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Le golden shares al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

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Capitolo 4 – La golden share “illegittima”

4.1 Le golden shares al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

circolazione dei capitali: il modello della Commissione Europea; 4.6.2 Restrizioni sulla libertà di stabilimento; 4.6.3 Il fallimento della Direttiva europea sulle acquisizioni.

4.1 Le golden shares al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione

Europea

Volgendo nuovamente l‟analisi agli interventi comunitari relativi al tema dei poteri speciali dello Stato, è possibile evidenziare, quantomeno in una fase iniziale, una tendenza da parte delle istituzioni europee a giudicare le golden shares alla stregua di una misura di protezionismo economico(166). Parallelamente a questa tendenza è da aggiungersi poi un ruolo sempre più centrale della Commissione Europea(167) nel porsi come garante della libera concorrenza e del mercato, nella veste di terzo attore, tra i pubblici poteri e i privati, individualmente intesi. Furono pertanto avviate, su iniziativa

(166) RICKFORD J., (2011), Protectionism, capital freedom and the internal mark et , in Company Law and Economic protectionism: New Challnges to European integration, di Bernitz U. e Ringe V. G. (a cura di), Oxford, p. 55.

(167) Si ricorda che la Commissione Europea è quell‟organo comunitario al quale è affidato, assieme al Consiglio, l‟esercizio del potere esecutivo. Essa è composta da 27 commissari designati da ogni Stato membro. Accanto alla funzione esecutiva la Commissione è preposta all‟iniziativa legislativa. La ratio sottostante è quella di depurare, quantomeno nella fase iniziale, l‟iter legislativo da particolari interferenze di natura politica, favorendo in questo modo riflessioni attorno al profilo tecnico della materia su cui legiferare. Non a caso la struttura interna della Commissione prevede una ripartizione in Direzioni Generali, ognuna delle quali presieduta da un Vice Direttore Generale. La legge prevede, al fine di assicurare la più ampia imparzialità in sede di iniziativa legislativa, che Vice Direttore Generale e Commissario siano scelti tra soggetti appartenenti ad una diversa nazionalità.

della stessa Commissione, le procedure ex art. 258(168) e 259(169) del TFUE nei confronti di quegli Stati membri che nei loro ordinamenti prevedevano tali strumenti di influenza. Le procedure sono regolarmente giunte alla fase prevista all‟art. 260 TFUE(170) di fronte alla Corte di Giustizia dell‟Unione Europea, la quale ha, in numerose occasioni, avuto modo di esprimersi sull‟argomento tracciandone di fatto la disciplina. Questo aspetto non ha certamente contribuito ad una maggiore chiarezza della disciplina. Difatti la Corte di Giustizia dell‟Unione Europea pur godendo di un‟elevata autorità e considerazione, sia presso le altre istituzioni europee sia presso i Paesi membri, non emette nelle sentenze principi giuridici vincolanti e certi. Detto in altri termini l‟ordinamento dell‟Unione Europea non è soggetto a quelle regole tipiche degli ordinamenti di Common Law, come il principio del precedente vincolante o dello

stare decisis. Ad ogni modo, pur in assenza di una legal certainty e, nella limitatezza

dei margini di manovra, la Commissione pare aver assunto un “ruolo attivo” sulla materia, e, in particolare, a partire da quella comunicazione della Commissione del 1997 relativa ad alcuni aspetti giuridici attinenti gli investimenti intracomunitari. Questo genere di investimenti aveva cominciato ad assumere, specie dopo la realizzazione del mercato unico, un ruolo di maggiore importanza e crescente dimensione. In tal senso la Commissione rese noto che si sarebbe occupata di monitorare attentamente, nella sua fase istituzionale, la situazione per evitare ostacoli a tali investimenti, dal momento che, come si evince dalla comunicazione, i provvedimenti nazionali adottati avrebbero potuto “limitare la libera circolazione a livello transfrontaliero”, “dare origine a

problemi di compatibilità con la normativa comunitaria, in particolare con gli articoli (….) relativi ai movimenti di capitali e al diritto di stabilimento, e ostacolare quindi il funzionamento del mercato unico”(171). Da ricordare poi che fino a quel momento la Corte di Giustizia non si era espressa specificamente su casi relativi all‟applicazione di

(168) Cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A12012E%2FTXT (169) Cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A12012E%2FTXT

La procedura di infrazione disciplinata dagli articoli ora detti rappresenterebbe uno degli strumenti più significativi sanciti dai Trattati, dacché è l‟unica misura che conferisce alla Corte di Giustizia dell‟Unione Europea un potere di “controllo diretto” delle loro legislazioni. In particolare tutte le decisioni relative all‟apertura, all‟aggravamento o alla chiusura di una procedura di infrazione sono adottate dal Collegio dei Commissari Europei, in apposite sessioni che hanno luogo a cadenza mensile. In tali occasioni il collegio dei Commissari adotta una decisione di archiviazione solo quando lo Stato membro si conforma ai rilievi della Commissione Europea o quando quest‟ultima si ritiene soddisfatta delle osservazioni dello Stato in questione. Si veda sul punto: BRUNO P., (2016), Le procedure europee di infrazione, in Magistratura Indipendente, visibile on line: http://www.magistraturaindipendente.it/le-procedure-europee- di-infrazione.htm

(170) Cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A12012E%2FTXT (171) Cfr. LUPO M., op. cit., p. 42.

golden share, ma una giurisprudenza significativa e consolidata era già rintracciabile in

merito alla libertà di circolazione dei capitali e al diritto di stabilimento. L‟intento, non troppo nascosto, della Commissione era dunque quello di fornire alle autorità nazionali e agli operatori economici degli Stati membri una sorta di interpretazione autentica delle norme del trattato sulle due libertà oggetto della materia(172) e aventi fonte agli artt. 49(173) e 63 TFUE(174). Nell‟elaborare la comunicazione del 1997 la Commissione era consapevole della portata limitata di quanto sarebbe stato previsto, tant‟è che lo stesso documento riporta di non pregiudicare “l’interpretazione che potrebbe dare in materia

la Corte di Giustizia delle Comunità Europee”. L‟interpretazione assunta dalla Corte di

seguito (il primo intervento direttamente previsto sulla materia fu la causa Commissione della Comunità europee c. Regno del Belgio, 2003) fu, invero, assai discostante rispetto alle previsioni della Commissione. L‟argomentazione logico- giuridica intrapresa dalla Corte di Giustizia, ben visibile nella causa Commissione c. Portogallo, che fu poi decisa congiuntamente ad altre due cause, quella Commissione c. Francia e Commissione c. Belgio (prima richiamata), fu essenzialmente volta a vagliare la complessità ermeneutica in gioco, dal momento che le disposizioni relative alle

golden share hanno un contenuto variabile, ovverosia sarebbero in grado di integrare sia

i presupposti di una misura “distintamente applicabile”, sia quelli di una misura “indistintamente applicabile”(175

). In merito alla libertà di circolazione, elemento interpretativo centrale per definire la questione delle “golden shares”, è doveroso infatti ricordare l‟esistenza di una importante distinzione tra quelle norme considerabili “distintamente applicabili” e quelle invece “indistintamente applicabili”, anche dette “ad effetto prevalente”. Con le prime si farebbe riferimento, segnatamente, a tutte quelle misure giuridiche nazionali che possono essere considerate lesive del mercato interno e quindi come tali potenzialmente lesive della libertà di circolazione, con le seconde ci si riferirebbe a contrario a quelle norme che formalmente non pongono in essere alcuna discriminazione, in quanto applicabili a tutti i prodotti, soggetti od operatori economici (a seconda della libertà in esame), ma che possono dar vita de facto a profili discriminatori in quanto, per le caratteristiche del mercato in oggetto, la norma finisce con l‟essere applicata, in via esclusiva o prevalente, a specifici soggetti, prodotti od

(172) Si veda a tal riguardo LUPO M., op. cit., pp. 42-43.

(173) Cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A12012E%2FTXT

(174) Cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A12012E%2FTXT

(175) Sul punto anche LUPO M., op.cit, pp. 45-61, nelle quali viene analizzata l‟ “illegittimità dell‟esistenza dei poteri speciali e l‟applicabilità del principio di neutralità”

operatori economici provenienti dagli altri stati membri. Più nello specifico, con riferimento alle c.d. norme ad effetto equivalente, un ruolo nevralgico nella giurisprudenza comunitaria fu, ed è tuttora rappresentato dal famoso caso Dassonville, dove le misure indistintamente applicabili vennero definite come ogni “normativa

commerciale degli Stati membri dell’Unione Europea che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari, determinando un effetto pratico sul commercio in ambito U.E. comparabile a una restrizione quantitativa all’importazione di merci”(176

). Tale principio di diritto si è venuto poi ad affermare anche nel campo delle altre libertà, ovverosia la libertà di stabilimento e la libertà di circolazione dei capitali. In riferimento alla libertà di stabilimento, sancita agli artt. 49 e ss. TFUE, l‟applicazione “transtipica” della sentenza

Dassonville è stata abbastanza agevole. Ciò, ad esempio, è avvenuto nel caso della

sentenza “Diter Krauss c. land Baden-Wüerttenberg”, in cui la Corte ha ritenuto lesiva di tali disposizioni la norma nazionale che richiedesse per lo svolgimento di una certa attività il conseguimento di un titolo di studio o un diploma nel Paese di accoglienza. Ben più complessa è stata invece la trasposizione dei citati principi giurisprudenziali nel caso della libertà di circolazione dei capitali. La maggior complessità è da rinvenire principalmente nel fatto che i movimenti di capitali hanno essenzialmente una natura immateriale rispetto ad esempio alle merci o ai servizi risultando pertanto assai difficoltosa la distinzione tra i capitali provenienti da un Paese membro rispetto a quelli provenienti da un altro. Per tale ragione una misura ad effetto equivalente sarebbe difficile da immaginare. In verità, fu proprio in materia di golden share che la Corte ha individuato, nel caso Sandoz c-439/97(177), esempi di misure indirettamente discriminatorie e lesive della libera circolazione dei capitali. Fermo restando quanto si è detto, la materia delle golden share ha da sempre avuto una complessa definizione giurisprudenziale proprio per il fatto che avendo un contenuto variabile è suscettibile di integrare sia i presupposti di una misura distintamente applicabile sia quelli di una misura indistintamente applicabile. Tale questione è emersa nella sua interezza nel momento in cui la Corte di Giustizia dell‟Unione Europea si è soffermata ad esaminare la golden share portoghese. La legge n. 11/90 della Repubblica del Portogallo fu infatti oggetto, da parte della Corte di una pronuncia sulla compatibilità con i Trattati, in quanto, oltre a prevedere un insieme di poteri speciali esercitabili dal Governo

(176) Si veda la causa 8/74 relativa alla Procureur du Roi c. Benoît et Gustave Dassonville, pt. 5 (177) Cfr. c- 439/97.

portoghese, perseguiva anche l‟obiettivo di “permettere un’ampia partecipazione dei

cittadini portoghesi alla detenzione del capitale delle imprese, attraverso una ripartizione adeguata del capitale, con particolare attenzione ai lavoratori delle imprese considerate e ai piccoli azionisti “ (ex. art. 3 legge n. 11/90). L‟aspetto di

maggior criticità della suddetta legge portoghese era quello di implementare il profilo di “maggior tutela” dei cittadini portoghesi attraverso la possibilità, a norma dell‟art. 13 della legge medesima, di inserire entro gli statuti societari clausole che prevedessero un limite massimo di azioni acquisibili o sottoscrivibili da parte di soggetti stranieri. La validità della legge n. 11/90 e di una serie di decreti attuativi ad essa correlati, non passò soltanto sotto la “lente” della Corte, ma finì pure per suscitare un intervento della Commissione stessa. In tal senso, riallacciandosi alla Comunicazione del 1997, l‟argomentazione fornita dalla Commissione fu nel senso di ritenere lesive del mercato interno tutte quelle misure nazionali aventi scopi protezionistici e con la finalità di controllare, e se del caso impedire, gli investimenti intracomunitari. La legge portoghese, che pertanto garantiva la possibilità di fissare un tetto massimo alle partecipazioni di società straniere, variabili a seconda della società privatizzata dal 5% al 40%, fu considerata una misura discriminatoria che integrava una violazione aperta della libertà di stabilimento e della libertà di circolazione dei capitali. Di fronte alla sopra citata posizione assunta dalle istituzioni comunitarie, il Governo del Portogallo, pur riconoscendo in via di principio la potenziale lesione al diritto dell‟Unione Europea, fece notare, in una lettera di risposta inviata il 28 settembre del 1994 alla Commissione, che, sebbene le disposizioni normative nazionali avessero riconosciuto in linea di diritto la possibilità al Governo di esercitare dei poteri speciali a difesa del proprio interesse nazionale, fu sostanziale l‟impegno politico, a partire dal 1994, a non far uso a quelle “misure straordinarie” che tali poteri gli conferirebbero.

Oltre all‟evidenza dello scarso ricorso a quei poteri, la linea difensiva del Portogallo si mosse poi entro due principali orizzonti argomentativi. Da un lato il richiamarsi ai principi di efficacia diretta e preminenza del diritto comunitario, secondo cui le disposizioni nazionali del Portogallo dovrebbero essere in ogni caso interpretate come dirette unicamente agli investitori che non siano cittadini della Comunità; dall‟altro il richiamo ad un passato non lontano della storia portoghese che, dopo il 1975(178), vedeva il profilarsi di una situazione che sembrava giustificare le restrizioni

(178) Per un approfondimento relativamente alla Rivoluzione dei Garofani, si consulti il sito:

controverse. Contemporaneamente il Governo, come si apprende dalla lettera inviata alla Commissione, si sarebbe impegnato “a non imporre più restrizioni all‟acquisizione di azioni basate sulla nazionalità degli investitori”(179). L‟idea di un “compromesso politico” o di una “interpretazione coerente” delle norme nazionali con il diritto comunitario non parve alla Corte un metro adeguato per risanare la conformità delle sopra citate norme portoghesi alle disposizioni contenute nei Trattati(180). Il tentativo di risoluzione fu dunque intrapreso dalla Corte assumendo nei confronti del Portogallo una linea critica e particolarmente rigida. Segnatamente l‟organo giudicante asserì che “per

giurisprudenza consolidata (….) l’incompatibilità di norme nazionali con le disposizioni del Trattato, anche direttamente applicabili, può essere eliminata definitivamente soltanto mediante norme interne vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico delle norme da modificare. Semplici prassi amministrative, per loro natura modificabili a discrezione dell’Amministrazione e prive di adeguata pubblicità, non possono essere considerate come una valida esecuzione degli obblighi derivanti dal Trattato, in quanto mantengono per gli interessati uno stato di incertezza in merito alla portata dei diritti garantiti loro dal Trattato”(181). Invero la posizione comunitaria sui poteri speciali fu tutt‟altro che pacifica a seguito della sentenza contro il Portogallo. Infatti il tema fu oggetto di un maggiore approfondimento in sede di conclusioni da parte dell‟Avvocato Generale Colmer, il quale intraprese un profilo di ermeneutica giuridica differente da quello assunto dalla Corte. L‟ “ossatura” dell‟argomentazione di Colmer fu il ben noto principio di neutralità dell‟Unione Europea rispetto agli assetti societari desumibile dal dettato normativo dell‟art. 345 TFUE(182

). La disposizione contenuta nella norma succitata, la quale prescrive che “i Trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà previsto negli Stati membri”, stabilisce una sostanziale estraneità dell‟Unione Europea relativamente alle decisioni sulle privatizzazioni assunte dai singoli Stati membri. Da questo punto di vista nell‟ottica duale di una proprietà pubblica/privata l‟applicazione della norma non provoca particolari dubbi interpretativi, tuttavia al sorgere di un tertium genius di impresa, privatizzata ma sottoposta ad una forte influenza dello Stato, come nel caso delle

(179) Si veda C-367/98, pt. 16..

(180) Si veda a tal proposito LUPO M., op. cit., p. 48 e CAMARA P., (2002), The end of the golden age of

privatization?The recent ECJ decisions on golden shares, in European Business Organization Law

Review, n. 3, p. 507. (181) Si veda C-367/98, pt. 41.

imprese di cui ci stiamo occupando, la questione si complica (183). E‟ importante rilevare in questa sede le divergenze di opinioni maturate da un lato dall‟Avvocato Generale Colomer, dall‟altro dalla Corte di Giustizia, in merito alla possibilità dell‟Unione Europea di poter incidere sui poteri in capo all‟autorità pubblica relativamente alle questioni gestionali e all‟assetto proprietario delle stesse imprese. La riflessione di Colomer, imperniatasi attorno all‟art. 345 del Trattato del funzionamento dell‟Unione Europea (TFUE), costituì una vera e propria “esegesi storica e teleologica”(184

) della norma stessa. Colomer in particolare si soffermerà sul fatto che l‟ampiezza che caratterizza la disposizione normativa non consenta di adoperare un‟interpretazione letterale della stessa, dal momento che il termine “regime di proprietà” si possa prestare ad interpretazioni differenti(185

). La stessa tradizione romanistica ci ricorda che “scire leges non est verba earum tenere sed vim ac

potestatem”(186) evidenziando con ciò la necessità di attribuire significato alle disposizioni giuridiche non soltanto attenendosi alla littera legis, ma interpretando la stessa alla luce di molti altri criteri, quali ad esempio il rapporto con le altre norme o il contesto storico-sociale di riferimento. L‟Avvocato Generale pertanto in questo contesto rigettò la possibilità di ancorarsi ad una interpretazione meramente tecnico-giuridica, privilegiando al contrario un‟argomentazione di natura economica. L‟armamentario logico-giuridico di Colomer si caratterizzò dunque per il ricorso da un lato ad un criterio di ermeneutica sistematica(187), dall‟altro al ricorso a metodologie interpretative di tipo storico-sociologico. Più in particolare l‟attenzione di Colomer si soffermò, per quanto riguarda il primo aspetto, sulla simbolicità e sulla forza espressiva della collocazione (la norma infatti si colloca nella parte sesta del Trattato destinata alle disposizioni generali e finali). Sotto il profilo della storicità, l‟analisi di Colomer si soffermerà sul tenore perentorio ed incondizionato del suo contenuto che sembra ricalcare in maniera pressoché inequivocabile la dichiarazione Schumann del 1950, secondo cui la “institution del la haute Autorité ne regime di préjuge en rien le regime de propriété des

entreprises”. Dall‟analisi delle argomentazioni dell‟Avvocato Generale è, in modo

particolare, rilevabile il massimo disallineamento dal dettato letterale della norma

(183) Cfr. LUPO M., op. cit., p. 49. (184) Vedi causa 367/98, pt. 49

(185) Di nuovo si veda LUPO M., op. cit., p. 49.

(186) Cfr. TORRENT E A. e SCHLESINGER P., Manuale di diritto privato, Ediz. 198, pp. 44-45.

(187) La tradizione celsiana sosteneva che incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius

proposita iudicare vel respondere (è incivile, senza esaminare interamente una legge, valutarne solo una

soprattutto per quanto attiene la definizione del concetto di “regime di proprietà”, questo sarebbe da intendersi secondo Colomer non già alla stregua del complesso di tutte quelle norme civilistiche desumibili dagli ordinamenti nazionali, le quali attribuiscono una titolarità, intesa in senso giuridico della proprietà di un‟impresa, ma anche in senso non giuridico, perciò sostanziale ed economico. Pertanto, nella ricostruzione teleologica dell‟art. 345 del TFUE Colomer comprende che la vera preoccupazione del legislatore non sia tanto la configurazione di un diritto di proprietà all‟interno degli Stati membri, materia che per altro non costituirebbe titolo competenziale dell‟Unione Europea(188

), ma piuttosto la proprietà degli enti operanti nell‟economia. E‟ quindi così desumibile dalle argomentazioni dell‟Avvocato Generale il fatto che le norme che attribuiscono agli Stati dei poteri speciali non siano di per se‟ inconciliabili con l‟apparato normativo comunitario, ciò che piuttosto dovrebbe passare al vaglio di un‟attenta analisi dell‟Unione Europea è il regime di applicazione degli stessi, dal momento che, secondo l‟Avvocato Generale, l‟elemento potenzialmente lesivo delle libertà fondamentali dell‟U.E. e del principio di non discriminazione, come previsto dai Trattati , sarebbe evidente per lo più nella fase di applicazione, che in quella di definizione dei suddetti poteri. Seguendo la linea interpretativa di Colmer il concetto di regime di proprietà, come espresso all‟art. 345 del TFUE, verrebbe ad appiattirsi completamente su quello di “titolarità economica”, il quale in una accezione espansiva ingloberebbe anche i provvedimenti istitutivi delle golden shares, le quali altro non sono che prerogative del tutto equiparabili ad una qualche forma di titolarità delle imprese. Conseguenza ultima di tale ragionamento sarebbe dunque quello che alle

golden shares, o più precisamente, alle misure che conferiscono allo Stato poteri

speciali nell‟ambito delle società privatizzate, si applichi l‟art. 345 del TFUE, il quale stabilisce un principio di sostanziale neutralità del diritto dell‟Unione Europea rispetto alle norme nazionali oggetto di studio. La Corte tuttavia non sembrò subire alcuna influenza relativamente alle argomentazioni dell‟Avvocato Generale e pertanto rimase fermamente ancorata a quella posizione secondo cui l‟articolo in questione non

(188) Ricordiamo infatti che le competenze dell‟Unione Europea possono essere suddivise in tre macro -

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