratiche eseguibili ... 210

3.4.4 Obbligo di esecuzione della pratica eutanasica e conseguente diritto di obiezione di coscienza ... 212

3.4.5 I nuovi confini della responsabilità penale ... 214

CONCLUSIONI ... 217

(6)

4

INTRODUZIONE

Il fine-vita è un argomento complesso e problematico, non solo dal punto di vista giuridico, ma anche per i risvolti etici, morali e religiosi che presenta.

Il seguente lavoro si pone l’obiettivo di studiare la complessità del fenomeno da un punto di vista prevalentemente giuridico-penale; a tal proposito, in Italia vige il divieto penalmente sanzionato di realizzare pratiche di fine-vita: l’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente sono condotte vietate dagli artt. 580 e 579 c.p. Sennonché, come avremo modo di vedere, l’intervento della Corte Costituzionale ha allentato le maglie del reato di cui all’art. 580 c.p., ammettendo, a certi presupposti, l’eseguibilità dell’aiuto al suicidio.

In riferimento a questo contesto, tutto il lavoro si muove sulla base della seguente tesi: la necessità di rimodulare il divieto penale attualmente esistente circa le pratiche di fine-vita, e la correlata esigenza di una regolamentazione per l’esecuzione dell’assistenza al suicidio ed eutanasia.

Per poter determinare quale ruolo debba avere il diritto penale rispetto alla tematica del fine-vita, deve preliminarmente essere inquadrata la materia all’interno delle fonti nazionali e sovranazionali di riferimento; il primo capitolo, quindi, assolve a tale funzione. In particolare, valore indiscusso lo assume la Costituzione, giacché è in essa che sono contenuti i principi fondamentali quali l’autodeterminazione individuale, la libertà personale, l’uguaglianza e il diritto alla salute; lo studio della fonte suprema, inoltre, permette di analizzare alcune questioni da sempre dibattute, come il ruolo del consenso informato, la disponibilità (o meno) della vita umana, o ancora, la natura giuridica dell’atto suicidario. In seguito poi, viene fornito il quadro penale di riferimento delle pratiche di fine-vita, mediante l’esposizione delle

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5 fattispecie di reato che incriminano l’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente. Da ultimo, infine, si analizza la legge 219 del 2017; essa, solo marginalmente è inerente alle tematiche di fine-vita (tratta, infatti, del consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento), il suo studio, però, è funzionale alla comprensione delle nuove aperture del divieto penale di assistenza al suicidio operate dalla Corte Costituzionale.

Nel secondo capitolo, quindi, si ripercorre tutto l’iter processuale che ha portato alla pronuncia della Consulta. A tal proposito, si analizza in dettaglio la sentenza 242 del 2019, giacché essa riconosce l’inedita possibilità di ottenere aiuto alla morte. La Consulta, infatti, dichiarata l’illegittimità costituzionale del reato di cui all’art. 580 c.p., individua una procedura e dei requisiti di fronte ai quali sia legittimata la pratica eutanasica. Stante ciò, viene verificato se la sentenza della Corte Costituzionale possa essere considerata sufficiente per l’esigenza di riforma del divieto penale, e se soddisfi il bisogno di una disciplina per la regolamentazione delle pratiche di fine-vita.

Lo studio, infine, si conclude con il terzo capitolo; esso tenta di fornire alcuni spunti per una potenziale e futura legge sull’eutanasia. A questo proposito quindi, vengono preliminarmente valutati i possibili approcci da adottare in materia di fine-vita (vale a dire se sia preferibile lasciare uno spazio libero dal diritto o prevedere una procedura regolamentata). Segue poi lo studio comparato con alcune realtà europee ed extraeuropee; in modo tale da esaminare le modalità con cui altri Paesi hanno deciso di disciplinare (o meno) le pratiche eutanasiche, e valutare se esse possano essere replicate in Italia. Il capitolo, dunque, si conclude con alcuni spunti di disciplina, prestando particolare attenzione al contesto normativo all’interno del quale si ritiene di dover inserire la regolamentazione, ai soggetti legittimati all’accesso alla pratica, alle tipologie di pratiche eseguibili; e infine, a quale ruolo debba assumere il diritto penale rispetto all’esercizio delle pratiche di fine-vita.

(8)

6

1 CAPITOLO PRIMO

LA DISCIPLINA DEL FINE VITA NEL DIRITTO

NAZIONALE E NELLA CONVENZIONE

EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

Nelle pagine che seguono si introdurrà il tema del fine vita, inquadrandolo all’interno di forni normative nazionali e internazionali. Il primo sarà anzitutto la Costituzione, e in particolare l’art. 32 Cost. che tutela il diritto alla salute di ogni individuo. Si sposterà poi l’attenzione sulla Carta dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e sulla conseguente giurisprudenza della Corte di Strasburgo. In seguito, si esamineranno le fattispecie di reato previste dagli artt. 579 e 580 c.p., che intervengono a vietare e punite proprio le pratiche eutanasiche e di assistenza al suicidio. Ai fini di una maggiore completezza, infine, si analizzerà la recente legge 219 del 2017 che ha tipizzato il diritto di rifiutare trattamenti sanitari e di disporre anticipatamente delle cure.

SOMMARIO: 1.1 Introduzione alla tematica di fine vita 1.2 Riferimenti nazionali e sovranazionali 1.2.1. (Segue) Il consenso informato 1.2.2 (Segue) Il diritto di rifiutare trattamenti sanitari 1.2.3 Sulla disponibilità del bene-vita 1.2.4 (Segue) Cenni alla natura dell’atto suicidario 1.2.5 Cenni al bene giuridico della dignità 1.3 Il fine vita nella giurisprudenza della Corte Edu 1.4 L’articolo 580 del codice penale italiano: “istigazione o aiuto al suicidio” 1.4.1 La giurisprudenza sull’art. 580 c.p. 1.4.2 Posizioni della dottrina in riferimento alle pronunce giurisprudenziali 1.5 Omicidio del consenziente 1.5.1 Omicidio del consenziente in relazione alla pratica eutanasica 1.6 Alcuni casi celebri 1.6.1 Piergiorgio Welby 1.6.2 Eluana Englaro 1.6.3 Giovanni Nuvoli 1.6.3.1 (Segue) Il reato di violenza privata in relazione alla vicenda Nuvoli 1.6.4 Walter Piludu 1.6.5 Riflessioni a margine delle vicende sopra analizzate 1.7 La 219 del 2017 è una “buona legge”, ma non soddisfa tutte le richieste 1.7.1 Valorizzazione dell’alleanza terapeutica: consenso informato quale espressione dell’autodeterminazione 1.7.2 Doveri del sanitario e obiezione di coscienza 1.7.3 Minori e incapaci 1.7.4 Disposizioni anticipate di trattamento e pianificazione di cure 1.7.5 Cure palliative e sedazione profonda continua 1.8 Ogni situazione necessita di una propria disciplina.

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7

1.1 Introduzione alla tematica del fine vita

Preliminarmente all’analisi giuridica circa le tematiche di fine vita è quanto mai opportuno definire quale significato debba ad esse essere attribuito. Il fine vita non ha a che fare con il generale concetto di suicidio, quanto, piuttosto, con la condizione di un soggetto malato che sia tenuto in vita da tecniche di medicina moderna volte a prolungargli artificialmente la vita. Lo sviluppo tecnologico della scienza medica, infatti, ha messo a disposizione dell’uomo tecniche artificiali di prolungamento dell’esistenza1, comportando il procrastinarsi della sopravvivenza degli individui al di là di quanto la malattia, in sé per sé, avrebbe altrimenti consentito. In particolare, la scienza medica ha permesso di dilatare delle funzioni vitali, al di là del punto in cui esse possano assumere ancora un significato di “vita” per l’individuo2. Sulla base di ciò, le persone hanno iniziato ad avanzare pretese volte a riappropriarsi della propria vita, e di conseguenza, anche della fase finale di essa, richiedendo l’interruzione di trattamenti medici salvavita, o finanche la realizzazione di pratiche eutanasiche, con l’intento di riappropriarsi delle decisioni inerenti alla propria vita34. Tali pratiche,

quindi, concretizzano un modo d’intendere il valore da attribuire al bene della vita, valorizzando il senso di qualità della stessa in relazione alla percezione che ne ha ogni singolo individuo5. Detto in breve: le

questioni di fine vita maturano nel contesto di soggetti intenzionati a

1 Di Giovine O., Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica e neuroetica,

Giappichelli editore, Torino, 2009, p. 10; D’Avack L., Verso un antidestino.

Biotecnologie e scelte di fine vita, Giappichelli Editore, Torino, 2004, p. 178

2 Jonas H., Il diritto di morire, 1991, Genova, p. 11

3 in questo senso si percepisce il significato della frase scritta da Hans Jonas: «è il

concetto della vita, non quello di morte, che in definitiva governa la questione del diritto di morire», (Ibidem, Jonas, p. 50)

4 Ibidem, Jonas, p. 50

5 D’Aloia A., Tra il rifiuto di cure ed eutanasia. Note introduttive sul «diritto alla fine

della vita », in Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, a cura di D’Aloia

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8 riappropriarsi delle scelte inerenti alla propria vita, potendo decidere quando essa abbia ancora un significato per il suo titolare, e quando, invece, non lo abbia più.

1.2 Riferimenti costituzionali circa il tema del fine-vita

Nelle pratiche di fine vita, il faro cui orientare tutta la trattazione della problematica, non può che essere la Costituzione. È ad essa che dobbiamo il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, dell’uguaglianza, della libertà personale, nonché del principio di autodeterminazione in ambito sanitario.

Cominciamo subito col dire che all’interno di essa difetta un’espressa previsione che sancisca il diritto alla vita6. In effetti, esso è stato ricavato in via interpretativa ad opera dei costituzionalisti, dalle seguenti disposizioni7: l’articolo 27, terzo e quarto comma vieta che le pene consistano in trattamenti contrari al senso di umanità, ed impedisce che possa essere inflitta la pena di morte. In questo senso quindi, nonostante non venga fatto un espresso riferimento al diritto alla vita, esso viene ricavato a contrario: l’inammissibilità della pena di morte è una proiezione della garanzia accordata al fondamentale bene della vita8.

Altra disposizione dalla quale è ricavabile il diritto alla vita è l’articolo 13 Cost. che riconosce il supremo diritto alla libertà personale, e vieta ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. A questo proposito è stato affermato9 che la libertà

personale sia un nucleo indefettibile dell’individuo ed essa sia strettamente connessa al diritto alla vita e all’integrità fisica.

6 Diversamente, l’articolo 2 della CEDU stabilisce esplicitamente il diritto alla vita: Il

diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita […].

7 Carretti P., I diritti fondamentali, libertà e diritti sociali, Giappichelli Editore, Torino

2011, p. 186

8 Cort. Cost., sent. N. 223/1996 9 Cost. Cost. sent. N 238/1996

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9 Infine, non può che essere richiamato l’art. 2 Cost. il quale sancisce l’inviolabilità dei diritti fondamentali della persona10. Stante ciò, la

Corte Costituzionale ha ritenuto che tra i diritti fondamentali riconosciuti all’individuo rientri anche il diritto alla vita11.

Più problematico, invece, è stabilire se di questa vita ognuno ne possa disporre.

Per rispondere a tale interrogativo è necessario analizzare la norma che tutela il diritto alla salute; verrà quindi esaminato il principio del consenso informato, per poi passare all’analisi del diritto di rifiutare trattamenti sanitari, facendo riferimento alle interpretazioni prevalenti formulate nel tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

1.2.1 (Segue) Il consenso informato

Come noto, l’articolo 32 Cost. tutela il diritto alla salute; quest’ultima, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è definibile come uno

«stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia». Si tratta quindi di un concetto molto ampio che

ricomprende tutti gli aspetti della personalità dell’individuo, non solo l’aspetto puramente fisico dell’assenza di malattia12.

La salute è un diritto fondamentale dell’individuo, oltre che interesse della collettività; conseguentemente, essere curati rappresenta un diritto (art. 32, I comma, Cost.).

Al secondo comma, l’art. 32 Cost. impedisce che possano essere realizzati trattamenti sanitari contro la volontà dell’individuo13.

10 Carretti, I diritti fondamentali, cit. p. 172 11 Cort. Cost. sent. N 35/1997

12 Cfr. Palermo Fabris E., Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale.

Profili problematici del diritto all’autodeterminazione, Padova, CEDAM, 2000

13 Art. 32, II comma, Cost «Nessuno può essere obbligato a un determinato

trattamento sanitario se non per disposizione di legge». La previsione evidenziata in

grassetto introduce il tema dei TSO (trattamenti sanitari obbligatori); affinché essi siano costituzionalmente legittimi è richiesto il rispetto dei seguenti requisiti: A) devono essere previsti da una legge che con chiarezza esplichi l’obbligatorietà del

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10 Sfruttando questo riferimento normativo, gli interpreti sono arrivati a riconoscere il principio del consenso informato e il conseguente diritto di rifiutare trattamenti sanitari anche se, dal rifiuto, consegua l’evento-morte. Molto brevemente si può riassumere il percorso interpretativo14

partendo dagli anni ’90, periodo nel quale si iniziò a dare un riconoscimento rilevante al consenso prestato dal paziente sottoposto a trattamenti medici. In particolare nel “caso Massimo”15, un medico

aveva realizzato determinati trattamenti sanitari senza il consenso della malata; successivamente, la paziente era deceduta per complicanze. Stante ciò, il medico veniva processato e condannato per omicidio preterintenzionale. Al di là delle argomentazioni le quali hanno sorretto la sentenza di condanna16, ciò che in questa sede interessa rilevare è il

fatto che l’intervento chirurgico prestato in assenza del consenso della paziente sia stato considerato quale una condotta dolosa finalizzata alla realizzazione di lesioni personali sul corpo della malata. Questa sentenza fu pertanto il segno dell’intenzione della giurisprudenza di voler lanciare un monito, sancendo la necessità di rispettare le volontà della paziente, attenendosi al consenso prestato o rispettando il dissenso precedentemente reso.

Negli anni a seguire, è riscontrabile nelle decisioni della giurisprudenza la volontà di applicare ampliamente il diritto scaturente dall’art. 32, II comma, Cost., riconoscendo, quindi, una piena autodeterminazione del paziente in materia del diritto alla salute, attraverso la valorizzazione del

trattamento; B) devono essere rispettosi della persona umana. Relativamente a questo senso punto è opportuno aggiungere la necessità del rispetto di questi ulteriori requisiti: fondatezza tecnico-scientifica della necessità del trattamento sanitario, sia a livello collettivo che a livello individuale; insufficienza di trattamenti meno radicali o comunque preferiti dal soggetto; finalità non discriminatoria del trattamento; impiego di modalità atte a salvaguardare la persona da sacrifici non necessari ai propri interessi. Inoltre, un trattamento sanitario obbligatorio può considerarsi legittimo solo se sia volto alla contestuale tutela degli interessi individuali e collettivi. A riguardo si veda Carretti, I diritti fondamentali, cit., p. 526

14 Cfr. Vallini A., Pianificazione delle cure, medicina palliativa. I nuovi paradigmi del

fine vita, in Riv. it. med. leg., 2016, fasc. 3, p. 1139 ss.

15 Corte d’Assise di Firenze 18.10.90; Cass. pen. 21.4.92

16 Cfr. Melillo G., Condotta medica arbitraria e responsabilità penale, in Cass. pen.,

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11 consenso informato17. In particolare, sono rinvenibili sentenze18 ove si è riconosciuta la necessità di rispettare il rifiuto delle emotrasfusioni opposto dai testimoni di Geova19; il divieto di procedere ad alimentazione forzata dei detenuti20; e il riconoscimento della liceità del

rifiuto prestato dal paziente di essere sottoposto ad intervento chirurgico, per amputazione di un arto in cancrena21. Con i casi Welby

ed Englaro, infine, il consenso informato e il diritto di rifiutare le cure ricevettero il loro più importante riconoscimento22.

In definitiva, si può evidenziare che il consenso informato veniva ricavato sulla base dell’art. 32 Cost.; oltre a ciò, fornivano un fondamentale punto di riferimento anche la Convenzione di Oviedo23, il

17 Cfr. Giunta F., Il consenso informato all’atto medito tra principi costituzionali e

implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 2, 2001, p. 377 ss.

18 Cupelli C. , La disattivazione di un sostegno artificiale tra agire e omettere, in Riv.

it. dir. proc. pen., fasc. 3, 2009, p. 1151-1152

19 Cass. civ. 23 febbraio 2007, n. 4211, in Corr. Giur. 2008, p. 1671; Cass. civ., 15

sett. 2008, n. 23676, in Corr. Giur., 2008, p. 1671;

20 C. Appello Milano, 30 dicembre 1981, Valentino, in Foro.it, 1983, II, 234

21 Cfr. Seminara S., Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere, in Dir. proc. pen.,

2004, p. 533 ss.

22 Infra cap. 1, par. 1.5.1 e 1.5.2

23 Articolo 5: «Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non

dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.»

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12 codice di deontologia medica24, ed altre norme di rango ordinario25. Questi riferimenti normativi, in aggiunta all’evoluzione giurisprudenziale richiamata, hanno favorito l’emanazione della recentissima legge 219 del 2017; mediante essa, infatti, è stato tipizzato il principio del consenso informato, ed è stato riconosciuto il diritto di disporre anticipatamente per eventuali e futuri trattamenti sanitari26.

Alla luce di ciò, il consenso informato assume un ruolo centrale nel rapporto medico-paziente; il malato ha diritto di autodeterminarsi in ambito sanitario, e può, quindi, scegliere tra l’alternativa di consentire o rifiutare il trattamento medico.

Per quanto riguarda il terapeuta, egli è investito della posizione di garanzia (classificabile come posizione di protezione27); essa può

derivare da una norma di legge28 o da un contratto di assistenza privata, o comunque si ritiene che trovi fondamento negli stessi principi di rango

24 Codice di deontologia medica del 2006, art. 33, I comma: «Il medico deve fornire al

paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate.»; Art. 35 “Acquisizione del consenso”: «Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione documentata della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all'art. 33. Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l'incolumità della persona, devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente».

25 Legge istitutiva del servizio sanitario nazionale n. 833/1978, art. 33 “Norme per gli

accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori”: «Gli accertamenti ed i

trattamenti sanitari sono di norma volontari»; legge che disciplina le attività

trasfusionali e della produzione di emoderivati n. 219/2005 prevede che «sono

consentiti la donazione di sangue o di emocomponenti […] purché in persone di almeno diciotto anni di età previa espressione del consenso informato e verifica della loro idoneità fisica»;

26 Infra, cap. 1, par. 1.6

27 De Francesco, Diritto penale, cit., p. 194

28 La legge N. 833/1978 che ha istituito il SSN prevede l’obbligo del personale

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13 costituzionale, in particolare nell’art. 2 Cost., e nella norma che tutela il diritto alla salute29. Dalla posizione di garanzia del sanitario deriva l’obbligo giuridico di agire (in concreto) a tutela degli interessi del malato; tale obbligo, però, viene limitato dalla cosciente, libera ed informata opposizione dell’interessato30. Ciò significa che in assenza del

consenso del paziente, il medico non è legittimato a praticare atti terapeutici. Quindi, il dissenso prestato dal malato fa venir meno l’obbligo di garanzia del sanitario; da ciò ne consegue che, mancando il l’obbligo di agire, il sanitario non potrà ritenersi responsabile penalmente ex art. 40, II comma per un eventuale decorso o aggravamento della malattia del paziente.

Impostata la questione in questi termini, è doveroso chiedersi a quale titolo la condotta del sanitario venga considerata lecita. La questione necessita di essere risolta dal momento che l’azione del sanitario è suscettibile di ledere l’integrità psicofisica degli individui, essendo apparentemente idonea ad integrare, materialmente e soggettivamente, i reati di lesioni od omicidio; si pensi, ad esempio, al medico il quale amputi la gamba al paziente con la finalità di impedire l’ulteriore estensione di un fenomeno infettivo, o ancora, al medico che esegua un trattamento acconsentito dal paziente, ma avente esito infausto, tale per cui ad esso consegua la morte del soggetto. Tali esempi rappresentano condotte apparentemente lesive dell’integrità psicofisica del paziente; per le quali, però, è stato prestato il consenso. Il quesito che si solleva, quindi, è determinare sulla base di quale riferimento normativo la condotta del sanitario debba considerarsi lecita, e di conseguenza, determinare quale ruolo assuma, riguardo a ciò, il consenso del paziente. In particolare, si alternano impostazioni che attribuiscono ad esso il

29 Ibidem, De Francesco, p. 194

30 Comitato Nazionale per la Bioetica, , Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento

sanitario nella relazione paziente-medico, 24 ottobre 2008, in

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14 rilievo di scriminante, a impostazioni che gli attribuiscono il rilievo di causa di esclusione della tipicità.

Partiamo dall’analisi delle prime: parte della dottrina ritiene che il consenso informato operi quale causa di giustificazione rilevante ai sensi dell’art. 50 c.p.31. Secondo questa impostazione, quindi, l’attività

medico-chirurgica avrebbe un’intrinseca natura illecita, essendo sempre suscettibile di integrare gli estremi di un fatto di reato; sennonché il consenso prestato dall’avente diritto servirebbe a scriminare la condotta posta in essere dal sanitario. In questo senso, onde evitare che possano essere mosse obiezioni basate sull’art. 5 c.c. (la norma impedisce, in linea di principio, che possa essere prestato il consenso per atti lesivi dell’integrità fisica), i sostenitori di questa tesi hanno tentato di rimodulare la portata applicativa della norma civilistica, sostenendo, ad esempio, che essa si riferisca ai soli atti “sfavorevoli” al paziente, e mai agli atti “favorevoli”32. In alternativa, altri hanno sostenuto che la

disposizione del codice civile non si applichi all’ambito medico; dal momento che il diritto all’autodeterminazione sanitaria (art. 32 Cost) deve considerarsi prevalente rispetto ad ogni norma di rango inferiore33. In ogni caso, il riferimento alla scriminante del consenso prestato dall’avente diritto presenta il suddetto limite: è necessario che il paziente sia in grado di esprimere validamente il proprio consenso. L’art. 50 c.p., pertanto, non soccorre nell’ipotesi in cui il paziente sia incapacitato ad autodeterminarsi. A tale ultimo proposito, per legittimare interventi medici su soggetti incapaci di prestare il consenso, parte della dottrina fa riferimento alla scriminante dello stato di necessità ex art. 54 c.p.34

31 Viganò F., Profili penali del trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del

paziente, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 1, 2004, p. 181; Palermo Fabris, Diritto alla salute, cit., p. 113 ss.; cfr. Martiello G., La responsabilità penale del medico tra punti (quasi) fermi, questioni aperte e nuove frontiere, in Criminalia, 2007, p. 330; Manna

A., Trattamento sanitario arbitrario: lesioni personale e/o omicidio, oppure violenza

privata?, in Indice Penale, 2004, p. 451

32 Viganò, Profili penali, cit., p. 182

33 Martiello, La responsabilità penale, cit., p. 330 34 Manna, Trattamento sanitario arbitrario, cit, p. 453

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15 (purché, in ogni caso, vi sia un pericolo imminente di grave danno per la persona, non altrimenti evitabile se non mediante l’intervento del medico, e in presenza del rapporto di proporzionalità tra pericolo e atto). Invero, il riferimento a tale esimente sembrerebbe essere errata35; lo

stato di necessità, infatti, legittima condotte offensive di beni giuridici altrui in conseguenza ad una situazione necessitante, definibile come commissione di un fatto «per esservi stato costretto dalla necessità di

salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona»36. Diversa cosa, invece, sono le situazioni di urgenza di fronte

alle quali può trovarsi il sanitario nell’ipotesi in cui debba praticare atti medici su di un paziente impossibilitato a prestare il consenso. Ciò vale a dire che non possano essere sovrapposti il concetto di situazione necessitante (preso in considerazione dalla scriminante) e il concetto di situazione di urgenza. Premesso ciò, deve osservarsi che l’art. 54 c.p. non possa porsi a legittimazione dell’attività medico-chirurgica per due ordini di ragioni: in primo luogo il medico non si trova a dover dirimere alcun conflitto di interessi, così come richiesto dalla norma; in secondo luogo, egli è tenuto giuridicamente, in virtù della posizione di garanzia che riveste, ad intervenire a tutela della salute del paziente in stato incapacitante. In effetti, se il sanitario è tenuto giuridicamente ad agire, non potendo egli astenersi dal porre in essere atti volti alla salvaguardia della salute del paziente in stato incapacitante, non si vede perché dovrebbe essere utilizzato il riferimento all’art. 54 c.p. per legittimare, in questa ipotesi, l’attività medico-chirurgica. È in questi termini, quindi, che non si ritiene sostenibile il riferimento allo “stato di necessità”.

Continuando l’analisi delle posizioni dottrinali che sostengono la liceità dell’attività medica nelle cause di giustificazione, deve ricordarsi il riferimento operato nei confronti dell’art. 51 c.p. In particolare, la norma 35 Amore N., sub art. 54, in Codice penale, a cura di Padovani T., con il coordinamento

di Caputo A., De Francesco G., Fidelbo G, Vallini A., Milano, 2019, p. 469

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16 viene richiamata sia per quanto riguarda la scriminante dell’esercizio di un diritto, che per quanto riguarda per la scriminante dell’adempimento di un dovere. A proposito di quest’ultima, l’attività medica viene considerata lecita in quanto doverosa; il sanitario, infatti, rivestendo la posizione di garanzia nei confronti del paziente, e per ciò è tenuto ad agire. In un simile contesto, il consenso prestato dal malato funge da criterio di contenimento dell’obbligo di cura37: una volta che il paziente

abbia prestato il proprio assenso, il sanitario avrà il dovere di intervenire; in caso di mancanza del consenso, il medico sarà obbligato ad astenersi dall’attività. Per quanto riguarda, invece, il riferimento alla scriminante dell’esercizio di un diritto, parte della dottrina38 sostiene che l’attività

dei medici debba considerarsi lecita in quanto è un’attività giuridicamente autorizzata dallo Stato, in ragione della sua utilità sociale (art. 32 Cost.); ciò lo si evince da tutta la complessa struttura che l’ordinamento ha predisposto: ministero della salute, rete di istituzioni, enti, vasta e minuziosa disciplina, e così via. In questo senso quindi, il sanitario che agisca sarà scriminato, in quanto sta esercitando il proprio diritto a curare; il consenso prestato dal paziente, però, si porrà come limite interno per l’attività medica, dovendo aver riguardo, in ogni caso, all’autodeterminazione del soggetto sottoposto al trattamento sanitario39.

Sempre attinente al piano dell’antigiuridicità, deve essere ricordata anche la teoria della scriminante costituzionale40: secondo tale

impostazione, infatti, l’attività sanitaria vanterebbe un’intrinseca legittimità (sulla base delle norme costituzionali di cui agli artt. 2, 32, I

37 Martiello G., La responsabilità penale, cit., p. 336

38 Mantovani F., Diritto penale, parte generale, CEDAM, 2015, p. 272; Palazzo F.,

Corso di diritto penale. Parte generale, Giappichelli Editore, Torino, 2013, p. 424

39 Manna, Trattamento sanitario arbitrario, cit., p. 455

40 Sostenuta da Cass. Pen., Sez. un., 21 gennaio 2009 ( ud. 18 dicembre 2008), n. 2437,

in Riv. it. med. leg. (e del diritto in campo sanitario), 2009, p. 1063; cfr. nota a sentenza Viganò F., Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità

penale del chirurgo: l’approdo (provvisorio) delle Sezioni Unite, in Cass. Pen., fasc.

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17 comma, Cost.). Se, infatti, ogni individuo gode del diritto alla salute, l’attività medica (che è finalizzata, appunto, alla tutela della salute) deve considerarsi lecita: essa, infatti, persegue una finalità tutelata costituzionalmente. Con ciò, però, l’impostazione in esame non vuole sostenere che l’attività sanitaria sia sconfinata; invero, sarà il consenso dell’avente diritto (ex art. 32, II comma, Cost.) a determinare il limite per la sua esecuzione. Detto in altre parole: l’attività medica è legittima in quanto la sua liceità deriva direttamente dalle norme costituzionali; ciò, però, non significa che possa essere eseguita senza limiti, dovendo sempre rispettare il consenso/dissenso prestato dal paziente (art. 32, II comma, Cost.). In questo senso, quindi, viene sostenuta l’atipicità del trattamento medico eseguito leges artis, previo consenso dell’avente diritto, ed avente esito fausto. Al contrario invece, qualora l’intervento medico presenti i caratteri sopra detti (consenso e rispetto delle regole dell’arte medica), ma l’esito sia infausto, esso dovrà considerarsi tipico; sennonché l’intervento risulterà scriminato sulla base delle norme costituzionali di cui agli artt. 2, 13, 32 Cost.41. È in questo senso, quindi, che viene in gioco la scriminante costituzionale.

Da ultimo, infine, merita ricordare la posizione di coloro che sostenevano la liceità dell’attività medico-chirurgica sulla base di scriminanti “non codificate”42. In sostanza, veniva ritenuto che affianco

alle scriminanti previste dal codice penale, ve ne fossero ulteriori, non espressamente tipizzate43. In particolare, si riteneva che l’attività

medico-chirurgica dovesse considerarsi lecita in quanto volta verso un superiore interesse sociale ed individuale; vale a dire la tutela della salute di ogni persona.

41 Cappellini A., L’orizzonte del dolo nel trattamento medico arbitrario. Un’indagine

giurisprudenziale, in Riv. it. med. leg. (e del diritto in campo sanitario), fasc. 3, 2016,

p. 947; Viganò, Omessa acquisizione, cit., p. 1812-1813

42 Antolisei F., Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, Giuffrè, 2003, p.

317

43 Affianco all’attività medico-chirurgica oggetto di questo studio, ricordiamo che

anche l’attività sportiva, nella sua configurazione violenta, viene considerata lecita sulla base di una scriminante non codificata.

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18 Come già anticipato, oltre alle posizioni dottrinali che sostengono la liceità dell’attività medica sul piano delle scriminanti, vi sono impostazioni che fanno riferimento più in radice al piano della tipicità44. In sostanza, viene sostenuto che l’intervento medico debba considerarsi lecito (pur se aggressivo dell’integrità fisica del paziente) risultando come una condotta atipica. In questo senso infatti, si considera che lo scopo terapeutico dell’attività medico-chirurgica sia sempre ripristinare l’integrità psicofisica del paziente e mai quella di lederla o di diminuirne l’efficienza. Ciò significa che un trattamento sanitario eseguito leges

artis non potrà mai configurare quale un fatto tipico di reato, essendo,

appunto, finalizzato alla tutela della salute del paziente. Ciò anche nell’ipotesi in cui il sanitario ponga in essere un intervento lesivo dell’integrità fisica del paziente; tale per cui, ad esempio, anche l’amputazione di un arto si considererà realizzata in virtù del perseguimento della tutela della salute dell’individuo se sia volta ad evitare un pregiudizio maggiore (es: diffondersi di un’infezione)45. In

questo senso, quindi, l’attività medica sembrerebbe essere considerata lecita in virtù di un’intrinseca autolegittimazione, stante il suo elevatissimo interesse sociale46.

44 De Francesco G., L’imputazione della responsabilità penale in campo medico

chirurgico: un breve sguardo d’insieme, in Riv. it. med. leg. (e del diritto in campo sanitario), fasc. 3, 2012, p. 953-955; Manna, Trattamento sanitario arbitrario, cit., p.

457

45 Di opinione contraria Fabris E. P., Diritto alla salute, cit., p. 73 ss.

46 A sostegno di tale impostazione si ricordi De Francesco, Diritto penale, I

fondamenti, cit., p. 332; De Francesco, L’imputazione della responsabilità penale, cit.,

p. 954. Egli, inoltre, precisa che il sanitario ha il dovere di agire (rivestendo egli la posizione di garanzia), per questo non può sostenersi che la sua attività (doverosa) venga considerata come produttrice di un’offesa. In altre parole: sostenendo che il medico sia tenuto ad agire a tutela della salute del paziente, non potrà considerarsi come offensiva la condotta che porrà in essere. Affermato ciò però, vengono prese le distanze rispetto all’impostazione sopra ricordata, secondo cui il dovere di agire del sanitario dovrebbe essere considerato alla stregua dell’art. 51 c.p. . La norma, infatti, essendo una causa di giustificazione, presuppone che venga operato un bilanciamento di interessi tra l’offesa patita e il dovere di attivarsi; nell’attività medico-chirurgica, invece, non vi è alcun bilanciamento: il solo ed unico interesse che si intende tutelare è la salute del paziente. Ad ogni modo, deve essere precisato che sostenere l’inoffensività dell’attività medico-chirurgica non comporti che essa possa essere sempre eseguita, anche in assenza del consenso del paziente, se volta a tutelare il

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19 A parere di chi scrive, risulta maggiormente condivisibile l’impostazione che riconosce la liceità dell’attività medico-chirurgica sul piano dell’atipicità. Parlare di attività lecita ma scriminata, infatti, implicherebbe a tacer d’altro considerare come offensiva (seppur giustificata) la condotta posta in essere dal sanitario. Invero, è sostenibile che un’attività doverosa, finalizzata alla tutela della salute dei consociati, non possa considerarsi offensiva quand’anche venga, in apparenza, lesa l’integrità fisica del soggetto passivo. Se il sanitario ha il dovere di agire, e lo fa nel rispetto dell’arte medica, dietro consenso del diretto interessato, egli porrà in essere una condotta non produttrice di alcuna offesa; non sarebbe ragionevole, infatti, pretendere l’esercizio di una certa attività, salvo poi considerarla come offensiva. Chiaramente, il sanitario, pur essendo tenuto ad agire, incontrerà il limite del consenso prestato dall’avente diritto; il paziente, infatti, ha il diritto costituzionalmente garantito di autodeterminarsi in ambito sanitario, potendo scegliere se consentire o rifiutare un determinato trattamento medico.

A questo proposito, nel seguente paragrafo si avrà modo di analizzare l’evoluzione interpretativa inerente all’art. 32, II comma, Cost., ricostruendo il percorso esegetico che ha portato al riconoscimento del diritto di rifiutare qualsivoglia tipologia di trattamento sanitario, anche se salvavita.

1.2.2 (Segue) Il diritto di rifiutare trattamenti sanitari

In dottrina si è molto discusso circa l’interpretazione dell’art. 32, II comma Cost.; in particolare, è stato dibattuto se tale disposizione

benessere dell’individuo. La volontarietà del soggetto passivo all’atto, infatti, è limite imprescindibile per l’attività del medico: se il consenso viene meno, il medico non avrà più alcuna legittimazione ad agire, e quindi, non potrà in alcun modo ingerire nella sfera personale dell’individuo.

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20 legittimasse o meno il paziente a rifiutare qualsivoglia tipologia di trattamento sanitario non voluto.

La lettura dominante47 (prima ancora che ciò venisse riconosciuto dal legislatore con la legge 219 del ’1748) sosteneva che l’individuo avesse

il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario (anche se salvavita); tale per cui, il medico non poteva eseguire alcuna cura senza che vi fosse il consenso del diretto interessato. Stante ciò, non potevano comunque dirsi risolti tutti i problemi inerenti al consenso informato e all’autodeterminazione in ambito sanitario, giacché, anche riconoscendo il diritto nei termini sopra esposti, era dibattuto fino a che punto esso potesse espandersi; vale a dire, ad esempio, se potesse essere riconosciuta la liceità dell’eutanasia passiva, oppure no49.

A questo proposito, è opportuno ricordare tesi50 le quali, pur riconoscendo il diritto di rifiutare trattamenti sanitari, escludevano che dal “diritto di cura” dell’individuo potesse desumersi anche un “diritto di non cura”. In questo senso quindi, si negava che l’art. 32, II comma, Cost. legittimasse pratiche di “eutanasia passiva” definibili come il sopraggiungere della morte del paziente quale conseguenza dell’interruzione/omissione di trattamenti sanitari salvavita.

47 Canestrari S., Le diverse tipologie di eutanasia: una legislazione possibile, in Riv.

it. med. leg. (e del campo sanitario), fasc. 5, 2003, p. 763; Seminara S., Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it dir. proc. pen., fasc. 3, 1995, p. 693; Risicato

L., Dal «diritto di vivere», al « diritto di morire», Giappichelli editore, Torino, 2008, p. 34; Vallini A., Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce

della Convenzione di Oviedo, in Dir. pub. 2003, p. 194; Marzocco V., Il diritto ad autodeterminarsi e il “governo di sé”. La vita materiale tra proprietà e personalità,

in Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, a cura di D’Aloia A., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2012, p. 23; Nicotra I., Diritto alla vita e diritto di morire:

libertà di cura, ricostruzione della volontà presunta e attualità del consenso nelle fasi finali dell’esperienza umana, in Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi,

a cura di D’Aloia A.,Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2012, p. 102.

48 Infra, cap. 1, par. 1.6

49 D’Aloia A., Tra il rifiuto di cure ed eutanasia. Note introduttive sul «diritto alla fine

della vita », in Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, a cura di D’Aloia

A., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2012, p. 9

50 Bompiani A., Considerazioni su rifiuto e rinuncia al trattamento sanitario, in

Rinuncia alle cure e testamento biologico. Profili medici, filosofici e giuridici, a cura

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21 Il punto di partenza di tale impostazione risiedeva in un’interpretazione restrittiva dell’art. 32 Cost., di stampo originalista: la norma, infatti, venne approvata con l’intento specifico di vietare gli esperimenti scientifici sul corpo umano che non fossero stati accettati dal paziente; quindi, in generale, con l’intento di proteggere la salute degli individui da illecite interferenze ad opera dello stato. In questo senso, la tesi in esame riconosceva al paziente la possibilità di rifiutare un determinato trattamento sanitario solo se esso fosse stato percepito dall’individuo come un intervento disumano o degradante, e non quindi, in virtù di una libera disponibilità della vita (o della morte). Detto in breve: si riteneva che il paziente avesse la possibilità di rifiutare trattamenti sanitari solo se essi fossero stati percepiti come disumani o degradanti, al pari, quindi, degli esperimenti scientifici presi in considerazione dal Costituente nei lavori preparatori. Da questa impostazione emerge che l’individuo non potesse liberamente decidere di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario (come espressione della libera autodeterminazione in ambito sanitario): il diritto di rifiuto di cure veniva riconosciuto solo in relazione a trattamenti disumani o degradanti, esclusi i quali, quindi, potevano essere eseguite altre cure (non considerate, appunto, disumane o degradanti), evitando che l’individuo potesse semplicemente scegliere di non curarsi, decidendo di lasciarsi morire in conseguenza al suo stato di malattia. L’idea di fondo della teoria era quella di voler limitare la portata applicativa del consenso informato, escludendo che, dal rifiuto, potessero essere legittimate “pratiche eutanasiche” (in particolare la conformazione “passiva”).

Contraria a tale impostazione, la dottrina maggioritaria51 sosteneva che

dall’art. 32, II comma, Cost. derivasse un pieno diritto all’autodeterminazione in ambito sanitario, riconoscendo per ciò un generale diritto di rifiutare le cure, quand’anche esse fossero salvavita.

51 Giunta F., Diritto di morire e diritto penale, i termini di una relazione problematica,

in Riv. dir. proc. pen., 1997, p. 90 ss.; Cupelli C., La disattivazione di un sostegno

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22 Ciò vale a dire che contrariamente all’impostazione precedente, il diritto di rifiutare le cure veniva riconosciuto come libera autodeterminazione in ambito sanitario, e non come condizionato alla necessità che il trattamento medico venisse percepito dall’individuo come disumano (residuando, quindi, la possibilità di sottoporsi ad altro e diverso trattamento).

Secondo tale impostazione, quindi, l’individuo poteva rifiutare qualsiasi cura non voluta, senza limiti e senza condizioni.

In linea con quanto sopra sostenuto, inoltre, si ammetteva la legittimità di ogni rifiuto prestato dal paziente, sia che si trattasse di trattamenti i quali venivano rifiutati ab origine, che di trattamenti i quali avessero già avuto inizio, e dovessero essere interrotti (richiedendo per ciò una condotta attiva del medico).

Di fronte a questa situazione, si riteneva necessario qualificare giuridicamente la condotta del sanitario; in particolare, qualificare l’azione omissiva (trattamento rifiutato all’origine) o commissiva (trattamento iniziato e successivamente interrotto), evitando che esse potessero dar adito a responsabilità penale del medico.

Per quanto riguarda la prima ipotesi, si riteneva che la condotta omissiva del sanitario non potesse essere penalmente rilevante, quand’anche da essa fosse conseguita la morte del paziente52. Il malato, infatti, ha il

diritto costituzionalmente riconosciuto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario (art. 32, II comma, Cost.); di conseguenza, il dissenso comporta il venir meno per il medico dell’obbligo giuridico di curare. Egli è tenuto, al contrario, a rispettare le volontà del malato, dal momento che il consenso non solo è un necessario presupposto per l’attività sanitaria, ma anche un insuperabile limite per la posizione di garanzia del medico53. In questo senso, essendo cessato l’obbligo

52 Canestrari, Le diverse tipologie di eutanasia, Cit., p. 763; Giunta, Diritto di morire

e diritto penale, cit., p. 91.

53 Cupelli C., La disattivazione di un sostegno artificiale tra agire e omettere, in Riv.

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23 giuridico di agire, la condotta omissiva del medico non potrà rilevare ex art. 40, II comma c.p. .

Maggiormente difficoltosa era, invece, la qualificazione giuridica della condotta attiva del sanitario il quale avesse interrotto un trattamento sanitario già in atto, comportando, di conseguenza, la morte del paziente. In sintesi, si fa riferimento alle ipotesi in cui il malato che sia tenuto in vita da trattamenti sanitari decida di interrompere le cure, e in conseguenza di ciò, muoia. Il problema atteneva alla qualificazione della condotta attiva del soggetto agente, in particolare evitare che essa integrasse il reato di omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. A quest’ultimo proposito, in dottrina si contrapponevano due teorie: da un lato vi erano i sostenitori di una soluzione incentrata sul fatto tipico, dall’altra vi erano coloro che ritenevano di dover ricercare la liceità della condotta del sanitario sul piano delle scriminanti. Per quanto riguarda la prima teoria54, essa prevedeva che l’azione del medico attraverso la quale veniva interrotto il trattamento sanitario, per quanto attiva, dovesse configurare come un’omissione, parimenti alla sua mancata attivazione ab origine (si seguivano le orme di una concezione nata e sviluppatasi oltralpe, vale a dire la teoria dell’omissione mediante azione, Unterlassung durch Tun). Se infatti, si considera il macchinario (che tiene in vita il paziente) quale una longa manus del sanitario, nell’ipotesi in cui esso venga disattivato, il medico realizza un’omissione di un ulteriore trattamento che, invece, avrebbe dovuto eseguire. In questo senso, si considera come omissiva la condotta da un

54 Mantovani F., Biodiritto e problematiche di fine vita, in Criminalia, 2006, p. 61;

Viganò F., Decisioni mediche di fine vita e attivismo giudiziale, in Riv. it. dir. e proc.

pen., fasc. 4, 2008, p. 1604, l’autore precisa che tale tesi fosse stata da lui sostenuta

prima che ci fosse la pronuncia sul caso Welby.; Stella F., Il problema giuridico

dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in Riv. it. Med. leg. (e del diritto nel campo sanitario), fasc. 4, 1984, p. 1017; Cupelli C., Il Diritto del paziente (di rifiutare) e il dovere del medico di non perseverare, in Cass. Pen., fasc. 5,

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24 punto di vista giuridico, anche se naturalisticamente è una condotta attiva55.

Vi era, anche, un altro modo di interpretare come omissiva l’azione del sanitario56: esso non guardava dal punto di vista della condotta, quanto

da quello della causalità. A questo proposito, veniva sostenuto che nei casi di interruzione del trattamento, analogamente ai casi di omissione consistenti in una materiale inazione, il medico non instaurasse il processo causale conducente alla morte, bensì smetteva di frapporsi in un processo già instauratosi autonomamente. Ciò significa che l’interruzione del macchinario non poteva considerarsi come la causa vera e diretta della morte, essendo, tutt’al più, un fattore che semplicemente rimuoveva un “ostacolo” tecnologico ad un processo terminale già in atto; la morte, infatti, è, e rimane naturale, ed è causata dal progredire della malattia57.

Indipendentemente da quale “strada” venga seguita per giungere alla considerazione della condotta medica come omissiva, vi era comunanza di idee circa il fondamento giudico dal quale far dipendere l’irresponsabilità penale del sanitario: il rifiuto delle cure da parte del malato, infatti, comportava la rimozione della posizione di garanzia del medico; tale per cui egli non doveva più considerarsi obbligato ad impedire l’evento58.

55 Seminara S., Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in

Dir. pen. e proc., 2007, p. 1563

56 Tordini Cagli S., Le forme dell’eutanasia, in Il governo del corpo, a cura di AA.VV,

2011, Milano, p. 1822; Cupelli, Il diritto del paziente (di rifiutare), cit., p. 1828, l’autore sostiene che la condotta del medico si configuri come omissiva in relazione al processo di causa intercorrente tra azione ed evento. In questo senso l’autore rileva che si avrà un’omissione tutte le volte in cui, pur in presenza di un facere, le cose procedano per il proprio conto, come accade appunto con la malattia la quale, a seguito del distacco del macchinario, è causa della morte del paziente.

57 D’Aloia A., Al limite della vita: decidere sulle cure, in Quad. Cost. 2/2010, p. 251 58 Supra, cap. 1., par. 1.2.1

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25 Al contrario, l’opinione dominante riteneva59 (come poi sarà sostenuto nel caso Welby60) che il legittimo rifiuto operato dal paziente scriminasse la condotta del medico. La tesi, quindi, si incentrava non sull’analisi del fatto tipico, quanto sulla causa di giustificazione. A questo proposito, veniva sostenuto che il sanitario il quale avesse interrotto un trattamento medico, comportando la morte del paziente, avrebbe integrato l’art. 579 c.p., sennonché la sua condotta doveva considerarsi scriminata ex art. 51 c.p., giacché egli aveva adempiuto al dovere di non porre in essere trattamenti sanitari non voluti dal paziente, nel pieno rispetto dell’art. 32, II comma, Cost. Il dovere del medico di agire, infatti, deve considerarsi esistente fin quando vi sia il consenso prestato dal paziente; qualora l’assenso venga meno (essendo stata richiesta, appunto, l’interruzione del trattamento sanitario salvavita), il sanitario sarà obbligato ad astenersi dal somministrare quanto rifiutato dal malato. Detto in altre parole: di fronte al rifiuto prestato dal paziente viene meno l’obbligo giuridico di agire del sanitario (egli, infatti, non rivestirà più la posizione di garanzia); sorge, al contrario, il dovere di astenersi dal porre in essere qualsiasi attività terapeutica non voluta dal paziente, non avendo più egli la legittimazione ad agire.

1.2.3 Sulla disponibilità del bene vita

Ad oggi, grazie ad importanti sentenze61 e all’intervento del legislatore ( legge 219 del ’17: sul consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento), è riconosciuto un diritto assoluto di autodeterminazione in

59 Canestrari S., Rifiuto informato e rinuncia consapevole al trattamento sanitario da

parte del paziente competente, in Il Governo del corpo, a cura di AA.VV, Milano,

2011, p. 1910 ss. ; Fimiani P., La responsabilità nelle scelte di fine vita in attesa della

C.C nel caso Cappato, in Dir. pen. cont., 05/18, p. 7; Giunta, Diritto di morire e diritto penale, Cit., p. 95, l’autore sostiene che la condotta del medico sia scriminata ex art.

51 c.p., nonostante ciò ritiene che la condotta del sanitario debba configurare come un’omissione, in linea con la dottrina minoritaria.

60 Infra cap. 1., par. 1.5.1 61 infra cap. 1, par. 1.5

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26 ambito sanitario che pone in rilievo le scelte del paziente rispetto alla prosecuzione della vita in ogni caso.

L’affermazione di questo diritto, combinato con gli artt. 2 e 13 Cost., fa ritenere a parte della dottrina62 che esista un diritto di disporre

liberamente del proprio corpo e della propria vita (è su questi fondamenti, che la Corte di Assise di Milano nel 2018 ha riconosciuto la piena disponibilità del bene vita63).

La tesi si basa sul fatto che, ritenere indisponibile il bene giuridico della vita contrasterebbe con l’inviolabilità della libertà di ogni individuo e con il principio personalista64, oltre che con la libertà in ambito sanitario. In sostanza, affermare la centralità dell’individuo nell’organizzazione sociale e politica, garantirgli la libertà personale e specificamente, di potersi determinare autonomamente in ambito sanitario, dovrebbe far ritenere che il bene della vita sia disponibile da parte del suo titolare. In ogni caso, anche a non voler riconoscere un vero e proprio contrasto tra i diritti sopra richiamati e la connotazione di indisponibilità del bene vita, si dovrebbe perlomeno ammettere la possibilità che il diritto alla vita sia bilanciabile65 con altre norme fondamentali, e da questo assumere che, in certe condizioni, esso possa soccombere di fronte alla prevalenza di altri principi di pari rango (es: il sopra citato diritto di autodeterminazione in ambito sanitario).

Merita precisare che nell’affrontare la problematica della disponibilità del corpo umano e conseguentemente del bene vita, è opportuno definire

62 Di questo ordine di idee: Flick G. M., Dovere di vivere, diritto di morire, oppure?,

In Federalismi.it rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato, 25/01/11, p. 4;

63 infra cap. 2, par. 2.2.3

64 Dall’art. 2 Cost. si ricava il principio personalista per il quale si riconosce la

centralità dei diritti dell’uomo nell’ordinamento, superando definitivamente la tesi stato-centrica che affermava il fondamento dei diritti individuali nell’autolimitazione dello stato, Carretti, I diritti fondamentali., cit, p. 172

65 Adamo U., Eutanasia e diritto costituzionale. autorità vs libertà?, in Giur. Cost.,

fasc. 3, 2016, p. 1266, l’autore ritiene che non possa essere spesa la tesi dell’indisponibilità del bene vita a sostegno del divieto assoluto di pratica eutanasica in quanto, il bene vita, come qualsiasi altro diritto fondamentale, è sempre bilanciabile con altri diritti.

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27 se si parli di sola disposizione manu propria o se si ammetta anche una disposizione manu aliena. In particolar modo, seguendo la concezione personalistica66 si ammette l’esistenza della disponibilità della vita per mano propria, ricavandola dal fatto che il suicidio non rappresenti una condotta in sé per sé vietata dal codice penale67, e dal fatto che sia

giuridicamente apprezzato il sacrificio della propria vita o della propria integrità, per un fine esterno rispetto ad interessi personali (es: tentare di salvare altri dal fuoco o da annegamento, portare a termine una gravidanza rischiosa per la vita della madre). Con la precisazione però, che l’autosacrificio sia libero, spontaneo e consumato interamente per mano propria, senza che terzi abbiano fornito un aiuto per la realizzazione dell’atto (in caso contrario, verrebbe integrato il reato di cui all’art. 580 c.p.). All’opposto, viene negata la liceità della disponibilità manu aliena68, non solo nelle ipotesi in cui manchi il consenso dell’avente diritto (vi sarebbe un’indebita interferenza nella sfera personale dell’individuo, in aperto contrasto con l’art. 13 Cost.), ma anche, in certi casi, quando il consenso venga prestato; in questo senso, quindi, viene sostenuto il principio dell’indisponibilità dell’essere umano per mano altrui. A fondamento di tale orientamento vengono richiamate le norme penalistiche che incriminano l’omicidio del consenziente e l’aiuto o istigazione al suicidio; tali norme, infatti, impediscono all’individuo di attuare una scelta volontariamente assunta in merito alla propria esistenza, mediante terzi o con l’aiuto di terzi. In definitiva, è sostenibile che un orientamento di questo tipo respinga le

66 Mantovani F., Diritto penale. Parte speciale I. Delitti contro la persona, CEDAM,

Padova, 2016, p. 48 ss. distingue tra due concezioni di fondo dell’uomo: l’utilitaristica e la personalistica. A tali opposte visioni sono riconducibili diversi possibili modi di risolvere i problemi che riguardano l’uomo, sono un punto di riferimento a cui guardare quando ci si interroga sulle problematiche attinenti all’uomo e alla sua vita. Cenni alla concezione utilitaristica: l’essere umano è considerato come disponibile non in un’ottica di privatezza o autonomia, ma in relazione agli interessi statali, in questo senso si ha la massima disponibilità pubblica contro ad una minima disponibilità privata.

67 Infra, cap. 1, par. 1.2.4

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28 tesi più estreme, negando, da un lato, che esista un dovere coercibile di vivere per gli individui, non potendo lo Stato imporsi sull’autodeterminazione dei singoli consociati69, e dall’altro, negando

l’esistenza di un diritto a morire quale pretesa esprimibile nei confronti dello Stato.

Volendo riepilogare in sintesi: secondo la concrezione personalistica la disposizione della vita per mano propria è ammissibile sulla base del fatto che il suicidio non sia condotta penalmente rilevante; all’opposto, la disposizione per mano di terzi non è ammessa, sussistendo reati quali l’omicidio del consenziente o il divieto di aiuto o istigazione al suicidio.

1.2.4 (Segue) Cenni sulla natura dell’atto suicidario

Nel precedente paragrafo si è trattato della disponibilità della vita umana, distinguendo, da ultimo, tra disposizione manu propria e disposizione manu aliena. Nel trattare le argomentazioni sostenute dalla dottrina, è stato fatto riferimento al fatto che il suicidio sia condotta non penalmente rilevante; sennonché, nonostante sia oggettivamente rilevabile l’assenza di una qualche previsione normativa posta a diretto divieto dell’atto suicidario, non sono mancate divergenze interpretative circa la qualificazione giuridica di tale atto.

Innanzitutto conviene fornire qualche nota di carattere storico: gli ordinamenti europei, nel corso degli anni, hanno guardato all’atto di togliersi la vita secondo ottiche diverse70. Nel diritto romano il suicidio

69 Si pensi ai risvolti che potrebbero conseguire da un dovere di cura imposto agli

individui da parte dello stato: si creerebbe un sistema totalitario di imposizioni, divieti, controlli, ecc. che riguarderebbero in toto la vita dell’individuo. Ibidem, Mantovani, p. 50

70 Per una disamina al riguardo, Faenza F., Profili penali del suicidio, in Il governo del

corpo, a cura di Canestrari, Ferrando, Mazzoni, Rodotà, Zatti, Giuffrè Editore, Milano,

2011, p. 1802; Magro B., Eutanasia e diritto penale, Giappichelli, Torino, 2001, p. 180; Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 126; Canestrari S., Delitti

contro la vita, in AA. VV, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna,

2009, p. 430, Cornacchia L., Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fine

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29 era considerato reato e le pene variavano a seconda della causa che aveva determinato la volontà di morte (es: si distingueva tra morte procuratasi per lutto, malattia, ecc.); anche nel medioevo il togliersi la vita era considerato atto illecito, tanto da inscenare dei veri e propri processi ai cadaveri e condannare a subire lesioni il corpo del morto. Solo con l’avvento dell’illuminismo, iniziò a essere teorizzata la liceità del suicidio; nel nostro Paese la depenalizzazione veniva sostenuta, ad esempio, da Cesare Beccaria: secondo l’illustre giurista, infatti, non sarebbe accettabile: «un delitto che sembra non poter ammettere una

pena propriamente detta poiché ella non può che cadere o su gl'innocenti , o su un corpo freddo e insensibile»71. La ragione della

liceità veniva quindi individuata nell’inefficacia deterrente della pena; dal momento che essa ricadeva su un soggetto incapace di percepirla perché destinato a morire, o sui suoi parenti, estranei al fatto. Nonostante ciò, il codice Albertino72 continuava a reprimere il suicidio, disponendo, ad esempio, l’inefficacia del testamento o la privazione degli oneri funebri per il soggetto che si fosse tolto la vita, o l’applicazione di misure di sicurezza psicoterapeutiche, nell’ipotesi di suicidio tentato. Ad oggi, il codice penale Rocco (così come il suo precedente, codice Zanardelli 1889), non prevede l’incriminazione della condotta suicidaria. Le ragioni che potrebbero giustificare la scelta di escludere la punibilità della morte autoinflitta sono molteplici: si può fare riferimento a ragioni politico-criminali, quali l’inutilità di una pena nei confronti di chi abbia tentato di togliersi la vita e non vi sia riuscito; oppure si può considerare il suicidio alla stregua di un diritto

71 Beccaria C., Dei delitti e delle pene

72 Codice promulgato da Carlo Alberto per il Regno di Sardegna, nel 1838; all’art. 585

prevedeva: “Chiunque volontariamente si darà la morte, è considerato dalla legge

come vile, ed incorso nella privazione dei diritti civili, ed in conseguenza, le disposizioni di ultima volontà fatte, saranno nulle e di niun effetto: sarà, inoltre, il medesimo privato degli oneri funebri di qualunque sorta. Il colpevole di tentativo di suicidio, quanto l’effetto ne sia mancato, non per ispontaneo suo pentimento, ma per circostanze indipendenti dalla sua volontà, sarà condotto in luogo di sicura custodia, e tenuto sotto rigorosa ispezione da uno a tre anni.”

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