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GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI IN UN'OTTICA COMPARATIVA EUROPEA E L'ANALISI DELLO STATO DI DISOCCUPAZIONE DEI MILITARI AL TERMINE DEL SERVIZIO TEMPORANEO

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UNIVERSITÀ DI PISA

ACCADEMIA NAVALE

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

TESI DI LAUREA

IN DIRITTO DEL LAVORO

GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI IN UN’OTTICA COMPARATIVA EUROPEA E L’ANALISI DELLO STATO DI DISOCCUPAZIONE DEI MILITARI

AL TERMINE DEL SERVIZIO TEMPORANEO.

LAUREANDO: GM (CM) Federica MORANO

RELATORE: Prof. Riccardo DIAMANTI

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Ai miei genitori, che con un costante e indispensabile supporto mi hanno spinta a dare sempre il meglio.

Attenti critici, confidenti e motivatori dedico a loro la gioia di questo traguardo.

Ad Andrea, per il suo affetto e per esserci sempre stato.

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INDICE GENERALE

Introduzione ... 3

Capitolo 1: La crisi economica del 2008 ... 6

1.1 Particolari misure “anticrisi” in Europa ... 6

1.2 Il diritto sociale europeo di fronte alla crisi ... 10

1.3 La crisi economica e la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) ... 15

1.4 Europa 2020: la strategia europea per la crescita... 21

Capitolo 2: Flexicurity e previdenza sociale nell’Unione Europea ... 25

2.1 I problematici confini di un concetto sfuggente ... 25

2.1.1. Il libro Verde sulla modernizzazione del diritto del lavoro ... 28

2.2 Lavoro flessibile e uguaglianza in Italia ... 30

2.3 Flexicurity e clausole antidiscriminatorie ... 34

2.4 Politiche di lavoro europee ... 36

2.5 Finalità e limiti di un’analisi comparata ... 37

2.6 I singoli sistemi nazionali europei di protezione sociale ... 39

2.6.1 Belgio ... 39 2.6.2 Danimarca ... 41 2.6.3 Francia ... 45 2.6.4 Germania ... 47 2.6.5 Svezia ... 49 2.6.6 Regno Unito ... 52 2.6.7 Spagna ... 54 2.7 Analisi comparata ... 55

Capitolo 3: L’assetto istituzionale degli ammortizzatori sociali in Italia ... 59

3.1 Ricostruzione del sistema degli ammortizzatori sociali ... 59

3.2 Excursus storico sull’indennità di disoccupazione ... 62

3.3 La Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI) ... 67

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3.5 Il principio di condizionalità ... 74

3.6 Misure di contrasto alla povertà ... 75

3.7 Excursus storico sulla Cassa Integrazione Guadagni... 81

3.8 La Cassa Integrazione Guadagni (CIG) e la ratio della riforma ... 84

3.10 I trattamenti integrativi salariali ordinari ... 89

3.11 La riforma della CIGS ... 95

3.12 Gli ammortizzatori “privati” ... 99

3.13 La Cassa Integrazione Guadagni in deroga (CIGD) ... 105

Capitolo 4: Il mancato diritto per i militari ... 110

4.1 L’assenza della NASpI ... 110

4.2 Possibili prospettive future ... 114

Conclusioni ... 117

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Introduzione

Scopo del seguente lavoro è l’analisi delle politiche del lavoro e della previdenza sociale messe in atto nell’Unione Europea a partire dalla crisi del 2007 fino ai nostri giorni, soffermandosi in maniera più approfondita sul sistema italiano.

L’ultima crisi economica si è affacciata sulla scena mondiale manifestandosi con caratteristiche peculiari rispetto alle singole aree geografiche e diversi settori. Secondo uno schema di causa ed effetto, ha incominciato a ripercuotersi sulle economie dei vari Paesi e, in particolar modo, sull’occupazione. La conseguenza è stata un’improvvisa crescita della disoccupazione con conseguenti disagi sociali.

A livello europeo, ciò ha avuto immancabilmente delle ripercussioni sulla disciplina del rapporto del lavoro, del mercato del lavoro o della previdenza sociale, in particolare concretizzandosi in numerose riforme del Diritto del lavoro o interventi limitati e circoscritti ad alcuni istituti. Pertanto, gli Stati membri hanno disposto delle misure che hanno inciso sull’area del diritto sociale al fine di proteggere i lavoratori dai rischi sociali causati dalla crisi e le imprese dai rischi prodotti dal mercato.

L’Unione Europea è intervenuta per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati membri: in particolare, una volta chiarito il riconoscimento della sovranità degli stessi in materia di politiche per l’occupazione, ha emanato degli orientamenti per l’occupazione come tipico esempio di soft law comunitaria in grado di condizionare gli Stati membri. Questo metodo alternativo è rappresentato dalla Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), oggetto di successive modifiche allo scopo di introdurre nuove priorità principali. In quest’ambito emerge il ruolo preminente del Trattato sul divieto di aiuti di Stato alle imprese che può rappresentare rilevanti profili di interferenza con le politiche del mercato del lavoro adottate dalla SEO ed attuate a livello nazionale. L’importanza di tale strategia è emersa nel 2010 con l’adozione di un nuovo modello di orientamento chiamato “Europa 2020”, che semplifica gli indirizzi originari individuando le azioni unitarie e coordinate fra gli Stati membri per superare la crisi in virtù dei caratteri di specificità nazionali.

Le politiche adottate dai diversi Stati, volte a contrastare la rigidità del sistema, si sono in larga parte ispirate al modello della flessicurezza suggerita dall’Unione Europea. L’obiettivo di questa strategia è il raggiungimento di un equilibrio tra la flessibilità e la sicurezza, il tutto per incrementare le occasioni di lavoro dal punto di vista della quantità e della qualità. Prendendo come riferimento i quattro pilastri su cui si fondano gli orientamenti della prima

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fase della SEO: occupabilità, adattabilità, imprenditorialità e pari opportunità e i primi due in particolare, sono quelli che spingono gli Stati membri ad aderire al modello della

flexicurity.

Nel 2006 la Commissione Europea nel Libro Verde intitolato “Modernizzare il Diritto del lavoro per affrontare le sfide del secolo XXI” presenta spunti di riflessione su come modernizzare il Diritto del lavoro per sostenere gli obiettivi della Strategia di Lisbona di crescita sostenibile con più e migliori occasioni di lavoro ed opta più chiaramente per la sicurezza dell’occupazione, intesa come maggiore possibilità di trovare un lavoro e di migliorare le proprie prospettive di carriera in ogni fase della vita attiva.

In Italia, l’imprinting europeo della flexicurity ha ispirato l’intervento della legge n. 92/2012 (c.d. legge Fornero), seguita dal “Jobs Act”, che ha inciso sui contratti di lavoro, sulle politiche attive del lavoro e sul sistema di protezione contro la disoccupazione, favorendo così un mercato del lavoro più dinamico, concorrenziale e inclusivo. Parallelamente, si noti come il lavoro flessibile risulti in evidente contrasto con l’etica dell’uguaglianza, principio costituzionalmente tutelato. Non si può negare, infatti, che con il ricorso al modello della

flexicurity, sia cresciuta la disparità di potere tra le parti contrattuali e, conseguentemente ciò

ha comportato una frattura nell’uguaglianza fra i lavoratori. Una crisi dell’uguaglianza si è manifestata nell’ottica di uno sviluppo caotico ed incontrollato del lavoro precario, alla quale il legislatore ha tentato di porre un freno ricorrendo alle clausole antidiscriminatorie. Le politiche attive e passive di ciascun Paese europeo appaiono estremamente elaborate e complesse, diverse sia per quello che riguarda il piano delle tutele ordinamentali, sia per quel che concerne gli obiettivi perseguiti dalle singole politiche di protezione sociale. In Italia emerge un’impostazione tipicamente garantista, che sembra privilegiare la prospettiva di una tutela ad oltranza del posto di lavoro attraverso lo sviluppo delle politiche passive, discostandosi, per questo, dalle indicazioni provenienti dalla “Strategia europea per l’occupazione”, finalizzata a favorire, invece, politiche “proattive” del lavoro. A tal proposito, per una completa analisi del sistema di protezione sociale italiano, appare opportuna un’analoga indagine sui singoli sistemi di tutela contro la disoccupazione di alcuni Paesi europei: Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Svezia, Regno Unito e Spagna. Affrontando successivamente il sistema degli ammortizzatori sociali italiano, nella sua ricostruzione appare formalmente corretto partire con l’analisi dall’indennità di disoccupazione e della cassa integrazione guadagni, l’una per la fase successiva alla cessazione del rapporto di lavoro, l’altra per la fase di vigenza dello stesso.

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A seguito di un approfondimento sugli sviluppi storici che hanno interessato i suddetti modelli paradigmatici per eccellenza degli ammortizzatori sociali, verranno esaminate le due tipologie di indennità di disoccupazione che permeano l’ordinamento italiano, ossia la “Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego” (NASpI) e la “Disoccupazione Collaboratori” (DIS-COLL), e successivamente, le tre forme in cui si traduce l’istituto della cassa integrazione guadagni, ovvero “ordinaria”, “straordinaria” e “in deroga”.

Alle forme di indennità di disoccupazione si affiancano ulteriori misure di contrasto alla povertà prevedendo la corresponsione di trattamenti universali a favore dell’ampia categoria di disoccupati cronici, come per esempio i giovani. In questo senso, è stato erogato l’Assegno di disoccupazione (ASDI), sostituito a partire dal 1° gennaio 2018 dal Reddito di Inclusione (REI). Attualmente la nuova misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale è rappresentata dal Reddito di cittadinanza (RdC), che dal 1° marzo 2019 ha assorbito il Reddito di Inclusione. In aggiunta è prevista l'erogazione di un Assegno di Ricollocazione (AdR) su scala nazionale, strumento che consiste in un importo da utilizzare presso i soggetti che forniscono servizi di assistenza intensiva personalizzata per la ricerca di occupazione (centri per l'impiego o enti accreditati ai servizi per il lavoro). Per quel che riguarda la CIG, si analizza la ratio della riforma del “Jobs Act” (d.lgs. n. 148/2015), da cui emerge con tutta evidenza l’intenzione di una razionalizzazione nel ricorso allo strumento stesso di sostegno al reddito dei lavoratori per il periodo necessario al superamento della situazione contingente. Dopo una trattazione della disciplina comune alla CIGO e alla CIGS, è logicamente consequenziale l’esame dei singoli trattamenti integrativi salariali, ordinario e straordinario e in deroga.

Il d.lgs. n. 148/2015 contiene poi nel Titolo II la disciplina relativa alle risorse private utilizzate per finanziare misure di sostegno del reddito nei settori privi del sistema dell’integrazione salariale, mediante la costituzione di due modelli di solidarietà bilaterale, tra loro alternativi, ed un ulteriore modello residuale.

A conclusione dell’analisi sugli ammortizzatori sociali, si affronta il dibattito in ambito militare del personale che, assunto con contratto a tempo determinato, una volta cessato il servizio militare temporaneo, versi in uno stato di disoccupazione. Si analizza quindi, la possibilità di erogare a beneficio di queste categorie di militari l’indennità di disoccupazione della NASpI e possibili interventi futuri che garantiscano una maggiore tutela.

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Capitolo 1: La crisi economica del 2008

1.1 Particolari misure “anticrisi” in Europa

L’ultima crisi economica sul finire del 2007 si è affacciata sulla scena mondiale con caratteristiche peculiari rispetto alle singole aree geografiche e diversi settori. Secondo uno schema di causa ed effetto, ha incominciato a ripercuotersi sulle economie dei vari paesi e, in particolar modo, sull’occupazione. La crisi finanziaria, come diretto movente del fallimento di alcuni tra i più grandi colossi bancari, ha prodotto una improvvisa crescita della disoccupazione con conseguenti disagi sociali.

Una crisi che si è affermata con differente asprezza all’interno dei paesi che prendo in considerazione, in virtù della loro peculiarità. In Spagna, per esempio, la disoccupazione è cresciuta in misura nettamente superiore rispetto alla Francia o all’Italia, per il probabile intersecarsi della crisi “importata” con quella di un settore, quello delle costruzioni, smisuratamente cresciuto anche grazie al contributo di massicci fenomeni migratori, e crollato da un giorno all’altro con devastanti effetti sull’occupazione. Dall’altra parte, in Italia, una crisi sottovalutata all’inizio che, invece, ha condotto a notevoli ripercussioni sul mondo del lavoro e, più precisamente sul sistema del Diritto del lavoro, quest’ultimo inteso come l’insieme delle regole che disciplinano, sia a livello individuale che collettivo, l’utilizzo della manodopera da parte delle imprese.

Ciò che più colpisce è il fatto che il diritto del lavoro, e in definitiva i lavoratori stessi, a causa delle tutele che li circonderebbero e che provocherebbero rigidità nel mercato del lavoro, appaiono quali corresponsabili della crisi economica. Questa è la visione che trapela dagli interventi degli Stati: si passa da vere e proprie riforme, come nel caso spagnolo e in quello francese, ad interventi di carattere contingente e settoriale, come in Italia.

Le politiche adottate nei diversi Stati sono in larga parte ispirate, spesso esplicitamente, al modello della flessicurezza suggerita dall’Unione Europea. Questa strategia è posta alla base come soluzione per il raggiungimento di un equilibrio tra la flessibilità e la sicurezza, il tutto in un’ottica di una produzione di occasioni di lavoro maggiori per quantità e migliori per qualità. Il modello della flexicurity è stato posto come filo ispiratore di una serie di riforme in Francia e in Spagna, e allo stesso modo in Italia rispetto a diverse propost e di legge, spesso con manifesti riferimenti al modello danese. Un ulteriore elemento che ha contraddistinto la crisi economica è stato l’affermarsi di un orientamento della Corte di Giustizia, la quale sembra aver elaborato una gerarchia di diritti a livello europeo che

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pone in primo piano quelli economici, libertà di circolazione, libertà di impresa, libertà di stabilimento, a svantaggio di quelli sociali.

Nel campo delle relazioni industriali si è verificata una tendenza ad un generalizzato spostamento verso il livello aziendale, indipendentemente dal fatto che abbia una base legale o sia originata da scelte autonome delle parti sociali. Tale spostamento verso la contrattazione di secondo livello è sicuramente favorito da alcune delle misure adottate dagli Stati nell’ambito delle misure anticrisi. In Spagna, la legge di riforma ha rilanciato un istituto già presente nello Statuto ma scarsamente utilizzato: il cosiddetto “descuelgue

salarial”, attraverso il quale le aziende in crisi, a certe condizioni, possono derogare agli

obblighi oggetto del contratto collettivo e quindi, sostanzialmente, di poter prevedere condizioni peggiorative rispetto al contratto vigente al fine di affrontare al meglio la crisi. Parallelamente, questa possibilità in Italia è prevista dall’Accordo interconfederale “separato” del 2009: è consentito alla contrattazione aziendale di discostarsi, ad eccezione di specifiche materie, dai livelli di tutela stabiliti dalla contrattazione nazionale. Rispetto alla tendenza ad un diverso equilibrio tra i livelli contrattuali, si prefigura, quindi, un possibile diverso assetto del sistema contrattuale. Infatti, l’art. 8 del d.l. 138/2011 ha istituito la possibilità di stipulare a livello aziendale accordi c.d. di prossimità, i quali possono derogare, anche in peius, alla contrattazione collettiva nazionale: quindi, si consente al contratto aziendale di modificare la disciplina legislativa. Si evince che il requisito fondamentale per poter stipulare un contratto di prossimità da parte di un’organizzazione aziendale è costituito: dalla sua maggiore rappresentatività a livello nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda.1 Le modifiche del sistema contrattuale intervengono in aggiunta, su una riduzione delle tutele individuali, giustificate dalla crisi economica, ma che per i suoi aspetti più qualificanti, sono destinati a durare nel tempo. Si è assistito ad un allentamento delle tutele contro il licenziamento ingiustificato in virtù di riforme legislative poste di continuo all’ordine del giorno. In Francia, le modalità funzionali a garantire una maggiore facilità ed un minor costo per il licenziamento, si realizza con la valorizzazione dell’estinzione consensuale del rapporto di lavoro. Analogamente in Spagna, rispetto al diverso percorso adottato si pone la medesima finalità di “semplificare” il licenziamento, soprattutto attraverso la riduzione dei costi del licenziamento e la ridefinizione delle cause del

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licenziamento per motivi oggettivi. In definitiva, pur con differenti modalità, continua ad essere intaccata l’area della tutela contro i licenziamenti illegittimi, in forza del modello della flessicurezza posta in primo piano nelle riforme legislative che si vanno realizzando. Di fronte alla crisi economica e, conseguentemente al fenomeno della diminuzione dell’occupazione che ha visto il venir meno dei posti di lavoro, si è affermata l’idea che occorresse intervenire sulla riduzione dell’orario di lavoro. Questo meccanismo, quale strumento difensivo volto ad arginare gli effetti negativi della crisi, è stato posto come finalità nel 2009 da parte del legislatore spagnolo: in particolar modo, è stato incentivato mediante la riduzione dei contributi previdenziali ordinari che il datore di lavoro, in caso di sospensioni o riduzioni debitamente autorizzate, avrebbe dovuto versare. Ruoli determinanti in Italia, volti a difendere l’occupazione, sono stati svolti dalla cassa integrazione guadagni e dall’istituto del contratto di solidarietà. Quest’ultimo consente, sulla base di un accordo sindacale, una parziale riduzione dell’orario di lavoro di tutti al fine di scongiurare il rischio di dichiarazione di esubero di personale ed evitare, quindi un possibile licenziamento di un numero limitato di lavoratori. A realizzarsi, in tal modo, è una forma di “solidarietà” interna agli stessi dipendenti dell’impresa, che accettando una riduzione dell’orario di lavoro, e corrispondente riduzione della retribuzione, permettono di evitare licenziamenti collettivi, ricevendo in cambio la corresponsione del trattamento di integrazione salariale in misura proporzionale al trattamento retributivo perso.

Similarmente al caso italiano, in Francia si è ricorso al meccanismo della indennità di disoccupazione parziale che addossa allo Stato l’onere di provvedere al sostegno economico dei lavoratori per il periodo, o per la misura in cui, perdano la retribuzione. Tali misure si presentano tuttavia come aventi carattere prevalentemente transitorio e contingente, e perciò come misure eccezionali, ispirate alla convinzione che la crisi abbia carattere transitorio.

In materia previdenziale, la spesa pensionistica è responsabile principale dell’instabilità ed è attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile che si interviene per aggiustamenti dei conti pubblici. Negli anni successivi la crisi, l’Italia ha optato definitivamente per un sistema contributivo, abbandonando quello retributivo. Il nuovo sistema preved e che l’importo della pensione venga calcolato sui contributi effettivamente versati nel corso della vita lavorativa (cosiddetto “montante contributivo”). Il legislatore italiano ha introdotto una “flessibilità” dell’età pensionistica, variabile in relazione all’andamento della speranza di vita. In particolare, la Legge Fornero ha introdotto la regola di una

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valutazione periodica (triennale fino al 2019 e poi biennale) dell’incremento della speranza di vita a cui ricollegare l’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia, ai fini di un contenimento della spesa pensionistica su livelli sostenibili a lungo termine. Dunque, tale incremento previsto ogni biennio è pari a 3 mesi ogni 2 anni. Conseguentemente, ciò ha determinato una parificazione dell’età pensionabile tra uomini e donne avvenuto a partire dal 1° gennaio 2018, corrispondente a 66 anni e 7 mesi e attualmente pari a 67 anni (restano 66 anni e 7 mesi per gli addetti a mansioni gravose o usuranti). Non del tutto diversamente è accaduto in Spagna e Francia, in cui si è provveduto ad elevare di due anni l’età pensionabile portandola a 67 anni.

Altre misure in campo previdenziale adottate in occasione della crisi, confermano lo spostamento d’asse verso i sistemi di tipo contributivo. Una riforma spagnola ha introdotto un Fondo di Capitalizzazione, alla quale si ricorre come misura di sostegno per il lavoratore in caso di licenziamento, mobilità geografica o per lo svolgimento di attività di formazione professionale, restando inteso che, nel caso in cui il l avoratore non lo utilizzi, avrà diritto a percepire quanto accumulato nel momento del pensionamento. L’Italia, insieme alla Svezia, è stato il primo paese ad adottare il sistema contributivo in materia pensionistica, perfezionando in aggiunta la tecnica con l’introduzione della variabilità dell’età pensionabile in relazione alle aspettative di vita. In quest’ottica si pone in luce il carattere individualistico del sistema contributivo: la sicurezza è l’effetto della capacità di accumulare e della attenzione delle scelte di cui l’individuo sia capace. In questo senso si spiega come una parte del rischio che gli Stati tradizionalmente assumevano, venga trasferita agli individui. L’INPS, ossia l’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, piuttosto che “assicurare” i propri iscritti, “amministra” i loro risparmi, ed è in questa sua funzione che si evidenzia la sua straordinaria solidità finanziaria. Ciò, se da una parte penalizza le persone che non siano in grado di accumulare risorse con finalità previdenziale, che riduce il reddito dei lavoratori, soggetti ad un maggior esborso, dall’altra parte riduce allo stesso tempo la partecipazione al rischio da parte dello Stato.

Gli effetti negativi della crisi sull’occupazione hanno determinato l’attivazione di misure di carattere più contingente e temporaneo, ritenendo la crisi stessa di tipo transitorio, e di conseguenza, considerando la possibilità di ripristinare la situazione precedente. Una prima è stata quella volta a ridurre l’impatto delle espulsioni dal mondo del lavoro ricorrendo a misure aventi carattere conservativo: si è favorita la riduzione dell’orario o la sospensione del rapporto di lavoro. La seconda tipologia è data da una più intensa

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utilizzazione delle diverse forme di indennità connesse allo stato di disoccupazione, come: le misure di sostegno alla formazione ed alla ricollocazione dei lavoratori espulsi dal ciclo produttivo.

In conclusione, risulta difficoltosa una valutazione complessiva delle politiche adottate dai diversi Stati a fronte della crisi economica. Questo, in ragione sia della durata che delle caratteristiche della crisi che nei diversi Paesi europei si è manifestata con intensità differente. Senz’altro sul piano economico, le politiche di contenimento impongono ai diversi Stati, prescindendo dalle loro specificità, restrizioni di bilancio, in contrasto con le politiche sociali che si configurano più urgenti laddove sono più pesanti gli effetti della crisi economica. In quest’ottica, il diritto del lavoro non può essere incluso tra i fattori che hanno originato la crisi economica: niente consente di ipotizzare che le rigidità del mercato del lavoro, possano aver contribuito alla crisi. Tuttavia, la crisi stessa ha rappresentato un forte incentivo circa la necessità di rendere ulteriormente flessibile e de-regolamentato il mercato del lavoro. In particolare, è possibile distinguere fra misure di carattere tendenzialmente più strutturale, volte a perseguire una progressiva flessibilizzazione e riduzione delle tutele, e quelle che invece che mirano a rimedi temporanei per esigenze supposte transitorie. Pertanto, ciascuno Stato potrà adottare misure che avranno effetti diluiti nel tempo, nel primo caso, o misure con effetti immediati, nel secondo. Se da una parte, l’azione di flessibilità, non appare sufficiente a contrastare i fattori posti alla base della crisi, a meno che non si voglia ipotizzare una relazione causa-effetto tra le tutele del lavoro e le regole del mercato del lavoro, dall’altra, sul versante della sicurezza, non sembra sussistere alcuna misura tale da compensare le “rinunce” in termini di flessibilità. Nei Paesi europei sono state imposte misure di rigido controllo della spesa pubblica e di progressiva riduzione del disavanzo che mal si conciliano con l’adozione di misure compensative di welfare a carico del bilancio statale, né delle imprese, che invocano flessibilità, ma non disposte ad addossarsi gli oneri finalizzati ad una maggiore sicurezza dei lavoratori usciti dal mercato del lavoro.

1.2 Il diritto sociale europeo di fronte alla crisi

Nel corso della sua storia l’Unione Europea è stata contraddistinta da molteplici tipi di crisi, che sono state affrontate in modo diverso a seconda del periodo, degli strumenti istituzionali, del livello di coesione politica e del grado di integrazione. Appare opportuno analizzare l’influenza della crisi economica e finanziaria del 2008 nello sviluppo del

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diritto sociale europeo2 e, in particolare, come questo abbia inciso sulle politiche degli Stati membri. Seguirà l’analisi di determinati profili come il verificare: se, rispetto alla crisi, ci sia stato un consolidamento del modello sociale europeo oppure una sua disgregazione; se le scelte e gli interventi rapidi e indipendenti degli Stati membri per fronteggiare la crisi, abbiano determinato le opzioni comunitarie o viceversa; quali siano i punti di debolezza del diritto sociale europeo che non hanno permesso una reazione tempestiva ed efficace, soprattutto nei termini del condizionamento delle politiche degli Stati membri.

La crisi economica del 2008, particolarmente profonda e con il suo carattere perdurante, si è inserita, in aggiunta, in un momento delicato dell’evoluzione del diritto sociale europeo. Quest’ultimo stentava ancora a trovare una posizione di equilibrio con i diritti del mercato, nonostante una maggiore consapevolezza rispetto al fondamento giuridico dei diritti sociali fondamentali affermatisi con il Trattato di Lisbona, che riconosce lo stesso valore giuridico dei Trattati alla Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel 2000 (art. 6 TUE). La controversa giurisprudenza della Corte di Giustizia3, pronunciatasi sull’equilibrio di diritti collettivi come il diritto di sciopero e l’applicazione delle tutele previste dai contratti collettivi, aveva contribuito ad offuscare il ruolo del diritto sociale europeo nei confronti delle regole del mercato.4

2 Si intende il complesso delle tutele e dei servizi erogati dallo Stato e dagli enti locali al fine di garantire una

rete di protezione sociale: istruzione, sanità, pensioni, previdenza sociale (in caso di malattia, gravidanza, disoccupazione), servizi socio-assistenziali (per bambini e ragazzi senza famiglia, anziani, malati cronici e disabili), A. ANZIVINO e G. BALDASSARRE, Personal Fundraising e Crowdfunding, nuove prospettive per il fundraising online, Egea S.p.A, 2015, p. 12.

3 Il riferimento è alle note sentenze CGE, 11 dicembre 2007, 438/05, Viking; CGE, 18 dicembre 2007,

C-341/05 Laval; CGE 3 aprile 2008, C-346/06, Rüffert; CGE 18 giugno 2008, C-319/06 Commissione c. Lussemburgo.

4 Si deve constatare come le difficoltà finanziarie determinano una riduzione della ‘dotazione’ dei diritti sociali,

in generale o per determinate categorie di cittadini. Il risultato è il passaggio di una serie di situazioni dall’area dei diritti a quella del mercato. Tuttavia, se da una parte il mercato assume l’immagine di un luogo naturale, a-politico e a-giuridico e guidato dalla mano invisibile, dall’altra, resta affermato, il principio della primazia del diritto: è la legge, in dipendenza di decisioni politiche, che ne governa e costituisce la forma e lo sviluppo. “Il mercato, qualsiasi mercato, è infatti gremito e popolato di istituti giuridici, vive e si svolge con essi, e prende la fisionomia che così gli viene tracciata”. V. STEFANO ROSSI, Il mercato e i diritti sociali, Gruppo di Pisa, La Rivista, Fascicolo 2020/01, 2012, p. 4.

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Le politiche economiche perseguite dagli Stati influenzano profondamente il diritto del lavoro, le cui norme, e in particolare le politiche per l’occupazione, possono essere oggetto di valutazione, non soltanto per quanto riguarda la tutela offerta ai lavoratori, ma anche in base alla loro efficacia rispetto al mercato del lavoro e all’economia. Ciò che appare condivisibile è senz’altro il fatto che un determinato grado di coordinamento tra la disciplina del rapporto di lavoro e del mercato del lavoro e le politiche economiche conduca ad una migliore performance degli Stati. Nella maggior parte dei casi, a fronte della crisi finanziaria del 2008, gli Stati membri hanno adottato misure anticrisi che hanno interessato l’area degli aiuti finanziari alle imprese, gli aiuti al consumo, o l’investimento in opere pubbliche o ancora l’assunzione di un ruolo centrale degli Stati nel controllo dell’economia. Nondimeno alcuni di essi, in risposta alla crisi, sono intervenuti direttamente sulla disciplina del rapporto del lavoro, del mercato del lavoro o della previdenza sociale. Questo si è concretizzato, in alcuni casi, in vere e proprie riforme del Diritto del lavoro, in altri invece, in interventi limitati e circoscritti ad alcuni istituti, soprattutto in ambito di previdenza sociale e assistenza, al fine di contenere gli effetti negativi derivanti dall’aumento della disoccupazione. Gli Stati possono ricorrere al Diritto del lavoro sia come il mezzo per affrontare la crisi, sia a sostegno del le imprese evitando il fallimento, ma allo stesso tempo, come strumento per tutelare i lavoratori dagli effetti negativi della crisi. In questa ottica, è possibile distinguere due grandi categorie di interventi che regolano l’area del diritto sociale: da una parte, quelli volti a proteggere i lavoratori dai rischi sociali causati dalla crisi – principalmente il rischio della perdita dell’occupazione o della riduzione del reddito, il rischio della de-professionalizzazione – e, dall’altra, quelli che sono diretti a proteggere le imprese dai rischi prodotti dal mercato, attraverso una riduzione dei costi delle imprese grazie ad una maggiore deregolamentazione e una maggiore flessibilità. La scelta fra le due tipologie di interventi varia in base a diversi fattori da considerare: il fattore ideologico, il tipo di crisi, il fatto che le norme del diritto sociale siano considerate o meno responsabili della crisi.

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A livello internazionale nel 2009 l’OIL5 ha adottato il documento dal titolo “Superare la crisi: un patto globale per l’occupazione”6, il quale promuove determinati obiettivi tra cui: il mantenere il più possibile le donne e gli uomini nel loro posto di lavoro, di sostenere le piccole, medie e macro imprese; di incentivare la creazione di nuovi posti di lavoro, di favorire gli investimenti nei settori ad alta intensità di manodopera; di facilitare un più rapido reinserimento nel mercato del lavoro e affrontare il problema della deflazione dei salari; di proteggere dalla crisi gli individui e le famiglie, in particolare i più vulnerabili, e coloro che sono impiegati nell’economia informale attraverso il rafforzamento dei sistemi di protezione sociale al fine di fornire sostegno al reddito, e assicurare mezzi di sostentamento e sicurezza delle pensioni; di accelerare la ripresa dell’occupazione ed aumentare le opportunità di lavoro attraverso un’azione simultanea sulla domanda e l’offerta di manodopera; di fornire alla forza lavoro le competenze necessarie per il presente e il futuro. Si pongono come misure di protezione finalizzate a ridurre i rischi della crisi sopportati dai lavoratori, soprattutto quelli più deboli e, allo stesso tempo, incentivano la creazione di imprese sostenibili nei settori “labour intensive”.

Un presupposto teorico, che permette di accreditare l’affermazione secondo cui le crisi economiche, come eventi spesso imprevisti o imprevedibili, costituiscono un rilevante impulso regolativo per il Diritto del lavoro, è rappresentato dal fattore dei rischi sociali . Questi ultimi diventano, precisamente, dei rischi “sociali”, in quanto acquistano la dimensione della collettività e non della individualità: fondamentale è, infatti, il momento dell’individuazione della comunità di rischio. L’importante ruolo del Diritto del lavoro è rappresentato dal definire in termini di diritti, i meccanismi atti ad assicurare contro tali rischi. Pertanto, è attraverso il diritto che si compie un’operazione di razionalizzazione, definizione, gestione e controllo del rischio. Sotto questo profilo, è opportuno indagare soprattutto i rischi derivanti dal funzionamento del mercato, come il rischio della disoccupazione, e non, invece, quelli prodotti dallo svolgimento della prestazione

5 Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) è impegnata nella promozione della giustizia sociale e dei

diritti umani e del lavoro riconosciuti a livello internazionale, perseguendo la sua missione fondamentale che la giustizia sociale è essenziale per una pace universale e duratura. Agenzia tripartita delle Nazioni Unite, l'ILO riunisce governi, datori di lavoro e rappresentanti dei lavoratori di 187 Stati membri , per stabilire standard di lavoro, sviluppare politiche e ideare programmi che promuovano un lavoro dignitoso per tutte le donne e gli uomini., in https://www.ilo.org/global/about-the-ilo/lang--en/index.htm

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lavorativa, come i rischi per la salute e la sicurezza. Sulla base di documenti sulla flessicurezza a livello comunitario, occorre che i rischi siano gestiti diversamente a seconda che riguardino i datori di lavoro e i lavoratori. I primi potrebbero risentire degli effetti della concorrenza che li porterebbe al rischio della perdita della loro posizione sul mercato; oppure, ancora il rischio legato ad un mutamento demografico e ad una variazione delle preferenze e delle competenze dei lavoratori, che inciderebbero sulla relazione domanda-offerta. Per i secondi, invece, il rischio principale dei lavoratori è rappresentato dalla perdita del posto di lavoro, dell’occupazione.

La funzione a cui assolvono le norme sociali e le politiche dell’occupazione comunitarie di protezione contro i rischi eventuali della creazione del mercato unico, si possono riscontrare già alle origini dell’Unione Europea. Nel Trattato di Parigi del 1951 istitutivo della CECA, sono presenti, seppur limitate, norme dal contenuto sociale, le quali sono finalizzate a predisporre strumenti di tutela nei confronti dei lavoratori interessati dalle crisi. In particolare, l’articolo 46 al punto 4, autorizza l’Alta Autorità7 a partecipare allo

studio delle possibilità di reimpiego, nelle industrie esistenti o attraverso la creazione di nuove attività, della manodopera in uno stato di disponibilità determinato dalle trasformazioni del mercato o delle trasformazioni tecnologiche. Inoltre, è data la possibilità all’Alta Autorità di finanziare programmi di creazione di nuove attività industriali che consentano di assorbire la manodopera eccedente; oppure versando una indennità ai lavoratori in attesa di essere reimpiegati; rimborsando ai lavoratori le spese sostenute per la mobilità alla ricerca di una nuova occupazione; infine può finanziare la riqualificazione professionale dei lavoratori spinti a cambiare lavoro. Dunque, per quanto ridotte nel numero, le disposizioni sociali del Trattato CECA devono essere lette come atte a regolare le crisi derivanti dalle ristrutturazioni nei settori del carbone e dell’acciaio, crisi originate dalla creazione di un mercato unico, quello della CECA.

Alle origini dell’Unione Europea si era diffusa una visione ottimistica basata sull’idea che si sarebbe potuto configurare un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e il progresso sociale, attraverso l’instaurazione di un mercato interno privo di vincoli, e questo, senza un qualsiasi tipo di intervento diretto da parte del legislatore comunitario. Si è assistito, tuttavia, ad un capovolgimento dello scenario europeo, in seg uito alla crisi economica degli anni ’70, causata dalla guerra tra Israele e i paesi Arabi e determinando

7 L'Alta autorità della Comunità europea del carbone e dell'acciaio era l'organo esecutivo della CECA. Venne

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il quadruplicarsi del prezzo del petrolio. Conseguentemente, i paesi occidentali attraversarono un periodo di forte aumento dell’inflazione e crescita della disoccupazione. Allo stesso tempo, molteplici fattori, come importanti cambiamenti nella struttura del mercato del lavoro – come la crescita dell’occupazione femminile – e nella struttura organizzativa delle imprese, furono alla base di una lenta ma continua modifica del diritto del lavoro in tutti gli Stati europei. Tale crisi petrolifera ha causato una serie di rischi a danno dei lavoratori: disoccupazione, perdita della professionalità e riduzione del reddito. L’Italia, dopo l’Irlanda, registrava il tasso di disoccupazione più alto tra i paesi della CEE. Dunque, gli effetti destabilizzanti della crisi hanno determinato l’occasione per rimettere in questione i principi sociali: per esempio, ciò ha condotto all’adozione di meccanismi di protezione prima inesistenti in molti Stati membri, come la tutela contro la disoccupazione involontaria, la tutela economica in caso di insolvenza del datore di lavoro. Questi nuovi elementi di novità sono andati, quindi, via via costituendo uno dei nuclei fondanti del diritto sociale europeo. Parallelamente alla fase di stagnazione con elevati tassi di disoccupazione, in molti degli Stati europei si è posto un particolare accento, in ambito della politica sociale e delle relazioni industriali, sulla democrazia industriale, di cui si è registrato un forte sviluppo. L’intervento maggiore si è avuto con riguardo alla rappresentanza sindacale in azienda, in Italia, in particolare, istituzionalizzata con lo Statuto dei lavoratori; in uno scambio tra governi e organizzazioni sindacali, questi ultimi accettavano le riduzioni salariali e le prestazioni della previdenza, per ottenere in cambio diritti di partecipazione a livello aziendale. Di pari passo allo sviluppo di questa direttiva, si assisteva all’affermazione nell’ordinamento comunitario dei diritti dell’informazione e consultazione delle rappresentanze dei lavoratori in azienda, che erano stati stabiliti dalle direttive sui licenziamenti collettivi e sul trasferimento d’azienda.

Infine, è condivisibile ritenere come l’avvento della crisi economica sia stato un elemento decisivo per lo sviluppo del diritto sociale europeo.

1.3 La crisi economica e la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO)

Il tema delle politiche per l’occupazione assume un ruolo preciso nei Trattati, in cui è riconosciuto come avente rilievo comunitario. In particolare, l’art. 3 del TUE (Trattato sull’Unione Europea del 1992) sancisce l’impegno dell’Unione Europea a perseguire lo sviluppo sostenibile dell’Europa, fondato su una crescita economica equilibrata e sulla

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stabilità dei prezzi per il raggiungimento di un’economia sociale di mercato che tende alla piena occupazione e al progresso sociale. Nonostante tale riconoscimento all’Unione Europea, questa assume una competenza limitata al coordinamento, perché la competenza in materia di politiche dell’occupazione resta agli Stati membri (art. 2, comma 3 TFUE). In questo senso, l’Unione interviene per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati membri: definisce, infatti, gli orientamenti e può prendere iniziative per assicurare il coordinamento delle politiche sociali degli Stati membri. L’azione dell’Unione Europea, una volta chiarito il riconoscimento della sovranità degli Stati membri in materia di politiche per l’occupazione, che preclude di procedere attraverso l’emanazione di fonti vincolanti come direttive e regolamenti, si sostanzia in un metodo alternativo rappresentato dal “Metodo Aperto di Coordinamento”, riassunto nella formula “governance by persuasion”. I suoi tratti caratteristici sono: la definizione di orientamenti dell’Unione rispetto a obiettivi fissati a breve, medio e lungo termine; la determinazione di indicatori quantitativi e qualitativi; la trasposizione e l’attuazione degli orientamenti nelle politiche nazionali e regionali, attraverso la fissazione di obiettivi; lo svolgimento periodico di attività di monitoraggio, verifica e valutazione inter-pares in funzione anche di un reciproco apprendimento. La SEO (Strategia Europea per l’Occupazione) è l’esempio di attuazione di questo metodo normativo alternativo. Gli orientamenti per l’occupazione sono un tipico esempio di soft law comunitaria che, pur non contenendo diritti e obblighi, hanno un’efficacia giuridica di intensità variabile, in grado di condizionare gli Stati membri. I pilastri su cui si basano gli Orientamenti per l’occupazione del 2000 e quelli del 2001 sono quattro: occupabilità, adattabilità, imprenditorialità e pari opportunità. Fondamentale è stato nel 2000 il vertice di Lisbona, che ha fissato l’obiettivo ambizioso di fare dell’Europa “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale” e, in aggiunta, per quanto riguarda gli obiettivi di occupazione, portare il tasso fino al 70%.

Una questione che assume particolare rilevanza nell’ambito del sistema SEO sono le politiche comunitarie di “integrazione negativa”, intese come quell’insieme di misure riguardanti l’abolizione degli ostacoli che “si frappongono allo sviluppo di un mercato

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transnazionale, creando barriere al commercio o restrizioni alla concorrenza”8, fra le quali

emerge il ruolo preminente del Trattato sul divieto di aiuti di Stato alle imprese (art. 87 ss. TCE). Quest’ultimo infatti, può rappresentare rilevanti profili di interferenza con le politiche del mercato del lavoro adottate dalla SEO ed attuate a livello nazionale, traducendosi in un invito alla Commissione a provvedere affinché “il controllo degli aiuti di Stato non ostacoli le misure di politica del mercato del lavoro compatibili con il Trattato”9. Infatti, l’eliminazione di ostacoli alla concorrenza, posto fra gli obiettivi di

carattere generale dell’Unione Europea, determina un forte incentivo per l’occupazione e per tutte le politiche del lavoro. In quest’ottica, il controllo sugli aiuti non solo rappresenta uno strumento di tutela della concorrenza, ma anche di realizzazione di obiettivi comuni di sviluppo fra le differenti politiche nazionali. Ciò ha portato, a partire dagli anni 2000, ad una progressiva espansione degli spazi di deroga al principio del divieto di aiuti di Stato laddove sia finalizzato a favorire forme di occupazione, in particolare di soggetti con maggiori difficoltà a trovare un impiego stabile.

L’art. 107 del Trattato sul Funzionamento dell’UE individua i requisiti che definiscono la nozione di “aiuto di stato”: l’aiuto sia concesso dallo Stato o che comunque siano utilizzate risorse pubbliche; l’intervento determini un vantaggio per delle imprese o comunque per dei soggetti che svolgano attività d’impresa (criterio della selettività, che assume un ruolo centrale nella identificazione di un aiuto illegittimo); l’aiuto falsi la concorrenza; influisca sugli scambi tra gli stati membri. L’art. 108 poi prevede il monitoraggio da parte della Commissione, unitamente agli stati membri, del regime degli aiuti esistenti considerati compatibili con il mercato interno o esterno.

L’obiettivo di bilanciamento tra misure di politica generale e disciplina degli aiuti di Stato è stato raggiunto mediante una costante opera di affinamento delle nozioni di aiuto di Stato e di incentivi ammissibili: a partire dall’elaborazione della Corte di Giustizia e le prese di posizione della Commissione (c.d. soft law), per giungere poi alla creazione di veri e propri regolamenti (c.d. hard law).

8 M. BARBERA, Dopo Amsterdam. I nuovi confini del diritto sociale comunitario, Brescia, Promodis, 2000,

p. 49.

9 Così nel punto 27 delle Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Lussemburgo (20-21 novembre

1997). Al riguardo cfr. in dottrina Ball 2000, p. 92; Ead.2001, p. 363 ss; M. TIRABOSCHI 2002, p. 132 s., 160.

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Su questa linea, la Commissione ha provveduto all’emanazione di regolamenti per formalizzare, consolidandoli, i criteri ispiratori della propria attività di controllo sugli aiuti di Stato. Negli anni 2001-2002, infatti, ha emanato regolamenti di esenzione dall’obbligo di notifica preventiva alla stessa Commissione di misure che potessero configurarsi come aiuti di Stato. Ciò, insieme all’erogazione immediata degli aiuti e all’assenza del nulla osta della Commissione, determina il grande vantaggio

dell’appartenenza alle categorie sottoposte ad esenzione. Fra queste ultime, nello specifico si considerano ancora aiuti di Stato quelli per la creazione di posti di lavoro, per l’assunzione di lavoratori svantaggiati o disabili e quelli volti a coprire i costi supplementari legati all’assunzione di lavoratori disabili. In questi casi si ammette un controllo successivo che determina l’obbligo di conservazione di un registro dettagliato dei regimi di aiuti esentati per un periodo di dieci anni.

Il Regolamento attualmente in vigore è il n. 651/2014, che individua alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno ed esentate dall’obbligo di notifica. Si evincono sostanzialmente due limiti: quelli definiti “valoriali” e riguardano le scelte adottate a livello regolamentare rispetto ai casi in cui opera l’esenzione e quelli quantitativi che indicano i tetti e la misura massima dell’aiuto. In particolare, l’art. 1 individua le

categorie di aiuti esenti da comunicazione alla Commissione e fra questi sono inseriti gli aiuti alla formazione, gli aiuti alle piccole e medie imprese, gli aiuti a finalità regionale e, in materia lavoristica in senso stretto, gli aiuti all’assunzione e all’occupazione di lavoratori svantaggiati e di lavoratori con disabilità.

Un ulteriore regolamento è il n. 1407/2013 relativo ai c.d. aiuti de minimis, che non superano un importo prestabilito e sono concessi ad un’impresa unica10 in un

determinato arco di tempo.

Nonostante gli aiuti determinino una distorsione della concorrenza, si tratta di

alterazioni considerate non contrarie all’interesse comune che consentono di realizzare un bilanciamento di interessi tra le ragioni economiche e gli obiettivi di politiche sociali. Pertanto, la Commissione ha mantenuto una posizione tendenzialmente aperta nei

10 Sul concetto di impresa unica, che fuoriesce dall’economia del presente scritto, v. per tutti

C.E. Baldi, op. cit., 140 ss., che evidenzia come “un gruppo di imprese collegate viene

considerato unico soggetto ai fini dell’imputazione dell’aiuto e dell’applicazione del

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confronti delle forme di aiuto di Stato, che, nell’ambito della SEO, contribuiscono a promuovere l’occupazione.

A livello nazionale, il Governo Renzi ha riorganizzato il sistema di incentivi, già avviato dalla Legge Fornero, che manifesta l’attenzione del legislatore sul profilo di interferenza tra politiche generali occupazionali, affidate ai singoli stati membri, e disciplina degli aiuti di Stato, governata dall’Unione. I Regolamenti da un lato attenuano la rigidità propria della disciplina, e attraverso l’esenzione dall’obbligo di notifica dimostrano la piena compatibilità tra alcune tipologie di aiuti e la disciplina della concorrenza. Dall’altro lato, invece, possono incidere sulla nozione di aiuto. Infatti, laddove una misura sia identificata come aiuto di Stato, risulta inevitabilmente sottratta ai possibili spazi discrezionali delle scelte politiche nazionali che si pongano in contrasto con la normativa europea. Ciò, tuttavia, è smentito dal punto 6 dei

consideranda del Regolamento UE 2015/1588 secondo cui è da escludere una forma di predefinizione di una misura come aiuto se inserita nel Regolamento di esenzione. Ricorrendo ad un’interpretazione (forse eccessivamente) restrittiva, è possibile

affermare un divieto generale per lo Stato nazionale di disciplinare queste materie al di fuori delle indicazioni, dei principi e dei limiti derivanti dallo stesso diritto europeo. Questo comporta che l’inserimento di una misura di incentivi nel Regolamento di esenzione renda difficile negarne la natura di aiuto di Stato.

Parallelamente, politiche occupazionali generali volte, ad esempio, a favorire soggetti che abbiano difficoltà di accesso al mercato del lavoro come i giovani, i quali risultino già tutelati dalla specifica disciplina europea in materia di esenzione dall’obbligo di notifica, non potrebbero concretizzarsi come intervento nazionale che non sia conforme a quella dettagliata disciplina.

Infine, a fronte di un orientamento considerato in linea di principio positivo, gli aiuti di Stato devono limitarsi allo stretto necessario “per realizzare l’obiettivo comunitario che le forze di mercato da sole non consentirebbero di raggiungere”11. Per questo, mediante

il criterio della selettività, si considerano aiuti di Stato quelli tesi a favorire imprese, o gruppi di imprese, o particolari produzioni, o quelli dove comunque è attribuito all’autorità pubblica un potere discrezionale nel concedere un vantaggio. Pertanto, la

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selettività costituisce il criterio fondamentale per distinguere un lecito intervento, rispetto ad un inammissibile aiuto.12

A cinque anni dall’avvio della Strategia europea per l’Occupazione, si è posta la questione di effettuare un riesame della stessa: la Commissione ha ritenuto che nonostante l’attenzione fosse stata incentrata sulla gestione della crescita dell’occupazione piuttosto che sulla gestione della disoccupazione, fosse necessario porre ulteriori e importanti obiettivi. Questa considerazione ha giustificato la modifica successiva apportata al sistema della SEO, introducendo nuove priorità principali: nuovi e migliori posti di lavoro, promozione di un mercato del lavoro solidale. A tal fine la Commissione ha individuato quattro temi principali per la riforma della SEO: la necessità di definire obiettivi chiari connessi alle sfide strategiche; la necessità di semplificare gli orientamenti strategici senza pregiudicarne l’efficacia; la necessità di migliorare la governance e la collaborazione; infine, la necessità di garantire una migliore coerenza e complementarietà con altri processi comunitari.

Nel 2003 si decide di rafforzare il sistema della SEO mediante un processo rafforzato, semplificato e meglio gestito, con un calendario allineato al 2010. Inoltre, si ritiene opportuno razionalizzare i processi di coordinamento delle politiche attraverso dei calendari sincronizzati per l’adozione degli indirizzi di massima per le politiche economiche e degli orientamenti per l’occupazione. In questa ottica è stata apportata una modifica “strutturale” che ha costituito specifiche priorità, coerenti con gli obiettivi della strategia di Lisbona: piena occupazione, qualità e produttività sul posto di lavoro, coesione e integrazione sociale. Tuttavia, resta ancora il limite del lieve coordinamento che sussiste tra politiche economiche e politiche per l’occupazione. Trascorsi cinque anni dall’avvio della strategia di Lisbona si sono registrati risultati modesti rispetto agli ambiziosi obiettivi. Infatti, esiti non pienamente soddisfacenti della Strategia Europea per l’Occupazione, si sono presentati nonostante il fattore innovativo del Metodo Aperto di Coordinamento e le sue potenzialità. Conseguentemente, nel corso degli anni sono stati apportati aggiustamenti all’impostazione della SEO ma senza grandi stravolgimenti, finché un notevole impulso è stato dato dalla crisi economica, che ha spinto l’Unione Europea ad elaborare una nuova strategia chiamata “Europa 2020”, elaborata per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.

12 R. DIAMANTI, Aiuti di Stato, misure generali di politica economica e sociale ed incentivi assunzionali, WP

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1.4 Europa 2020: la strategia europea per la crescita

Sopraggiunta la crisi economica, nel 2010 si è posta la necessità per le Istituzioni comunitarie di semplificare gli indirizzi sottolineando le priorità della nuova strategia: adottare azioni unitarie e coordinate fra gli Stati membri per superare la crisi. Pertanto, sono stati definiti nuovi ambiziosi obiettivi economici e sociali dell’Unione Europea sulla base di una nuova strategia chiamata “Europa 2020”. In particolare, Europa 2020 si concentra sulla volontà di raggiungere un livello di maggiore collaborazione tra l’Unione e gli Stati membri e di rilanciare l’economia. É in quest’ottica che la nuova Strategia è modulata in virtù dei caratteri di specificità nazionali che contraddistinguono i singoli Stati sia dal punto di vista dei diversi livelli di sviluppo che delle diverse esigenze. Sulla base di questo nuovo quadro strategico, sono state individuate tre direttive per la crescita dell’Europa: la crescita intelligente (promuovendo la conoscenza, l’innovazione, l’istruzione e la società digitale), la crescita sostenibile (per una maggiore efficienza e gestione delle risorse al fine di incrementare la competitività dell’Unione Europea) e la crescita inclusiva (incentivando l’accesso al mercato di lavoro, l’acquisizione di competenza e professionalità e la lotta alla povertà). Al fine di raggiungere tali obiettivi la Commissione ha posto cinque priorità per il 2020: il 75% delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro; investire il 3% del PIL dell’Unione Europea in ricerca e sviluppo; raggiungere gli obiettivi definiti dal pacchetto clima-energia 20-20-2013; ridurre il tasso di abbandono scolastico portandolo al di sotto del 10% e fare in modo

che almeno il 40% dei giovani abbiano una laurea o un diploma; diminuire il tasso di povertà del 25%, portando fuori dal rischio di povertà più di 20 milioni di persone. Si nota come la nuova Strategia riguardi sia le sfide a breve termine per fronteggiare la crisi, sia l’esigenza di riforme strutturali con le misure di sostegno alla crescita necessarie per una prospettiva economica futura. Per ciascuno di questi ambiti, ogni paese membro ha adottato propri obiettivi nazionali e, allo stesso tempo, i leader dell’Unione Europea hanno concordato una serie di azioni concrete a livello sia europeo che nazionale intervenendo su sette aeree con priorità. La prima è rappresentata dall’area

13 Si tratta dell'insieme delle misure pensate dall’Unione Europea per il periodo successivo al termine del

Protocollo di Kyoto, il trattato realizzato per il contrasto al cambiamento climatico. In estrema sintesi, prevede di ridurre le emissioni di gas serra del 20%, alzare al 20% la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e portare al 20% il risparmio energetico: il tutto entro il 2020.

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dell’innovazione: mira a migliorare le condizioni e l’accesso ai finanziamenti per la ricerca e l’innovazione, in modo tale da permettere la conversione in prodotti e servizi di idee innovative e stimolare la crescita e l’occupazione. La seconda aerea di intervento è data da una maggiore attenzione posta sulla gioventù, per la quale l’Unione Europea si adopera al fine di garantire una maggiore efficienza dei sistemi di insegnamento e di agevolare i giovani nell’accesso nel mercato del lavoro, anche in altri paesi dell’Unione Europea. In terzo luogo, Europa 2020 pone la sua attenzione anche sull’area digitale, proponendosi di accelerare la diffusione della rete Internet ad alta velocità e delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Un quarto profilo su cui interviene la Commissione, è quello relativo alle risorse: si sostiene un’economia a basse emissioni di CO2, un maggiore ricorso alle fonti energetiche rinnovabili, lo sviluppo di tecnologie verdi e un settore trasporti più moderno. La quinta area di intervento è relativa alla politica industriale per l’era della globalizzazione: gli obiettivi sono quelli di migliorare il contesto in cui operano le piccole e medie imprese e di incentivare una base industriale forte e sostenibile, in grado di innovare e competere a livello mondiale. Sesta area riguarda, invece, un piano finalizzato all’aumento dell’occupazione, attraverso un’azione di modernizzazione dei mercati del lavoro che permetta anche alle persone di sviluppare le proprie competenze; contemporaneamente, si persegue un intervento volto a migliorare la flessibilità e la sicurezza nell’ambiente di lavoro. Infine, con la settima aerea, Europa 2020 si propone di creare una piattaforma europea contro la povertà, garantendo coesione sociale e territoriale e prestando aiuti ai poveri e agli emarginati che gli consentano di accedere al mercato del lavoro.

Uno strumento che favorisce il raggiungimento degli obiettivi così definiti da Europa 2020, è dato dal “semestre europeo”, che permette un forte coordinamento delle politiche economiche nazionali. Si tratta di un periodo in cui ciascuno Stato membro rende noti i programmi delle politiche macroeconomiche, strutturali e dell’occupazione, in modo da condividere le iniziative migliori e individuare in anticipo eventuali problemi. In particolare, ogni Stato membro è tenuto a elaborare due programmi: uno nazionale di riforma e un altro di stabilità o convergenza. Il primo è un’analisi dei progressi compiuti misurati sui parametri della strategia Europa 2020 e, contestualmente, delle iniziative da intraprendere nell’anno seguente per eventuali lacune. Il secondo riguarda invece i programmi di bilancio pluriennali. In quest’ottica, la Commissione rivolge individualmente per ciascuno degli stati destinatari delle raccomandazioni, che verranno

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poi approvate dal Consiglio europeo di giugno e che dovranno conseguire e realizzare entro un determinato periodo successivo.

Le misure attuate in virtù della strategia Europa 2020 sono finalizzate alla creazione in Europa di un ambiente favorevole alla crescita e all’occupazione, perché è attraverso di esse che si consente di mantenere il nostro modello di vita. Pertanto, l’azione della Commissione promuove in modo attivo una crescita intelligente, sostenibile e solidale. Per quanto riguarda il finanziamento della strategia Europa 2020, tutte le iniziative dell’Unione sono finanziate dal bilancio dell’Unione Europea, i cui fondi strutturali erogati agli Stati membri vanno a sostenere le riforme e la creazione di posti di lavoro. Infatti, il bilancio prevede investimenti in tutti gli Stati membri su problematiche comuni, come: sostenere la crescita, creare nuovi posti di lavoro in Europa e rafforzare la posizione dell’Unione Europea a livello mondiale. Più in particolare, dunque, il bilancio dell’Unione Europea non è diretto a finanziare ciò che può essere sostenuto dai bilanci nazionali, bensì si concentra sugli aspetti per i quali i finanziamenti europei possono realmente apportare un valore aggiunto.

L’attuazione delle iniziative prioritarie della strategia Europa 2020 ha portato nel suo complesso a risultati soddisfacenti nelle varie aree di intervento. Per quanto riguarda il mercato del lavoro e i giovani, la Commissione europea ha cercato di accrescere il numero di coloro che conseguono un diploma di laurea e di migliorare la qualità dell’insegnamento. Pertanto, tra le iniziative a livello dell’Unione Europea, emerge quella di una classificazione multidimensionale delle università per informare gli studenti sui corsi a loro più adatti. La Commissione ha poi proposto un nuovo programma, “Erasmus per tutti”, che permette di ottenere sovvenzioni per studiare e seguire corsi di formazione. Inoltre, sono state adottate misure specifiche per indirizzare i giovani verso offerte di lavoro corrispondenti alle loro qualifiche, promosse campagne per incoraggiare i giovani nelle piccole e medie imprese e incentivare un contatto tra essi e il mondo imprenditoriale. Infine, è stata proposta una migliore gestione del Fondo sociale europeo per affrontare la disoccupazione giovanile, in particolare, sostenendo la transizione dalla scuola al lavoro e promuovendo la mobilità professionale dei giovani.

Il monitoraggio della strategia Europa 2020 avviene nell’ambito del semestre europeo, in occasione del quale si riportano i progressi realizzati ogni anno rispetto ai cinque obiettivi quantitativi e alle sette iniziative prioritarie della strategia. Avvicinandosi verso la fine e facendo riferimento ai dati più recenti su ciascun tema di Europa 2020, emerge un quadro a luci ed ombre, che vede, da una parte, progressi sostanziali per quanto concerne gli

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obiettivi in materia di cambiamenti climatici ed energia e buoni risultati nell’area della formazione scolastica; dall’altra, viceversa, si registrano ritardi significativi nel settore della ricerca e sviluppo e nell’azione di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Nel 2016 l’Unione Europea ha superato il target sulla riduzione delle emissioni di gas serra, mentre relativamente all’obiettivo sulla ricerca e sviluppo, nel 2018 è stata raggiunta la percentuale posta come obiettivo dei laureati. Il risultato peggiore riguarda, invece, la riduzione di persone a rischio povertà o esclusione sociale, così come altrettanto distante, anche se in misura minore, appaia il traguardo in materia di lavoro. Infatti, per quanto riguarda l’obiettivo dell’occupazione, sulla base degli ultimi dati raccolti da Eurostat, le statistiche dell’occupazione evidenziano marcate differenze secondo il sesso, l’età e il livello di istruzione conseguito. Tuttavia, per avere una visione completa del percorso dell’Unione Europea verso gli obiettivi 2020, è importante verificare anche i progressi dei singoli stati rispetto ai target nazionali. Sotto questo profilo, notevoli sono le disparità riscontrate tra i mercati del lavoro dei vari Stati membri dell’Unione Europea. Sul tema dell’occupazione, l’Italia ha raggiunto nel corso del decennio una percentuale di occupati tra uomini e donne, pari al 58,4%14. La crescita occupazionale riguarda in particolare gli uomini e i dipendenti superano per la prima volta il livello di 18 milioni di unità.

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Capitolo 2: Flexicurity e previdenza sociale nell’Unione Europea

2.1 I problematici confini di un concetto sfuggente

Il termine inglese “flexicurity”, crasi di “flexibility” e “security”, anche conosciuto nella sua traduzione italiana come “flessicurezza”, lo si ritrova espresso in alcuni documenti ufficiali dell’Unione Europea poco dopo la metà dello scorso decennio. Il primo riferimento compare nelle conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del marzo del 2006, mentre successivamente soltanto alcuni cenni sono espressi nel Libro Verde sulla modernizzazione del diritto del lavoro sempre nel 2006. Ma è nel 2007 che questo termine con la Comunicazione della Commissione è stato consacrato, proprio nei “principi comuni di flessicurezza”. Pertanto, la flexicurity viene adottata dal Consiglio dei Ministri del lavoro di Bruxelles nel 2007 ed è definita come una “strategia integrata volta a promuovere contemporaneamente la flessibilità e la sicurezza sul mercato del lavoro”. Nonostante il termine “flexicurity” compaia ufficialmente nella metà dello scorso decennio, l’obiettivo racchiuso nella nozione stessa trova un riscontro con la Strategia europea dell’occupazione, risalente a circa dieci anni prima. L’opzione della SEO per la flexicurity ante litteram trova conferma e sviluppo negli orientamenti del Consiglio. Prendendo come riferimento i quattro pilastri15 su cui si fondano gli orientamenti della prima fase (che si protrae fino al 2002), due in particolare sono quelli che spingono gli Stati membri a ricercare un equilibrio tra flessibilità e sicurezza: il pilastro dell’occupabilità e quello dell’adattabilità. Nel capitolo “occupabilità” si ritrovano indicazioni piuttosto precise in materia di servizi all’impiego e politiche attive per favorire le transizioni nel mercato del lavoro (sicurezza dell’occupazione). In questa direzione, si fissa per gli Stati membri il compito di garantire un’offerta di lavoro o una misura di politica attiva entro sei mesi ai giovani disoccupati ed entro un anno a tutti gli altri. Si richiede di seguire un approccio individualizzato nei confronti degli utenti dei servizi per l’impiego e di rafforzarne l’attivazione, anche mediante la revisione degli strumenti di sostegno al reddito e della formazione. Si pone poi infine l’obiettivo di incrementare la formazione professionale dei giovani, anche attraverso lo sviluppo dell’apprendistato, e di contrastare l’interruzione precoce dei percorsi scolastici. Ma è soprattutto nel pilastro dell’adattabilità che si concentra il nucleo dell’approccio di

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flexicurity. Fin dai primi orientamenti, infatti, è stato definito l’obiettivo “di rendere le

imprese produttive e competitive e raggiungere il necessario equilibrio tra flessibilità e sicurezza”. Dall’iniziale interesse concentrato sulla gestione flessibile dei tempi di lavoro, si amplia l’enfasi verso nuovi temi, come quello della formazione, della riqualificazione e dell’introduzione di nuove tecnologie. Successivamente con la Strategia di Lisbona nel 2002 si aggiungono “la qualità di lavoro” e “le questioni concernenti la sicurezza del posto di lavoro”16. Allo stesso tempo gli Stati membri sono spinti a prevedere forme

contrattuali “più adattabili”, che rispecchino la crescente diversificazione delle forme di impiego e offrano ai lavoratori “una sicurezza adeguata e uno status occupazionale più elevato, compatibile con le necessità delle imprese”17. Ogni nuova regolazione in materia di lavoro dovrebbe essere valutata considerando la sua idoneità a rimuovere gli ostacoli all’occupazione e ad assecondare l’adattabilità del mercato del lavoro ai cambiamenti economici.

È a partire dagli anni ’90 che in Europa si incomincia a diffondere l’idea che sia necessario trovare nella regolazione del mercato del lavoro, un punto di equilibrio tra le esigenze di flessibilità delle imprese e quelle di sicurezza dei lavoratori. I Paesi che in Europa hanno animato e ispirato i dibatti sulla flessicurezza, sono stati i Paesi Bassi e la Danimarca, che tuttavia rappresentano declinazioni diverse dell’approccio della flexicurity.

È con la legge del 14 maggio del 1998 sulla “flessibilità e sicurezza” (Flexibiliteit en

Zekerheid) che nei Paesi Bassi si interviene con una densa regolazione lavoristica, sia

sugli aspetti individuali che collettivi della disciplina. In particolare, sul versante della flessibilità, la riforma portò da 1 a 3 il numero massimo di proroghe consentite per i contratti a termine, eliminò l’obbligo di autorizzazione per le agenzie di lavoro interinale e ne liberalizzò l’attività18, ridusse il periodo di preavviso per i licenziamenti e in genere

ne semplificò la procedura, conservando però il carattere preventivo del controllo amministrativo e giudiziale. Parallelamente, sul versante della sicurezza, la legge

16 Decisione del Consiglio 2002/177/CE del 18 febbraio 2002 relativa agli orientamenti per le politiche degli

Stati membri a favore dell’occupazione per il 2002.

17 La Risoluzione del Consiglio del 15 dicembre 1997, cit.

18 Eliminando una serie di limiti alla somministrazione: W. VAN OORSCHOT, Flexible work and flexicurity

policies in the Netherlands. Trends and experiences, in Transfer, 2004, cit. 218. Le modifiche alla disciplina del lavoro interinale erano contenute in una legge che fu approvata in parallelo a quella sulla flessibilità e la sicurezza.

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