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Capitolo 2: Flexicurity e previdenza sociale nell’Unione Europea

2.2 Lavoro flessibile e uguaglianza in Italia

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In Italia, l’imprinting europeo della flexicurity ha ispirato l’intervento del Jobs Act che ha inciso sui contratti di lavoro, sulle politiche attive del lavoro e sul sistema di protezione contro la disoccupazione. Ancora prima la legge n. 92/2012 ha proclamato più chiaramente l’obiettivo di realizzare un mercato del lavoro più dinamico, concorrenziale e inclusivo mediante una maggiore facilità di ricorso alle forme contrattuali a tempo determinato, pur tenendo alte le tutele di protezione dei lavoratori. Su questa linea, appare opportuno analizzare come si sia tradotto il lavoro flessibile in Italia, soffermandosi, in particolare sul rapporto con il principio di uguaglianza costituzionalmente tutelato. Non ci sono dubbi sul fatto che il mercato del lavoro, lasciato alle sue spontanee dinamiche, possa condurre all’instaurazione di trattamenti differenziati e disuguaglianze; tuttavia, appare più complesso valutare il caso in cui le disuguaglianze siano originate non dal mercato ma dall’ordinamento stesso, il quale determina differenze di trattamento in virtù della diversità delle situazioni trattate. Ad esempio, attraverso una valutazione etico- politica, emerge un chiaro ed evidente contrasto con l’etica dell’uguaglianza, se si considerasse la condizione di diritto applicata ai lavoratori subordinati con il contratto

standard, ossia l’insieme delle tutele e dei diritti di cui essi sono titolari, le loro condizioni

obbiettive di vita e di lavoro, rispetto alle molteplici altre forme e modalità di contratti di lavoro ammesse dall’ordinamento.

Attualmente, il mercato del lavoro italiano si configura come un mercato “flessibile”, specialmente per quel che riguarda l’entrata nel mercato del lavoro, fermo restando le restrizioni all’uscita del mercato del lavoro da parte dei lavoratori standard e la protezione legislativa per il lavoro a tempo indeterminato. Dall’altro lato, i lavoratori non standard o atipici, il cui livello di flessibilità è molto alto, si configurano all’interno di un ampio spettro di forme contrattuali: co.co.co., part-time, job sharing, job on call, interinali, in somministrazione, ecc., e si caratterizzano per avere livelli di protezione e diritti sociali molto limitati.

In aggiunta, non si può negare che con il ricorso al modello della flexicurity, sia cresciuta la disparità di potere tra le parti contrattuali e, conseguentemente, ciò ha comportato la creazione non solo di una frattura nell’uguaglianza fra i lavoratori, ma anche di determinare un condizionamento negativo rispetto all’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale perseguito dal giuslavorismo italiano. È con la svolta della flexicurity che si è esaurito l’interesse del diritto del lavoro nel promuovere l’uguaglianza; una linea,

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osserva Ridola, «finalizzata (…) allo sviluppo del soggetto considerato nella concretezza della dimensione della socialità»22.

Nel creare differenti condizioni giuridiche per i lavoratori flessibili, i successivi interventi del legislatore italiano sono stati quelli di orientarsi verso una maggiore sintonizzazione con le istanze dei mercati, abbandonando, quindi, la considerazione verso il valore dell’uguaglianza, che invece, nella sua dimensione normativa, si oppone alle divisioni o distinzioni fra uguali.

Se intendiamo per uguaglianza, come principio astratto, l’uguale considerazione da parte dei governanti per la vita di ognuno, come sostiene Dworkin, la condizione dei lavoratori precari (o autonomi, parasubordinati, ecc.) mostra più di qualche problema con l’etica dell’uguaglianza.23 Per giustificare questo stato di cose, non è

sufficiente appellarsi al principio di libertà, che caratterizza le società di mercato. Infatti, alla libertà contrattuale dell’individuo, è possibile contrapporre altri valori, come: la tutela della coesione sociale e delle basi fondanti della comunità, l’esigenza di protezione della democrazia e dello stato di diritto, minacciati dalla condizione di precarietà diffusa nel mercato del lavoro dei paesi occidentali. La precarietà pone dunque, un interrogativo sul versante dell’uguaglianza nei diritti come pure sul versante dell’uguaglianza di carattere sostanziale o materiale. Ferrajoli sostiene, infatti, che la precarietà genera la distruzione delle vecchie forme di soggettività, le quali racchiudono il valore dell’uguaglianza nei diritti, da cui nasce la solidarietà fra uguali24.

Quando si parla di lavoro precario è implicita la svalutazione della condizione lavorativa e professionale, e ciò comporta il disuguale “valore” dei lavoratori, percepiti, appunto, come differenti. È in questa ottica che, nell’ambito della classe generale dei lavoratori e dei produttori, si è determinata una sottoclasse priva dei medesimi diritti, che perciò, può dirsi considerata certamente di non uguale valore. Si presenta, dunque, uno status inferiore e discriminato del lavoro precario, perché dà origine a esclusione.

Nel quadro attuale, appare interessante il tema dell’uguaglianza che si combina con il diritto del lavoro, il quale diviene garante e responsabile di una condizione di uguaglianza nei diritti nel gruppo dei lavoratori subordinati assunti con contratto stabile, a cui si

22 P. RIDOLA, Diritti fondamentali. Un’introduzione, Torino, Giappichelli, 2006, p. 131. 23 R. DWORKIN, Sovereign Virtue: The Theory and Practice of Equality, 2000, p. 133. 24 L. FERRAJOLI, Manifesto per l’eguaglianza, Roma-Bari, Laterza, 2018, p. 127.

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contrappongono in senso discriminatorio, gli altri lavoratori non appartenenti a questo gruppo. Le politiche di flessibilità, in particolare, hanno determinato, in sostanza, una vera e propria discriminazione a danno dei lavoratori precari. Questo è possibile notarlo, ad esempio, nei confronti del lavoratore assunto con contratto di lavoro di breve durata, o nei confronti del lavoratore autonomo, coordinato o a progetto, oppure al part-timer involontario, o ancora al lavoratore somministrato a termine: tutti casi in cui emerge una svalutazione del principio di uguaglianza.

Su un altro versante, si consideri, invece, l’uguaglianza nei diritti come una delle grandi conquiste del diritto del lavoro, prescindendo dal tipo di contratto, dal luogo di lavoro, dal settore e dall’azienda, dal posto occupato nella produzione, dalla condizione personale e di genere, tutte condizioni irrilevanti al fine dell’attribuzione dei diritti ad opera della legge e del contratto collettivo. Oggi, nella stagione della flessibilità, d’altra parte, proprio la natura o il tipo di contratto di lavoro, rappresentano i principali indici della differenza di condizione e/o di status. In un quadro di questo tipo, si vede come, ad esempio, la stessa condizione di lavoratore subordinato, rappresenti un fattore di discriminazione piuttosto che di parificazione dei diritti. Il contratto di lavoro mette così in luce una contraddizione logica rispetto all’universalismo dei diritti.

I lavoratori precari sembrano avere gli stessi diritti degli altri lavoratori, ma la discriminazione in realtà è solo occultata: il lavoro determina, conseguentemente, un contesto discriminatorio fra uguali. Nella visione di un lavoro flessibile, è lo stesso ordinamento che attraverso il diritto del lavoro, il quale aveva posto come obiettivo principale il bilanciamento della disparità di potere fra le parti contrattuali e l’uguaglianza fra lavoratori, crea discriminazioni modellate su stereotipi e dà impulso alle disuguaglianze. Queste ultime si riscontrano, ad esempio, nelle figure del lavoratore parasubordinato, del lavoratore occasionale, che tuttavia, individuano una stessa prestazione di lavoro personale e continuativa nell’interesse altrui.

Tutto ciò si esplica mediante una relazione imprescindibile tra “welfare” e “lavoro”, e in particolare tra “tutela della disoccupazione” e “diritto del lavoro”, perché sussiste una relazione di complementarietà tra tutele giuslavoristiche (“dentro” il rapporto di lavoro) e tutele di welfare (“fuori” il rapporto di lavoro). Infatti, un intervento di welfare a tutela della disoccupazione e diritto del lavoro sono comunque accomunati dal medesimo obiettivo di tutela del soggetto-lavoratore, nonostante riferiti a situazioni diverse (i periodi lavorativi, per quanto riguarda la normativa giuslavoristica; quelli di non-lavoro, per quanto riguarda le misure protettive della disoccupazione). Posto che è necessario

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considerare la tutela del lavoratore in termini di “globalità” professionale e non, la tutela contro la disoccupazione non può più essere concepita e modulata sulla base del solo rapporto di lavoro stabile e a tempo pieno e indeterminato; ciò a favore delle tipologie contrattuali flessibili e/o “alternative” che portano inevitabilmente ad una alternanza fisiologica tra lavoro e non-lavoro.

A queste critiche, infine, si obietta che, in realtà, il diritto del lavoro è stato oggetto di cambiamento piegandosi alla flessibilità, alla luce della società dei servizi post-industriale e dal mondo delle imprese e della concorrenza internazionale che hanno comportato una revisione del sistema dei diritti del lavoro e l’introduzione, quindi, di modelli flessibili. Dall’altra parte, si può controbattere a queste obiezioni, che resta comunque l’ordinamento a decidere il perimetro dell’uguaglianza, ovvero quale siano le disuguaglianze che possono essere trascurate. Questa decisione non può essere lasciata allo sviluppo dell’economia, infatti rientra sempre nella responsabilità del legislatore le scelte sulla misura e sul grado del rispetto dell’uguaglianza nei rapporti giuridici.