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LE UNIONI DI COMUNI TRA NORMA E REALTÀ. IL CASO DELL'UNIONE DELLA VALDERA

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Introduzione

Il Comune, come noto, è il più importante tra gli enti locali, non solo per le sue funzioni, ma anche per la sua storia plurisecolare. Con la Legge 20 marzo 1865, n. 2248, rubricata

<<Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia>>, è stato adottato un sistema accentratore di

derivazione francese - napoleonica che era stato peraltro recepito, con poche varianti, da diversi Stati italiani preunitari. Si trattava di un ordinamento basato su una forte amministrazione centrale che si avvaleva, su base provinciale, dell’istituto prefettizio chiamato a vigilare sul corretto svolgimento delle funzioni da parte dell’amministrazione locale secondo le direttive e gli indirizzi centrali. Il modello francese è ancora oggi un punto di riferimento di notevole rilievo per comprendere i tratti di fondo del sistema di governo locale italiano. Tra i criteri fondamentali di tale modello che sono perdurati nel tempo è certamente da ricordare il principio di

generalizzazione del regime comunale in contrapposizione con

quanto affermato nell’Ancien Régime in cui il potere locale era considerato un privilegio concesso. Il Comune è diventato col tempo anche in Italia un ente generale e necessario ed oggi questa risulta una realtà consolidata. È inoltre da citare il criterio di parcellizzazione che ha visto in Francia una forte frammentazione territoriale che ha portato alla formazione di

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circa 44.000 municipi. A questo dobbiamo sommare il criterio di uniformità secondo cui, indipendentemente dalle dimensioni, si applica la medesima disciplina sia alle grandi città sia ai piccoli paesi così da creare una disparità tra gli stessi Comuni. La conquista, da parte dei Comuni, di un’autonomia che li rendesse capaci di esercitare funzioni amministrative, è stata frutto di un lungo percorso normativo. Ma, nonostante il passare degli anni abbia portato con sé cambiamenti significativi in materia, l’efficienza comunale nello svolgimento delle funzioni amministrative è stata intralciata dalla presenza dei c.d. “Comuni polvere”. Questi ultimi sono stati il risultato di una politica non troppo attenta che ha permesso il proliferare degli enti locali senza l’adozione di adeguate misure, così da dover intervenire successivamente con misure di natura collaborativa volte a “riparare il danno”. Tra tutte le ipotetiche misure di cooperazione ed aggregazione, in particolare, le Unioni di Comuni sono state pensate come la soluzione migliore per rispondere ad obiettivi di efficienza ed efficacia.

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CAPITOLO I

L’ALLOCAZIONE DELLE FUNZIONI

AMMINISTRATIVE ALLE AUTONOMIE

TERRITORIALI NELL’ORDINAMENTO

COSTITUZIONALE E NELLA SUA ATTUAZIONE

1. Il principio autonomistico nella Costituzione italiana e la sua attuazione

L’accentramento tipico del nostro sistema pre-costituzionale e le disastrose conseguenze della dittatura

fascista hanno favorito l’insorgere di correnti di pensiero favorevoli ad un sistema ispirato al principio pluralistico dal punto di vista politico, sociale, ideologico e istituzionale. Alla base del pluralismo si trovano i concetti di autonomia e decentramento. E infatti, l’art. 5 della Costituzione italiana del 1948 proclama il riconoscimento e la promozione di tutte le autonomie locali, sancisce il principio del decentramento amministrativo nell’ambito dell’apparato statuale ed invita il legislatore ordinario ad adeguare <<i principi ed i metodi della

sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento>>1. Il principio di autonomia, che incontra il confine della Repubblica <<una e indivisibile>>, diviene così

1 F. Staderini, P. Caretti, P. Milazzo (a cura di), Diritto degli Enti Locali, CEDAM,

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uno dei principi fondamentali della democrazia italiana. Il principio di autonomia locale implica fondamentalmente il riconoscimento a Comuni e Province, enti esponenziali di collettività territoriali, di potestà pubbliche nel perseguimento di finalità e di interessi propri delle rispettive collettività, secondo un proprio indirizzo politico–amministrativo, distinto e relativamente indipendente da quello statale: a ciò si affiancano importanti risvolti di garanzia che vanno dal carattere elettivo degli organi, l’alleggerimento dei controlli, alla dotazione di mezzi finanziari per l’esercizio delle funzioni amministrative. Il principio di autonomia nella Costituzione italiana trova “svolgimento e specificazione” nel Titolo V, Parte II, e dunque conosce un ampio rinvio alla legge ordinaria la quale però trova “un limite invalicabile nello stesso principio costituzionale di autonomia”2, come specificato dalla giurisprudenza

costituzionale, secondo cui è necessario “di volta in volta”, accertare se le disposizioni legislative si siano mantenute nell’ambito strettamente necessario a soddisfare esigenze generali ed abbiano lasciato agli enti locali quel minimo di poteri richiesto da quella autonomia di cui essi devono godere3. L’autonomia è poi un concetto plurivalente che comprende diverse chiavi di lettura ed è affiancato da varie aggettivazioni:

2 L. Vandelli, I Comuni e le Province, in S. Bartole, F. Mastragostino, L.Vandelli (a

cura di), Le autonomie territoriali, Il Mulino, 1984, p. 230.

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autonomia politica, organizzativa, normativa, amministrativa, finanziaria. Per quanto riguarda il decentramento invece, questo si è risolto in termini poco significativi dal momento che prevede il permanere di una forte soggezione gerarchica dell’autorità periferica nei confronti dello Stato. Infatti non si può sottacere che il disegno del formulato costituzionale del 1948 era pur sempre quello di una Repubblica “che procedeva dall’alto”, informata cioè ad una visione che restava comunque “Stato-centrica”, con un’articolazione in più livelli di autonomia secondo un ordine verticale di poteri derivanti dall’ordinamento statuale4. L’originario articolo 114 della Costituzione affermava la ripartizione della Repubblica in Regioni, Province e Comuni, identificando questi come i tre enti autonomi e decentrati. La vera rivoluzione però ha riguardato l’ente Regione, di cui sono stati nel corso degli anni definiti i tratti fondamentali fino ad arrivare, con la successiva riforma del Titolo V avvenuta nel 2001, a rivestire un ruolo preminente tra gli enti pubblici territoriali. Al contrario, a Comuni e Province facevano riferimento poche disposizioni. L’assemblea costituente, pur non avendo rinunciato a stabilire concreti elementi di garanzia autonomista in materia di enti locali, ha concentrato l’attenzione sulle questioni che riguardavano l’ordinamento regionale, percepite come più problematiche, delicate e politicamente

4 E. De Marco (a cura di), Il regime costituzionale delle autonomie locali tra processi

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rilevanti. Inoltre, il fatto che il sistema comunale e provinciale presentasse una importanza esclusivamente amministrativa e, al tempo stesso una tradizione solida e radicata, indusse ad un dibattito assai meno vivace, approfondito e innovativo5. L’ordinamento delle autonomie locali era rimesso, per espressa scelta del Costituente, interamente alla potestà legislativa dello Stato (art. 128). Infatti <<appare evidente dal testo dell’art. 128

Cost. che il principio dell’autonomia comunale non può comportare una autonoma e ingiustificata eliminazione di ogni potestà di intervento statale, sul piano legislativo, nell’ambito dei principi generali e nel perseguimento di quei fini che lo Stato riconosce come propri anche nella articolazione che si esprime a livello delle amministrazioni locali>>6. In relazione ai poteri

delle Regioni, l’art. 117 prevedeva una competenza legislativa in materia di “circoscrizioni comunali”, nonché in relazione ad una serie di materie di tradizionale competenza locale7. Infine, dal

punto di vista amministrativo, l’art. 118 Cost. stabiliva che fosse lo Stato ad individuare le funzioni di interesse esclusivamente locale, mentre era previsto che le Regioni esercitassero normalmente le loro funzioni tramite delega agli enti locali8. In

5 L. Vandelli, Il sistema delle autonomie locali, cit, p. 25. 6 Si veda Corte Costituzionale, sentenza 20 giugno 1977, n. 18.

7 Il riferimento è alle materie: polizia locale urbana e rurale, beneficienza pubblica,

urbanistica e viabilità.

8 Ex art. 118 Cost: “Spettano alla Regione le funzioni amministrative per le materie

elencate nel precedente articolo, salvo quelle di interesse esclusivamente locale, che possono essere attribuite dalle leggi della Repubblica alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali. Lo stato può con legge delegare alla Regione l’esercizio di altre

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quest’ottica di forte uniformità del sistema delle autonomie locali e di parallelismo tra funzione legislativa regionale e funzione amministrativa delle stesse, un ruolo di forza era riservato in capo allo Stato attraverso una serie di controlli e di poteri di intervento nei confronti di Regioni ed enti locali. Il sistema della finanza locale, infine, risultava essere essenzialmente di tipo derivato, ovvero riconducibile ai trasferimenti statali, per quanto l’autonomia finanziaria delle Regioni avesse trovato un formale riconoscimento nell’art. 119 Cost. Alla luce delle considerazioni fatte, appare evidente che, da una parte, allo Stato era riconosciuta una forte supremazia nei confronti delle autonomie locali, dall’altra, le stesse autonomie locali apparivano condizionate dallo Stato e dalle Regioni9. In

particolare, le ambiguità presenti nel testo costituzionale del 1948 non hanno innestato un virtuoso meccanismo di integrazione tra i diversi livelli di governo, ma hanno consolidato le sovrapposizioni tra Stato e Regioni e lo scarso coordinamento degli interventi per timore di un neo-centralismo regionale, rafforzando così il ruolo di supremazia dello Stato. Tutti questi fattori hanno poi pesato a lungo sull’efficienza delle politiche pubbliche a livello territoriale.

funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”.

9 Diverso il caso delle Regioni a Statuto Speciale, talune già tradizionalmente

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A ciò hanno fatto seguito anni di silenzio sulle riforme degli enti locali. La prima legge organica di attuazione delle autonomie locali è rappresentata dalla legge 8 giugno 1990, n. 142, che ha rappresentato l’inizio di un processo di riforma. Essa rispondeva all’esigenza di un corpus normativo che incrementasse l’autonomia degli enti locali a discapito di uno Stato che avrebbe dovuto fissare prevalentemente principi generali. La legge n. 142/1990 ha dunque riscritto la normativa sull’ordinamento locale provvedendo a conferire una significativa autonomia statutaria e regolamentare a Comuni e Province. Il problema dell’esatta configurazione dell’ambito dell’autonomia locale iniziava a porsi quindi in maniera più evidente con particolare riferimento all’individuazione dei necessari strumenti di coordinamento tra livelli di governo, ma solo negli anni 2000 seguirà una nuova riforma del medesimo Titolo V della Costituzione come tentativo di risposta alle numerose lacune del passato in tale materia.

2. Il conferimento delle funzioni amministrative alle autonomie territoriali nel pre e nel post riforma del Titolo V della Costituzione

2.1 L’allocazione delle funzioni amministrative nella Costituzione del 1948

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Come è stato bene evidenziato sul piano storiografico,

<<le “ragioni delle Regioni” del 1947 non coincidono con le “ragioni delle Regioni” del 1970>>; ciò a dimostrazione del

fatto che, <<di fronte ad ogni posizione di favore o contro

l’autonomia regionale>>, intervengono i molteplici interessi

politici, funzionali ed economico-sociali ascrivibili alle varie forze coinvolte10. Per questo motivo il processo di regionalizzazione e la conseguente allocazione delle funzioni amministrative tardarono a trovare spazio nella legislazione statale.

I faticosi interventi statali relativi all’allocazione delle funzioni amministrative, iniziarono con la L. n. 150/1953, con cui fu attribuita al Governo la delega legislativa, poi prorogata con la successiva L. n. 343/1954, per trasferire funzioni statali di interesse esclusivamente locale, già di competenza di organi centrali dell’amministrazione statale, ad organi locali, nonché a Comuni, Province ed altri Enti locali. A questi primi interventi, è seguita la L. n. 249/1968, che all’art. 3, nel testo sostituito dalla L. n. 775/1970, attribuiva la delega al Governo al fine di emanare, entro il 30 Giugno 1972, uno o più decreti legislativi per il riordino dei servizi periferici dello Stato, <<in relazione

al decentramento amministrativo, previsto dall’art. 5 della Costituzione, di tutte le funzioni amministrative, ad eccezione di

10 V. Tondi Della Mura, La strumentalità delle Regioni dall’Unità in poi, in

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quelle che attengono ad affari di interesse nazionale o internazionale o che comportino un rilevante impegno di spesa>>. Il termine del 30 giugno 1972 venne fatto scadere

senza che il Governo usufruisse della delega conferitagli in materia. A questa però fece seguito un’ulteriore delega, contenuta nella successiva L. n. 382/1975, conferita affinché il Governo potesse provvedere, in maniera più consistente e coerente rispetto al passato, al trasferimento di funzioni alle Regioni e all’attribuzione di competenze a Province e Comuni. I principali interventi legislativi di regionalizzazione sul riparto di competenze tra Stato e Regioni (ed enti locali) sono stati previsti dai D.P.R. n. 4/1972, e n. 616/1977, nonché dalla L. n. 349/1977 e riguardavano principalmente l’assistenza sanitaria ed ospedaliera.

Considerando invece le riforme normative intervenute successivamente alla L. n. 142/1990, di particolare rilievo è stata certamente la Legge 15 Marzo 1997 n. 59, nota come Legge

Bassanini, dal nome del ministro proponente. Il titolo della legge «Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa», non

deve indurci a pensare ad un intervento effettuato sulla scia di quelli compiuti dal legislatore nel 1972 e nel 1977 per i decreti di “regionalizzazione”. Non si è trattato, infatti, di un mero

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provvedimento per promuovere il decentramento amministrativo, ma di una vera e propria riforma di sistema generale dei pubblici poteri che ha introdotto il cosiddetto

federalismo amministrativo. Quindi il disegno devolutivo

contenuto nella L. n. 59/1997 consisteva nella riorganizzazione globale delle funzioni amministrative pubbliche secondo il principio orientativo dell’art. 5 Cost., ricollocando le diverse materie ad un livello territoriale che privilegiasse, in tale allocazione, i livelli più vicini al cittadino – utente, secondo il principio di sussidiarietà. Si è trattato di un processo nel quale il ruolo centrale dello Stato è stato affiancato da Regioni ed autonomie locali come veri e propri co–protagonisti. In particolare, il co. 2 dell’art. 1 dichiara che «sono conferite alle

Regioni e agli enti locali (...) tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità».

Un’affermazione simile porta ad un radicale ribaltamento del criterio base di riparto delle funzioni amministrative tra Stato, da una parte, e Regioni ed enti locali dall’altra, andando ben oltre la sfera delle competenze regionali individuata dalla precedente formulazione del co. 1 dell’art. 117 della Costituzione. Il principio di sussidiarietà ha poi trovato applicazione anche nei rapporti tra Regioni ed enti locali sulla base dell’art. 4 della Legge n. 59/1997, secondo cui «nelle materie di cui all’articolo

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117 della Costituzione, le Regioni (...) conferiscono alle Province, ai Comuni e agli altri enti locali tutte le funzioni che non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale». Per

conferimento si intendono sia il trasferimento, sia la delega, sia l’attribuzione di funzioni e compiti.

Il principio di sussidiarietà è stato quindi ispiratore di un assetto decentrato che non si muove più dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto. La c.d. Legge Bassanini, aveva inteso la sussidiarietà in funzione della semplificazione amministrativa, rivelando “una propensione riduttiva, una visione degli apparati come macchina”11, senza alcuna considerazione per l’agire dei

cittadini nei cui confronti l’operato delle istituzioni si configura, appunto, come sussidiario per effetto della riforma costituzionale.

Il principale decreto attuativo della L. n. 59/97 è rappresentato dal D.lgs n. 112/1998, intitolato <<Conferimento di funzioni e

compiti amministrativi dello Stato alle Regioni e agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997 n. 59>> il

quale ha dato attuazione alla delega di cui all’art. 1 della L. n. 59, prevedendo al suo interno un complicato, ma efficace meccanismo per l’individuazione in concreto, e settore per settore, delle funzioni da trasferire o conferire invece agli enti

11 G. Arena e G. Cotturri, Il valore aggiunto, Come la sussidiarietà può salvare l’Italia,

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territoriali12. Col medesimo decreto legislativo sono state stabilite anche le modalità di trasferimento dei beni e delle risorse relative alle funzioni trasferite o conferite. Tale decreto, ha previsto, oltre al trasferimento di funzioni e compiti ai livelli di governo territoriale decentrati (sussidiarietà verticale), anche il principio di sussidiarietà orizzontale, al fine di favorire l’assolvimento di funzioni di rilevanza sociale da parte delle famiglie, delle associazioni e delle comunità. Accanto al principio di sussidiarietà si è sviluppato poi il principio di unità

e responsabilità sancito dall’art. 4, co. 3. lett. e) della L. n.

59/1997. In base a tale principio le funzioni devono essere conferite in modo unitario in capo al soggetto che ne sia titolare e in maniera da costituire la responsabilità di un servizio, di un’attività, di un risultato nei confronti dei destinatari o degli interessati. L’idea base è dunque quella della responsabilità unitaria delle singole amministrazioni, attorno alla quale si muovono tutti gli altri principi ad essa connessi e che mirano a fare in modo che il conferimento realizzi compiutamente l’omogeneità delle funzioni in capo allo stesso soggetto. Il fine ultimo di tale principio consiste nel fare in modo che il conferimento si svolga nel modo più organico possibile, configurando i soggetti destinatari unitariamente responsabili più che di una singola funzione, di un compito articolato in tutte le

12 L. Salvaggio (a cura di), Il principio di sussidiarietà nella riforma del Titolo V della

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funzioni ad esso connesse. È facile dunque intuire come tale principio ricomprenda in sé quel principio di sussidiarietà tendente a configurare un riparto di funzioni tra i differenti livelli di governo non già come funzioni o come parti e segmenti di funzioni, bensì come vere e proprie responsabilità unitarie da conferire al livello di governo più prossimo ai cittadini e, al tempo stesso, il più efficiente. Il principio di unità e di responsabilità viene inoltre incontro alla necessità di garantire al soggetto preposto allo svolgimento del compito conferito le risorse necessarie e a far sì che tale attribuzione conduca effettivamente ad un esercizio decentrato delle funzioni. Affermare dunque l’unità e la responsabilità dell’ente significa provvedere a trasferirgli quelle risorse umane, finanziarie e strumentali tali permettergli di esercitare effettivamente i compiti di cui è diventato titolare. Al tempo stesso, nell’affermare ciò e nel sancire il principio di responsabilità si vuole riconoscere in capo all’ente una sfera di autonomia decisionale in materia di organizzazione e gestione delle risorse ad esso trasferite. Le implicazioni immediate di tale principio si hanno, ad esempio, nell’istituzione dello sportello unico delle attività produttive e nel contestuale conferimento dello stesso ai Comuni. Questo è solo uno dei tanti esempi che seguono l’affermazione di questo principio e che riflettono un vero e proprio mutamento della visione da parte del legislatore: da

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un’amministrazione che chiedeva ai cittadini di adeguarsi e conformarsi alle procedure e alle regole che essa dettava, ad un modello in cui sono le realtà sociali, economiche e territoriali a plasmarne la fisionomia, per fare in modo che essa sia orientata al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini-utenti. Vi sono poi altri principi alla base di questo intervento normativo (art. 4, L. n. 59/1997): il principio di efficienza e di economicità, volto a far sì che la pubblica amministrazione sia in grado di realizzare le stesse funzioni amministrative attraverso l’impiego sempre minore di risorse economiche e alla parallela riduzione degli sprechi attraverso la soppressione delle funzioni e dei compiti divenuti superflui. Strettamente legato all’efficienza e all’economicità troviamo, nella stessa disposizione, il richiamo al principio della copertura finanziaria e patrimoniale dei costi

per l’esercizio delle funzioni amministrative, volto ad evitare che

tale attività sia svolta creando nuovo debito pubblico. A questi si aggiungono il principio di omogeneità, volto a fare in modo che agli stessi livelli di governo vengano il più possibile attribuite le medesime funzioni e i medesimi compiti, e quello di

cooperazione tra Stato, Regioni ed enti locali, sancito anche al

fine di «garantire un’adeguata partecipazione alle iniziative adottate nell’ambito dell’Unione europea». Infine, occorre ricordare anche un altro principio che assume una rilevanza particolare per quanto concerne il metodo e la procedura della

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costruzione del sistema regionale delle autonomie locali (art. 3, co. 1, lett. c e art. 4, co. 1): il principio di partecipazione degli enti locali alla definizione del riassetto delle funzioni, in base al quale le Regioni provvedono al conferimento delle stesse «sentite le rappresentanze degli enti locali». Affermazione questa che, per quanto importante, non risulta avere una portata estremamente incisiva se non fosse stata ripresa in modo ben più ampio e perentorio da parte del D.lgs. n. 112 del 1998, il quale lo ha trasformato in principio ordinatore di carattere stabile e continuativo nei rapporti tra Regioni ed enti locali. L’art. 3, co. 5 del decreto, infatti, si spinge ad affermare che «le Regioni

nell’ambito della propria autonomia legislativa prevedono strumenti e procedure di raccordo e concertazione, anche permanenti, che danno a forme di cooperazione strutturali e funzionali, al fine di consentire al collaborazione e l’azione coordinata fra regione ed enti locali nell’ambito delle rispettive competenze». In questo modo, riprendendo tra l’altro il progetto

della Commissione bicamerale del 1992 che prevedeva l’istituzione nell’ambito di ciascuna Regione di una Camera regionale delle autonomie, la partecipazione diviene un modo di essere continuativo e stabile dei rapporti tra Regione ed enti locali volta alla costruzione di un sistema regionale delle autonomie locali nell’ambito del quale l’autonomia regionale

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rappresenta il punto d’incontro e il coronamento delle autonomie locali nella comunità regionale.

L’attuazione del federalismo amministrativo diventa dunque l’occasione per dare vita a quelle strutture di concertazione e di raccordo di carattere stabile con finalità di coordinamento e cooperazione che modificano in sostanza anche i processi decisionali. Attraverso la Legge di delega n. 59/1997 e il D.lgs. n. 112 del 1998 si arriva a configurare in via normativa quel sistema di rapporti tra Regioni ed enti locali basati sulla reciproca partecipazione e il coordinamento garantito che molti auspicavano fin dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

2.2 L’allocazione delle funzioni amministrative dopo la riforma del Titolo V

In attuazione della Legge n. 265/1999 con cui si è avanzata una specifica riforma dell’ordinamento delle autonomie locali è stato adottato il D. Lgs. n. 267/2000, contenente il «Testo Unico

delle leggi sull’ordinamento degli enti locali», che di fatto non

rappresenta solo una raccolta delle precedenti normative, ma anche il risultato di una razionalizzazione e riscrittura della normativa vigente in materia.

Tale corpus normativo è stato tuttavia velocemente superato dagli eventi: a pochi mesi dall’entrata in vigore del TUEL,

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infatti, è intervenuta la Legge Cost. n. 3/2001, la quale, aggiungendosi alle precedenti Leggi Cost. nn. 1/1999 e 2/2001, ha completato l’intera riscrittura del Titolo V della Costituzione. Va subito messo in rilievo come, a seguito della riforma costituzionale, è mutato lo stesso “ambito di materia” (di competenza statale) sulla base del quale il vigente Testo unico era stato emanato13. Il precedente dettato costituzionale, come si è visto, aveva previsto scarsi strumenti di collegamento tra i diversi livelli di governo e una posizione di supremazia dello Stato nei confronti delle autonomie, soprattutto quelle locali, mentre il nuovo Titolo V della Cost. vuole superare tale concezione riconoscendo nuovi spazi di autonomia alle Regioni e maggiori ambiti di intervento alle amministrazioni locali. In particolare, il nuovo art. 114 della Costituzione sancisce un principio di pari dignità tra gli enti locali, stabilendo che la Repubblica «si riparte in Regioni, Province e Comuni» ma «è

costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato» e riconosce il principio del

“pluralismo istituzionale paritario”, in forza del quale in unico ordinamento convivono una pluralità di ordinamenti territoriali minori, fra di loro equiordinati e, dunque, connotati da una pari dignità istituzionale. Così è venuto meno quel rapporto privilegiato che legava Repubblica e Stato prima della riforma

13 G. Martini, Il Tuel e la funzione amministrativa degli enti locali: la sussidiarietà e

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costituzionale del 2001 e che, come si è detto, comportava una preminenza di quest’ultimo nei confronti delle Regioni e degli altri enti locali14. Gli enti territoriali diventano quindi elementi

costitutivi della Repubblica anche se, come ha affermato la Corte Costituzionale15, <<Lo stesso articolo 114 della Costituzione

non comporta affatto una totale equiparazione tra tali enti in esso indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che Comuni, le Città metropolitane e le Province non hanno potestà legislativa>>, per quanto a questi

ultimi sia riconosciuta, in nome della loro autonomia, la capacità di dotarsi di propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.

Per quanto riguarda il nuovo art. 117, che ridisegna il quadro della ripartizione legislativa tra Stato e Regioni, da un lato, al co. 2, lett. p), «riserva alla potestà legislativa dello Stato la

disciplina di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane» e,

dall’altro, affida alla potestà legislativa esclusiva e concorrente delle Regioni la gran parte delle materie che rivestono interesse per Comuni e Province quali l’istruzione, la tutela della salute, governo del territorio, il coordinamento della finanza pubblica e

14 G. Martini, Il Tuel e la funzione amministrativa degli enti locali: la sussidiarietà e

la definizione delle materie e dei compiti, op. ult. cit.

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del sistema tributario, tra le materie concorrenti, e le circoscrizioni comunali, la polizia amministrativa locale, il commercio, i servizi sociali, la formazione professionale, l’assistenza scolastica, i musei e biblioteche degli enti locali, i trasporti e il turismo, tra le materie esclusive.

Inoltre, per le Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna), viene delineato un sistema a “geometria variabile” che prevede «ulteriori forme e condizioni di autonomia» da adattarsi con Legge dello Stato e nel cui procedimento gli enti locali sono coinvolti tramite un parere.

Per quanto riguarda l’allocazione delle funzioni amministrative, secondo il nuovo art. 118 Cost. viene meno l’affermazione di parallelismo tra funzioni legislative ed amministrative che aveva caratterizzato il precedente Titolo V. Ora, infatti, le funzioni amministrative sono riconosciute in primo luogo ai Comuni, salvo che non vengano attribuite a Stato, Regioni, Province e Città metropolitane per assicurarne l’esercizio unitario in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Quanto al principio di adeguatezza, questo fa riferimento all’idoneità dimensionale ed organizzativa dell’ente a garantire l’esercizio delle funzioni. Il principio di differenziazione impone di considerare ai fini dell’allocazione delle funzioni le differenti caratteristiche territoriali, demografiche e strutturali degli enti. Il

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principio di sussidiarietà, già espresso nella L. n. 59/1997 e nel D.Lgs n. 112/1998, è certamente tra i tre il principio cardine: gli enti locali sono titolari di funzioni proprie e conferite, nonché titolari di funzioni fondamentali individuate dalle leggi statali che poggiano su questo principio. In realtà, il nuovo art. 118, a differenza della versione precedente, non alloca le competenze, ma dice come le competenze vadano allocate […]. Inoltre, sempre l’art. 118, ultimo comma, assegna a tutte le articolazioni della Repubblica, dallo Stato ai Comuni, il compito di favorire

«l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale». In questo modo la

sussidiarietà diventa un principio di valorizzazione dell’apporto della società alle azioni che rivestono interesse per la collettività (sussidiarietà orizzontale). È poi significativa la previsione di un organo rappresentativo di Comuni e Province, il Consiglio delle autonomie locali, quale centro della consultazione tra Regione ed autonomie. Inoltre, vengono anche accantonati, in questa nuova riforma, i sistemi di controllo presenti inizialmente nella Costituzione, compresi quelli di carattere formale sui singoli atti amministrativi previsti sulle Regioni e gli Enti locali. Inoltre, il testo ora vigente prevede la partecipazione delle Regioni e delle autonomie locali ai procedimenti legislativi statali attraverso rappresentanti di Regioni ed autonomie locali alla Commissione Parlamentare per le questioni regionali.

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Infine, il nuovo art. 119 prevede il riconoscimento a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni dell’autonomia di entrata e di spesa. Con la riscrittura del Titolo V si è inteso pervenire ad una progressiva responsabilizzazione dei sistemi autonomistici regionali e locali nell’attribuzione delle funzioni amministrative e nell’adozione delle politiche tributarie. Si è individuato quindi, un sistema che ha affidato agli anzidetti enti territoriali non solo la gestione dei servizi pubblici locali, ma anche il compito di finanziarli con risorse proprie16. Essi stabiliscono tra l’altro tributi ed entrate propri, nel quadro di coordinamento della finanza pubblica e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali. Viene poi istituito un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale, riconoscendo allo Stato il compito di rimuovere gli squilibri economici e sociali tra gli enti locali con risorse aggiuntive. Sulla base di tale disposizione, si giungerà all’attuazione del c.d.

federalismo fiscale (L. n. 42/2009).

2.3 Le funzioni fondamentali dopo la riforma del Titolo V della Cost.

Le aspettative derivanti dalla revisione del Titolo V della Costituzione italiana non hanno prodotto i risultati sperati. La

16 E. Jorio, Le contraddizioni e i limiti applicativi dell’art. 119 della Costituzione, in

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formulazione contenuta nell’art. 118 per cui «le funzioni

amministrative sono attribuite ai comuni» risulta essere enfatica

rispetto al contesto in cui è inserita. La successiva Legge 5 giugno 2003, n. 131, c.d. Legge La Loggia17, per l’attuazione della riforma costituzionale, in merito all’ordinamento degli enti locali è finalizzata ad un adeguamento dell’impianto normativo vigente <<alla legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3 eliminando le

norme contrastanti e incompatibili>>. Quindi oltre alla delega

al Governo per l’attuazione dell’art. 117, co. 2, lett. p) e l’adeguamento dell’ordinamento locale, la suddetta legge detta anche disposizioni per l’attuazione dell’art. 118 Cost. in materia di esercizio delle funzioni amministrative. La Corte Costituzionale, ha avuto modo poi di chiarire, «che sarà sempre

la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta allocazione delle funzioni, in conformità alla generale attribuzione costituzionale, ai comuni o in deroga a essa, per esigenze di esercizio unitario, a livello sovracomunale»18. Di particolare importanza è la delega

prevista all’art. 2 della legge n. 131/2003 al Governo per l’individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane e per la revisione del TUEL. L’individuazione delle funzioni fondamentali dovrà prevedere,

17 Dal nome del ministro per gli Affari regionali, recante <<Disposizioni per

l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3>>.

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per ciascun livello di governo, «la titolarità di funzioni

connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun ente, essenziali e imprescindibili per il suo funzionamento e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento». I termini previsti dalle deleghe sono però scaduti

senza alcun esito. Interrotto il percorso legislativo del d.d.l. per la fine della legislatura19, il Governo successivo ha presentato un nuovo disegno di legge per l’individuazione delle funzioni

fondamentali di Province e Comuni, semplificazione dell’ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative, Carta delle autonomie locali, che non troverà adeguato seguito.

Ciononostante, viene emanata la Legge 5 maggio 2009, n. 42 sul “federalismo fiscale” per la disciplina dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali in attuazione dell’art. 119 della Costituzione. In proposito, il tema dell’individuazione delle funzioni fondamentali risulta centrale, anche se l’accento si sposta sui fini dell’attuazione della presente legge. Le funzioni fondamentali, la cui individuazione sarebbe servita al fine di individuare le risorse necessarie da destinare ai Comuni (oltre che l’entità dei fondi perequativi da destinare ai Comuni con minori capacità fiscali), trovano spazio <<ai soli fini

19 Era caduto il governo di centro-sinistra guidato il Pres. Romano Prodi e, con nuove

elezioni, aveva ottenuto la maggioranza il governo di centro-destra del Pres. Silvio Berlusconi.

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dell’attuazione della presente legge…in sede di prima

applicazione>>20. L’individuazione “provvisoria” delle funzioni fondamentali da parte della L. n. 42/2009 era volta così a perseguire non tanto l’obiettivo di ridefinire il volto funzionale di Comuni e Province nei suoi tratti fondamentali, quanto piuttosto di assicurare – in una prospettiva forse più prosaica ma non meno rilevante – un ambito certo di riferimento per la determinazione del fabbisogno standard ai fini del finanziamento degli enti locali21.

La normativa riconosce due elenchi di funzioni fondamentali: un primo elenco, già vigente ai sensi della legge n. 42/2009, e un secondo, in fase di approvazione da parte del Parlamento da parte del d.d.l sulla Carta delle Autonomie. L’art. 20, co. 1, lett. e) della Legge n. 42/2009 chiarisce inoltre che l’elenco contenuto nella legge vale in sede di prima applicazione per un periodo di cinque anni. A questa Legge segue il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito in Legge 30 luglio 2010, n. 122, secondo cui (art. 27), in attesa dell’individuazione delle funzioni fondamentali, queste ultime coincideranno con quelle di cui all’art. 21 della legge n. 42/2009, ovvero: a) le funzioni generali di amministrazione, gestione e controllo; b) le funzioni di polizia locale; c) le funzioni di istruzione scolastica; d) le funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti; e) le funzioni riguardanti la

20 Art. 21, co. 2, Legge n. 42/2009.

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gestione del territorio e dell’ambiente, fatta eccezione per l’edilizia residenziale pubblica e per il servizio idrico integrato; f) le funzioni del settore sociale. Si tratta quindi di poche funzioni che tengono conto dell’esistenza dei c.d. Comuni polvere con bassa densità demografica. A tale proposito la legge n. 122/2010 ha anche previsto, per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, l’obbligo dello svolgimento anche delle funzioni fondamentali in forma associata (art. 28). Le funzioni fondamentali, pure provvisoriamente individuate, costituiscono già nel 2010 - almeno negli intenti del legislatore statale peraltro affermati attraverso il ricorso a provvedimenti normativi d’urgenza – il dato funzionale attorno al quale ciascuna Regione, in ragione della oramai indiscussa rilevanza anche quantitativa delle materie di loro competenza, potrebbe ridefinire il quadro dei poteri locali, imponendo l’esercizio associato non solo ai Comuni più piccoli22.

Successivamente, il D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 135, tenta di individuare le funzioni fondamentali in un contesto definitivo e stabile. Le funzioni fondamentali, ex. art. 19, D.L. n. 95/2012, non sono più, identificate esclusivamente in quelle destinate al soddisfacimento dei bisogni primari delle collettività

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amministrate, ma ricomprendono in parte le funzioni “proprie”, cioè quelle storicamente esercitate (come, ad esempio, l’organizzazione dei servizi pubblici locali) o quelle che il Legislatore statale intendeva da tempo stabilizzare nella competenza comunale (come, ad esempio, il catasto).

La crisi economica e finanziaria apertasi nel 2008 ha portato il Governo ad adottare manovre finalizzate al controllo e al contenimento della spesa pubblica, soprattutto quella rivolta alle autonomie territoriali minori, in primis ai Comuni. È questa la

ratio del D.L. n. 95/2012 sulla spending review. Così, l’art. 19

del D.L. n. 95/2012, prevede che <<ferme restando le funzioni

di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione>>, costituiscono funzioni

fondamentali dei comuni: a) organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione

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di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’art. 118, co. 4 Cost.; h) edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; j) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi elettorali nell’esercizio delle funzioni di competenza statale; k) servizi in materia scolastica

L’ individuazione delle funzioni fondamentali operata con l’art. 19 del D.L. n. 95/2012 sembra caratterizzata, per quello che si è cercato di rappresentare, da una sorta di rinvio mobile alla legislazione statale e regionale di conferimento delle funzioni agli enti locali, piuttosto che da una determinazione “statica” dei compiti comunali da considerare come caratterizzanti ai sensi dell’art. 117, co. 1, lett. p) della Costituzione. In altri termini, proprio per il loro carattere “fondamentale”, ci saremmo aspettati che l’individuazione delle funzioni in questione venisse svolta dal Legislatore statale nell’esercizio della esclusiva competenza ad esso attribuita dall’art. 117 e che, una volta determinate, potessero essere sottoposte a possibili revisioni, ma

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pur sempre ad opera della legge statale adottata sulla base dello specifico titolo competenziale definito dalla Costituzione. Al contrario, la definizione delle funzioni fondamentali oggi affermata è assoggettata non solo ad una individuazione che deve necessariamente fare riferimento alla vigente legislazione statale e regionale sui conferimenti, ma in prospettiva risulta condizionata da futuri interventi che con legge statale o regionale potrebbero ridefinire gli assetti funzionali e che potrebbero tradursi in una riduzione dei compiti fondamentali dei Comuni23.

3. Il difficile percorso per una allocazione efficiente delle funzioni amministrative ai Comuni nell’ordinamento italiano

L’evoluzione storica in merito all’allocazione delle funzioni amministrative e non deve indurci a pensare ad un sistema ordinamentale dotato di stabilità. Infatti, il problema principale da affrontare attiene alle effettive capacità dei Comuni di svolgere in modo adeguato, efficace ed efficiente i molteplici compiti di cui sono i titolari.

Il nostro territorio, peraltro, è da sempre “colpito” da quel fenomeno di parcellizzazione istituzionale ben riassunto dai dati ANCI su base Istat, riportati nella tabella sottostante (tabella 1), secondi cui il numero dei Comuni italiani, ad oggi, è pari a 8.047;

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di questi, 5.627 sono piccoli Comuni (quindi hanno una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti) e rappresentano il 69,9 % sul totale dei Comuni regionali.

Rispetto all’anno 2014, il loro numero è sceso di 14 unità grazie ad alcune fusioni, così distribuite: Regione Lombardia (una fusione); Friuli Venezia Giulia (una fusione); Trentino Alto-Adige (tre fusioni); Regione Toscana (una fusione). Nonostante ciò, specialmente in alcune Regioni, il numero dei piccoli Comuni rimane altissimo. Il numero più alto di piccoli Comuni lo troviamo nelle Regioni Piemonte, Lombardia e Valle D’Aosta. Risultano essere critici anche i casi del Molise, con 125 piccoli Comuni su un totale di 136 Comuni (per un incidenza del 91,9 % sul totale dei Comuni regionali) e del Trentino Alto-Adige con 289 piccoli Comuni su 326 (per un’incidenza dell’88,7 % sul totale dei Comuni regionali).

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Guardando inoltre la tabella 2 vediamo che la maggior parte dei Comuni citati, precisamente 2.534 (pari al 45% del totale dei piccoli Comuni), è nella fascia demografica compresa tra i 1.001 e i 3.000 abitanti.

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Il contesto risulta ancora più problematico con riferimento ai Comuni con una popolazione inferiore a 1.000 abitanti. Nella tabella 3 sono, infatti, riportati dati che ci mostrano come questi rappresentino il 35,3 % dei piccoli Comuni e, come si può notare, nelle Regioni Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria e Molise questa tipologia di piccoli Comuni risulta essere quella più diffusa24.

Alla luce di quanto appena mostrato, si può ancora affermare che i c.d “Comuni polvere”, secondo la definizione data da Massimo Severo Giannini, ovvero quei Comuni con una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, restano una realtà consolidata nel nostro Paese. Le ridotte dimensioni demografiche e territoriali, unite alla inadeguatezza di apparati burocratici e di mezzi

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finanziari, rappresentano un reale impedimento ad una gestione efficiente dei servizi essenziali. Secondo studi specifici, la dimensione ideale di un ente locale, tale da consentire un assetto organizzativo e soddisfacente e migliori economie di scala, è fissato tra i 20.000 e i 40.000 abitanti25. Tornando alle tabelle precedenti, i dato che queste riportano non si possono certo definire positivi. I Comuni di tale consistenza demografica sono infatti poco più di 250 su un totale di oltre 8.000. Merita di essere citato il Rapporto della commissione Redcliffe – Maud, che ha proposto per il Regno Unito di unificare in un solo potere locale con una dimensione demografica minima di 250.000 abitanti, tutti i servizi precedentemente suddivisi in molteplici enti, organi e uffici. Si ricorda inoltre la Legge francese n. 71588/1971, rivolta a favorire fusioni e raggruppamenti di Comuni attraverso anche interventi coercitivi dei Prefetti.

Il problema, come si può vedere, non è solo nazionale. Altri Paesi hanno cercato, infatti, di ridurre il numero degli enti locali. Tali misure però non sono state facilmente implementabili in Italia, che tradizionalmente si è mossa in direzione espansiva. Questa scelta è legata prevalentemente a ragioni che vanno dall’orgoglio “di campanile” a timori da parte dei partiti politici di riduzione del personale onorario. Storicamente, nel primo dopoguerra, il numero dei Comuni era di circa 7.314. A seguito

25 F. Staderini, P. Caretti, P.Milazzo (a cura di), Diritto degli Enti Locali, cit, pp.

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di un’operazione fascista di soppressione autoritaria, il numero è sceso di circa un migliaio, ma ha continuato a crescere nel periodo successivo (7.810 nel 1951; 8.035 nel 1961; 8.092 nel 1990).

Già la lettura della Legge n. 142/1990 ci mostra un Legislatore consapevole di questa problematica. A questo proposito, come vedremo, sono state introdotte ed incentivate forme di cooperazione e aggregazione tra enti locali che hanno incontrato e incontrano tuttora, non poche difficoltà dettate, da una parte, da una normativa non sempre chiara e precisa e, dall’altra, da un incessante campanilismo che ha da sempre contraddistinto la storia della nostra Repubblica delle autonomie.

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CAPITOLO II

I MODELLI DI COOPERAZIONE TRA ENTI

LOCALI PER LO SVOLGIMENTO DELLE

FUNZIONI AMMINISTRATIVE. L’EVOLUZIONE

DEL MODELLO DELLE UNIONI DI COMUNI

1. Le forme di cooperazione tra enti locali: Convenzioni, Accordi di programma, Comunità montane, isolane e dell’arcipelago e Unioni di Comuni.

La forte parcellizzazione territoriale a cui abbiamo fatto più volte riferimento, ha negli anni posto l’istanza di razionalizzazione e semplificazione dei livelli territoriali a fronte dell’obbligo di garantire un efficace esercizio delle funzioni amministrative. L’evidente ritardo nell’approdo ad una legislazione attuativa del disegno costituzionale, per molto tempo, ha fatto sì che l’unico strumento di natura associativa fossero i Consorzi, volontari o obbligatori, previsti dal T.U. del 1934. Si trattava di associazioni di Comuni che costituivano veri e propri enti locali complessi, costituiti al fine di <<provvedere a determinati servizi

ed opere di interesse comune a più municipi o a più municipi e alla provincia a cui erano ricompresi>>26. Successivamente, diverse Regioni iniziarono ad articolare il territorio in comprensori per favorire nuovi livelli di aggregazione tra enti locali. Si trattava di ambiti di

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programmazione di livello intermedio tra Regioni, Province e Comuni. Con la Legge 3 dicembre 1971, n. 1102, vennero poi istituite le Comunità montane, enti pubblici associativi obbligatori disciplinati e costituiti con legge regionale, aventi funzione di pianificazione per lo sviluppo economico e sociale delle zone montane, spesso disagiate. Ma il legislatore del 1990, con la legge n. 142, ha voluto introdurre ulteriori strumenti, più flessibili, di collaborazione tra enti locali (da inserire accanto alle forme istituzionali di gestione) che non richiedono necessariamente una struttura burocratica rigida e volti a favorire forme congiunte di esercizio delle funzioni amministrative. Così, vengono introdotte le Convenzioni e gli Accordi di Programma. Questi, si sommano ai già citati Consorzi e, insieme alle Unioni di Comuni e alle Comunità Montane, isolane e d’arcipelago costituiscono, ad oggi, le più importanti forme di cooperazione tra enti locali, la cui disciplina di riferimento si trova contenuta nel T.U.E.L.

Le Convenzioni rappresentano la forma più semplice di accordo tra enti locali <<al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi

determinati, gli enti locali possono stipulare tra loro apposite convenzioni>> (art. 30 T.U.E.L.) e, benché stipulate ovviamente da tra

soggetti pubblici, sono inquadrate giuridicamente quali contratti di diritto privato. Caratteristica importante delle Convenzioni è quella per cui non vengono creati nuovi soggetti giuridici ma, sulla base di un accordo, si disciplinano attività che restano imputate agli enti intestatari. Per la loro costituzione è sufficiente quindi un accordo autorizzato e

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approvato dai Consigli degli Enti locali interessati con cui si determinano fini, durata, forme di consultazione dei soggetti contraenti, nonché i loro rapporti finanziari ed i reciproci obblighi e garanzie. Esistono due tipologie di Convenzioni distinte a seconda che la loro stipula sia spontanea ovvero sia indotta dalla volontà di un soggetto in grado di imporre la propria volontà. Nel primo caso ci troviamo davanti a Convenzioni facoltative, mentre nel secondo dinanzi a Convenzioni obbligatorie. Per le prime, il legislatore ha lasciato agli enti un margine più ampio senza creare intensi vincoli giuridici per provvedere alle esigenze di coordinamento e cooperazione. Per quanto riguarda, invece, le Convenzioni obbligatorie, queste sono disciplinate dall’art. 30, co. 3, T.U.E.L., secondo cui << Per la gestione a tempo determinato di uno

specifico servizio o per la realizzazione di un'opera lo Stato e la regione, nelle materie di propria competenza, possono prevedere forme di convenzione obbligatoria fra enti locali, previa statuizione di un disciplinare-tipo>>. L’ampiezza e la rigidità del vincolo dipendono dal

contenuto del disciplinare – tipo, nel quale la normativa statale e regionale può lasciare margini più o meno ampi di manovra per gli enti coinvolti. Il modello della Convenzione prevede la possibilità di istituire uffici comuni e, in questo caso, gli uffici operano con personale in distacco dagli Enti partecipanti all’accordo. Un esempio è quello della costituzione mediante Convenzione di uffici unici di avvocatura tra enti diversi per lo svolgimento di attività di consulenza legale, così come individuato dalla Legge 24 Dicembre 2007, n. 244 (Legge finanziaria

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per il 2008). Particolari tipi di Convenzione disciplinati dal T.U.E.L. possono poi riguardare i Segretari comunali (art. 98), il Direttore Generale (art. 108, co. 3) e i controlli interni (art. 147, co. 4). Importante è, infine, la previsione di una delega di funzioni da parte degli stessi enti a favore di uno di essi che opera, in tal caso, per loro conto e luogo. Quest’ultimo è un aspetto di grande rilevanza che ha innovato la disciplina in materia di Convenzioni rispetto al passato.

Le Convenzioni vengono disciplinate anche dalle recenti normative degli anni 2010 – 2012 come forma associativa alternativa o di ausilio alle Unioni di Comuni. Anche la Legge Delrio (Legge n. 56/2014) conferma la disciplina delle Convenzioni in quanto queste rappresentano uno strumento agile, estremamente flessibile, adattabile facilmente anche al mutare delle condizioni di gestione delle funzioni e servizi27.

L’Accordo di programma è disciplinato dall’art. 34 del T.U.E.L., al fine della realizzazione di azioni, opere ed interventi di notevole complessità. Infatti, attraverso l’Accordo di programma, Comuni, Province, Regioni, Amministrazioni dello Stato ed altri soggetti pubblici, possono condurre un’azione integrata e coordinata per il raggiungimento del fine comune prestabilito. Quindi ciò che lo distingue dalle Convenzioni è il maggior

27 A. Sacchi (a cura di), La gestione associata delle funzioni fondamentali dei Comuni

dopo la Legge Delrio (n.56/2014) e il Decreto Legge n. 90/2014, in Publika n. 54/2014.

L’art. 1, co. 107 della L. n. 56/2014 introduce un’assoluta innovazione in quanto estende i limiti demografici previsti per le Unioni di Comuni anche alle Convenzioni. L’intento originario del Governo era quello di porre fine alla possibilità di esercitare funzioni tramite Convenzioni, ma l’andamento del dibattito parlamentare ha invece condotto a far salvo, ancora per cinque anni, questo strumento alternativo. Il vero scopo è quello di indurre i Comuni a scegliere l’Unione piuttosto che la Convenzione. Cfr. F. Pizzetti, La riforma degli enti territoriali, Giuffrè, 2015, p. 239.

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numero e la più ampia diversità di soggetti che possono essere coinvolti. L’obiettivo è quello di snellire ed abbreviare i tempi dell’azione amministrativa da parte di diversi livelli di governo che definiscono all’origine un consenso unanime nel procedere. La legge non attribuisce specificatamente ad un soggetto partecipante all’accordo l’obbligo di ricoprire il ruolo di coordinatore. L’iniziativa per la stipulazione dell’Accordo spetta di volta in volta all’ente territoriale, Regione, Provincia o Comune, che possa considerarsi maggiormente competente per la realizzazione dell’opera oggetto dell’accordo. Gli enti interessati si riuniscono poi in sede di conferenza, ove si definiscono le azioni e i ruoli dei singoli partecipanti. A seguito, l’autorità che ha promosso l’Accordo, lo approva con un atto formale che dovrà poi essere pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione interessata. Al fine di vigilare sull’esecuzione dell’Accordo, è prevista la creazione di un collegio presieduto dal Presidente della Regione o della Provincia o del Sindaco e composto dai rappresentanti degli enti locali interessati, nonché dal commissario del governo nella Regione o dal prefetto nella Provincia interessata qualora partecipino all’accordo amministrazioni statali o enti pubblici nazionali. Tale collegio di vigilanza ha poteri sostitutivi nei confronti dell’amministrazione inadempiente. Questo profilo, insieme ad altri elementi, tra cui la possibilità di prevedere forme di arbitrato in caso di inadempienze, ci porta ad affermare che il mancato rispetto dell’Accordo costituisce inadempimento e che i provvedimenti degli enti coinvolti incompatibili con il contenuto

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dell’Accordo di programma possono essere oggetto di impugnazione per eccesso di potere. L’Accordo di programma, in sostanza, obbliga le parti al relativo rispetto e mira ad instaurare tra le stesse un effettivo rapporto di collaborazione durevole è regolamentato nei suoi sviluppi e controllato nei suoi esiti.

I Consorzi, come detto, rappresentano il più antico degli strumenti collaborativi tra enti locali. Tale modello ha subito nel corso del tempo, diverse modifiche. La disciplina dei Consorzi, era contenuta nell’art. 25 della Legge n. 142/1990, successivamente modificato dal D.L. n. 361/1995, convertito in Legge n. 437/1995 e infine trasfuso, con alcune modifiche, nell’art. 31 del T.U.E.L. In particolare, mentre l’art. 25 della L. n. 142/1990 rendeva possibili solo i Consorzi tra Comuni e Province, l’art. 31 del T.U.E.L., ha esteso la possibilità di creare Consorzi anche a tutti gli altri enti locali e agli enti pubblici28. Secondo quando espresso dal T.U.E.L, i Consorzi sono enti strumentali dell’ente locale per l’esercizio in forma associata di servizi e funzioni pubbliche. Il consorzio viene costituito con l’applicazione, in quanto compatibile, della normativa sulle aziende speciali prevista dall’art. 114 del T.U.E.L.29. Questa forma associativa, dotata di personalità giuridica, seppur più funzionale rispetto al passato, conserva la caratteristica della

28 La partecipazione ai consorzi da parte degli Enti Pubblici è consentita ove la stessa

sia prevista come possibile dalle leggi a cui sono soggetti gli Enti stessi.

29 Sono inoltre da ricordare le novità introdotte nella disciplina dei consorzi dall’art.

35 della legge n. 448/2001 che ha integrato l’art. 115 del T.U.E.L. in merito alle procedure di trasformazione delle aziende speciali in società per azioni estendendo la stessa normativa anche alle trasformazioni di consorzi, intendendosi sostituita dal consiglio comunale l’assemblea consortile.

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strumentalità dell’istituto rispetto, come vedremo, ad esempio, alle Unioni di Comuni, volte a realizzare una sinergia di più ampia portata tra gli Enti interessati. I Consorzi si distinguono in facoltativi ed obbligatori. Questi ultimi sono disciplinati dall’art. 31, ultimo co., T.U.E.L e prevedono che, in caso di rilevante interesse pubblico, lo Stato, con legge propria, con il successivo intervento di leggi regionali, ne disponga la costituzione di tali forme associative per l’esercizio di determinate funzioni e servizi. I Consorzi facoltativi, invece, possono essere di due tipi: Consorzi di servizi o di funzioni. Prima dell’entrata in vigore della Legge n. 448/2001, i Consorzi di servizi, gestivano attività a rilevanza economica o, se previsto dallo statuto, servizi sociali in forma imprenditoriale; successivamente all’entrata in vigore della Legge n. 448/2001 e alle modifiche introdotte in materia di servizi pubblici locali dall’art. 14, D.L. n. 269/2003 convertito in Legge n. 326/2003, i Consorzi di servizi possono gestire soltanto servizi pubblici a carattere non economico. I Consorzi di funzioni, invece, sono enti che gestiscono servizi sociali in forma non imprenditoriale o esercitano in forma associata funzioni amministrative strumentali, quali ad esempio quelle di segreteria, tecniche o di statistica. Questo tipo di Consorzi acquista la personalità giuridica con la sottoscrizione dell’atto costitutivo: la Convenzione. Il Consorzio si costituisce, infatti, per mezzo dell’approvazione, da parte dei componenti dei Consigli degli Enti interessati, di una convenzione e di uno statuto approvato a maggioranza assoluta. La convenzione, vero atto costitutivo del

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Consorzio, disciplina le competenze degli organi consortili, le finalità e la durata dell’accordo, mentre lo statuto definisce l’organizzazione, la nomina e le funzioni degli organi. La Legge n. 191/2009, come modificata dal D.L. n. 2/2010, convertito in Legge n. 42/2010, dispone

<<la soppressione, al fine del contenimento della spesa pubblica, dei Consorzi di funzioni, facendo salvi solo i bacini imbriferi montani costituiti ai sensi dell’art. 1 della Legge n. 959/1953. Dall’abrogazione dei Consorzi di funzioni sono altresì fatti salvi i rapporti di lavoro a tempo indeterminato esistenti per i dipendenti i quali vengono riassorbiti dai Comuni, nonché le funzioni e le risorse economiche con successione dei Comuni in tutti i rapporti giuridici facenti capo al Consorzio>>. L’organizzazione “strutturata” del Consorzio prevede poi

specifici organi rappresentativi dei diversi enti consorziati quali l’Assemblea del Consorzio, composta dai rappresentanti degli enti associati nella persona del Sindaco e il Presidente o di un suo delegato, ognuno con responsabilità proporzionale alla quota di partecipazione fissata dalla Convenzione e dallo Statuto30. È inoltre vietato costituire più di un Consorzio tra gli stessi enti locali. Il T.U.E.L. non stabilisce alcuna disposizione sullo scioglimento del Consorzio o il recesso da parte di uno degli enti consorziati, per cui l’ipotesi più plausibile è quella del mutuo consenso, in quanto rappresenta l’espressione di una volontà dei consorziati eguale e contraria all’assunzione del vincolo.

30 La quota di partecipazione viene determinata in considerazione del capitale conferito

da ciascun ente consorziato, la popolazione residente, il bacino di utenza, la media su base annuale della consistenza dei servizi e l’ammontare dei corrispettivi incassati.

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Le Comunità montane, tra le forme di cooperazione tra enti locali, pur non essendo di fatto una delle realtà contemplate dal Legislatore tra le forme associative, incontrano con le forme precedentemente descritte delle affinità tali da meritarne la trattazione congiunta. La Comunità montana è stata per la prima volta introdotta nel nostro ordinamento con la Legge n. 1102/1971, poi integrata e modificata dalla Legge n. 93/1981. Secondo le disposizioni ivi contenute, le Regioni dovrebbero, con propria legge: delimitare le zone omogenee e i Comuni chiamati a costituire la comunità montana; emanare norme per la formulazione di Statuti, l’articolazione e la composizione di organi amministrativi; fissare criteri di ripartizione per i finanziamenti sia statali che regionali, per la preparazione di piani di zona e i programmi annuali delle comunità stesse; regolare i rapporti con gli altri enti operanti nel

territorio. Per quanto riguarda l’organizzazione, sulla base delle L. n. 1102/1971, spettava alle Regioni prevedere un’assemblea (formata

da un certo numero di consiglieri eletti dai consiglieri comunali, con salvaguardia delle minoranze), una giunta esecutiva, un presidente, un collegio di revisori di conti (eletti tutti dall’assemblea). Le comunità montane venivano altresì definite <<enti di diritto pubblico>>. A questo proposito, la successiva Legge n. 142/1990 ha precisato che queste sono <<enti locali>> dotati di indipendenza funzionale e soggetti alla medesima disciplina normativa degli enti locali31. Ai sensi della L. n. 142/1990, inoltre, le Comunità montane sono costituite con

31 Possibili destinatari, quindi, di deleghe regionali secondo quanto previsto dall’art.

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Legge regionale tra comuni montani o parzialmente montani della stessa Provincia senza la necessaria appartenenza, sotto il profilo territoriale ed economico sociale, a zone omogenee. Vige, infine, il divieto di appartenenza alle Comunità montane a quei Comuni con popolazione superiore ai 40.000 abitanti. Nel tentativo di ridimensionare le funzioni, in specie quelle di programmazione, la Legge n. 97/1994 ha ampliato i poteri e le capacità di intervento delle Comunità montane, individuando settori omogenei di intervento mediante esercizio associato delle funzioni comunali32. Successivamente, la L. n. 265/1999 ha provveduto ad una revisione del precedente ordinamento, poi completata dal T.U.E.L. che, all’art. 27, co. 1, definisce espressamente le Comunità montane <<Unioni di Comuni>>, ponendo fine alla disputa relativa alla natura giuridica delle stesse. La riforma costituzionale del 2001 non ha invece preso in considerazione la figura delle comunità montane, rimaste escluse dal novero degli <<enti dotati di autonomia

costituzionalmente garantita>>. In questo senso si è espressa anche la

Corte Costituzionale33, che ha ritenuto le Comunità montane un <<caso

speciale di Unione di Comuni creata in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione di Comuni montani, funzioni proprie, funzioni conferite e funzioni comunali>>. Di fatto, in materia,

è rimasta una forte competenza residuale delle Regioni, alle quali sono stati chiesti, negli anni seguenti, interventi principalmente di

32 Si veda l’art. 11 della Legge n. 97/1994.

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razionalizzazione. In particolare, attraverso la L. n. 244/2007, è stato chiesto loro di provvedere alla riorganizzazione delle Comunità montane con finalità di riduzione della spesa. In caso di inadempimento la legge prevedeva la soppressione di certe tipologie di Comunità montane. La Corte Costituzionale34 ha poi dichiarato in parte l’incostituzionalità della L. n. 244/2007 ritenuta lesiva di determinate competenze rientranti nella competenza legislativa regionale. Nonostante ciò, con la Legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Legge finanziaria per il 2010), è stata disposta la cessazione del contributo statale a favore delle Comunità montane, comportando la progressiva riduzione delle stesse35, che si sono spesso “trasformate” in Unioni di Comuni, anche se ancora oggi esistono nel territorio nazionale zone con una fortissima presenza di Comunità montane nel territorio regionale36.

Le Comunità isolane o d’arcipelago sono state disciplinate dal T.U.E.L. (art. 29), che ha ritenuto applicabili alle stesse le norme sulle Comunità montane.37 I Comuni appartenenti ad un’isola di minori dimensioni

possono decidere di costituire o una Comunità isolana o una Comunità d’arcipelago, con l’estensione in questo caso delle dimensioni dell’ente associativo. A differenza delle Comunità montane che vengono istituite con atto del Presidente della Giunta regionale, le Comunità isolane o d’arcipelago si possono creare per iniziativa dei Comuni interessati.

34 Si veda Corte Costituzionale, sentenza del 9 Gennaio 2009, n. 237. 35 La Lombardia, nel 2009, ha ridotto le comunità montane da 30 a 23.

36 Il 90% in Trentino Alto Adige, Valle D’Aosta, Umbria e il 70% anche in Basilicata,

Molise, Abruzzo. Sono inoltre circa 9.000.000 i cittadini dei Comuni compresi in comunità montane.

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