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Tutela statale degli assets strategici e integrazione sovranazionale: un binomio possibile?

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Economia e Management

Tesi di Laurea Magistrale

in

Strategia, Management e Controllo

a.a. 2016-2017

Titolo:

Tutela statale degli assets strategici e

integrazione sovranazionale:

un binomio possibile?

Autore:

Alessandro Gabrielli

Matricola: 495023

Relatore: Correlatore:

(2)
(3)

“Legum omnes

servi sumus

ut liberi

esse possimus.”

(4)

Indice

Introduzione

6

Capitolo 1. L’interesse pubblico e le ragioni dell’intervento dello Stato

nell’economia

1.1 Etimologia dell‟interesse pubblico: una lunga storia tra filosofia e diritto 7

1.2 L‟interesse pubblico nel pensiero Ordoliberale 10

1.3 Il carattere “bifronte” della normativa comunitaria tra liberalizzazioni e

neoprotezionismi 12

1.4 Genealogia e fenomenologia dei “poteri speciali” 17

Capitolo 2. “Ratio et discretio” nelle golden shares, tra varietà e

modularità di casi nazionali

2.1 Dalla Golden Share ai Golden Powers: evoluzione della normativa italiana

sui “poteri speciali 19

2.1.1 Le privatizzazioni in Italia 19

2.1.2 La “golden share” italiana: esegesi di un istituto controverso 22 2.1.3 Evoluzioni ed involuzioni dell‟azione “d‟oro” tra interesse

nazionale e limiti sovranazionali 25

2.1.4 (segue): dal D.P.C.M del 11 febbraio 2000 al d. l. n. 10 del 2007 26 2.1.5 Non è tutto “golden” quel che luccica: la critica della

giurisprudenza comunitaria nei confronti della normativa italiana 28

2.1.6 La Riforma Monti e l‟ascesa dei golden powers 29

2.1.6 (segue): i golden powers 31

2.1.6 (segue): Golden powers, principi comunitari e investimenti esteri: il tentativo (difficile) di realizzare uno strumento ultra-selettivo di

(5)

2.1.7 La valutazione dei piani industriali nell‟ambito dei golden powers 39 2.1.8 Gli investimenti esteri negli Stati Uniti d‟America: un caso analogo 44

2.2 La Golden share in Europa: un‟analisi comparata 45

2.2.1 Il modello britannico 46

2.2.2 Il modello francese (e belga) 49

2.2.3 Il tertium genus iberico 52

2.2.4 Il modello tedesco 53

2.3 Le “golden share” nel panorama comparato extra-comunitario 55

Capitolo 3. Corporate Governance e Interesse pubblico nazionale

3.1 I nuovi “mosaici” societari tra poteri speciali e nuove forme di partecipazione sociale: l‟obsolescenza del concetto di “socio-azionista” 57 3.2 I Poteri Speciali e la massimizzazione del valore azionario 61 3.3 I Poteri Speciali e la distorsione del meccanismo agente-principale: il ruolo

dell‟intelligence economica

68

3.4 Sulla natura giuridica del potere di veto dello Stato: atto di natura

amministrativa o strumento di rilevanza societaria? 73

3.5 Sulla natura giuridica del potere di opposizione dello Stato 78

3.6 Il caso Telecom – Vivendi 81

3.6.1 L‟ingresso di Vivendi nella governance di Telecom 82

3.6.2 Effetti organizzativi-societari relativi all‟esercizio dei golden power

in Telecom Italia 87

Capitolo 4. La golden share “illegittima”

4.1 Le golden shares al vaglio della Corte di Giustizia dell‟Unione Europea 89 4.2 La tesi interpretativa dell‟Avvocato Colomer : il “principio di neutralità” 98 4.3 La tesi interpretativa dell‟Avvocato Maduro: il “principio di coerenza 100 4.4 Effetti di una qualificazione pubblicistica della fattispecie sul piano della 101

(6)

giurisprudenza comunitaria: la golden share come “misura nazionale” 4.5 Effetti di una qualificazione privatistica della fattispecie sul piano della

giurisprudenza comunitaria: la golden share come “atto di autonomia

negoziale” 104

4.6 Le golden shares e le libertà fondamentali dell‟Unione Europea 107 4.6.1 “Disposizioni discriminatorie e non discriminatorie” della libertà di

circolazione dei capitali: il modello della Commissione Europea 109

4.6.2 Restrizioni sulla libertà di stabilimento 112

4.6.3 Il fallimento della Direttiva europea sulle acquisizioni 112

Capitolo 5 – La golden share “virtuosa”

5.1 L‟ “eccezione” belga 115

5.2 I Pouvoirs spèciaux de Belgique come ideal-tipo di “golden share virtuosa”: le argomentazioni della giurisprudenza comunitaria 117

5.3 La golden share e le esigenze di pubblica sicurezza 119

5.4 La golden share e il “principio di proporzionalità e ragionevolezza” 121 5.5 La golden share e i Servizi di Interesse Economico Generale 125

Capitolo 6 – La golden share “europea”

6.1 L‟Unione Europea tra armonizzazione legislativa e regulatory competition 129

6.2 L‟ipotesi di una “golden share comunitaria” 132

Bibliografia

134

(7)

Introduzione

Il presente elaborato, partendo da un'introduzione di tipo teoretico sul tema dell'interesse pubblico, prosegue nello studio dell'evoluzione normativa nazionale relativa al tema dei poteri speciali esercitabili dallo Stato a protezione delle "imprese strategiche". Dopo una breve riflessione sulla portata del processo di privatizzazione nel nostro Paese e sugli effetti che il medesimo ha prodotto sulla corporate governance di alcune rilevanti realtà aziendali, viene ricostruito, nelle sue linee essenziali, il percorso normativo che, dalla legge 474/1994 sino alla legge 56/2012, ha portato al consolidamento dell'istituto della Golden Share. Enfasi particolare è stata posta sulla Riforma Monti e sull'affermazione del modello dei Golden Powers. La disciplina italiana è stata poi oggetto di un confronto con quella di altre realtà nazionali, quali, a titolo esemplificativo: l'"Action specifique" francese e la "One Pound, One Share" inglese. Vengono infine esaminati i principali orientamenti della giurisprudenza comunitaria in materia e la conciliabilità dell'istituto della golden share con le libertà fondamentali dell'Unione Europea.

(8)

Capitolo 1 – L’interesse pubblico e le ragioni dell’intervento

dello Stato nell’economia

SOMMARIO: 1.1 Etimologia dell‟Interesse Pubblico: una lunga storia tra filosofia e diritto; 1.2 L‟Interesse Pubblico nel pensiero Ordoliberale; 1.3 Il carattere “bifronte” della normativa europea tra liberalizzazioni e neoprotezionismi; 1.4 Genealogia e fenomenologia dei “poteri speciali”.

1.1 Etimologia dell’interesse pubblico: una lunga storia tra filosofia e

diritto

Il tema dei “poteri speciali”, oggetto di trattazione di questo elaborato, non può non partire da una disamina, seppur dai tratti generali e sintetici, dell‟evoluzione del significato di “Interesse Pubblico” nel corso della storia e nell‟ambito delle diverse tradizioni filosofiche. Tale analisi sarà funzionale, in subiecta materia, alla realizzazione di un profilo di maggior consapevolezza, essendo difatti il tema della nostra trattazione uno di quei casi in cui viene invocato quell‟evanescente e tanto discusso concetto di “Interesse Pubblico”(1

).

Il termine “interesse” è, come noto, accostato all‟idea di un vantaggio di “parte” contrapposto ad un senso di giustizia più ampio; il suo significato originario è riconducibile precipuamente alla sfera economica, dove l‟interesse stava ad indicare lo “svantaggio dal punto di vista del debitore e un vantaggio agli occhi del creditore”, per poi assumere significati più tecnici e specifici in determinati contesti territoriali. In Germania, ad esempio, l‟”interesse”, riferito con il termine di wergeld(2

), indicava il

(1) Per un‟approfondita analisi dell‟evoluzione teoretica del concetto di interesse pubblico si rimanda agli scritti di: BIT ONT I A., (2011), Considerazioni teoretiche sul concetto di Interesse Pubblico, Tesi di Dottorato in Scienze Politiche, Università degli Studi Roma 3;COCHRAN C. E., (1974), Political science

and “The public interest”, The Journal of Politics, pp.327-355; CASSINELLI C.W.,(1958), Some reflection

on the concept of public interest, Ethics,pp.48-61

(2) Il wergeld, anche noto in italiano come guidrigildo, rappresentava nel diritto penale di alcune popolazioni germaniche quella congrua indennità, commisurata sovente in termini monetari, idonea a risarcire il danneggiato e i suoi parenti. Tale istituto, particolarmente in uso in Italia, venne introdotto sotto la dominazione longobarda con l‟Editto di Rotari nel 643. Per un maggior approfondimento di tale istituto si veda, ex multis, AZZARA C.,GASPARRI S.,(2005), Le leggi dei longobardi. Storia, memoria e

(9)

prezzo pagato per il proprio riscatto da un crimine o da un danno inflitto; in altri casi ancora esso identificava un “tributo di reciprocità” che veniva pagato per entrare a far parte di un gruppo o di una confraternita legata da obiettivi comuni. Quest‟ultima impostazione, che riconduce il concetto di interesse a quello di “mezzo per” essere parte di un gruppo, è sopravvissuta nel corso del tempo, dal momento che anche alcuni dei maggiori esponenti della group theory moderna affermano che “there is no group

without its interest. An interest is the equivalent of a group”(3).

Il concetto di “pubblico”, sospeso invece tra una dimensione “oggettiva” e una “soggettiva”(4

), fu oggetto di un approfondito studio condotto da Jurgen Habermas nel 1962(5), che attraverso un‟analisi storica osserva come la “sfera pubblica politica” si sia affermata superando la “sfera pubblica rappresentativa”, propria dell‟età medievale e dell‟ancien regime, con la comparsa di nuovi modi di circolazione delle merci e delle informazioni(6).

Accostando i due concetti è possibile prendere atto, come avrebbe affermato Ornaghi(7), della “natura proteiforme” del concetto di interesse. Esso infatti pare oscillare tra una “dimensione individuale” ed una di tipo “collettivo/universale”.

La prima concezione, detta “sostantiva”, è così chiamata per il fatto di individuare una

substantia dell‟interesse pubblico, secondo un‟accezione essenzialista e con connotati

tipici del sapere scientifico (criterio oggettivo)(8). La seconda concezione, nota invece come “aggregativa”, si fonda, a contrario, su basi teoretiche per alcuni aspetti

(3) Cfr. BENT LEY A.F., (1908), The process of government; a study of social pressures, The University of Chicago Press.

(4) Per nozione soggettiva di “pubblico” si fa riferimento generalmente al complesso delle istituzioni statali oppure al gruppo di riferimento di un‟opera artistica o di un atto di rappresentazione. La nozione oggettiva enfatizza al contrario definizioni più astratte ma di grande rilevanza nell‟uso comune, si pensi ad esempio alle espressioni “assemblea pubblica”, “opinione pubblica”, “pubblicità dell‟azione di parte o del governo” (cfr. BIT ONT I A., (2011), op. cit, pp. 49-65).

(5) Lo studioso di Dusseldorf è noto per aver elaborato il concetto di offentichk eit, letteralmente “ ciò che costituisce il fatto pubblico”. Nella sua opera, tradotta in italiano come “Storia e critica dell’opinione

pubblica”, fornisce un‟analisi diacronica dell‟elemento pubblico,consentendone di apprezzare la sua

evoluzione dell‟epoca feudale-medievale fino ai giorni nostri. Si rimanda alla sua opera originale: HABERMAS, Jurgen, (1962), Struck turwandel der offenlichk eit. Untersuchungen zu einer Kategorie der

burgerlichen Gesellschaft

(6) BIT ONT I A., (2011), op. cit., pp. 65-72

(7) Cfr. ORNAGHI L. (cur.), (1984), Il Concetto di “Interesse”: antologia, Milano; ORNAGHI L., (1996),

Interesse, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, vol. V, pp. 38-45

(8)BIT ONT I A. ( Cfr. ut supra, pp. 138-143 ) ha in particolare individuato come da una siffatta idea di interesse pubblico ne derivi che: a) se esiste un criterio “oggettivo” che ci consente di concepire essenzialisticamente la sostanza dell‟Interesse Pubblico, è allora logico supporre che tale sostanza non sia appannaggio di tutti gli uomini, ma solo di coloro che saranno in grado di coglierla, conquistando in tal modo un posto privilegiato nella comunità politica di riferimento;b) l‟accezione di “Pubblico”, di conseguenza, non sarebbe riconducibile a quella di una società politica di individui singoli che assumono il ruolo fondamentale di cittadini, ma piuttosto di un corpo che può essere studiato secondo una prospettiva organicistica e olistica.

(10)

antitetiche a quelle della teoria sostantivista prima richiamata, negando l‟esistenza di un Interesse Pubblico di per sé, e affermando come esso nasca al contrario dalla somma di interessi individuali(9). Alle due impostazioni ora richiamate si è poi affermata una terza concezione idealtipica di Interesse Pubblico, detta “procedurale”. Essa, per utilizzare le parole di Bitonti(10), “cerca di superare la maggior parte delle obiezioni poste sia a quella sostantiva che a quella aggregativa, in realtà salvando alcuni elementi dell‟una e dell‟altra, ma coniugandoli in maniera alquanto diversa”. Si potrebbe dire che “ l‟attenzione si sposta dalle decisioni che vengono prese dai migliori governanti o che derivano dall‟incontro/scontro degli interessi individuali al processo decisionale stesso”. Il riferimento va quindi all‟aspetto procedurale del lawmaking, che nel campo della democrazia potrebbe essere interpretato come il “processo democratico” stesso.

In definitiva le tre concezioni di Interesse Pubblico(11), qui richiamate, non eliminano le difficoltà ermeneutiche del fenomeno oggetto d‟analisi, ma ci consentono comunque di disporre di tre archetipi interpretativi particolarmente utili nel sondare l‟evanescenza di questo termine, il cui utilizzo è in verità abbastanza ampio e quasi mai circoscritto nella prassi politica.

(9) Questa concezione di Interesse Pubblico si ricollega in ultima istanza alle premesse politologiche di Arthur Fisher Bentley e David Truman e trova uno dei suoi fondamenti filosofici nell‟etica utilitaristica benthamiana o nella concezione di economia smithiana ne lla quale l‟ “equilibrio economico” è individuato come l‟esito spontaneo di un “gioco” di interessi personali.

(10) Cfr. BIT ONT I A., (2011), op. cit., pp. 143-145.

(11) E‟ da notare, ad onor del vero, che pur essendoci soffermati in questa sede ad analizzare la triade “sostantiva- aggregativa –procedurale”, la dimensione del fenomeno oggetto di analisi è in realtà assai più complesso. Numerosi infatti sono gli schemi idealtipici di Interesse Pubblico avanzati nel corso del tempo. Si ricordano, a titolo puramente esemplificativo, le varie accezioni di Interesse Pubblico individuate da Frank J. Sorauf (Cfr. SOURAF F. J., (1962), The public Interest Reconsidered, “ The Journal of Politics”, 19(4), pp. 616-663), il quale identifica: a) l‟Interesse Pubblico come valore comunemente accettato (visione tendenzialmente maggioritaria);b) l‟Interesse Pubblico come Interesse Superiore di saggezza rispetto agli interessi contrastanti;c) l‟Interesse Pubblico come Interesse Morale;d) l‟Interesse Pubblico come equilibrio di interessi;e) l‟ Interesse Pubblico indefinito (“ a political je ne sais

quoi”). Parimenti Gerhart Niemeyer (Cfr. NYEMER G., (1962), Public Interest and Private Utility, in

FRIEDRICH C. J., The Public Interest, New York, pp.1-13) sottolinea come sia possibile ravvisare quattro distinte concezioni di Interesse Pubblico, cronologicamente e culturalmente distinte, in base alla relazione tra autorità pubblica e utilità privata. Due di queste, quella c.d” dikaio-noetica” e quella

“agostiniana-tomistica”, sono accomunate dal concepire l‟autorità pubblica come orientata all‟intelletto e allo spirito;

le altre due invece, quella “edonomica” di derivazione liberale e quella “ polemonomica” di derivazione marxiana-leninista, sono caratterizzate dall‟analisi del fenomeno entro una prospettiva materialista. Per una lettura più approfondita delle diverse concezioni tipologiche di Interesse Pubblico si rimanda all‟opera diBIT ONT I A., op. cit., pp. 120-123.

(11)

1.2 L’interesse pubblico nel pensiero Ordoliberale

Rivolgendo momentaneamente l‟analisi al caso italiano non è difficile osservare come la portata dell‟intervento pubblico nell‟economia, variamente giustificato e promosso nel corso del tempo, rappresenti un tratto distintivo della storia economica del nostro Paese, al punto tale da poter affermare che la nostra fu, in un tempo piuttosto recente, l‟economia “non pianificata” con la più vasta partecipazione e ingerenza statale.

Tale interventismo, largamente caldeggiato in epoca fascista(12), non poté non influenzare l‟Assemblea Costituente la quale, riunitasi all‟indomani della seconda guerra mondiale per redigere il nuovo testo costituzionale, cercò di mediare tra le richieste di chi voleva “più mercato” rispetto a quelli che erano interessati a preservare una centralità dello Stato nella vita economica (13). Non rappresenta quindi un caso, se vogliamo per un momento indossare gli “occhiali” dello storico, che la Costituzione Italiana incoraggi nel suo disegno economico una economia sociale di mercato. Tale concezione fu ispirata dalla soziale marktwirtschaft, teorizzata e messa in atto dall‟ “Ordoliberalismo” della Scuola di Friburgo raccolto attorno a Walter Euchen per elaborare una via tedesca al liberalismo(14). La tradizione ordoliberalista enfatizza

(12) Cfr. AMAT ORI F. e COLLI A., op. cit., pp. 171-182; COPPINI R. P., NIERI R. e VOLPI A., (2005),

Storia Contemporanea, Pisa, pp. 317-332; ZEMAGNI V., (2007), Introduzione alla storia economica d‟Italia, Bologna, pp.100-116; TONIOLO G., (1980) ,L’economia dell’Italia fascista, pp. 113; PIZZORUSSO A., (1981), Lezioni di Diritto Costituzionale, seconda edizione, Roma, pp. 60-71. Per ulteriori approfondimenti sull‟argomento si rimanda alle seguenti opere: GUALERNI G., (1976), Industria e

fascismo. Per una interpretazione dello sviluppo economico italia no tra le due guerre, Milano;

MELOGRANI P., (1980), Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al

1929, Milano; SART I R., (1977) Fascismo e grande industria 1919-1940, Milano; TONIOLO G.,(1980),

op. cit.; SAPELLI G., (1978), Organizzazione, lavoro e innovazione industriale nell’Italia tra le due

guerre, Torino.

(13)Cfr. PIZZORUSSO A., (1981), La formazione e l’evoluzione dello Stato Italiano:L’elaborazione della

Costituzione e le vicende della sua attuazione, in op. cit, pp. 82-90; si osservi invece per quanto concerne

la parte relativa alla “costituzione economica”: PIZZORUSSO A., (1981), Il principio di tutela del lavoro.

La “costituzione economica”, ut supra., pp. 164-179; CARET T I P. e DE SIERVO U.,(2012), Diritto

Costituzionale e Pubblico, Torino, pp. 77

(14) Cfr. LUPO M., (2013), Le golden shares e l’evoluzione dell’intervento pubblico nell’economia e nel

Diritto dell’Unione Europea, tesi di laurea, LUISS “Guido Carli”, pp. 5-9, visibile sul online:

http://tesi.eprints.luiss.it/9538/1/lupo-tesi-2013.pdf

Come ricorda MESINI, nell‟ambito di una disamina attorno al pensiero ordoliberale, Walter Eucken (1891-1950), fu professore di economia politica a Friburgo dal 1927, dove conobbe Husserl; nel 1936 fondò la rivista “Ordo”, da cui deriva il nome “ordoliberalismo”. Attorno a tale rivista si riunirono tutti quei giuristi ed economisti che durante gli ultimi anni della Repubblica di Weimar siopponevano all‟adozione di misure di tipo keynesiano e durante il Terzo Reich alla politica economica di Hjalmar Schact. Eucken non scelse la strada dell‟esilio e rimase silenzioso in Germania, continuando ad insegnare a Friburgo fino a quando nel 1948 divenne il più importante dei consiglieri scientifici riuniti attorno a sé dall‟economista Ludwig Erhard. Quest‟ultimo durante gli anni del regime nazista aveva tenuto un profilo politico molto modesto e si era dedicato a ricerche di carattere economico. Nel 1948 divenne Direttore dell‟amministrazione dell‟economia per il settore anglo-americano nella Germania occupata. Il consiglio

(12)

infatti rispetto alle tipiche visioni liberali il ruolo dello Stato quale forte attore nell‟economia e in concreto la sua funzione di definire regole e limiti della concorrenza (c.d funzione antitrust dello Stato). Essa cerca di porsi in definitiva come visione alternativa sia al liberismo astensionista (anche noto come “anarco-capitalismo”), sia all‟impostazione socialdemocratica o addirittura controllata e pianificata dell‟economia(15

). All‟Ordoliberalismo sono da attribuirsi numerosi elementi di novità rispetto alle precedenti impostazioni teoriche, tra queste: a) l‟introduzione all‟interno dell‟impianto teorico liberale dell‟elemento istituzionale (prima del tutto estraneo o quanto meno poco trattato); b) la contestazione di un interventismo paternalista “a tutti i costi”, ma comunque il richiamo ad un certo intervento pubblico nei settori ad elevata rilevanza socio-economica; c) l‟introduzione di una connessione tra impianto economico e valori democratici, oltre all‟idea che la concorrenza rappresenti un bene comune indispensabile per il benessere e lo sviluppo collettivo(16). Il pensiero ordoliberale, ora richiamato, non fu rilevante solamente nello strutturare le fondamenta teoriche della carta costituzionale italiana, ma anche ,e soprattutto, quelle dei Trattati dell‟Unione Europea. In tale contesto si cercò infatti di realizzare quel delicato equilibrio architetturale tra democrazia, free trade e coesione sociale, assurgendo la “concorrenza” e il “mercato” a paradigmi-guida delle scelte politiche e legislative europee. In un primo momento poteva sembrare che i Trattati comunitari aprissero la strada a quella che Merusi avrebbe denominato “una spontanea rivolta del mercato”(17),

scientifico (Wissenschaftlicher Beirat) da lui radunato delineò i principali orientamenti della politica economica della futura Germania, la cosiddetta “economia sociale di mercato” (primato della politica monetaria e della politica di sviluppo, allineamento dei prezzi sull‟offerta delle merci, ripartizione equa e graduale dell‟aumento del benessere). Deputato cristiano-democratico per la CDU, nel 1951 Adenauer lo scelse come Ministro dell‟Economia. Erhrad verrà per questo considerato negli anni seguenti il padre del miracolo economico (Wirtschaftswunder) tedesco. Nella commissione scientifica riunita da Erhard figurano anche Franz Böhm (1895-1977), giurista e docente a Friburgo e allievo di Husserl, Alfred Müller-Armack (1901-1978) storico dell‟economia, anch‟egli professore a Friburgo, segretario di stato di Ludwig Erhard e uno dei negoziatori del trattato di Roma nel 1957. Tra gli altri vi erano Alexander Rüstow (1885-1963) e soprattutto Wilhelm Röpke (1899-1966). Tutti questi studiosi e professori, riuniti attorno alla rivista “Ordo” e nel consiglio scientifico voluto da Erhard, svilupparono i concetti principali di quella corrente di pensiero che noi oggi chiamiamo “ordoliberalismo” e, su tali basi, posero le fondamenta della costituzione economica della Repubblica Federale Tedesca. Non solo, ma a partire della concezione ordoliberale dell‟economia, della società e del loro governo è stato delineato e pensato il quadro giuridico proprio dell‟Unione Europea (Cfr. MESINI L., (2016), L’ordoliberalismo:

un’introduzione alla Scuola di Friburgo, Pandora. Rivista di Teoria e Politica). Si consulti il sito:

https://www.pandorarivista.it/ per una migliore analisi della tematica.

(15) Per un approfondimento del pensiero ordoliberale si consulti: RAZEEN S., L’ordoliberalismo e il

mercato sociale.Il liberalismo che salvò la Germania , in IBL Occasional Paper, nº 89, Istituto Bruno

Leoni, 10 dicembre 2012.

(16) Cfr. LUPO M., op. cit., pp. 6-10

(17) Cfr. MERUSI F., (1993) , Considerazioni generali sulle amministrazioni indipendenti, in BASSI F., MERUSI F., (a cura di) Mercati e amministrazioni indipendenti, Milano

(13)

la quale avrebbe contribuito a influenzare la costituzione dei vari Paesi in senso maggiormente liberale e concorrenziale. A riprova dell‟interesse europeo verso l‟ “apertura dei mercati” vi è anche il fatto che nel testo della Costituzione per l‟Europa, poi miserabilmente naufragata(18), la concorrenza era identificata come uno degli obiettivi principali dell‟Unione e come tale da promuovere ed agevolare indistintamente in tutto il perimetro comunitario. Questa iniziale enfasi fu tuttavia smussata da una diffidenza dilagante ed uno scarso entusiasmo verso quella che doveva essere una “Europa dei mercati”. Da segnalarsi in questo senso la condotta avversativa tenuta a più riprese dalla Francia. I francesi infatti non solo si resero partecipi, assieme ai cittadini olandesi, di un referendum popolare che decretò il fallimento del progetto di Costituzione per l‟Europa(19

), ma promossero a più riprese un atteggiamento impeditivo verso le aperture concorrenziali dell‟Unione. Simbolica fu ad esempio la richiesta, poi assecondata, da parte del Governo francese, durante i negoziati pre-Lisbona, di eliminare la tutela della concorrenza dai mezzi dell‟Unione e inserirla in un apposito protocollo, il Protocollo n.27, dedicato alla concorrenza e al mercato(20).

1.3 Il carattere “bifronte” della normativa comunitaria tra

liberalizzazioni e neoprotezionismi

Analizzando il fenomeno delle privatizzazioni secondo una prospettiva di global

history, risulta lecito affermare che gli anni ‟80 rappresenarono, pur con alterne vicende,

un periodo particolarmente “fecondo” per l‟affermazione dei privati sui mercati di numerosi Paesi, riducendo oltremodo la presenza pubblica nell‟economia. Il fenomeno delle privatizzazioni si presenta tuttavia come caleidoscopico e multiforme,

(18 ) Per un approfondire le vicende che hanno portato al fallimento del progetto di una Costituzione per l‟Europa si richiamano: PACINOT T I E., (2003), La Costituzione europea. Luci e ombre; CASSESE S., (1993), L’architettura costituzionale della Comunità Europea dopo Maastricht e il posto dei poteri locali, in “Regione e Governo locale”, n. 1-2, pp. 3-17; ZILLER J., (2004), La Nuova Costituzione Europea; LUCARELLI A. e PAT RONI GRIFFI A., (2003), Studi sulla Costituzione Europea. Percorsi e ipotesi, “Quaderni della rassegna di diritto pubblico europeo”, n. 1.

(19) La vittoria del “NO” in Francia è da imputarsi principalmente al convergere di un‟ampia opinione pubblica contraria al progetto costituzionale che ha tuttavia avuto come c apisaldi gli ambienti cattolici e lebrefiani, quelli della Sinistra radicale, del Fronte Nazionale nonché gli ambienti, seppur minoritari, dei

no global e pacifisti.

(20)E‟ interessante osservare come la scelta operata dalla Francia abbia avuto una valenza solamente simbolica dal momento che l‟art.51 TUE prevede che “I protocolli e gli allegati ai trattati ne

(14)

difficilmente riconducibile ad una lettura unitaria. Ciò risulta particolarmente vero a seguito di ricerche dall‟approccio comparato(21) che hanno permesso l‟emergere di numerosi aspetti di divergenza e contingenza di questo evento, il quale non può che ancorarsi su determinanti storiche e culturali dal lascito particolarmente pervasivo e suscettibili di frammentare il fenomeno delle privatizzazioni in un “mosaico” dai tratti non sempre affini. Nel Regno Unito, ad esempio, la vicenda delle privatizzazioni fu non soltanto vasta per numero ma anche per modalità e dai tratti quasi sempre dirompenti. Il tema delle privatizzazioni divenne infatti spesso ,“ oltre Manica”, uno strumento da utilizzare come “leva elettorale” grazie all‟introduzione di cospicui incentivi quali l‟underpricing ( 22

) o i loyalty bonus share(23). E‟ importante precisare, sul piano della tecnica, che le privatizzazioni in Regno Unito hanno avuto come base giuridica un atto pubblico di carattere normativo, ossia uno Statute. Tale Statute delegava poi al

Secretary of State la definizione delle concrete modalità di dismissione dell‟azionariato

pubblico(24)

In Francia, al contrario, il processo di privatizzazioni fu tardivo rispetto alla Gran Bretagna(25) e riguardò quasi esclusivamente imprese già operanti in regimi concorrenziali, quali il chimico e il creditizio, e non in regimi regolamentati o monopolistici. Il caso francese si caratterizzò inoltre per alcuni elementi peculiari,

(21) Significativi, tra i tanti, i contributi di: NICO A.M., (2000), Concordanze e dissonanze nei processi di

privatizzazione nei paesi dell’Unione Europea: il caso spagnolo e italiano , in Rivista di diritto pubblico

comunitario; CHEST ER M. , GUACCERO A. e PAN E. J., (2005) Investimenti stranieri e fondi sovrani:

forme di controllo nella prospettiva comparata USA-Europa, Rivista delle società, Commission of

European Union (Staff Working document), Special rights in privatized compagnie in the enlarged Union- a decade full of developments, Brussels

(22)E‟ possibile definire il termine underpricing, coerentemente con le diverse definizioni ravvisabili nella letteratura economica, come “differenza tra il primo prezzo che il titolo ha nel suo primo giorno di negoziazione sul mercato secondario e il prezzo di emissione della quota dell‟offerta pubblica iniziale”. Altre definizioni suggeriscono invece di considerarlo come “differenza tra il prezzo di collocamento dei titoli e la quotazione rilevata il primo giorno di contrattazione, al netto della variazione dell‟indice di mercato su cui sono negoziati”. Al di là delle diverse impostazioni terminologiche ravvisabili in letteratura, è possibile più sinteticamente affermare che l‟underpricing rappresenti una sottovalutazione del prezzo di vendita delle azioni, rispetto all‟effettivo livello di mercato, così da stimolarne l‟acquisto. Tale strategia avrebbe lo scopo, oltre a coinvolgere una grande quantità di risparmiatori, anche di rendere politicamente complessa una inversione di tendenza. Una volta infatti che le azioni dell‟azienda sono vendute tramite underpricing, una successiva rinazionalizzazione può avvenire solamente con una perdita netta da parte dello Stato, qualora siano riacquisite al valore di mercato, oppure al prezzo di grande impopolarità, nel caso di rinazionalizzazione coatta. (Cfr. LUPO M., op .cit, pag. 23; KRUSICH C., (1997),

Le privatizzazioni in Gran Bretagna: un’analisi, in Studi e note di Economia (2), p. 104).

(23)I loyalty bonus share sono da considerarsi un vero e proprio “premio di fedeltà” che incentiva il possesso privilegiato delle azioni. Tale tecnica consiste nell‟offrire a chi detiene le azioni di un‟azienda privatizzata, per un periodo minimo prefissato, uno sconto per l‟acquisizione di nuove azioni della stessa. (24) Cfr. LUPO M., op. cit., p. 23.

(15)

sapientemente individuati dalla ricerca di Lupo(26), e che possiamo qui più sinteticamente richiamare. Va certamente ricordato, anzitutto, come i provvedimenti che disponevano la cessione dell‟azionista pubblico venissero fatti passare sotto il vaglio del

Conseil Costitutionnel, tale fatto ha comportato la creazione di un‟autorità indipendente

nota come “Commissione per le Privatizzazioni”, la quale avrebbe dovuto provvedere alla stima degli assetti proprietari e alla consultazione, peraltro obbligatoria, ogni qualvolta si procedesse con la vendita. Altra peculiarità del caso francese, in aggiunta a quella sopracitata, fu la previsione , con una legge del 1986, dell‟istituto dei noyaux dur, meglio noto come groupement d’actionnaires stables, vale a dire un gruppo di azionisti di riferimento, individuati dall‟esecutivo, che, in cambio del pagamento di un sovrapprezzo per le azioni, si vedevano assicurata una posizione di controllo nella società privatizzata. Tali azioni, come riporta la legge(27), dovevano essere mantenute per un certo periodo di tempo, trascorso il quale potevano essere vendute o alla società o ad acquirenti con il gradimento della società. La summenzionata previsione venne però del tutto smantellata successivamente nel 1993 con un provvedimento da parte del governo di stampo socialista allora insediatosi. E‟ proprio a questo che si deve una perimetrizzazione ancora più accentuata del fenomeno delle privatizzazioni, il quale gravato ora da nuovi e importanti limiti, non poté che assumere una connotazione sempre più marginale. La forte tradizione ètatiste che caratterizzò i provvedimenti del governo socialista, tra cui ad esempio la previsione di tetti massimi al possesso azionario o l‟istituto dell‟action spècifique, portarono alcuni autorevoli commentatori a parlare di “colbertisme des temps moderns” o di “stade supreme de

l’interventionnisme”(28

).Una simile connotazione “statalista” va ravvisata pure in Italia, dove il fenomeno delle privatizzazione non solo giunse con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi europei ma si caratterizzò, in aggiunta, per un elevato grado di informalità e l‟assenza di una specifica pianificazione “dall‟alto” del processo. Nella prima fase infatti la scelta di dismettere la partecipazione azionaria in determinate imprese, si ricordi ad esempio il “caso Enimont” o il “caso Maccarese”, fu stabilita dagli stessi enti di gestione e non dallo Stato(29). In tale prospettiva, può osservarsi poi che la

(26 ) Cfr. LUPO M., op. cit., pp. 24-25.

(27) Si veda il testo della legge 793-86 e successiva legge attuativa 912-86

(28) Cfr., GIPPINI F. e ROUDRIGUEZ M., (2003), Actions specifiques dans les societies privatisees: le

buerre ou l’argent du beurre, in Rev. du droit de l‟Union europ., p. 42.

(29) Tra i più importanti enti di gestione nella Storia d‟Italia merita certamente una considerazione il ruolo di primo piano che l‟IRI (“Istituto di Ricostruzione Industriale”) ha giocato nella vicenda delle partecipazioni. L‟IRI fu costituito ufficialmente nel gennaio 1933, rilevando il precedente Istituto di

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privatizzazione interessò soggetti che operavano in tre settori principali: a) nella gestione delle partecipazioni azionarie (e.g Iri, Eni); b) nei servizi di pubblica utilità (e.g Enel, Telecom); c) nel settore creditizio (istituti di credito di diritto pubblico)(30). Le vicende che hanno caratterizzato i Paesi summenzionati, al pari di molti altri in Europa (e non solo), sono tuttavia da leggersi entro una più ampia “cornice” comunitaria. Il legislatore europeo ha difatti contribuito notevolmente a realizzare una apertura pro-concorrenziale degli ordinamenti dei singoli Stati(31). Il motivo per cui il TFUE si preoccupa di disciplinare la concorrenza nel mercato comune consiste principalmente nell‟evitare che la liberalizzazione dei mercati, perseguita attraverso il divieto di imposizione dei dazi e la realizzazione delle quattro libertà, sia vanificata da comportamenti anticoncorrenziali delle imprese e degli Stati tendenti ad isolare i mercati nazionali(32). Se da un lato però la disciplina europea ha ampiamente contribuito a realizzare un clima di “concorrenza leale”, dall‟altro lato ha previsto, nel

Liquidazioni e basando la propria attività sull‟emissione di obbligazioni garantite dallo Stato. Internamente tale istituto si articolava in due distinte Sezioni. Da un lato la Sezione Finanziamenti che avrebbe affiancato l‟opera dell‟IMI, dall‟altro una Sezione smobilizzi che avrebbe acquistato tutte le partecipazioni industriali degli istituti di credito e, una volta risanate le aziende, le avrebbe vendute ai privati. Come noto, poco più tardi, nel 1936, la nuova legge bancaria stabilì la separazione tra credito ordinario e quello mobiliare, ponendo fine all‟esperienza della banca mista così come configuratasi a partire dall‟ultimo decennio dell‟Ottocento. La sezione Finanziamenti fu poi completamente soppressa nel 1937, anno in cui peraltro,sotto la spinta di velleità autarchiche , tale istituto fu dichiarato “ente permanente”. Per una più dettagliata ricostruzione della storia dell‟IRI si rimanda in primis all‟opera edita da: AMAT ORI F. e COLLI A., (1999), Impresa e industria in Italia. Dall’Unità a oggi, prima edizione, Venezia, pp. 183-192 che fornisce una sintetica ma compiuta analisi della nascita e del consolidamento dello “Stato imprenditore”. Alcune stime di natura quantitativa sull‟attività dell‟ente sono riportate in numerosi documenti ministeriali, si veda ad esempio: MINIST ERO DELL‟INDUST RIA E DEL COMMERCIO,

L’Istituto per la ricostruzione industriale, vol. III, Origini, ordinamenti e attività svolta. Rapporto del prof. Pasquale Saraceno, Torino, p. 132, per quanto riguarda la struttura delle partecipazioni industriali

IRI al 31/12/1934 e MINIST ERO DELL‟INDUST RIA E DEL COMMERCIO, op. cit, p. 125, per quanto concerne la commisurazione monetaria dell‟entità degli smobilzzi. Nel corso degli ultimi decenni, e anche di recente, una vastissima letteratura storiografica si è occu pata di indagare le vicende relative all‟IRI e “la nascita dello Stato Imprenditore”, si possono qui ricordare, ex multis: CIANCI E., (1997), Nascita dello

Stato Imprenditore in Italia, Milano; MORI G., (1977), Nuovi documenti sulle origini dello “Stato

Industriale” in Italia, in Id., Il capitalismo industriale in Italia; MORT ARA A., (1984), Protagonisti

dell’intervento pubblico in Italia, Milano; SARACENO P., (1975), Il sistema delle imprese a partecipazione

statale nell’esperienza italiana, Milano; TONIOLO G., (1978), Industria e banca nella grande crisi

1929-1934, Milano; CORVINO R., GALLO G. e MANT OVANI E., (1976), L’industria dall’economia di guerra alla

ricostruzione, in CIOCCA P.; TONIOLO G., L’economia italiana nel periodo fascista , Bologna, pp. 171-270.

(30 ) Si veda a tal proposito:CASET T A E., (2009), Manuale di diritto amministrativo, Milano p. 124; Cfr. LUPO M., op. cit., p. 25.

(31) Il TFUE prevede infatti una dettagliata disciplina al capo I del titolo VII, rubricato “Regole di concorrenza”. Esso risulta essere suddiviso in due sezioni, la prima, comprensiva degli art. 101-106, riguarda le regole di concorrenza applicabili alle imprese (divieto di intese che recano pregiudizio per la concorrenza; divieto di abuso di posizione dominante; disciplina delle imprese pubbliche); la seconda invece, che comprende gli art.107-109, riguarda le regole applicabili agli stati (Cfr. AA.VV., (2011),

Diritto dell’Unione Europea. Aspetti istituzionali e politiche dell’Unione, XVIII edizione, pp. 353-370)

(32) Cfr. AA.VV, (2011), op. cit, XVIII edizione, pp. 354.

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caso delle imprese incaricate a svolgere servizi di interesse economico generale (c.d SIEG), un recupero dell‟elemento nazionale e quindi una sostanziale possibilità di deroga delle stesse norme a favore del libero mercato. E‟ all‟interno di questo quadro che deve essere dunque colto il fenomeno delle “golden shares”(33), quale strumento giuridico atto a definire portata e limiti dell‟intervento pubblico nell‟economia. Il tema è tuttavia carico di risvolti politologici; la tutela, o al contrario il contrasto, a livello comunitario di questi margini di intervento nazionale è assolutamente evocativo del livello di integrazione europea. Laddove infatti ci si concentra sul proteggere la possibilità per i singoli Stati di intervenire a tutela dei propri interessi specifici, l‟ ”interesse pubblico europeo”, se mai ne sia esistito uno, pare degradarsi ad una mera concezione atomistica, ovvero una semplice somma di singoli interessi nazionali; laddove, al contrario, l‟Unione Europea interviene, soprattutto attraverso la “macchina” giurisprudenziale, nel limitare la portata dell‟interesse nazionale in nome di un più ampio interesse comunitario, il processo di spillover(34) sembra invece aver assunto la sua massima interezza e profondità(35). Sarà dunque uno degli obiettivi del presente

(33) Strictu sensu le golden shares sarebbero quelle con le caratteristiche previste dall‟ordinamento britannico, tuttavia non è infrequente osservare un utilizzo atecnico dello stesso termine. Come ricordato da LUPO (Cfr. LUPO M., op.cit, pp. 34-36) tale uso peraltro non sarebbe circoscritto esclusivamente al linguaggio giornalistico, ma è divenuto parte di un lessico giuridico ormai consolidato nella prassi istituzionale. SPAT T INI suggerisce, ad esempio, come “ sotto l‟egida della golden share finisca per essere ricondotta qualunque forma di vincoli pubblici comunque formalizzati nei confronti dell‟impresa privata”(Cfr.SPAT T INI G., Poteri pubblici dopo le privatizzazioni, p. 311). La stessa Corte di Giustizia ha infatti osservato che per golden share si debba intendere “qualsiasi struttura giuridica applicabile alle

singole imprese atta a conservare o a contribuire al mantenimento dell’influenza dell’autorità pubblica su tali società”(Si veda a tal proposito: C-112/05 Commissione c. Germania). Vale la pena di ricordare

però, in merito a questa ultima definizione, come una ampia parte della dottrina ne abbia sottolineato l‟assoluta generalità e la mancanza di un reale significato euristico, invocando conseguentemente la necessità di adottare una concettuologia più chiara e adeguata a valutazioni di tipo giuridico.

(34) Con il termine spillover si vuole indicare in questo contesto il graduale passaggio di competenze dagli organismi nazionali a quelli sovranazionali (Cfr.AA.VV, (2011), op.cit, p. 10)

(35) Va da sé che quanto sopra affermato possa assumere connotazioni differenti a seconda delle diverse posizioni che hanno animato, sin dalle origini, il “progetto comunitario”. Coloro che sostenevano le tesi del” federalismo” avevano infatti come obiettivo quello di creare uno Stato federale europeo che, pur rispettando le singole identità nazionali, fosse in grado di instaurare una vera coesione tra i popoli europei ed evitare in futuro il ripetersi dei conflitti che avevano ridotto il continente europeo ad un campo di battaglia. In pratica si trattava di istituire un‟organizzazione più vicina al mod ello di uno Stato federale che non un organismo internazionale che ricalcasse il modello della cooperazione intergovernativa. I sostenitori del “confederalismo”(vd. Wiston Churchill, Charles De Gaulle), al contrario, avevano come principale prerogativa la preservazione della sovranità dei singoli Stati, da qui l‟impulso nel promuovere un modello di cooperazione intergovernativa. Tra questi due orientamenti dominanti, si collocavano a metà i sostenitori del “funzionalismo”(vd. Jean Monnet; Robert Schumann) s econdo cui l‟integrazione europea doveva attuarsi attraverso il graduale trasferimento di compiti e funzioni in settori ben determinati a istituzioni indipendenti dagli Stati, capaci di gestire in modo autonomo le risorse comuni (c.d sector by sector approch). Una collaborazione settoriale fu per esempio quella che avvenne nel 1951 con la creazione della CECA e nel 1957 con la creazione dell‟Euratom (le c.d Comunità di Settore). Più che una terza tesi il modello funzionalista può essere visto come una tapp a intermedia verso una unione di tipo federale (Cfr. AA.VV., (2011), op.cit, pp. 9-10).

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elaborato cercare di verificare, sulla base degli orientamenti comunitari in materia di

golden share, in quale direzione il progetto di integrazione europeo sembra dirigersi, e

come il dilagante “euroscetticismo” abbia in qualche modo interferito con la normativa oggetto d‟esame.

1.4 Genealogia e fenomenologia dei “poteri speciali”

Come abbiamo avuto modo di anticipare nel precedente paragrafo, la golden share avrebbe quale base giuridica le deroghe alle norme sulla concorrenza compendiate al par.2 dell‟art.106 del Trattato sul funzionamento dell‟Unione Europea, dove si afferma che le imprese incaricate nella gestione dei servizi di interesse economico generale(36) o aventi carattere di monopolio fiscale siano “sottoposte alle norme dei trattati, e in

particolare, alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto o di fatto, della specifica missione loro affidata”(37).Emergerebbe dunque dal dettato normativo un tentativo di conciliare l‟osservanza dei principi in materia di concorrenza suggeriti dall‟Unione, con l‟interesse degli Stati ad utilizzare determinate imprese pubbliche quale strumenti di politiche economiche o finanziarie(38). Una volta individuata la base giuridica dei “poteri speciali” nell‟ambito del perimetro comunitario, sarà doveroso procedere alla ricostruzione della ratio legis e in generale di tutte quelle motivazioni che hanno spinto, dapprima i legislatori dei singoli Paesi e poi in un secondo momento anche quello comunitario, ad intervenire a protezione dei propri assets strategici. Come già menzionato in precedenza, il fenomeno delle privatizzazioni ebbe due effetti contrapposti: da un lato, la riduzione del potere dello Stato su determinati settori dell‟economia; dall‟altro un incremento del potere decisionale degli organi sociali che, soprattutto nei casi di privatizzazione sostanziale, erano riconducibili a soggetti privati(39). Di fronte ad una tale ambiguitas lo Stato cercò di tutelare i propri interessi,

(36) Per SIEG si intendono quelle imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale ed incaricate nello svolgimento dei servizi da parte di pubblici poteri. Va da sé che per incarico si in intenda un “atto della pubblica autorità”, di carattere legislativo, regolamentare o amministrativo, quale, ad esempio, un provvedimento di concessione (sent. 23 ottobre 1997, Commissione c. Francia, causa C-159/94)

(37) Vedi AA.VV., (2011), Diritto dell’Unione Europea. Aspetti istituzionali e politiche dell’Unione , XVIII edizione, pp. 363.

(38) Ciò ad esempio è quanto emerso con la sent. 23 ottobre 1997, Commissione c. Paesi Bassi, causa C-157/94

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recuperando, nonostante le dismissioni, un certo margine di intervento, al fine di poter orientare le scelte in quelle società che operavano in settori di interesse economico generale (c.d Public Utilities). Le ragioni di ciò possono essere individuate sia nell‟esigenza di garantire un‟adeguata tutela degli interessi pubblici nazionali, soprattutto laddove tale tutela possa collidere con la logica del mero orientamento al profitto(40), sia nella dilagante preoccupazione dei governi nazionali verso possibili

hostile takeovers che potessero determinare: a) un mutamento degli scopi sociali; b) la

vendita degli assets strategici; c) una non continuità dell‟approvvigionamento. Viene individuata inoltre come terza ragione anche l‟esigenza di tutelare la pubblica sicurezza, la salute pubblica e la difesa nazionale. Sì è soliti parlare del fenomeno dei “poteri speciali” in modo unitario e acritico, trascurando invero le loro numerose forme di esercizio ed effetto prodotto. La dottrina è riuscita pertanto a delimitare quattro tipologie di “poteri speciali” utilizzate nella pratica. La prima tipologia è senz‟altro il “potere speciale” inteso come “diritto ad opporsi all‟acquisto di partecipazioni”, ad esempio ciò può realizzarsi anteponendo l‟obbligatorietà di una autorizzazione governativa per acquisizioni azionarie superiori ad una certa soglia; la seconda vuole invece il “potere speciale” quale “riserva di nomina degli amministratori o più in generale dei membri degli organi societari”; una terza impostazione intende poi il “potere speciale” come “diritto di veto su determinate decisioni strategiche” (es. fusione, scissione societaria o modifica delle disposizioni statutarie). Può capitare inoltre che il “potere speciale” si esprima come “limitazione del numero di amministratori di altra nazionalità”(41). Per tale ragione non è possibile ricondurre il tema dei “poteri speciali” dello Stato ad un‟analisi unitaria, non solo perché questi presentano diversità sulla base dei differenti contesti geografici (cosa che approfondiremo successivamente), ma anche per le svariate forme in cui tali poteri possono manifestarsi ed essere in concreto esercitati.

(40) ROSSI DAL POZZO. F., (2009), Golden shares: uno strumento inadeguato per la tutela degli interessi

(talvolta) meritevoli, in Contratti/Impresa/Europa, p. 827.

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Capitolo 2 – “Ratio et discretio” nelle golden shares, tra

varietà e modularità di casi nazionali

SOMMARIO: 2.1 Dalla Golden Share ai Golden Powers: evoluzione della normativa italiana sui “poteri speciali; 2.1.1 Le privatizzazioni in Italia; 2.1.2 La “golden share” italiana: esegesi di un istituto controverso; 2.1.3 Evoluzioni ed involuzioni dell‟azione “d‟oro” tra interesse nazionale e limiti sovranazionali; 2.1.4 (segue): dal D.P.C.M del 11 febbraio 2000 al d. l. n. 10 del 2007; 2.1.5 Non è tutto “golden” quel che luccica: la critica della giurisprudenza comunitaria nei confronti della normativa italiana; 2.1.6 La Riforma Monti e l‟ascesa dei golden powers; 2.1.6 (segue): i golden powers; 2.1.6 (segue): Golden powers, principi comunitari e investimenti esteri: il tentativo (difficile) di realizzare uno strumento ultra-selettivo di protezione degli attivi strategici; 2.1.7 La valutazione dei piani industriali nell‟ambito dei golden powers; 2.1.8 Gli investimenti esteri negli Stati Uniti d‟America: un caso analogo; 2.2 La Golden share in Europa: un‟analisi comparata; 2.2.1 Il modello britannico; 2.2.2 Il modello francese (e belga); 2.2.3 Il tertium genus iberico; 2.2.4. Il modello tedesco; 2.3 Le “golden share” nel panorama comparato extra-comunitario.

2.1 Dalla Golden Share ai Golden Powers: evoluzione della normativa

italiana sui “poteri speciali

2.1.1 Le privatizzazioni in Italia

In Italia il processo di privatizzazione sembra apparire, quantomeno in un primo momento, come frammentato e ricco di contraddizioni a causa soprattutto della mancanza di governi stabili(42). Il primo tentativo di realizzare anche nel nostro Paese

(42) Riferimento principale per questa trattazione sui processi di privatizzazione è l‟articolo: FENUCCI T., (2016), I poteri speciali dopo la privatizzazione delle imprese statali: una storia infinita , in Comparazione e Diritto Civile, pp. 11-13, per quanto riguarda la trattazione relativa al caso italiano. Per maggiori approfondimenti sul tema si richiamano inoltre a tal proposito: MACCHIAT I A., (1999), Breve

storia delle privatizzazioni in Italia: 1992 -1999. Ovvero si poteva fare meglio?, pp. 447 e ss.; SODI J., (1996), Poteri speciali, golden share e false privatizzazioni , in Riv. Società, pp. 374 e ss., e pag. 378; DEL CASALE E., (1988), Uno strumento diretto di controllo governativo sulle partecipazioni: “Le golden

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una golden share è da ricondurre ad un ordine del giorno del Parlamento del 1986 che prevedeva la realizzazione di un disegno di legge (in realtà mai divenuto legge) che ipotizzava l‟introduzione nel nostro ordinamento di uno strumento noto come “azione a diritto privilegiato speciale”. Nei successivi provvedimenti relativi alle privatizzazioni (quali il decreto legge 5 dicembre 1991 n. 386, poi convertito in legge il 29 gennaio 1992(43) e rubricato “trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali ed alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica” e il decreto legge 11 luglio 1992 n. 333 relativo a “misure urgenti di risanamento della finanza pubblica” e convertito nella legge 8 agosto 1992 n. 352) non vi è traccia di un simile meccanismo o analoghi strumenti. Con la delibera CIPE del 30 dicembre 1992(44) vennero poi indicate le regole in base alle quali operare un‟alienazione, anche parziale, delle partecipazioni detenute dal Ministero del Tesoro in alcune società, ci si riferisce segnatamente a quelle di cui all‟art. 15 decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, ovverosia I.R.I., I.N.A, E.N.I., E.N.E.L., B.N.L. e I.M.I e quelle che, secondo l‟art. 18 del medesimo decreto, derivavano dalla trasformazione in società per azioni. A queste società vanno poi aggiunte le partecipazioni di controllo detenute a loro volta da tali società in altre (ex art. 2, delibera CIPE del 30 dicembre 1992). Di seguito l‟art. 3 della medesima delibera prevedeva una serie di modalità di alienazione delle partecipazioni azionarie, queste erano rappresentate da: a) l‟offerta pubblica di vendita (O.P.V.); b) l‟asta pubblica; c) la trattativa privata (da utilizzarsi tuttavia soltanto nel caso fossero presenti “interessi pubblici di particolare rilevanza”, come sancito all‟art. 15 delibera CIPE). Tra le ragioni del ricorso all‟O.P.V., in analogia a quanto accaduto in Regno Unito (avremo modo di dire meglio in seguito), vi sarebbe la volontà di favorire la costituzione di Public Company(45). Tale tentativo, tuttavia, quantomeno se riferito al caso italiano, non ha sempre portato alle conseguenze sperate(46). Già allora infatti alcuni esponenti della dottrina giuridica sul tema, si veda a titolo esemplificativo

(43) Per un esame della legge 29 gennaio 1992, n. 35 si veda DI GASPARE G.,(1992),La trasformazione degli enti pubblici economici e la dismissione delle partecipazioni statali. Verso un nuovo ibrido: le s.p.a. di diritto pubblico, in Nomos, pp. 24 e ss.; CNEL documenti, Le privatizzazioni delle imprese pubbliche, aspetti giuridico-normativi ed economico-finanziari, pp. 63 e ss.; PARDOLESI R.,PERNA R., (1994), Fra il

dire e il fare: la legislazione italiana sulla privatizzazione delle imprese pubbliche , in Riv. Crit. Dir.

Priv., pp. 544 e ss.; RAGUSA MAGGIORE G., (1993), La grande illusione della privatizzazione degli enti di

gestione, in Studi in onore di Vittorio Ottaviano, pp. 635 e ss.

(44) Cfr. BONELLI F., (2001), Il codice delle privatizzazioni nazionali e locali, pp. 75 e ss.

(45) Cfr.SALINI M.P., (2001), Privatizzazioni, assetti proprietari e Corporate Governance , in Energia, n. 3, pp. 48 e ss.; MARASÀ G., (1998), Il punto sulle privatizzazioni in campo societario , in Studium Iuris, pag. 1320; ROSSI G., (1994), Privatizzazioni e diritto societario, in Riv. Soc., pp. 396 e ss.

(46) Su questo punto particolarmente forte è l‟opinione espressa da MARASÀ G., (1998), op. cit., pag. 1320.

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Marasà e Rossi(47), avevano posto delle riserve. La delibera CIPE del 30 dicembre 1992 riveste ad ogni modo un ruolo centrale nella materia dei poteri speciali in Italia, in quanto in essa è possibile ravvisare una sorta di antecedente alla loro istituzione. In essa infatti venne ammessa per la prima volta la possibilità di inserire clausole da parte del Ministero del Tesoro negli statuti delle società risultanti dalla privatizzazione di enti pubblici economici prima della perdita del controllo. Bisognerà tuttavia aspettare il decreto legge del 31 maggio 1994, n. 332, convertito poi nella legge 30 luglio 1994, n. 474, per avere una disposizione rinnovata circa le modalità di alienazione delle partecipazioni azionarie statali e di altri enti pubblici, arrecante misure di poteri c.d. “speciali”(48

). Con questa misura il legislatore nazionale sembrò non solo allinearsi con analoghi provvedimenti assunti qualche anno prima in Gran Bretagna e in Francia, ma addirittura sembrò superare questi stessi Paesi, antesignani nell‟istituzione dei poteri speciali, in termini di pervasività delle misure. I poteri speciali come pensati dal legislatore italiano sembravano rappresentare a tutti gli effetti un‟intrusione nella vita della società, al punto tale da risultare i più penetranti tra le varie forme di potere di controllo su imprese pubbliche privatizzate esistenti in Europa(49). Le ragioni individuate a più riprese da vari autori sulla maggiore pervasività delle misure italiane sono in vero assai numerose. Di seguito accenniamo ad alcuni di questi aspetti, che ci proponiamo di presentare in chiave sintetica promettendo tuttavia un loro approfondimento nei successivi paragrafi. Prime fra tutte vanno rammentate una serie di aspetti attinenti al contenuto dei “poteri” i quali prevedevano, quantomeno in una originaria formulazione, la possibilità di esprimere: a) un diritto di gradimento verso

(47) Ut supra.

(48) Per una analisi approfondita della normativa, oltre che dei suoi controversi aspetti, si vedano inter

alia: CIRENEI M.T., (1996), Le società di diritto “speciale“ tra diritto comunitario delle società e diritto

comunitario della concorrenza: società a partecipazione pubblica, privatizzazioni e “poteri speciali”, in

Dir. Com. Intern., pp. 818 e ss.; ROLI M. E BONELLI F., (2000), Voce privatizzazioni, in Enciclopedia Dir., pp. 999 e ss.; GAROFOLI R., (1998), Le privatizzazioni degli enti dell’economia , pp. 210 e ss.; COST I R., (1995), Privatizzazione e diritto delle società per azioni , in Giur. Com., pp. 77 e ss.; CNEL documenti, Le

privatizzazioni delle imprese pubbliche, op.cit., pp. 73 e ss.; JAEGER P. G., (1995), Privatizzazioni;

“Public Companies”; problemi societari, in Giur. Com., pp. 5 e ss.; LIBONAT I B., (1995), La faticosa

“accelerazione” delle privatizzazioni, in Giur. Com., pp. 20 e ss.

(49) Sul punto si vedano ex multis FENUCCI T., (2016), I poteri speciali dopo la privatizzazione delle

imprese statali: una storia infinita, in Comparazione e Diritto Civile, pag. 14; SODI J. op. cit, pp. 382 e ss.; PEREZ R., (1995), I controlli sugli enti pubblici economici privatizzati , in Amorosino S. (a cura di), Le

trasformazioni del diritto amministrativo, pp. 202 e ss.; SANINO M., (1997), Le privatizzazioni: stato

attuale e problematiche emergenti, pp. 79 e ss.; DI PORT O F., (1999), Note sul regime giuridico sulle

privatizzazioni in Italia. In particolare nei servizi pubblici essenziali, in Giur. Com., pp. 757 e ss.; DI CECCO G., Le clausole statutarie che attribuiscono al Ministero del Tesoro la titolarità dei CC.DD.

“poteri speciali”. Spunti di riflessione in merito al “veto” previsto dall’art. 2, comma 1, lett. c, della legge n. 474/1994, in MARASÀ G. (a cura di), Profili giuridici delle privatizzazioni, op.cit., pp. 53 e ss.

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l‟ingresso di nuovi azionisti intenzionati ad acquisire partecipazioni rilevanti con la conseguente possibilità di impedire l‟ingresso in società di soci sgraditi(50

); b) un diritto di gradimento verso una serie di patti o accordi parasociali tra cui quelli relativi al diritto di voto(51); c) un potere di veto su alcune decisioni rilevanti per la vita della società (delibere di scioglimento, di trasferimento di azienda, di fusione, scissione, trasferimento della sede sociale all‟estero, di cambiamento dell‟oggetto sociale e modifiche dello statuto); d) un potere di nomina di almeno un amministratore o un numero di amministratori non superiori ad un quarto dei membri del Consiglio e di un Sindaco. Altri aspetti riguardavano invece le modalità e i relativi tentativi di qualificazione giuridica di un tale istituto. Ci si riferisce nello specifico al fatto che i poteri speciali nella legislazione citata differivano dalla tradizionale golden share inglese in quanto il titolare poteva essere anche non socio della società(52). Il distaccarsi dell‟istituto italiano dai modelli adottati in altri contesti europei non è da rintracciare soltanto nella maggiore pervasività nelle dinamiche societarie, in primis il vulnus al principio capitalistico, ma anche per il fatto di sostanziarsi, pure per le sopra citate ragioni, in strumenti a carattere scarsamente provvisorio e quindi assai difficilmente destinati a scomparire. Fu proprio per quest‟ultime motivazioni che la giurisprudenza della Corte Europea (alla quale dedicheremo uno specifico capitolo a conclusione) fu particolarmente “severa” nel censurare la golden share all‟italiana, molto di più di quanto non lo sia stata nei confronti di altri Paesi dell‟Unione Europea(53

).

2.1.2 La “golden share” italiana: esegesi di un istituto controverso

In Italia, come abbiamo avuto modo di dire precedentemente, il fenomeno delle privatizzazioni, si caratterizzò sin dagli albori, per un elevato livello di informalità: non

(50) Tale gradimento doveva esprimersi entro 60 giorni dalla comunicazione effettuata dagli Amministratori al momento della richiesta di iscrizione nel Libro dei Soci.

(51) Da esercitarsi entro 60 giorni dalla comunicazione di tali patti o accordi effettuata dalla Consob al Ministro del Tesoro.

(52) Si vedano a tal proposito GAROFOLI R., (1998), Golden share e authorities nella transizione dalla

gestione pubblica alla regolazione dei servizi pubblici , in Riv. It. Dir. Pubbl. Comunit., pag. 186;

AMICONI C., (1999), La golden share come tecnica di controllo delle public utilities: luci ed ombre , in Giust. Civ., pp. 463 e ss..

(53) Cfr. ROPPO V., (1997), Privatizzazioni e ruolo del “pubblico”: lo Stato regolatore , in Pol. Dir., pag. 632.

(24)

esisteva cioè una “pianificazione dall‟alto”, almeno inizialmente, del processo (54

). Uno dei primi interventi dello Stato atto a disciplinare il processo, ma soprattutto a garantirsi una riserva decisionale entro quelle imprese che, seppur dismesse, giocavano un ruolo primario nell‟economia del Paese, è da ricondursi, come si è detto, al d.l 31 maggio, 1994, n.332 (anche noto come “norma Ciampi”) e rubricato come: “Norme per

l’accelerazione delle procedure di dismissioni di partecipazione dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni”, convertito poi in legge il 30 luglio 1994. Il decreto

presentava una articolazione in 16 punti, alcuni dei quali in seguito abrogati(55). L‟art.2, in particolare, dopo essere stato emendato in sede di conversione, prevedeva al comma 1 che tra “ le società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato operanti nei

settori della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia, e degli altri pubblici servizi, sono individuate, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato su proposta del Ministero dell’Economia e Finanze, di intesa con il Ministro delle Attività Produttive, nonché con i Ministri competenti per settore, previa comunicazione alle competenti Commissioni parlamentari, quelle nei cui statuti, prima di ogni atto che determini la perdita di controllo, deve essere introdotta con una deliberazione dell’assemblea straordinaria una clausola che attribuisca al Ministro dell’Economia e delle Finanze la titolarità di uno o più dei seguenti poteri speciali da esercitare di intesa con il Ministro delle Attività Produttive”. Si passa quindi in una fase

successiva all‟individuazione dei contenuti di tali poteri speciali. Si fa riferimento, in particolare, al: a) potere di opposizione all‟assunzione di partecipazioni o alla conclusione di patti sociali rilevanti, pari ad almeno il 5 per cento del capitale sociale; b) potere di veto alle delibere relative ad operazioni straordinarie o comunque di partecipazioni rilevanti e potere di nomina di amministratori senza diritto di voto. Va inoltre precisato che il provvedimento prevedeva che: “Il contenuto della clausola che

attribuisce i poteri speciali è individuato con decreto del Ministro del Tesoro, di concerto con i Ministri del Bilancio e della Programmazione Economica, e dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato”. La norma in particolare prevedeva

che con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri si provvedesse

(54)http://www.ircri.it/wp-content/uploads/2012/01/ D.L._ 31-5-1994_n._332_ xconv._Legge_n._474-1994x_Norme_per_lxaccele razione_delle_procedure_di_dismissione.pdf

(55)Sono stati abrogati: i commi 6,7,7bis e 7 ter riferibili al paragrafo uno. Nello specifico il punto 6 fu abrogato dall‟art.17, comma 60, L. 15 maggio 1997, n.127, mentre gli altri commi sono stati oggetto di abrogazione da parte dell‟art.30, D.Lgs. 17 maggio 1999, n.153. E‟ inoltre da ricordare altresì la soppressione del comma 2 relativo al paragrafo 5 avvenuto attraverso la legge di conve rsione del 30 luglio 1994, n.474.

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