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Il diritto di morire: una prospettiva de iure condendo

Nel documento Profili costituzionali del fine vita (pagine 74-80)

IL DIRITTO ALLA SALUTE

4. Il diritto di morire: una prospettiva de iure condendo

Preso atto dell’attuale quadro normativo e della consolidata interpretazione elaborata dalla giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, e tanto civile quanto penale, si può forse tentare di vagliare la possibilità di una evoluzione in senso ulteriormente permissivo da parte dell’ordinamento. Si tratterebbe, nella sostanza, di comprendere se, ed in che misura, possa esservi uno spazio costituzionalmente coperto per una disciplina positiva delle condotte riconducibili all’eutanasia attiva121.

La struttura argomentativa utilizzata alle volte da quella parte della dottrina che, è doveroso sottolinearlo, risulta a tutt’oggi minoritaria, muove dalla ormai pacifica accettazione delle forme passive attuative della volontà del paziente competente. Questa accettazione, o meglio, le sue ragioni resistenti alle critiche, rappresentano la premessa minore del ragionamento. La premessa maggiore è invece rappresentata dalla analogia tra critiche che tradizionalmente sono mosse alle forme attive, e quelle riferibili alle forme passive e, con riferimento a queste ultime, da ritenersi oramai definitivamente respinte. Ne conseguirebbe, secondo tale maniera di ragionare, che non vi sono ragioni né logiche né dogmatiche che giustificherebbero il permanere di una distinzione così

121 Nel presente paragrafo si farà, per questioni di semplicità espositiva, riferimento alla locuzione eutanasia attiva, senza ulteriori distinzioni tra i differenti fenomeni ad essa riconducibili

netta tra e due forme, anche e soprattutto per le severe conseguenze che sul piano penale sono riservate ad una sola di queste forme.

Dall’analisi di quella fattispecie di confine rappresentata, come visto, dal distacco della macchina, sembrerebbe infatti potersi evincere una sorta di precetto generale, in virtù del quale, di fronte al paziente competente che rifiuti le cure ma che non possa procedervi autonomamente, il dovere di non causare la morte in altri soggetti debba recedere, imponendosi piuttosto il dovere per il medico di intervenire122. Un simile precetto, tuttavia, pare potersi adattare, almeno a prima vista, tanto alle ipotesi in cui si chieda l’intervento di terzi per sospendere un trattamento, quanto alle ipotesi in cui quell’intervento sia richiesto per ottenere un trattamento.

Proseguendo ad analizzare i punti di contatto tra la forma attiva e quella passiva, sempre seguendo quel filo conduttore rappresentato dalle critiche a cui sono esposte entrambe, deve necessariamente farsi rifermento al carattere antirelazionale della condotta: a tale critica si risponde che l’ordinamento, anche a livello costituzionale, non esclude a priori la possibilità che sia previsto il dovere di uccidere. Così è stato del resto fino a meno di dieci anni fa per il caso della pena capitale prevista dall’art 27 Cost, ed oggi fortunatamente proibita, e così continua ad essere nell’ambito dell’ordinamento militare e delle forze dell’ordine123. 122 T. CHECCOLI, op.ult.cit., p. 31

Tale ricostruzione, deve ammettersi, suscita l’impressione di rendere l’intera faccenda più macabra di quanto forse non sia in realtà. Allo stesso tempo accetta deliberatamente di percorrere quella che generalmente viene considerata una delle slippery slope tipiche dell’eutanasia. La sostanza -e l’obiettivo- espressa in una maniera meno cruda, pare essere quella di uno spazio in cui, laddove si ritenesse degna di considerazione l’esigenza del paziente di ottenere un trattamento direttamente orientato a porre fine alle proprie sofferenze, avrebbero probabilmente equivalenti possibilità di accesso tanto soluzioni proibizioniste, quanto, invece, permissive. Indicazioni in tal senso provengono anche da una celebre sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo124, in merito alla vicenda di Diane Pretty che, pur escludendo la configurabilità di un diritto al suicidio assistito a livello comunitario, non preclude in alcun modo una diversa scelta da parte dei singoli Stati membri.

Del resto, oggettivamente, pare difficile distinguere, in termini sia morali che causali, la condotta del medico che “stacca la spina” da quello che somministra un cocktail letale di farmaci. Allo stesso tempo, la comprensibile ulteriore critica circa la configurazione di un “dovere di uccidere” in capo al medico, risulterebbe almeno in parte arginata dalla previsione di una valvola di sfogo rappresentata dalla possibilità di opporre obiezione di coscienza da parte dello stesso.

Un secondo argomento che varrebbe a confutare sia la forma attiva che quella passiva dell’eutanasia è rappresentato dalla (mancata) garanzia della revocabilità del consenso. Vi sarebbe infatti da ravvisare, secondo tale critica, l’assenza per il paziente di un lasso temporale per un eventuale suo ravvedimento. Questo è indubbiamente vero ma, ancora, dalla medesima critica potrebbe non andare esente nemmeno la fattispecie del distacco del presidio salvavita, e più in generale tutte quelle ipotesi in cui alla rinuncia della cura segue uno stato di incoscienza precedente alla morte, sarebbe a dire la quasi totalità dei decessi medicalizzati. Inoltre, tale esigenza di garanzia potrebbe vedersi almeno parzialmente soddisfatta dall’istituzione particolari procedure125 volte ad appurare, secondo standard di certezza ritenuti accettabili, la reale volontà del paziente, in maniera non dissimile da quanto già previsto in altri ordinamenti.

Alla luce di queste osservazioni, pare dunque non potersi escludere a priori, sul piano costituzionale, la legittimità di una normativa che possa introdurre forme di eutanasia attiva, anche in considerazione del fatto che le esigenze di uguaglianza espresse dall’art 3 della Costituzione renderebbero meno peregrina l’ipotesi di parificare la situazione dei pazienti, neutralizzando per quanto possibile l’incidenza delle particolari 125 Gli strumenti a cui si può fare ricorso sono vari: da un percorso di colloqui con

personale medico specializzato, ad una serie di esami che escludano la presenza di stati depressivi, alla previsione di un congruo lasso di tempo tra decisione ed esecuzione, fino a vincoli in materia ereditaria.

condizioni cliniche individuali nell’effettivo esercizio dei diritti loro riconosciuti126.

In tale prospettiva, con riferimento alla fattispecie attualmente regolata dall’art. 580, pur mantenendo inalterata la considerazione espressa dal diritto nei confronti del disvalore insito condotta di determinazione all’altrui suicidio, una depenalizzazione della sola partecipazione materiale al suicidio di un soggetto autonomamente determinatosi, ai soli fini pietistici connessi a determinate condizioni di salute, potrebbe rivelarsi foriera di maggiori benefici per i soggetti coinvolti di quanti pregiudizi arrechi alla stabilità dell’ordinamento nel suo complesso127.

Sembra in ultima analisi potersi avanzare l’ipotesi, ovviamente tutta da verificare, che a fronte di una assai maggiore solidità teorica della dottrina della libertà di morire, quella del diritto di morire offra forse una maggiore eguaglianza all’atto dell’applicazione, evitando quella paradossale constatazione che vedrebbe configurarsi il suicidio come un “diritto dei sani”128. In un simile raffronto il calcolo di costi e benefici 126 L. RISICATO, Dal diritto di vivere al diritto di morire, cit., p. 78 ss., parla di

“patente discriminazione” dell’articolo 579 c.p. “tra chi, essendo in grado di uccidersi, ponga fine alle sue sofferenze e chi invece, non potendo farlo

autonomamente, abbia bisogno della collaborazione di terze persone; F.GIUNTA,

Diritto di morire e diritto penale. I terminni di una relazione problematica, in

Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1999, pp. 403 ss.

127 Del resto quella del suicidio e delle norme ad esso inerenti rappresentano una delle questioni più discusse del diritto penale. Senza pretendere di riproporre in questa sede la discussione in materia, ci si limita a segnalare le osservazioni mosse in dottrina riguardo alla contraddittorietà del punire penalmente il concorso in una condotta che non rappresenta reato.

128 L’espressione è di M. LUCIANI in Suicidio, diritto dei sani, La Stampa del 30 aprile 2002, Editoriale. L’autore solleva forti dubbi sulla ragionevolezza della soluzione attualmente praticata, anche alla luce della posizione assunta dalla Corte EDU sul caso Pretty.

pare, in definitiva, potersi risolvere legittimamente tanto nell’una quanto nell’altra direzione.

CAPITOLO TERZO

IL VALORE DEL CONSENSO ALL’INTERNO DELLA

Nel documento Profili costituzionali del fine vita (pagine 74-80)