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L’avvento del consenso informato nell’ordinamento italiano: dal paternalismo medico al carattere (essenzialmente) morale

Nel documento Profili costituzionali del fine vita (pagine 80-87)

IL VALORE DEL CONSENSO ALL’INTERNO DELLA RELAZIONE DI CURA

1. L’avvento del consenso informato nell’ordinamento italiano: dal paternalismo medico al carattere (essenzialmente) morale

dell’alleanza terapeutica. Il percorso normativo,

giurisprudenziale e deontologico

Il tema del consenso informato ha trovato cittadinanza all’interno del nostro ordinamento solamente in epoca relativamente recente. Mentre a livello internazionale la prima menzione del concetto di informed consent risale al Codice di Norimberga del 1947129, seguito poi dalla dichiarazione di Helsinki della World Medical Association del 1964, sul piano nazionale se ne riscontra l’assenza fino ad una sentenza della prima metà degli anni novanta130. Del resto, lo stesso codice di deontologia 129 Secondo il cui articolo 1 “The voluntary consent of the human subject is absolutely

essential. This means that the person involved should have legal capacity to give consent; should be so situated as to be able to exercise free power of choice, without the intervention of any element of force, fraud, deceit, duress, overreaching, or other ulterior form of constraint or coercion; and should have sufficient

knowledge and comprehension of the elements of the subject matter involved as to enable him to make an understanding and enlightened decision. This latter element requires that before the acceptance of an affirmative decision by the experimental subject there should be made known to him the nature, duration, and purpose of the experiment; the method and means by which it is to be conducted; all

inconveniences and hazards reasonably to be expected; and the effects upon his health or person which may possibly come from his participation in the experiment”

130 Sul punto sembra che il ritardo nei confronti della dottrina e della giurisprudenza statunitense, che già assegnava al consenso informato una fisionomia ben delineata dal caso Salgo vs Leland del 1957, non abbia afflitto solo l’Italia, ma sia stato l’intero Vecchio Continente a scontare una trentennale attesa prima di affrontare compiutamente il tema, grazie alla firma, da parte degli allora dodici stati membri, dei c.d. Principi di etica medica Europea nel 1987. Sul tema, attenta ricostruzione si deve a S.AGOSTA, Bioetica e Costituzione, cit., p. 66 ss.

medica del 1995, primo riconoscimento latu sensu normativo del concetto in parola con riferimento al rapporto medico-paziente, ancora scontava la fisionomia solamente abbozzata dell’istituto, laddove al suo articolo 30 stabiliva che “il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate”131. E’ d’immediata percezione infatti come a risaltare sia il carattere meramente informativo della condotta imposta al medico, risolvendosi la stessa in una comunicazione sostanzialmente unidirezionale, nemmeno configurandosi la partecipazione del paziente al processo decisionale in qualità di controparte essenziale della decisione terapeutica.

Si capisce allora come l’evoluzione del concetto in parola sia stata di matrice essenzialmente giurisprudenziale, perseguita spesso per mezzo di una interpretazione che si è spinta ben al di là del dato letterale della norma. Esemplare in questo senso si può considerare la sentenza della Cassazione n. 346 del 1997, la quale, muovendo dall’articolo 33 della legge di riforma del Sistema Sanitario Nazionale132, ne espande il contenuto e giunge a dare un corpo all’idea di consenso informato, passando così dalla semplice affermazione della volontarietà del trattamento, ad un ben più sostanziale coinvolgimento del paziente 131 Per una ricostruzione della parabola del consenso informato nella deontologia

medica dal 1978 al 2006, ancora, S.AGOSTA, op.ult.cit. , p 76 e ss.

132 l. 833/1978, la quale si limita ad affermare che “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari”

all’interno del processo decisionale, contestualmente individuando con sufficiente chiarezza i requisiti di tale sua partecipazione nei caratteri di personalità, attualità, libertà, revocabilità e soprattutto, appunto, informazione133.

Tale nuovo approdo del formante giurisprudenziale è stato poi recepito anche dal legislatore quando ha avuto occasione di disciplinare il tema del consenso informato, sebbene con specifico riferimento alla materia della procreazione medicalmente assistita. La legge 40 delinea infatti un quadro ben definito dei requisiti del consenso, evidenziando la molteplicità di condotte del medico apertamente finalizzate alla promozione e al mantenimento della dualità del rapporto terapeutico, investendo non solo i profili strettamente terapeutici, ma anche “i problemi bioetici e i possibili effetti collaterali [...] psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche stesse […], nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l’uomo e per il nascituro.”

La compiuta acquisizione del concetto giuridico così delineato di consenso informato si può considerare testimoniata anche dal fatto che, successivamente alla definizione fornita dalla legge 40, il legislatore si limiterà ad indicarlo semplicemente con l’espressione, appunto, di “consenso informato”134.

133 E.ROSSI, Profili giuridici del commento informato, in A. D’ALOIA (a cura di), Il

diritto alla fine della vita. Principi decisioni casi. Edizioni Scientifiche Italiane,

Napoli, 2012, p. 77 ss.

134 Esempi in questo senso possono considerarsi la l. 219/2005 sulle attività trasfusionali, nonché la successiva 200/2007 riguardante la sperimentazione

Volendo infine ripercorrere il tracciato della giurisprudenza costituzionale che ha introdotto il diritto in questione nell’alveo di quelli riconosciuti e tutelati dall’art.2 Cost., devono necessariamente essere segnalate le sentenze 307 e 401 del 1990, che hanno il merito di porre l’attenzione sull’emersione di questo nuovo profilo del diritto alla salute. Sarà tuttavia solo nel 2008, con la sentenza n. 438, che si giungerà ad un riferimento espresso al diritto al consenso informato, di rango costituzionale, il cui avvenuto rispetto costituisce presupposto indefettibile dell’intervento terapeutico. La Corte, nell’occasione, si limita ad una definizione forse eccessivamente essenziale del concetto, compendiandolo come “espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico” ma ha nondimeno il merito, riconosciuto in dottrina135, di averne da un lato comunque colto gli elementi essenziali, e dall’altro di averlo definitivamente qualificato come vero e proprio diritto della persona fondato sul già noto trittico di articoli costituzionali 2, 13 e 32.

Secondo tale ultima ricostruzione, infatti, il consenso informato si caratterizza quale imprescindibile strumento di sintesi tra il diritto all’autodeterminazione e quello alla salute, rappresentando, nella sostanza, la modalità nella quale il primo si estrinseca nell’ambito presidiato dal secondo.

farmaceutica.

Nella stessa occasione, poi, si è anche avuto modo di soffermarsi sul valore del consenso informato nella prospettiva dell’operatore sanitario: tralasciando infatti la - pur decisiva - osservazione che la ricostruzione prospettata dall’Avvocatura dello Stato136 parrebbe del tutto trascurare l’incoercibilità della terapia (salvo i casi di TSO), si ritiene qui interessante evidenziare come la tesi della difesa sia censurabile per il fatto di non cogliere come “la finalità del consenso informato è esattamente quella di colmare il divario di conoscenze che intercorre fra medico e paziente”. La conclusione a cui sotto questo profilo è giunto il giudice delle leggi è ad oggi accolta anche in seno al vigente codice di deontologia medica (2014), all’interno del quale, con mirabile sintesi di cui preme rilevare la profonda umanità, si afferma che “la relazione tra medico e paziente è costituita sulla libertà di scelta e sull’individuazione e condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità. Il medico nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione

136 Secondo la quale la necessità di raccogliere il consenso informato mortifica la capacità e la competenza del medico, subordinando la sua decisione fondata “sulla base della professionalità acquisita mediante studi specifici e di un’abilitazione personale [...] alla discrezionalità di genitori e tutori di solito privi delle stesse conoscenze ”

comprensibile137 e completa, considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura”.138

Pare, a conclusione dell’analisi della traiettoria giurisprudenziale, legislativa e deontologica appena tracciata, potersi accogliere la suggestiva definizione di consenso informato offerta da autorevole dottrina che lo identifica con “il risultato di un processo di condivisione degli elementi di certezza e di incertezza legati ad una determinata proposta diagnostica o terapeutica”139 e che, sempre in sede definitoria, propone un interessante spunto etimologico sottolineando come, più che una letterale traduzione dall’inglese informed consent, il senso dell’espressione possa cogliersi più compiutamente tramite il riferimento diretto all’originaria forma latina, nel senso di con-sentire, ossia di sentire o ritenere assieme.140

Tale ultima osservazione ben rende il contesto, culturale prima che giuridico, in cui si colloca l’odierna relazione di cura, riconducibile a quel modello già da tempo affermatosi a livello internazionale che va sotto il nome di alleanza terapeutica.

137 Il tema della comprensibilità della comunicazione ha rappresentato un punto sopra il quale il codice deontologico ha inteso porre particolare enfasi. L’art.33, intitolato “Informazione e comunicazione con la persona assistita” pone in capo al medico il dovere di una informazione “comprensibile ed esaustiva”, avendo cura di

specificare come, sempre al medico, si imponga il compito di “adeguare la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi”. Non dissimile peraltro era il tenore della norma nel previgente codice del 2006.

138 Articolo 20, Codice di Deontologia Medica, approvato il 14 maggio 2014. Enfasi aggiunta.

139 C. CASONATO, Il malato preso sul serio: consenso e rifiuto delle cure in una

recente sentenza della Corte di Cassazione in Quaderni Costituzionali, 3/2008, p.2

Con tale espressione si vuole riassumere quel complesso fascio di rapporti che legano medico e paziente, con la dichiarata finalità di scongiurare il passaggio dalla solitudine del professionista nella scelta ed esecuzione della terapia, a quella del paziente chiamato a decidere della propria sorte in assenza di una compiuta informazione e sprovvisto delle competenze necessarie. Quello che invece si è voluto proporre è un modello dualistico collaborativo, in cui ruolo del medico è quello di elaborare secondo le proprie competenze professionali la miglior strategia terapeutica possibile per il caso concreto, preoccupandosi contestualmente di colmare l’asimmetria informativa che lo distanzia dal paziente, mentre quest’ultimo si connota sempre più come l’autorità morale del rapporto di cura cui spetta il giudizio ultimo sulle terapie, e in grado di arricchire di dettagli il quadro di informazioni necessarie al medico per perseguirne il best interest141.

Questa spirale dialettica innescata dalla prorompente comparsa sulla scena del consenso informato, si conclude nella sua fisiologia con il raggiungimento di una scelta condivisa tra i due soggetti del rapporto, anche attraverso la valorizzazione della capacità di fatto residuante dalla malattia. Paradossalmente, tuttavia, è nella sua patologia, se così la si vuol chiamare, che il modello dell’alleanza terapeutica mostra i suoi due elementi fondamentali e maggiormente innovativi: da un lato la natura 141 Pare interessante notare come il codice di deontologia (art. 35) abbia ravvisato la

necessità di sottolineare, a testimonianza del già accennato necessario dualismo del rapporto, che “l’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile”

marcatamente morale anziché tecnica della decisione, dall’altro – ma conseguenza del primo aspetto – il suo saldo ancoraggio al principio della libera autodeterminazione, di modo che in caso di insolubile conflitto tra l’opinione scientifica del medico e quella morale del paziente, non potrà che imporsi la tutela e il perseguimento dell’idea di dignità insita nella scelta di quest’ultimo142.

Nel documento Profili costituzionali del fine vita (pagine 80-87)